La termodinamica


DEFINIZIONI E CONCETTI GENERALI

La termodinamica (letteralmente “forza del calore”) è quella parte della fisica che studia le leggi relative agli scambi di energia (e il calore è una forma di energia) fra i corpi. In questa sede ci occuperemo principalmente degli scambi energetici che accompagnano le reazioni chimiche e in particolare ci soffermeremo sulle informazioni che questa disciplina è in grado di fornire relativamente alla spontaneità o meno delle reazioni stesse. Prima di procedere è necessario fornire alcune definizioni di carattere generale.

Si chiama sistema materiale la parte di Universo che viene scelta come oggetto di studio. Tutto ciò che sta fuori del sistema materiale su cui si sperimenta è detto esterno del sistema (o ambiente). L’insieme del sistema e dell’ambiente rappresenta l’Universo.

Un sistema si definisce inoltre aperto se può scambiare con l’ambiente esterno materia ed energia; si dice chiuso se scambia con l’ambiente solo energia; si definisce infine isolato se non scambia con l’ambiente né materia, né energia. Il corpo umano è un esempio di sistema aperto, una bottiglia tappata è un esempio di sistema chiuso e un thermos ben sigillato è un esempio di sistema isolato.

Lo stato, o per meglio dire lo “stato di equilibrio”, di un sistema materiale è, come dice la parola stessa, una condizione momentanea di un sistema a riposo. Esso è definito dall’insieme di alcune proprietà fisiche che lo caratterizzano in quel determinato momento e non dipende dal percorso che il sistema stesso ha dovuto seguire per giungervi. Le proprietà fisiche che caratterizzano lo stato di un sistema sono dette funzioni di stato.

Una funzione di stato è per esempio l’altezza di un punto sul livello del mare la quale non dipende dal percorso che ha dovuto seguire il punto per raggiungerla: essa sarebbe infatti la stessa sia che il punto avesse seguito un percorso contorto, sia che vi fosse andato direttamente.

Le funzioni di stato si dividono in intensive ed estensive. Si dicono intensive quelle che non dipendono dalla grandezza del sistema, si dicono invece estensive quelle che dipendono dalla grandezza del sistema. La temperatura e la pressione sono esempi di funzioni di stato intensive, mentre il volume e l’energia interna di un corpo, i cui valori dipendono appunto dalla quantità di materia che si prende in considerazione, sono funzioni di stato estensive.

Poiché non è comodo operare con grandezze che variano al variare delle dimensioni del sistema, si usa, nel caso delle funzioni di stato estensive, far riferimento sempre alla stessa quantità di materia. Questa quantità, di solito, viene fissata in una mole, cioè in un ben determinato numero di particelle.

Ognuna delle funzioni di stato può assumere uno ed un sol valore per ogni particolare stato del sistema che si considera. Qualora cambiasse il valore anche di una sola delle funzioni che tengono in equilibrio un determinato sistema, questo cambierebbe totalmente il suo stato e di conseguenza cambierebbero anche i valori delle altre funzioni che lo caratterizzano. Le funzioni di stato pertanto non sono indipendenti le une dalle altre, ma collegate da relazioni matematiche dette equazioni di stato.

 

REAZIONI ED EQUAZIONI CHIMICHE

Una reazione chimica non è altro che un processo di trasformazione della materia che ha come effetto la scomparsa di una o più sostanze e la successiva comparsa di una o più sostanze nuove. Le sostanze che partecipano alla reazione si chiamano sostanze reagenti (o semplicemente reagenti), mentre quelle che si ottengono dalla reazione sono dette sostanze prodotte (o semplicemente prodotti).

Per indicare una reazione chimica si usa scrivere un’uguaglianza nella quale, a primo membro, si riportano le formule chimiche dei reagenti e, a secondo membro, le formule delle specie chimiche prodotte. Questa eguaglianza si chiama equazione chimica.

Un modo simbolico per rappresentare una reazione chimica è quindi il seguente:

A  +  B  =  C  +  D

dove con A e B si sono indicate le sostanze reagenti e con C e D le sostanze prodotte. Il segno di uguaglianza fra i due membri dell’equazione viene spesso sostituito da una freccia (→) diretta dai reagenti verso i prodotti. Una reazione chimica tuttavia, come vedremo meglio in seguito, non procede mai in modo tale che i reagenti si trasformino definitivamente nei prodotti perché anche i prodotti, una volta formatisi, possono reagire fra di loro e riformare i reagenti. Si perviene così ad una situazione di equilibrio che viene simboleggiata facendo uso di due frecce controverse ( ⇄ ).

E’ bene precisare inoltre che un’equazione chimica, come d’altra parte qualsiasi equazione, ha un senso solo se le quantità di primo membro sono uguali alle quantità di secondo membro. L’uguaglianza tuttavia non deve essere intesa (né potrebbe esserlo) fra le sostanze in quanto tali, ma fra le masse delle sostanze stesse.

E’ necessario allora porre, davanti a ciascun termine della reazione, dei numeri, detti coefficienti stechiometrici, attraverso i quali si ottiene il risultato che il numero degli atomi di ciascun elemento che si trova a sinistra dell’uguaglianza, si ritrovi identico a destra. La determinazione dei coefficienti stechiometrici prende il nome di bilanciamento della reazione.

Questo risultato si ottiene uguagliando, per ogni elemento, il numero degli atomi presenti a primo e a secondo membro dell’equazione e risolvendo quindi il sistema algebrico così ottenuto. Normalmente tale metodo risulta tanto elementare che viene risolto eseguendo calcoli mentali (o magari senza nemmeno accorgersi di risolvere un sistema di equazioni), tuttavia, in alcuni casi, la sua applicazione può risultare alquanto laboriosa e per tale motivo riportiamo un esempio concreto. Si voglia bilanciare la seguente reazione:

x FeS2  +  y O2   =   z SO2  +  w Fe2O3

in cui con x, y, z, w sono stati indicati i coefficienti incogniti.

Per fare in modo che il numero degli atomi di ciascun elemento risulti lo stesso a primo e a secondo membro dell’equazione deve verificarsi quanto segue.

Per il ferro: x = 2w; per lo zolfo: 2x = z; e infine per l’ossigeno: 2y = 2z + 3w.

Si tratta quindi di risolvere il seguente sistema di equazioni:

Ponendo x=1 (*), è facile determinare i valori delle altre incognite. Il risultato finale è il seguente: x=1, w=1/2, z=2, y=11/4.

Se si vuole evitare la presenza di coefficienti frazionari, basta moltiplicare tutti i valori per 4. Avremo in definitiva:

4 FeS2  +  11 O2  =   8 SO2 + 2 Fe2O3.

L’equazione può essere letta in questi termini: 4 molecole (oppure 4 moli) di solfuro di ferro reagiscono con 11 molecole (oppure 11 moli) di ossigeno, per dare 8 molecole (oppure 8 moli) di anidride solforosa e 2 molecole (o 2 moli) di ossido ferrico. Sono ammessi anche i coefficienti frazionari, ma in tal caso l’equazione non potrà più essere letta in termini di molecole, perché non è corretto far riferimento a frazioni di molecole.

Infine è opportuno segnalare che nelle equazioni chimiche si presenta spesso la necessità di rendere manifesto lo stato fisico delle sostanze che partecipano alla reazione. Si usano allora i simboli (g) per i gas, (ℓ) per i liquidi e (s) per i solidi che vengono scritti al piede delle formule dei composti. Ad esempio:

2 H2 (g) + O2 (g)  =  2 H2O ()

vuol significare che idrogeno e ossigeno allo stato gassoso reagiscono per formare acqua allo stato liquido.

(*) Dalla matematica è noto che un sistema di equazioni come quello considerato (cioè di primo grado con una incognita in più rispetto al numero delle equazioni) ammette infinite soluzioni, determinate a meno di un fattore moltiplicativo. Ciò è perfettamente coerente con il fatto che in una reazione chimica, si può scegliere a piacere la quantità iniziale di uno (ma di uno solo) dei reagenti.

SPONTANEITÀ DELLE REAZIONI CHIMICHE

Perché avvengono le reazioni chimiche? Qual è il motivo per il quale certe sostanze, messe a contatto, reagiscono, mentre altre non lo fanno? Prima di rispondere a queste domande vediamo di chiarire con un esempio ciò che si intende per reazione chimica o, per meglio dire, per “reazione chimica spontanea”.

Se si lascia cadere un pezzetto di sodio sull’acqua contenuta in una bacinella si osserva una reazione immediata e violenta fra il sodio e l’acqua con produzione di idrogeno che a sua volta, reagendo con l’ossigeno dell’aria, si incendia spontaneamente.

Quelli che abbiamo descritto sono quindi due esempi di reazioni spontanee successive l’una all’altra. Si tratta indubbiamente di casi molto spettacolari, però, dall’esperienza quotidiana, possiamo trarre molti altri esempi più consueti di trasformazioni spontanee della materia.

Esistono in verità molte reazioni chimiche spontanee che però non sono così evidenti come quelle appena descritte. Ad esempio, le pagine del libro che stiamo leggendo si stanno trasformando spontaneamente, senza che ce ne rendiamo conto. Tutti sanno che la carta brucia, ma tutti sanno anche che la carta brucia solo se la combustione viene prima innescata da un fiammifero. In realtà la carta  brucia in ogni caso, ma normalmente lo fa così lentamente che non ce ne accorgiamo nemmeno. L’ingiallimento dei vecchi giornali e dei vecchi libri rappresenta tuttavia la prova visibile che il processo di combustione della carta è un processo lento, ma sempre in atto e che procede inesorabilmente nel tempo.

La spontaneità di una reazione non deve quindi essere confusa con la velocità della reazione stessa. Vi sono infatti reazioni spontanee che procedono con tale lentezza che sembra non avvengano mai, mentre d’altra parte vi sono reazioni che non sono affatto spontanee, ma che tuttavia si possono far avvenire con immediatezza.

Una reazione, in altre parole, è da considerarsi spontanea quando, indipendentemente dalla velocità, comunque si conclude naturalmente con la trasformazione delle sostanze in gioco. Innescando la combustione di un foglio di carta, ad esempio, successivamente il foglio continua a bruciare da solo e spontaneamente. Se una reazione non è spontanea, non vi è modo alcuno di farla procedere da sola, anche tentando ripetutamente di avviarla.

Per chiarire ulteriormente il concetto facciamo riferimento ad una analogia meccanica. Se un masso che si trova in cima alla montagna viene spinto, esso poi rotola spontaneamente lungo il pendio. Se lo stesso masso si trovasse invece a valle, esso non potrebbe mai tornare spontaneamente in cima alla montagna, anche se gli venissero impresse alcune spinte iniziali. Il masso, per tornare in cima alla montagna, dovrà esservi portato “di peso”. Quest’ultima è quindi un’operazione non spontanea.

Ora, come tutti avranno compreso, si tratta di risolvere due problemi distinti relativi alle reazioni chimiche. Il primo riguarda il “perché” avvengono tali reazioni: esso consiste cioè nel comprendere le cause che determinano la spontaneità di una reazione. Il secondo problema è quello relativo al “come”: si tratta cioè di analizzare le modalità attraverso le quali le reazioni chimiche procedono spontaneamente e di individuare eventualmente i sistemi più idonei per accelerarle o per rallentarle. Della soluzione del primo problema si incarica la termodinamica chimica (o termochimica). Il secondo problema viene trattato dalla cinetica chimica.

 

L’ AFFINITÀ CHIMICA

L’esperienza quotidiana insegna che non tutte le sostanze reagiscono allo stesso modo: ve ne sono alcune che si trasformano con notevole facilità mentre altre sembra non si trasformino affatto.

Zucchero e acido solforico, ad esempio, sono due sostanze che reagiscono facilmente e velocemente. Se infatti si versa dell’acido solforico in una provetta nella quale era stato posto in precedenza un cucchiaino di zucchero, si nota che quest’ultimo, in breve tempo, diventa nero.

La sola osservazione della trasformazione della materia, non è, tuttavia, sufficiente a descrivere il fenomeno in modo completo: bisogna tener conto anche dell’energia in gioco. Toccando con due dita il fondo della provetta si nota che è calda: la reazione è stata quindi accompagnata da produzione di calore. Le reazioni che avvengono con produzione di calore sono dette esotermiche.

Il calore, come abbiamo accennato, è una forma di energia e poiché in questo caso esso esce dal sistema che si trasforma vuol dire che la materia che costituiva il sistema prima di reagire doveva avere un contenuto di energia superiore a quello posseduto successivamente dai prodotti della reazione.

Sulla scorta di queste osservazioni, nello scorso secolo, il chimico francese Pierre-Eugene Berthelot (1827-1907), ipotizzò che la quantità di calore che si liberava durante una reazione, desse la misura della tendenza delle sostanze stesse a reagire. A questa tendenza fu dato il nome di affinità chimica. L’ipotesi di Berthelot si ispirava al ben noto principio della fisica classica secondo il quale i sistemi materiali tendono spontaneamente a stabilizzarsi nella posizione di più basso contenuto energetico.

Questa ipotesi era apprezzabile, se non altro, come tentativo di conglobare in una visione unitaria i fenomeni fisici e quelli chimici. Come un grave, lasciato libero, tende a cadere e a liberare nella caduta l’energia potenziale che aveva all’inizio, così una sostanza rea­gendo, tende a liberare energia sotto forma di calore. Secondo l’idea di Berthelot, se una reazione procedeva sviluppando una grande quantità di calore, voleva dire che fra le sostanze di partenza vi era una notevole affinità chimica, mentre, se la quantità di calore sviluppata durante la reazione era piccola, ciò significava che vi era scarsa affinità fra i reagenti.

L’ipotesi di Berthelot si dimostrò tuttavia falsa. Essa in realtà nacque in un’epoca in cui praticamente tutte le reazioni chimiche conosciute erano esotermiche. Successivamente però vennero scoperte alcune reazioni che pur essendo spontanee, non producevano affatto calore, ma anzi ne assorbivano dall’ambiente. Ad esempio, versando nell’acqua del nitrato di ammonio, questo si scioglie spontaneamente e contemporaneamente la soluzione si raffredda; se l’aria fosse umida, si potrebbe anche osservare l’appannamento delle fredde pareti esterne del recipiente in cui è avvenuta la reazione. A questo punto l’analogia con i sistemi meccanici venne a cadere e ci si rese conto che una reazione chimica (e lo scioglimento di un sale in acqua, come sappiamo, può essere considerata una vera e propria reazione chimica) doveva consistere in qualche cosa di più complesso della semplice caduta di un grave.

Le reazioni chimiche che avvengono con assorbimento di calore dall’esterno sono dette endotermiche. Fra queste portiamo ad esempio quella che ha luogo fra vapore acqueo surriscaldato e carbone, con produzione del cosiddetto “gas d’acqua” (ossido di carbonio e idrogeno). Essa può essere così rappresentata:

C (s) + H2O (g) + Q   →   CO (g) + H2 (g)

dove con +Q si è indicato il calore che durante la reazione è stato assorbito dal sistema. Esso è stato scritto tra i reagenti proprio a significare che, oltre al carbonio e all’acqua, serve anche energia termica affinché la reazione possa procedere. L’energia termica, in questo caso, viene sottratta all’ambiente, che pertanto si raffredda.

Per convenzione, tuttavia, sia il calore che si libera durante le reazioni esotermiche, sia quello che viene assorbito nelle reazioni endotermiche, viene sempre scritto a destra dell’equazione, dopo i simboli dei prodotti, con il segno (+) se si tratta di reazione esotermica e con il segno (-) se si tratta di reazione endotermica. Esempio:

2 Na + 2 H2O  →  2 NaOH + H2 + Q    (reazione esotermica)

C + H2O  →  CO + H2 – Q          (reazione endotermica)

La scoperta dell’esistenza di reazioni chimiche spontanee, ma endotermiche, metteva in evidenza che quello del minimo contenuto energetico non poteva essere l’unico criterio per giudicare della spontaneità di una reazione. Doveva esserci qualche altra proprietà del sistema, la cui variazione, comportava il verificarsi dello stesso fenomeno di spontaneità.

 

IL CONTENUTO ENERGETICO DI UNA SOSTANZA

Ogni sistema materiale possiede un certo contenuto energetico, contiene cioè una certa quantità di energia interna. Questa energia, simboleggiata comunemente con la lettera U, non è altro che la somma dell’energia cinetica e dell’energia potenziale di tutti gli atomi e di tutte le molecole che costituiscono il sistema stesso.

L’energia cinetica, è l’energia legata al movimento di un corpo. Nel nostro caso essa rappresenta la somma dell’energia traslazionale, rotazionale e vibrazionale di tutte le particelle che compongono il sistema materiale. Questa forma di energia si traduce, a livello macroscopico, in energia termica, ed è funzione diretta della temperatura. Aumentando la temperatura di un corpo, si ottiene infatti l’effetto di aumentare la velocità media delle particelle che lo compongono e quindi di aumentare la sua energia complessiva.

L’energia potenziale dipende invece dalle posizioni reciproche assunte dai corpi. Come un oggetto qualsiasi sospeso in aria ad una certa altezza dal suolo possiede un’energia potenziale maggiore di quando è a terra, così due atomi, posti ad una certa distanza, posseggono più energia potenziale di quanta non ne avrebbero se fossero uniti insieme a formare una molecola. E così come è necessario fornire energia per lanciare in alto un oggetto, allo stesso modo è necessario fornire energia per separare fra loro due atomi che costituiscono una molecola. Le molecole (cioè più atomi uniti insieme) possiedono quindi meno energia dei loro atomi separati. Questa forma di energia si traduce, a livello macroscopico, in quella che viene definita l’energia chimica del sistema.

Esistono varie forme di energia: oltre a quelle che abbiamo appena nominato, vi è l’energia elettrica, l’energia meccanica, l’energia nucleare, e così via. Tutte le forme di energia sono fra loro interscambiabili, ma l’energia non può essere creata, né distrutta. Questo è quanto afferma la legge di conservazione dell’energia, una legge di natura che mai è stata smentita da una sola osservazione e che porta come conseguenza il fatto che l’energia totale dell’Universo rimane invariata qualsiasi cosa succeda al suo interno, comprese le trasformazioni chimiche. L’uomo in verità ha sempre tentato di violare questa legge, cioè di costruire macchine a moto perpetuo, capaci di muoversi senza consumo di energia, ma non vi è mai riuscito. Questi tentativi falliti sarebbero una dimostrazione indiretta della validità della legge.

Se quindi si volesse aumentare l’energia interna di un sistema materiale per esempio riscaldandolo, l’energia necessaria per l’operazione dovrebbe venir tolta dall’ambiente che conseguentemente si raffredderebbe. L’energia sottratta all’ambiente si ritroverebbe quindi, esattamente nella stessa quantità, nel sistema che si è riscaldato.

 

L’ ENTALPIA

L’energia termica è solo una delle forme di energia che esistono in natura. Essa può essere definita come quell’energia che fluisce da un corpo ad un altro modificando la differenza di temperatura esistente fra di essi. Molte reazioni chimiche producono calore o ne assorbono dall’ambiente, tuttavia vi sono reazioni che producono (o assorbono) anche energia sotto altra forma. Una comune pila, ad esempio, genera elettricità a spese di una reazione chimica che avviene al suo interno.

Prendiamo inizialmente in considerazione una reazione che produce energia solo sotto forma di calore. In questo caso, misurando il calore che esce dal sistema, si può risalire alla variazione di energia interna associata alla reazione. Se indichiamo con U1 l’energia inter­na del sistema prima che reagisca e con U2 l’energia interna del sistema dopo che ha reagito, poiché si è verificata una reazione esotermica, U2 dovrà essere minore di U1. La differenza U2 – U1 assumerà quindi segno negativo e un valore numerico pari alla quantità di calore che ha abbandonato il sistema.

Per indicare il cambiamento di una funzione di stato da un valore iniziale ad uno finale si usa generalmente la lettera Δ (delta) dell’alfabeto greco. Pertanto, il cambiamento di energia interna di un sistema possiamo indicarlo con ΔU. Scriveremo quindi, nel nostro caso:

U– U1 = ΔU = Q

In generale, se il calore Q esce dal sistema (reazione esotermica) ΔU ha valore negativo; se il calore Q entra nel sistema (reazione endotermica) ΔU ha valore positivo.

Vediamo ora cosa succede quando le reazioni chimiche mettono in gioco altre forme di energia, oltre al calore.

Quando, ad esempio, una reazione chimica produce dei gas all’interno di un recipiente posto a contatto con l’atmosfera, i gas prodotti spingono via l’aria sovrastante compiendo un lavoro e quindi impiegando energia. Il lavoro compiuto da un gas in espansione rappresenta quindi una forma di energia di cui si deve tener conto nel calcolo della variazione di energia interna di un sistema.

E’ possibile valutare l’energia impiegata nell’espansione di un gas misurando il lavoro compiuto da questo gas su un oggetto libero di muoversi. Sappiamo infatti dalla fisica che il lavoro non è altro che il prodotto fra la forza applicata ad un corpo e il conseguente spostamento del corpo stesso.

Immaginiamo allora che da una reazione che si svolge all’interno di un recipiente, chiuso da un pistone mobile, si produca del gas: questo gas eserciterà una pressione all’interno del recipiente, la quale avrà l’effetto di spingere il pistone in alto, compiendo un lavoro verso l’esterno. Si può immaginare anche il caso contrario, e cioè il caso di un gas che, reagendo, si trasformi in una sostanza liquida (o solida) riducendosi di volume e provocando, di conseguenza, l’abbassamento del pistone. In questo caso sarà il sistema a subire un lavoro.

Il lavoro, L, generato o subito da un sistema materiale che reagisce all’interno di un recipiente chiuso da un pistone mobile, corrisponde al prodotto della variazione di volume, ΔV, per la pressione, P, che le sostanze, contenute nel recipiente, esercitano sul pistone stesso. Possiamo quindi scrivere:

L = P·ΔV

Se ora immaginiamo un sistema che riceve calore dall’esterno, e immaginiamo poi che una parte di questo calore si trasformi in lavoro (lavoro prodotto verso l’esterno), solo la parte restante del calore immagazzinato andrà ad incrementare l’energia interna U del sistema in esame. In simboli possiamo quindi scrivere:

ΔU = Q – L        (1)

Questa equazione mostra che la variazione di energia interna di un sistema materiale (ΔU) è data dalla differenza tra l’energia termica (Q) assorbita (oppure ceduta) e il lavoro (L) compiuto (oppure subito) dal sistema stesso.

Quella che abbiamo scritto non è altro che l’equazione fondamentale che rappresenta il Primo principio della Termodinamica. Si faccia attenzione ai segni: Q si considera positivo quando il calore entra nel sistema (negativo quando esce), mentre il lavoro è positivo quando è il sistema a produrlo sull’ambiente, mentre è negativo quello che dall’esterno agisce sul sistema. ΔU quindi assumerà valore positivo se il sistema avrà accumulato energia, negativo se l’avrà ceduta.

Affinché un sistema accumuli energia è necessario che Q sia positivo e L negativo. In verità un sistema potrebbe accumulare energia anche con L positivo; in tal caso però il calore dovrebbe essere a sua volta positivo e di valore tale da annullare l’effetto del lavoro che agisce in senso contrario. Potrebbe anche essere Q negativo (calore in uscita), ma in tal caso, affinché possa accumularsi energia nel sistema, L dovrebbe essere negativo e di valore superiore a quello del calore che si allontana.

Per ottenere un valore negativo di ΔU si deve fare il ragionamento inverso. Una cosa comunque è certa, l’equazione impone che venga rispettata, in tutti i casi, la legge della conservazione dell’energia. La prima legge della termodinamica non è quindi altro che una riformulazione della legge di conservazione dell’energia.

L’equazione (1) può essere scritta, sostituendo L con P·ΔV, nel modo seguente:

ΔU = Q – P·ΔV

Da essa si ricava che se una trasformazione avviene senza che si verifichino variazioni di volume, il termine P·ΔV vale zero. Pertanto possiamo affermare che la variazione di energia interna delle sostanze che subiscono una trasformazione a volume costante, coincide con la quantità di calore assorbita o ceduta dal sistema, cioè:

ΔU = Q

La maggior parte delle reazioni chimiche non avviene tuttavia a volume costante, ma a pressione costante. Questa pressione è appunto quella esercitata dall’atmosfera sul recipiente aperto entro il quale si svolge normalmente la reazione. In questo caso, i chimici hanno introdotto una nuova grandezza termodinamica, detta entalpia (H) (da una parola greca che significa “calore interno”) che semplifica notevolmente le cose.

L’entalpia di un sistema materiale è definita come la somma della sua energia interna e del lavoro “pressione per volume”:

H = U + P·V

Pertanto, se l’emissione o l’assorbimento di calore conseguente ad una reazione chimica, che avviene all’interno di un sistema libero di contrarsi o di espandersi, a pressione costante, non andrà semplicemente a modificare l’energia interna del sistema, ma sarà anche coinvolta nel lavoro di espansione o contrazione del sistema stesso, allora quel calore lo chiameremo variazione di entalpia e non semplicemente calore. In termini matematici:

ΔH =  ΔU + P·ΔV

Sostituendo la relazione che esprime  ΔU, si ottiene:

ΔH = Q – P·ΔV + P·ΔV

da cui:

ΔH = Q

Come si può vedere, ΔH non è altro che il calore Q assorbito o ceduto da una reazione quando questa si svolge a pressione costante, cioè in recipienti aperti a contatto con l’atmosfera.

Concludendo possiamo dire che nel caso di reazioni che si svolgono a volume costante (per esempio reazioni che avvengono all’interno di un recipiente chiuso), il calore liberato (o assorbito) è uguale alla variazione di energia interna. Nel caso invece di reazioni che avvengono a pressione costante, cioè in recipienti aperti, il calore li­berato (o assorbito) è uguale alla variazione di entalpia. La conseguenza di ciò è che i valori di  ΔU e di ΔH, e quindi anche i valori del calore Q che entra o esce dal sistema, stanno fra loro secondo l’equazione già scritta in precedenza e che qui riscriviamo:

ΔH = ΔU + P·ΔV

Questa equazione mostra che la differenza fra la variazione di entalpia (ΔH) e la variazione di energia interna (ΔU) di un sistema che si trasforma chimicamente, è rappresentata dal lavoro legato al cambiamento di volume (P·ΔV) conseguente al passaggio dai reagenti ai prodotti.

 

LA LEGGE DIHESS

A volte non è possibile misurare direttamente la variazione di entalpia di una reazione. In questi casi è possibile tuttavia calcolarla, attraverso l’applicazione di una legge scoperta, nell’Ottocento, dal chimico russo Ivanovic Hess (1806-1850).

Questa legge dice in pratica che l’entalpia di una reazione che può essere scomposta in più reazioni parziali, è pari alla somma delle entalpie delle singole reazioni parziali in cui la reazione stessa è stata scomposta. Per esempio, consideriamo la formazione dell’ossido di carbonio da carbonio e ossigeno:

C + ½ O2  →   CO

Il calore di formazione di CO, cioè la variazione di entalpia fra prodotti e reagenti della reazione, che indicheremo con il simbolo ΔH°, è impossibile da determinare sperimentalmente, perché è impossibile far avvenire sotto controllo l’ossidazione parziale del carbonio (la combustione del carbonio in difetto di ossigeno porta infatti alla formazione di una miscela di CO e CO2).

Se non è possibile ottenere direttamente la misura del calore di formazione di CO, è possibile però farlo in modo indiretto determinando sperimentalmente il calore di formazione di CO2, che può essere ottenuto sia a partire da C e O2, sia a partire da CO e O2:

C +  O2  →   CO2              (ΔH° = – 94 kcal)

CO + ½O2  →   CO2            (ΔH° = – 68 kcal)

Poiché l’entalpia è una grandezza estensiva, per esprimerla, come abbiamo già detto, conviene prima fissare la quantità di sostanza a cui ci si vuole riferire. Con ΔH° si indica, per l’appunto, la variazione di entalpia riferita a una mole di sostanza in condizioni standard (cioè allo stato puro e alla pressione di 1 atmosfera).

Sottraendo le due equazioni membro a membro, proprio come si trattasse di equazioni matematiche, si ottiene:

C  +     O2  →   CO2    + 94 kcal –

CO  + ½ O2  →  CO2    + 68 kcal =
─────────────────────────

C – CO + ½ O2    →     + 26 kcal,

Quindi, in modo equivalente:

C  + ½ O2   →   CO    +  26 kcal

(Per rendere il calcolo più chiaro abbiamo scritto i valori dell’entalpia direttamente nelle equazioni di reazione.)

La legge di Hess è una conseguenza del fatto che le variazioni di entalpia sono indipendenti dal modo in cui i reagenti di una determinata reazione si trasformano nei prodotti. In altre parole l’entalpia di una sostanza è una funzione di stato e quindi il suo valore è indipendente dal modo in cui la sostanza stessa si è venuta a trovare in quel determinato stato.

 

L’ ENTROPIA E IL SECONDO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA

Il fatto che esistano reazioni spontanee endotermiche, rappresenta la prova che i sistemi chimici, a differenza di quelli meccanici, non evolvono sempre verso la condizione di minimo contenuto energetico. Nelle reazioni endotermiche, infatti, i prodotti finali hanno un contenuto energetico superiore a quello delle sostanze reagenti.

L’esperienza quindi induce a sospettare che debba esistere qualche altra causa, oltre all’energia, che concorre a determinare la spontaneità di un processo chimico.

Per scoprirlo analizziamo con attenzione i cambiamenti che avvengono all’interno di un sistema isolato in cui si svolge spontaneamente la seguente reazione:

C (s) + H2(ℓ )  →   CO2 (g) +H2 (g)        (ΔH = + 31,4 kcal/mol)

Come si può vedere si tratta di una reazione endotermica che è stata scelta, di questo tipo, proprio per essere certi che il suo decorso spontaneo non possa venire determinato da fattori energetici, come invece si sarebbe potuto pensare se si fosse scelto di studiare il comportamento di una reazione esotermica. Questa reazione poteva avvenire o non avvenire. Il fatto che sia avvenuta rappresenta la prova che si trattava di una reazione spontanea. Che cosa è che fa procedere spontaneamente una reazione endotermica?

Se analizziamo la nostra reazione da un punto di vista microscopico, notiamo che il processo si è indirizzato spontaneamente verso uno stato di maggiore libertà di movimento delle particelle, ossia verso uno stato di maggior disordine. Il carbonio infatti, allo stato solido, prima che reagisca, con le particelle disposte ordinatamente all’interno del reticolo cristallino, presenta una situazione di ordine maggiore rispetto a quella che si osserva nelle particelle allo stato gassoso presenti tra i prodotti della reazione. Poiché lo stato di disordine è una situazione molto più probabile dello stato di ordine è logico pensare che tutti i sistemi materiali tendano spontaneamente verso il disordine.

Anche l’esperienza quotidiana, d’altra parte, insegna che lo stato di disordine è molto più frequente dello stato di ordine. Qualsiasi cosa tende spontaneamente al disordine: si pensi ad esempio ad un mazzo di carte mescolate a caso, alla confusione presente sul tavolo di lavoro, ai piatti da lavare, e così via.

Il fatto che la situazione di disordine sia più probabile di quella di ordine, non significa tuttavia che in qualche caso non si possa realizzare spontaneamente l’ordine. Quest’ordine comporterà però la produzione di disordine fuori del sistema in cui si è prodotto l’ordi­ne.

Quindi possiamo affermare che tutte le volte che si verifica una qualche trasformazione della materia, contemporaneamente si deve osservare un aumento di disordine che, o si realizza nel sistema stesso in cui è avvenuta la trasformazione, o si realizza nell’ambiente, o si realizza in entrambi i luoghi. Fatto è che da qualche parte il disordine deve necessariamente prodursi e pertanto, il disordine generale dell’Universo, è destinato ad aumentare incessantemente.

La grandezza termodinamica che esprime il grado di disordine si chiama entropia (dal greco en = entro e tropos = rivolgimento, confusione) e si indica con la lettera S.

Quanto abbiamo esposto in precedenza è il contenuto del Secondo principio della Termodinamica, il quale può essere enunciato anche nel modo seguente: “Quando nell’Universo si realizza una qualsiasi tra­sformazione della materia, essa è sempre accompagnata da un aumento di entropia dell’Universo stesso”.

E’ chiaro che se una reazione chimica (o anche una semplice trasformazione di fase) avviene all’interno di un sistema isolato, cioè senza possibilità di scambi materiali ed energetici con l’esterno, questa reazione, per il semplice fatto che avviene, deve condurre necessariamente ad una situazione di maggior disordine. Se invece la reazione si svolge all’interno di un sistema chiuso, il disordine che si realizza deve essere misurato fra sistema e ambiente quindi all’interno dell’Universo intero, il quale, pertanto, può venire considerato, nel suo complesso, un sistema isolato.

Si può notare che le trasformazioni che evolvono verso situazioni di maggior ordine sono tutte reazioni esotermiche. Ed è per l’appunto il calore che si libera da queste reazioni che va ad incrementare il moto caotico degli atomi e delle molecole presenti nell’ambiente, arricchendo, di conseguenza, il disordine.

Poiché abbiamo confrontato l’entropia con il disordine, non vorremmo aver dato la sensazione che quello dell’entropia sia un concetto astratto. L’entropia in realtà è un’entità concreta, una grandezza termodinamica, anch’essa funzione di stato. La variazione di entropia, ΔS, fra lo stato finale e lo stato iniziale di un sistema, può essere mi­surata attraverso il calore liberato dal sistema che reagisce.

Abbiamo visto in precedenza che nelle reazioni esotermiche viene liberato calore all’esterno e che questo calore va ad incrementare il disordine dell’ambiente. La quantità di disordine generato nell’ambiente deve quindi essere proporzionale al calore trasferito nell’ambiente stesso dal sistema materiale che evolve. La variazione di entropia causata da una determinata quantità di calore dipende tuttavia anche dalla temperatura. Se l’ambiente è già caldo, un apporto ulteriore di calore provoca un effetto trascurabile sul notevole disordine già esistente; se l’ambiente invece è freddo, il medesimo afflusso di calore vi apporta un aumento sensibile di disordine. La variazione di entropia causata dal trasferimento di una certa quantità di calore, è quindi inversamente proporzionale alla temperatura a cui tale trasferimento ha luogo.

La variazione di questa grandezza termodinamica può essere quindi definita come la quantità di calore Q scambiata dal sistema, divisa per la sua temperatura assoluta (T). In formula:

ΔS = Q/T.

Se ci si riferisce ad una mole di sostanza si parla di entropia molare, e si esprime in kcal/mol×K.

Abbassando la temperatura di un sistema materiale diminuisce l’entropia, perché, diminuendo il contenuto termico del sistema, diminuisce anche il movimento delle particelle fino al punto di cessare del tutto.

Per fare un esempio concreto, immaginiamo di raffreddare del vapore acqueo: questo si trasforma prima in liquido e poi in solido con conseguente progressiva diminuzione del disordine. Con l’abbassarsi ulteriore della temperatura l’entropia diminuirà ancora, perché le molecole, possedendo meno energia, tenderanno a vibrare sempre di meno intorno alle posizioni di equilibrio occupate all’interno del reticolo cristallino. Allo zero assoluto, il movimento delle particelle dovrebbe cessare del tutto, l’ordine all’interno del cristallo dovrebbe diventare perfetto e l’entropia risultare nulla. Questo è il contenuto di quello che qualcuno chiama il Terzo principio della Termodinamica.

 

L’ ENERGIA LIBERA DI GIBBS

Abbiamo visto che esiste un sistema sicuro per decidere se una reazione è spontanea o meno. Basta riferirsi al secondo principio della termodinamica e calcolare la variazione di entropia dell’Universo conseguente alla reazione chimica che si vuole studiare: una reazione è spontanea se l’entropia dell’Universo aumenta.

Sembrerebbe quindi che per determinare la direzione di una reazione sia necessario effettuare due distinte misure di variazione di entropia: una relativa al sistema e l’altra relativa all’ambiente. Vedremo che invece è sufficiente raccogliere un unico tipo di informazione.

Il chimico americano J. Willard Gibbs scoprì infatti un metodo, per decidere se una reazione è spontanea, che tiene conto esclusivamente del comportamento del sistema materiale, senza interessarsi dei cambiamenti che si verificano nell’ambiente esterno. A tal fine egli introdusse una terza funzione di stato, detta energia libera e indicata con G (dall’iniziale del suo nome), la cui variazione, ΔG = G– G1, fra i prodotti finali e i reagenti iniziali di una trasformazione che si svolge a temperatura e a pressione costanti è data, per definizione, dalla seguente espressione:

ΔG =  ΔH – T · ΔS,

dove i simboli sono tutti già noti.

Dalla conoscenza della variazione dell’energia libera, è possibile prevedere il decorso di una reazione. E precisamente: una reazione è termodinamicamente possibile, cioè spontanea, se il suo ΔG è negativo (ΔG<0); non sono invece spontanee quelle reazioni in cui si realizza un aumento dell’energia libera (ΔG>0), oppure quelle in cui non si ha alcuna variazione di energia libera (ΔG=0).

Chiameremo allora esoergoniche (dal greco eso = fuori e ergon = lavoro) quelle reazioni chimiche che comportano una diminuzione di energia libera (ΔG<0).

Chiameremo endoergoniche (dal greco endo = dentro) quelle reazioni che avvengono con un aumento di energia libera (ΔG>0) e che pertanto non sono spontanee (sono spontanee però, in questi casi, le reazioni inverse, ossia quelle che procedono dai prodotti verso i reagenti).

Chiameremo infine isoergoniche (dal greco iso = uguale) quelle reazioni che non prevedono variazioni di energia libera (ΔG=0), e che pertanto non procedono né in un senso né nell’altro. Esse si dicono anche reazioni di equilibrio.

La variazione di energia libera di una reazione chimica può essere calcolata conoscendo la variazione di entropia complessiva (interna ed esterna al sistema) prodotta dalla reazione stessa. Sappiamo infatti che la variazione complessiva di entropia dell’Universo (quella che dà la misura della spontaneità della reazione) è data dalla somma della variazione di entropia del sistema e della variazione di entropia dell’ambiente.

La variazione di entropia di un sistema materiale può venir determinata (non senza difficoltà), misurando la capacità termica della sostanza che costituisce il sistema stesso a temperature molto prossime allo zero assoluto e calcolando poi il numero di modi possibili in cui le particelle che la costituiscono potrebbero disporsi al suo interno. Questi valori, una volta determinati, vengono trascritti in specifiche tabelle.

La variazione di entropia dell’ambiente, susseguente ad una reazione chimica, può essere determinata invece misurando il calore che la reazione stessa mette in gioco: se la reazione libera calore, nell’am­biente aumenta il disordine; se la reazione assorbe calore, nell’ambiente diminuisce il disordine. Immaginiamo di avere a che fare con una reazione esotermica che si svolge a pressione costante: in questo caso il calore sviluppato dalla reazione stessa è rappresentato dalla variazione di entalpia del sistema in esame. Possiamo allora scrivere:

-Δ H
ΔSamb = ⎯⎯⎯
T

Ora, poiché la variazione di entropia totale, conseguente ad una reazione chimica, è data dalla somma della variazione dell’entropia del sistema e di quella dell’ambiente, avremo:

ΔStot  =  ΔSsist +  ΔSamb

cioè:

ΔH
ΔStot  =  ΔSsist  –  ———
T

oppure,

in modo equivalente:                                                – T · ΔStot = ΔH – T · ΔSsist

 

Come si può vedere questa equazione diviene identica a quella di Gibbs se al posto di – T·ΔS totale si pone ΔG, ossia:

ΔG =  ΔH – T · ΔS,

Il significato della variazione dell’energia libera di una reazione è quindi quello di “forza motrice” (in inglese “driving force”) della reazione stessa. In essa intervengono due fattori diversi: un fattore energetico legato al termine entalpico ΔH, che tende a portare il sistema verso lo stato di minima energia, ed un fattore probabilistico, legato al termine entropico, ΔS, che tende a portare il sistema verso lo stato di massimo disordine.

Se i due termini operano in sintonia, cioè se la reazione è esotermica (ΔH<0) e avviene contemporaneamente anche con aumento di disordine (ΔS>0), essa sarà sicuramente spontanea, a qualsiasi temperatura, in quanto, ΔG assumerà sempre e comunque valore negativo (ΔG<0). Viceversa, un processo endotermico, accompagnato anche da diminuzione di entropia, sarà termodinamicamente impossibile, cioè non avverrà in nessun caso perché, a qualsiasi temperatura, ΔG risulterà sempre positivo.

Nel caso in cui il termine entalpico e quello entropico fossero discordanti, agissero cioè in senso opposto l’uno dall’altro, la temperatura giocherebbe allora il ruolo di parametro discriminante, perché da essa dipenderebbe il prevalere dell’uno o dell’altro termine. Per chiarire questo aspetto ricorriamo ad un esempio.

Si consideri l’acqua che spontaneamente si trasforma in ghiaccio a temperature inferiori a zero gradi e il ghiaccio che, sempre spontaneamente, fonde, trasformandosi in acqua, a temperature superiori a 0 °C . Possiamo rappresentare il processo con la seguente espressione:

H2(solido)   ⇄   H2O(liquido)                (ΔH = + 1,44 kcal/mol)

La trasformazione, letta da sinistra a destra, è un processo endotermico, avviene cioè con assorbimento di calore dall’esterno, mentre, letta da destra a sinistra, è un processo esotermico. Se si tenesse conto esclusivamente del fattore energetico si dovrebbe conclu­dere che è spontanea la reazione da destra a sinistra, mentre l’altra, essendo endotermica, non dovrebbe avvenire. Tutti hanno visto, però, il ghiaccio fondere spontaneamente sotto il sole.

Per decidere della spontaneità di una reazione, infatti, come ormai ben sappiamo, bisogna tener conto anche dell’entropia. Nel caso della trasformazione da solido a liquido, dove il fattore energetico è sfavorevole alla spontaneità, si osserva che il fattore entropico è invece favorevole in quanto il passaggio da solido a liquido comporta un aumento del disordine. Pertanto, a temperature superiori a 0 °C (T>273 K) la spontaneità della reazione, ossia il valore negativo della variazione dell’energia libera (ΔG<O), è garantito dalla prevalenza dell’effetto dell’entropia su quello dell’entalpia. A temperature inferiori a 0 °C (T<273 K) la spontaneità della reazione inversa, cioè il valore ancora negativo di ΔG è garantito, questa volta, dal prevalere del fattore entalpico su quello entropico.

La legge di Gibbs è in grado di spiegare molti fenomeni naturali. Ad esempio ci si potrebbe chiedere per quale motivo i solidi, generalmente, a temperatura ambiente, non fondono. La risposta è la seguente: alle basse temperature prevale il termine ΔH sul termine T·ΔS, e il ΔG relativo alla trasformazione, assumendo valore positivo, rende impossibile la trasformazione stessa. A temperature alte, poiché prevale il termine T·ΔS sul termine ΔH, il ΔG assume valore negativo e i metalli fondono. Un discorso analogo vale per gli altri passaggi di stato. L’anidride carbonica, ad esempio, che sulla nostra Terra è un gas, sulla fredda superficie di Marte si trova allo stato solido.

Abbiamo visto quindi che la conoscenza delle leggi della termodinamica permette non solo di capire quando una reazione è spontanea e quando no, ma anche di intervenire su alcune di esse per convogliarle verso la spontaneità, o viceversa per inibirle. Compito del chimico è quindi anche quello di suggerire gli interventi più opportuni per ren­dere vantaggiose per l’uomo quelle reazioni che normalmente non lo sono.

Prof. Antonio Vecchia

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