L’origine della materia

Tutti gli oggetti che ci circondano, dai più piccoli ai più grandi, dai più vicini ai più lontani hanno una caratteristica in comune: sono fatti di atomi; una scoperta, quest’ultima, relativamente recente. Fin dagli inizi della filosofia naturale l’uomo si è sforzato infatti di capire di che cosa sia fatta la materia ma solo due secoli fa i chimici sono riusciti a dimostrare, attraverso esperimenti di laboratorio, che la materia ordinaria è formata dalla aggregazione di un numero enorme di particelle elementari: in una goccia di acqua, ad esempio, si contano alcuni miliardi di miliardi di molecole costituite a loro volta di atomi.

Da questa osservazione si deduce che gli atomi sono estremamente piccoli rispetto agli oggetti macroscopici (il diametro medio di uno di essi è di circa un centomilionesimo di centimetro: bisogna metterne in fila cento milioni per fare un centimetro) ma, a dispetto del loro nome (atomo in greco significa “indivisibile”), a loro volta gli atomi sono costituiti da altre particelle ancora più piccole, che sono i protoni, i neutroni e gli elettroni.

Protoni e neutroni sono concentrati in un nucleo centrale attorno al quale si sistemano gli elettroni. Fra nucleo centrale ed elettroni periferici vi è un enorme spazio vuoto: se il nucleo atomico fosse grande come una pallina da ping-pong, l’elettrone più vicino (delle dimensioni di un granellino di sabbia) si troverebbe a più di un kilometro di distanza. I nuclei si contraddistinguono per il numero di protoni che contengono, il quale può variare da uno a oltre cento. Ogni protone ha carica elettrica +1 mentre i neutroni (come suggerisce il nome) sono senza carica; la carica complessiva del nucleo è data pertanto dal numero di protoni che contiene ed è bilanciata da un uguale numero di elettroni (la cui singola carica è -1) orbitanti intorno ad esso. L’atomo nella sua globalità ed integrità è quindi elettricamente neutro e il numero dei protoni, uguale a quello degli elettroni, è detto numero atomico e designato con la lettera Z.

Qualsiasi sostanza, i cui atomi abbiano lo stesso numero atomico, viene detta elemento chimico. Gli elementi chimici sono quindi costituiti di atomi tutti dello stesso tipo: l’idrogeno ad esempio è formato da atomi di idrogeno, l’ossigeno da atomi di ossigeno e così via per tutti gli altri. Le proprietà chimiche degli elementi, come abbiamo implicitamente detto, sono da ricondurre esclusivamente al numero Z di particelle cariche (protoni o elettroni) possedute dai loro atomi (1 l’idrogeno, 8 l’ossigeno, 26 il ferro, ecc.).

Gli elementi naturali, ossia quelli che fanno parte della materia del nostro pianeta, sono 90 a cui si deve aggiungere un’altra ventina prodotti in laboratorio. Questi ultimi si sistemano, all’interno del sistema periodico di Mendeleev, dopo l’uranio (elemento che occupa la 92ª casella) e per questo motivo vengono anche detti transuranici; due di essi però si trovano mescolati a quelli naturali ed occupano rispettivamente la 43ª casella (tecnezio, un nome che ne rivela l’origine) e la 61ª casella (prometeo).

Gli elementi stabili, ossia quelli che non subiscono cambiamenti se lasciati a sé stessi per un periodo indefinito, sono solo 81 e vanno dal più semplice di tutti, l’idrogeno, fino all’ottantatreesimo, il bismuto (sono esclusi dal novero ovviamente il 43° e il 61°). Tutti gli altri sono instabili e quindi destinati a decadere in atomi stabili, ma non è detto che lo debbano fare immediatamente. L’uranio, ad esempio, impiega miliardi di anni per decadere in quantità apprezzabili in atomi stabili di piombo. Da quando esiste la Terra solo la metà degli atomi di uranio presenti all’origine si sono trasformati in atomi di piombo: il periodo di semitrasformazione dell’uranio è infatti di 4,5 miliardi di anni: un numero coincidente proprio con l’età della Terra.

Gli antichi pensavano che il principio di tutte le cose terrene fossero quattro elementi: fuoco, aria, acqua e terra. Aristotele vi aggiunse l’etere (da un termine greco che significa “sfolgorante”) quale quintessenza costituente i corpi celesti luminosi. Il termine “elemento” – con il significato riportato sopra – ha quindi un’origine lontana che però nel linguaggio comune si usa ancora oggi per indicare disastri causati da un nubifragio. In tale accezione si parla infatti di “furia degli elementi” perché l’acqua cade dal cielo a catinelle, la terra frana giù dalla montagna, l’aria soffia impetuosa e il fuoco arde in forma di fulmini.

Gli elementi chimici raramente si presentano isolati; i diversi atomi normalmente si mescolano e si combinano gli uni con gli altri per formare composti e miscugli; alcuni atomi, come abbiamo visto, possono anche trasformarsi in atomi di tipo diverso ma in nessun caso possono crearsi dal nulla. Quindi è lecito chiedersi come gli elementi, i singoli atomi, si siano formati. Sono forse sempre esistiti?

 

LE ABBONDANZE COSMICHE

Oggi esiste una teoria detta nucleosintesi (un tempo chiamata nucleogenesi) che spiega il modo in cui i nuclei atomici si sarebbero formati a partire da strutture più semplici. Prima di parlarne tuttavia è opportuno chiarire il significato di teoria, un concetto che la gente comune spesso mal comprende e crede sia semplicemente un’ipotesi ovvero una supposizione priva di qualsiasi riscontro oggettivo. Una teoria invece è una serie di regole fondamentali suffragata da moltissime osservazioni (confermate a loro volta dal lavoro di molti scienziati) che spiega e rende sensato un gran numero di fatti, i quali, senza una teoria che li leghi insieme, apparirebbero sconnessi.

È bene tenere sempre presente che tutte le teorie per loro stessa natura sono imprecise e incomplete: a questo proposito Einstein diceva che se una teoria rispecchia fedelmente la realtà essa non è una buona teoria, mentre lo è se non coincide perfettamente con la realtà. Le teorie quindi non sono mai esatte in ogni dettaglio sia perché quando vengono proposte non prendono in considerazione alcuni fenomeni ritenuti di scarso rilievo, sia perché alcuni fenomeni importanti non sono noti quando viene formulata la teoria stessa. Prendiamo, per fare un esempio, la concezione meccanicistica del mondo espressa formalmente più di tre secoli fa da Newton. Oggi sappiamo che quel modello è valido solo per corpi formati da un gran numero di atomi e solo per velocità piccole rispetto a quelle della luce: quando non è soddisfatta la prima condizione, la meccanica classica di Newton deve essere sostituita dalla meccanica quantistica; quando non si verifica la seconda condizione, deve essere applicata la teoria della relatività. Ciò non significa che il modello classico sia sbagliato, né che la meccanica quantistica o la teoria della relatività siano giuste; si tratta semplicemente di modelli validi per un certo campo di fenomeni al di fuori del quale essi non forniscono più una descrizione soddisfacente della natura.

Ritorniamo ora agli elementi chimici e alla loro origine. Essi non si rinvengono tutti nella stessa quantità: ve ne sono di più abbondanti e di più rari. La conoscenza delle percentuali cosmiche dei vari elementi può fornire un valido aiuto per lo sviluppo della teoria della nucleosintesi e i dati raccolti all’interno del sistema solare e delle stelle più vicine possono rappresentare un ragionevole campione di tutto l’Universo.

Gli elementi più abbondanti della crosta terrestre sono il silicio, l’ossigeno e l’alluminio che, insieme a pochi altri, costituiscono i silicati, cioè i composti che formano gran parte delle rocce. Il centro della Terra quasi certamente è formato da ferro: quindi silicio, ossigeno, alluminio e ferro dovrebbero essere gli elementi più abbondanti del nostro pianeta e di quelli simili al nostro (Mercurio, Venere e Marte). Ma questi pianeti rappresentano ben poca cosa della massa complessiva del sistema solare il cui astro centrale possiede una quantità di materia 500 volte maggiore di tutti i pianeti messi insieme. L’analisi spettroscopica ha rivelato che il Sole è costituito per il 97 per cento in peso di idrogeno ed elio e solo per il 3% dall’insieme di tutti gli altri elementi. Inoltre i pianeti maggiori (Giove, Saturno, Urano e Nettuno) hanno una composizione molto simile a quella del Sole.

Dato che il Sole con i maggiori pianeti che gli girano intorno è la parte preponderante del sistema solare, non ci si sbaglia di molto affermando che la sua composizione è rappresentativa del sistema solare in generale. Ma il nostro Sole è una stella simile a tutte le altre: quindi gli astrofisici sono convinti che l’Universo nel suo complesso dovrebbe avere una composizione analoga a quella del Sole. Se ragionassimo in termini di numero di atomi invece che di massa, troveremmo che su mille atomi dell’intero Universo 920 sono di idrogeno, 80 di elio e meno di uno di tutti gli altri elementi messi insieme.

Gli elementi che compaiono in percentuali ridotte in generale diminuiscono in quantità al crescere del loro peso ma questa graduale diminuzione delle abbondanze relative presenta alcune anomalie in negativo e in positivo. Quelle più importanti ai fini degli aspetti teorici della nucleosintesi sono rappresentate dalla brusca caduta in corrispondenza degli elementi litio, berillio e boro e da un’altrettanto netta risalita per quelli con numero di protoni compreso fra 24 e 28, il cosiddetto “picco del ferro”.

Sulla scorta di queste osservazioni nel 1945 il fisico russo naturalizzato americano George Gamow avanzò l’ipotesi secondo cui la graduale diminuzione dell’abbondanza degli elementi di maggior peso atomico potrebbe riflettere una loro probabile formazione da una catena di catture successive di protoni e neutroni, originariamente liberi nella fase primordiale dell’Universo. In verità è estremamente difficile che un nucleo complesso catturi protoni di carica positiva essendo anch’esso carico positivamente a causa dei protoni che già contiene (cariche dello stesso segno, come è noto, si respingono); è più facile invece che catturi neutroni alcuni dei quali successivamente si trasformerebbero in protoni espellendo elettroni. Quest’ultima trasformazione è nota con il nome di decadimento beta (la particella beta è per l’appunto un elettrone).

Dopo alcuni minuti il processo di assunzione di particelle si arresterebbe per la diminuzione della concentrazione dei neutroni che in parte si sarebbero sistemati nei nuclei già formati e in parte sarebbero decaduti in protoni ed elettroni. I neutroni allo stato libero non vivono infatti a lungo: il loro tempo di dimezzamento è di soli 13 minuti. Il decadimento di neutroni in protoni aumentò il numero dei nuclei di idrogeno che, come si sa, sono semplici protoni legittimando l’osservazione che l’idrogeno è l’elemento più abbondante presente nell’Universo.

L’idea di Gamow tuttavia non risulta priva di punti deboli, di cui il principale consiste nel fatto che in natura non esistono nuclei stabili di peso atomico 5 e 8; ciò significa che la catena di formazione degli atomi attraverso l’aggiunta – una per volta – di particelle elementari da parte dei nuclei manca di un anello in questi due punti. In particolare la mancanza di un elemento stabile di massa 8 rappresentò un ostacolo talmente serio che la teoria di Gamow dovette essere abbandonata.

 

ORIGINE DELL’UNIVERSO

Attualmente la nucleosintesi comprende due fasi successive: l’una detta primordiale e l’altra stellare. La prima si inquadra in quella più generale del Big Bang, una teoria che trova largo credito fra gli astrofisici. Essa parte dall’ipotesi che l’Universo abbia preso origine da una singola particella molto piccola ma contemporaneamente incredibilmente pesante e calda comparsa improvvisamente e inspiegabilmente dal nulla. In realtà i fisici chiamano il nulla vuoto, o meglio, “vuoto quantistico”. Si tratta di un’entità la cui esistenza è prevista dalla meccanica quantistica, una teoria elaborata per spiegare il comportamento delle particelle di piccole dimensioni come protoni ed elettroni.

Il vuoto quantistico tuttavia, nonostante il nome, è tutt’altro che vuoto. Al contrario, esso è sede di un brulicare continuo di particelle ed antiparticelle dalla vita brevissima che vengono generate e immediatamente dopo distrutte, in un processo senza fine. Come si è detto, ogni particella che emerge dal vuoto quantistico lo fa insieme con la corrispondente antiparticella (l’elettrone ad esempio compare sempre in compagnia dell’antielettrone, il protone con l’antiprotone e così via). L’antiparticella è del tutto simile alla particella tranne che per alcune proprietà: nel caso, ad esempio, dell’elettrone e dell’antielettrone o positone cambia solo il segno della carica elettrica che nell’elettrone è negativo e nel positone è positivo; la stessa cosa vale per il protone che ha carica positiva, mentre l’antiprotone ha carica negativa. Le particelle che compaiono e scompaiono di continuo sono dette virtuali e non possono essere osservate direttamente perché vivono per un tempo troppo breve per consentire agli strumenti di misura di intercettarle. La loro presenza tuttavia può lasciare una traccia sugli oggetti osservabili, come avviene ad esempio per le particelle e le antiparticelle virtuali che compaiono e scompaiono nello spazio vuoto compreso fra il nucleo centrale e gli elettroni periferici degli atomi: esse producono piccoli cambiamenti dell’energia degli elettroni che possono essere misurati facendo uso di strumenti molto sensibili.

All’interno della meccanica quantistica esiste il cosiddetto “principio di indeterminazione”, scoperto dal fisico tedesco Werner Heisenberg, il quale afferma che nulla è determinato con precisione assoluta ma che ogni cosa è possibile, anche la più improbabile. I fisici ritengono quindi che circa quindici miliardi di anni fa, una particella incredibilmente piccola (molto più piccola di un protone) ma estremamente pesante e calda, in modo spontaneo e imprevisto, sia comparsa dal nulla in una situazione di equilibrio instabile che i fisici chiamano “falso vuoto”. Successivamente questa particella passò ad uno stato di “vero vuoto”, ossia ad una condizione di energia minore e quindi più stabile (come capita per esempio ad una matita che, posta in equilibrio instabile sulla punta, poi cade sul tavolo) che generò in essa un notevole rigonfiamento fino a farle raggiungere in un battibaleno dimensioni enormi. Questa incredibile espansione che i fisici chiamano inflazione provocò la formazione di particelle primitive (fra cui elettroni e quark che in seguito avrebbero dato vita alla materia ordinaria) e di fotoni, ossia di particelle energetiche.

In verità la fisica non dispone di una teoria in grado di descrivere oggetti più piccoli di certe dimensioni minime né più lontani nel tempo di 10-43 secondi dall’inizio. La descrizione dell’Universo non può quindi che iniziare con la presenza di quella piccolissima sfera di fuoco primordiale con un raggio di 10-33 cm che conteneva concentrata in sé in un amalgama indifferenziato non solo tutta la materia, l’energia e le forze che tengono unite le particelle materiali, ma anche il tempo e lo spazio. Il fatto che con il Big Bang sia nata ogni cosa rende improponibile la domanda, che spesso si pone la gente, di che cosa ci fosse prima di quell’evento. Risulta infatti impossibile ragionare con i concetti di spazio e di tempo prima che queste entità esistessero materialmente e porsi una tale domanda equivale a chiedersi ad esempio che cosa ci sia più a Nord del Polo Nord.

I fisici calcolano che quando la particella iniziale destinata a diventare l’intero Universo era di dimensioni minime, la sua temperatura doveva essere di 1033 gradi kelvin (i gradi assoluti o gradi kelvin hanno una spaziatura uguale a quella dei gradi centigradi ma lo zero kelvin, 0 K, corrisponde a 273 gradi sotto lo 0 °C). In quella condizione di estrema instabilità si sarebbe staccata, dalle altre tre forze fondamentali (nucleare forte, nucleare debole ed elettromagnetica), la forza di gravità sprigionando energia sufficiente a scuotere dal di dentro l’intera struttura la quale subito dopo si sarebbe liberata anche della forza nucleare forte gonfiandosi a dismisura. L’Universo a quel tempo, 10-33 s dall’inizio, dalle dimensioni infinitesime (frazioni irrilevanti di millimetro) raggiunse quelle degli oggetti macroscopici. Questa espansione avvenne ad una velocità di gran lunga superiore a quella della luce ma in uno spazio privo di materia; quindi non vi sarebbe contraddizione con le previsioni della teoria della relatività, secondo la quale nulla di materiale può viaggiare a velocità superiore a quella della luce.

Per quanto riguarda il futuro, la teoria del Big Bang non fornisce una risposta univoca ma è compatibile con parecchie soluzioni che corrispondono a differenti modelli di Universo. A seconda della materia attualmente presente in esso l’espansione potrebbe continuare all’infinito, ovvero rallentare e alla fine diventare una contrazione. In quest’ultimo caso l’Universo avrebbe potuto effettivamente prendere inizio da un punto, mentre nell’altro caso il nostro Universo non è mai stato concentrato in un punto perché uno spazio infinito rimane infinito, anche quando si contrae. Per chiarire il significato di questa affermazione si pensi ad una molla di lunghezza infinita la quale anche quando viene compressa avvicinando il più possibile le spire, rimane comunque infinita.

 

LA NUCLEOSINTESI PRIMORDIALE

Nel 1957 quattro fisici di formazione anglosassone, Geoffrey e Margaret Burbidge, William Fowler e Fred Hoyle (spesso indicati nei libri di astrofisica con la sigla B2FH) pubblicarono su di una rivista scientifica un lungo articolo dal titolo “Sintesi degli elementi nelle stelle” in cui venivano ipotizzate le reazioni che si sarebbero potute verificare all’interno delle stelle al fine di pervenire a risultati che si accordassero bene con le osservazioni. In realtà le abbondanze calcolate dai quattro scienziati erano abbastanza vicine a quelle osservate, fatta eccezione per l’elio, per il quale era stato trovato un valore intorno al 3 – 4% contro quello osservato del 25% e per il deuterio, l’isotopo pesante dell’idrogeno (gli isotopi sono atomi con uguale numero di protoni ma diverso numero di neutroni; l’idrogeno normale ad esempio non contiene alcun neutrone mentre il deuterio o idrogeno pesante contiene, oltre al protone, anche un neutrone).

Oggi sappiamo che gli elementi più leggeri (idrogeno, deuterio ed elio) si sono formati prevalentemente negli istanti immediatamente successivi al Big Bang, mentre gli elementi più pesanti dell’elio, detti in gergo astrofisico “metalli”, si sarebbero effettivamente formati nel centro delle stelle. Il primo dubbio che gli elementi più pesanti dell’elio avrebbero potuto formarsi nel core delle stelle si ebbe nei primi anni cinquanta del secolo scorso, quando in alcune stelle fu notato lo spettro del tecnezio, l’elemento radioattivo prodotto artificialmente nel 1937 da Emilio Segrè, docente a quel tempo presso l’Università di Palermo e poi emigrato in USA per sfuggire alle leggi razziali fasciste. Questo elemento è soggetto ad un decadimento piuttosto rapido (la sua vita media è di 3 milioni di anni) e quindi quello osservato non poteva che essersi formato nel luogo in cui si trovava, mentre quello eventualmente prodotto ai primordi dell’Universo si sarebbe completamente disintegrato da lungo tempo.

Dopo la prima fiammata iniziale l’Universo continuò ad espandersi (ma lo fece in modo sempre più blando) e a raffreddarsi, al punto che quando raggiunse l’età di 10-6 secondi la temperatura era scesa a 1015 gradi kelvin. Fu allora che i quark si unirono a tre a tre per formare protoni e neutroni (il protone è costituito da due quark su e un quark giù e il neutrone da due quark giù e un quark su; strani nomi usano spesso i fisici per designare gli oggetti dei loro studi).

Successivamente, in un’epoca compresa fra i tre e i cinque minuti dall’inizio, la temperatura scese ulteriormente fino a raggiungere il miliardo di gradi, e anche la densità si ridusse drasticamente. Si vennero così a creare le condizioni ideali perché le collisioni tra protoni e neutroni divenissero molto efficaci e frequenti tanto da formare strutture con due o più particelle elementari che la forza forte (la più forte delle quattro interazioni note) tenne poi legate: si ottennero in questo modo i nuclei di deuterio o idrogeno-2 (un protone unito ad un neutrone), di trizio o idrogeno-3 (un protone unito a due neutroni), di elio-3 (due protoni con un neutrone) e di elio-4 (due protoni con due neutroni). Dalla fusione di un nucleo di trizio e due di deuterio si formò probabilmente anche una piccola quantità di nuclei di litio-7 (tre protoni e quattro neutroni). Il numero posto di fianco al nome dell’elemento rappresenta il cosiddetto peso atomico, ovvero la somma dei protoni e dei neutroni presenti nel nucleo dell’atomo di quell’elemento. Il lasso di tempo in cui si sono formati gli elementi più leggeri è noto, come abbiamo già detto, con il nome di periodo della nucleosintesi primordiale.

Da questo momento, e per alcune centinaia di migliaia di anni, non successe più nulla di interessante tranne il fatto che l’Universo continuò ad espandersi e raffreddarsi. Quando però la temperatura raggiunse poche migliaia di gradi gli elettroni, che fino a quel momento erano stati in continuo e frenetico movimento, rallentarono la loro corsa consentendo ai nuclei carichi positivamente di legarli a sé e formare i primi atomi neutri.

Quello della formazione degli atomi neutri (prevalentemente idrogeno ed elio) fu un momento di cruciale importanza, perché da allora in poi l’Universo divenne trasparente alla radiazione elettromagnetica, che prese a viaggiare libera per lo spazio disponibile. Prima che gli elettroni fossero catturati dai nuclei atomici l’Universo infatti era un denso e caldissimo plasma di particelle cariche, che intralciavano i fotoni impedendo loro di muoversi liberamente. A quel tempo l’Universo, pur essendo pieno di radiazione di tutte le lunghezze d’onda, era tuttavia completamente opaco.

Frattanto l’idrogeno e l’elio, a differenza di quello che era successo per la radiazione elettromagnetica che si era distribuita tutta intorno in modo omogeneo e isotropo, trascinati dalla gravità, si addensarono in masse gigantesche nelle regioni del cielo in cui oggi sorgono a miliardi le galassie. All’interno di quelle nubi di gas, forse a causa di fluttuazioni casuali e delle conseguenti turbolenze (cosa che avviene spontaneamente in tutti i fluidi) alcuni atomi si addensarono costituendo zone di densità superiore al normale, che avrebbero portato alla nascita di stelle nel cui centro la densità e la temperatura sarebbero salite a livelli altissimi a mano a mano che il gas, spinto dalla gravità, si comprimeva.

 

LA NUCLEOSINTESI STELLARE

In quelle condizioni di temperatura e pressione elevate gli atomi persero gli elettroni periferici ricostituendo i nuclei di partenza i quali, scontrandosi, finirono per aggregarsi. Si assistette allora alla conversione dell’idrogeno in elio con produzione di energia e alla simultanea distruzione (a causa delle alte temperature) dei nuclei di litio, berillio e boro da poco sintetizzati; questi tuttavia si sarebbero riformati, sebbene in quantità minima, nel mezzo interstellare per azione dei raggi cosmici: in questo modo si spiegherebbe la scarsità di questi tre elementi nella curva delle abbondanze cosmiche.

La fusione di quattro nuclei di idrogeno (in pratica quattro protoni) porta quindi alla formazione del nucleo dell’atomo di elio la cui massa è leggermente inferiore a quella dei quattro nuclei di partenza: quello che manca si è trasformato in energia, come suggerisce la famosa equazione di Einstein: E=mc² (energia uguale a massa per la velocità della luce al quadrato). La reazione è detta catena protone-protone (p-p) ma, come vedremo in seguito, questa non è l’unica reazione che consente alla stella di procurarsi energia.

Quando nel core (uso volentieri questo termine che in inglese significa “nucleo”, “struttura centrale”, mentre nell’idioma napoletano significa “cuore”, forse perché condizionato dalle mie origini partenopee) delle stelle primordiali si esaurì il combustibile fondamentale, cioè l’idrogeno, venne a mancare la spinta verso l’esterno che manteneva in equilibrio la enorme massa di gas che formava l’astro ed iniziò l’implosione di tutta quella materia che precipitando verso il centro, riscaldò il nocciolo ormai costituito di elio puro fino a fargli raggiungere la temperatura di 100 milioni di gradi. Fu allora che iniziarono a formarsi i nuclei degli atomi più pesanti.

Abbiamo visto come, dopo che nell’Universo primitivo si era formato l’elio-4, l’espansione in atto avesse raffreddato l’ambiente e diradato la materia al punto che gli urti fra le particelle non erano più efficaci. Prima di questo evento avrebbe potuto formarsi il nucleo del berillio-8 in seguito alla fusione di due nuclei di elio-4 ma il berillio-8 è una struttura estremamente instabile, che alle attuali tiepide temperature presenti sulla Terra si scinde immediatamente dopo formato, ripristinando i due nuclei di partenza: a maggior ragione lo avrà fatto alle alte temperature dell’Universo primigenio.

A rimuovere l’ostacolo rappresentato della estrema instabilità del nucleo del berillio fu un lampo di genio di Fred Hoyle, il quale suggerì l’eventualità di un incontro simultaneo di tre nuclei di elio che avrebbero formato il nucleo del carbonio di massa 12. Hoyle aveva previsto che quello che non era possibile si realizzasse ai primordi dell’Universo fosse possibile all’interno delle stelle, dove c’era il vantaggio di un ambiente formato quasi esclusivamente di elio-4. È molto più facile che si verifichi una tripla collisione di elio-4 quando non sono presenti altre particelle ad ostacolare lo scontro piuttosto che quando c’era, insieme all’elio, un grande affollamento di nuclei di idrogeno, come accadeva nel periodo immediatamente successivo al Big Bang. A questa reazione fu assegnato il nome di “processo tre alfa” (“particella alfa” è anche chiamato il nucleo dell’atomo di elio). Una serie di esperimenti di laboratorio condotti in un Istituto di ricerca e sperimentazione della California, confermò l’intuizione di Hoyle.

Attraverso la stessa catena 3- coadiuvata da protoni liberi presenti in abbondanza si formarono altri elementi di peso medio, come ad esempio l’azoto-14 e l’ossigeno-16; quando la temperatura, in seguito alla combustione dell’elio aumentò ulteriormente, si realizzò anche la fusione degli atomi di carbonio, attraverso la quale si generarono neon-20, sodio-23 e magnesio-24. Infine, a temperature prossime ai due miliardi di gradi, si fusero insieme i nuclei dell’ossigeno generando silicio, fosforo e zolfo.

Frattanto, grazie alla presenza di nuclei di carbonio, azoto e ossigeno prese l’avvio l’altro processo di fusione nucleare che porta alla produzione di energia, il ciclo CNO, così detto dai simboli dei tre elementi che lo caratterizzano. Esso, come la catena p-p, fornisce un nucleo di elio dalla sintesi di quattro nuclei di idrogeno; i nuclei di carbonio, azoto e ossigeno non partecipano direttamente alla reazione ma fungono da semplici catalizzatori.

A questo punto però, nonostante le temperature restassero molto elevate, le reazioni di sintesi si arrestarono ed iniziarono reazioni di fissione che ruppero alcuni nuclei già formati liberando particelle elementari come protoni, neutroni e particelle alfa, le quali si combinarono con nuclei piccoli e grandi formando nuovi elementi fino ad arrivare al picco del ferro.

Tutte le reazioni di sintesi, fino a quelle che avevano condotto alla formazione di nuclei di ferro, erano state reazioni esotermiche cioè reazioni spontanee che generavano calore. Ora però i nuclei di ferro, sia che si scindano in nuclei più piccoli (fissione nucleare), sia che si fondano per formare nuclei più grossi (fusione nucleare), lo fanno attraverso reazioni endotermiche ossia reazioni che consumano energia.

Arrivato quindi alla sintesi del ferro, il “fuoco centrale” si spense e nulla fu più in grado di opporsi alla gravità che spinse la materia verso l’interno. La stella quindi collassò e si riscaldò tanto da consentire a quel poco di idrogeno, che era rimasto nella regione esterna al nocciolo centrale, di sintetizzare ulteriori nuclei di elio. Il calore prodotto da quella reazione spinse verso l’esterno la parte periferica della stella creando una specie di anello che la fece assomigliare al disco di un pianeta: la particolare struttura viene infatti chiamata “nebulosa planetaria”.

 

DALLE STELLE ALLE STALLE

Ora è da chiedersi dove e come si siano formati gli elementi più pesanti del ferro. Inoltre si deve anche spiegare come abbiano fatto gli elementi sintetizzati nel core delle stelle a finire sparsi negli spazi interstellari e successivamente sulla Terra e in noi stessi.

Il Sole che a prima vista appare come un tranquillo ed omogeneo globo luminoso, in realtà è sede di continue esplosioni e fiammate, che prendono il nome rispettivamente di brillamenti e protuberanze. Si tratta di getti di materia che abbandona definitivamente l’astro e si sparpaglia nello spazio circostante. Questo continuo flusso di materia solare è chiamato vento solare e deve essere presente in tutte le stelle più o meno delle dimensioni del nostro Sole. Tali stelle rappresentano la maggioranza di quelle che formano la nostra e le altre galassie, quindi la quantità di materia che in ogni istante va ad incrementare il gas interstellare dovrebbe essere enorme.

Tuttavia i venti stellari provengono dagli strati superficiali delle stelle i quali sono costituiti quasi esclusivamente di idrogeno ed elio mentre gli elementi più pesanti (quando ci sono) si trovano nella parte più interna degli astri. Spesso questi elementi non si sono formati nelle stelle in cui attualmente si trovano, ma altrove. Il nostro Sole ad esempio è una stella di seconda generazione che si è formata raccogliendo materiale interstellare espulso da stelle che sono esplose proiettando nello spazio gli elementi che avevano sintetizzato nel loro core. Una volta finiti all’interno del Sole, questi elementi vi rimarranno anche dopo che la stella si sarà trasformata in nana bianca quindi in pratica per sempre.

In realtà, come abbiamo accennato, la sorgente dei nuclei pesanti presenti nei gas interstellari è rappresentata dalle supernovae, stelle di enormi dimensioni che improvvisamente esplodono lanciando nello spazio gran parte della materia di cui sono costituite, compresi i nuclei più pesanti che si erano formati durante l’implosione che ha preceduto lo scoppio finale. Gli elementi pesanti espulsi dalle supernovae sono sufficienti per giustificare la grande quantità di essi presente nel gas interstellare, nelle stelle di seconda generazione e nei pianeti. Quindi posiamo affermare che tutta la materia esistente, compresa quella che si trova nella stalla più sperduta e insignificante dove fieno, animali e lo stesso stallatico sono costituiti dagli elementi che molto tempo prima sono usciti dalle stelle più grandi dell’Universo, ha avuto origine da processi di fusione nucleare.

I nuclei degli elementi pesanti che si originano all’interno delle stelle di grande massa non derivano dalla fusione di elementi leggeri, ma si formano per cattura di neutroni. I neutroni che entrano nei nuclei possono poi trasformarsi in protoni per emissione di un elettrone ma può anche avvenire che il nucleo che si è appena formato sia fortemente instabile e quindi espella una particella alfa cambiando completamente fisionomia e divenendo più stabile.

Il processo di cattura di neutroni può avvenire attraverso due meccanismi, individuati dal gruppo B²FH, detti “processo s” (dalla parola inglese slow che significa lento) e “processo r” (dall’inglese rapid che non necessita di traduzione). Nel primo caso il tempo medio tra due catture successive del neutrone da parte di un nucleo è molto lungo rispetto a quello necessario allo stesso per emettere un elettrone e trasformarsi in protone prima che avvenga la cattura di un altro neutrone. Il “processo r” invece si realizza in presenza di un elevato flusso di neutroni che vengono catturati in eccesso prima che avvenga l’emissione di elettroni da parte degli stessi. Si formano in questo modo strutture mostruose nelle quali non tutti i neutroni decadono in protoni: atomi che presentano nuclei con neutroni in numero eccessivo rispetto ai protoni sono instabili, cioè radioattivi, come capita ad esempio per tutti gli elementi della famiglia dell’uranio. Questo tipo di reazione avviene nelle atmosfere delle stelle giganti nel corso della esplosione delle stesse quando c’è abbondanza di nuclei di ferro e di neutroni.

Prof. Antonio Vecchia

2 Comments

  1. jtalo lucarelli
  2. Giuseppe D'Anna

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