Dall’alchimia alla chimica

Alcuni fanno nascere la chimica come disciplina scientifica, che applica il metodo gali­leiano della ricerca, con l’irlandese Robert Boyle (1627-1691), il quale nel 1661 scrisse un’ope­ra dal titolo The Sceptical Chymist (il “chimista” scettico) nella quale operava una netta di­stinzione fra alchimia e chimica. In realtà il passaggio fra una disciplina empirica con evi­dente carattere magico, qual era l’alchimia e la chimica vera e propria, fu lento e tutt’altro che lineare.

      Uno degli obiettivi fondamentali dell’alchimia, come si sa, era la ricerca della pietra filo­sofale ossia di un sistema per trasformare i metalli vili (in realtà ogni cosa) in oro. Dei tanti esempi che si potrebbero fare per dimostrare il carattere strano e spesso fortuito della chi­mica ai suoi esordi sembra appropriato citare la scoperta compiuta dal tedesco Hennig Brand (1630-1710) il quale era convinto che l’oro potesse essere distillato dall’urina umana (forse in­gannato dal colore di quello che è il prodotto finale dell’escrezione renale). Raccol­se alcuni ettolitri di questo liquido che poi, attraverso una serie di misteriosi processi, tra­sformò dapprima in una pasta disgustosa e quindi in una sostanza traslucida simile alla cera. Naturalmente di oro nemmeno l’ombra. Quello che si notò invece era che quando il puzzolente prodotto veniva esposto all’aria luccicava e spesso prendeva spontaneamente fuoco.

      In realtà si era formato un nuovo elemento a cui fu dato il nome di fosforo dal greco phōsphóros che significa “portatore di luce”. Si notò subito che si trattava di un prodotto prezioso il cui prezzo era notevole an­che per le difficoltà insite nella sua produzione. All’inizio, a fornire la materia prima toccò ai soldati, ma un tale sistema non facilitava di certo la produzione di esso su vasta scala. Pochi anni più tardi, Carl Wilhelm Scheele (1742-1786) un chimico svedese escogitò un metodo meno artigianale e soprattutto meno puzzolente per produrre grandi quantità dell’ele­mento tanto che esso divenne importante nella pro­duzione di fiammiferi che, in una particolare con­fezione, qui da noi, vengono chiamati “svedesi”.

     Scheele, modesto farmacista, era un tipo strano che con pochi mezzi a disposizione riu­scì ad individuare alcuni elementi chimici come il cloro, il fluoro e l’ossigeno senza che per nessuno di essi gli venisse riconosciuto il merito. Identificò anche molti composti utili fra cui l’ammoniaca e la glicerina ma le sue scoperte, anche in questo caso, vennero ignorate oppure pubblicate dopo che qualcun altro le aveva ripetute. La scoperta dell’ossigeno, ad esempio, è stata attribuita al chimico e filosofo inglese Joseph Priestley (1733-1804) il quale individuò l’elemento con due anni di ritardo rispetto al primo riscontro. Ancora più incredibile fu il mancato riconoscimento del cloro, di cui il chimico svedese comprese la sua potenziale importanza come candeggiante, che fu riscoperto dal chimico inglese Humphry Davy (1778-1829) nel 1810, ben trentasei anni dopo Scheele, quando questi era già mor­to.

      La stranezza di Scheele di cui abbiamo fatto cenno era quella di assaggiare tutte le sostanze con cui lavorava senza rendersi conto che spesso erano pericolose per la salute e in alcuni casi anche velenose. Fu proprio questa inutile curiosità a tradirlo quando a soli quarantatré anni fu trovato morto al tavolo di lavoro, circondato da una serie di sostanze tossiche, con stampato in volto l’espressione incredula di quella che può essere stata la causa della sua fine. 

 

ARRIVA LA VERA CHIMICA

      Sebbene dai tempi di Boyle la chimica avesse fatto passi da gigante molto restava an­cora da fare. Negli ultimi anni del diciottesimo secolo gli scienziati andavano ancora alla ri­cerca di cose che non esistevano affatto come il famoso flogisto la sostanza che si riteneva si allontanasse dal prodotto che bruciava. Si andava ancora alla ricerca dell’elisir di lunga vita che doveva proteggere l’uomo dalle malattie e lo avrebbe fatto vivere a lungo o la mi­steriosa élan vital, la forza che dava vita agli oggetti inanimati: nessuno aveva individuato questa essenza eterea, ma si riteneva che fosse presente nelle sostanze organiche mentre quelle inorganiche ne erano prive.

       La chimica divenne finalmente disciplina scientifica con tutti i crismi del rigore, connatu­rato nel metodo della ricerca, con un personaggio di grande intuito e intelligenza superiore. Questi era il francese Antoine-Laurent de Lavoisier nato nel 1743 membro della nobiltà mi­nore parigina cioè di un titolo di famiglia che il padre aveva comprato. Nel 1768 rilevò una quota della Ferme Générale, la società finanziaria incaricata di riscuotere le imposte indi­rette per conto dello Stato. Sebbene Lavoisier fosse persona retta e onesta l’associazione degli esattori per la quale lavorava era fortemente disprezzata dal popolo, in quanto com­metteva una serie di soprusi a cominciare da quello di non tassare i ricchi, ma solo i poveri e spesso in maniera arbitra­ria. 

      L’adesione a questa istituzione gli garantiva l’agiatezza necessaria a perseguire la sua vera passione che era la scienza, ma la cosa gli costerà cara. Tre anni dopo essersi imbar­cato in questa carriera redditizia sposò la figlia quattordicenne di un funzionario di grado superiore al suo della stessa associazione. La moglie, ancorché giovanissima, si dimostrerà dotata di capacità sorprendenti e ben presto si sarebbe messa al lavoro con diligenza a fianco del marito. Nonostante i gravosi impegni professionali e di studio, Lavoisier riuscì a trovare il tempo per progettare opere di interesse pubblico come la costruzione di un muro attorno a Parigi che scoraggiasse i contrabbandieri o di carattere scientifico come la messa a punto del sistema metrico e del manuale che fissava il metodo per la denominazione de­gli elementi chimici. Quale membro della Académie Royale des Sciences si occupò anche di svariati argomenti di attualità come la riforma carceraria e il rifornimento idrico di Parigi. Fu proprio in questa veste che mosse alcune critiche ad una teoria sulla combustione sot­toposta al giudizio dell’Accademia da un giovane scienziato di nome Jean-Paul Marat. 

      L’unica cosa che non gli riuscì fu quella di scoprire qualche elemento nuovo nonostante disponesse di un laboratorio molto bene attrezzato e nonostante che gli elementi da scoprire a quel tempo fossero ancora alcune decine. Più che scoprire cose nuove Lavoisier era impegnato a dare un senso alle scoperte altrui. Scartò definitivamente l’esistenza del flogisto ed identificò idrogeno e ossigeno nella loro reali caratteristiche e proprietà. Ma il vero successo dello scienziato fu un altro. 

     Grazie alla eccezionale attrezzatura di cui era in possesso scoprì una legge fondamenta­le di natura. Pesando in modo scrupoloso le sostanze su cui sperimentava notò ad esempio che quando il ferro arrugginiva aumentava di peso e non diminuiva come si era sempre pensato. Evidentemente con il tempo qualcosa presente nell’aria entrava nel metallo. Que­sta fu la prima prova che la materia poteva trasformarsi ma non annullarsi. Da quel mo­mento, la legge di natura individuata dal grande chimico francese è conosciuta dalla gente comune con la seguente espressione: “In natura nulla si crea, nulla si distrugge: tutto si trasforma”.

     Si trattava di una vera rivoluzione, purtroppo non fu l’unica. Nello stesso tempo era cominciata la rivoluzione francese e Lavoisier si trovò dalla parte sbagliata. Il muro che aveva fatto costruire intorno a Parigi non era gradito alla cittadinanza e poi vi era l’odiatis­sima Ferme Générale di cui lo scienziato era membro. Frattanto era giunto il momento in cui Marat poteva vendicarsi del giudizio negativo espresso da Lavoisier relativamente alla sua teoria sulla combustione. Divenuto un leader dell’Assemblea Nazionale Marat denunciò lo scienziato insieme con tutti i membri della società finanziaria che nel frattempo si era sciolta: vennero arrestati e processati. Poco tempo dopo Marat fu ucciso da una giovane donna nella vasca da bagno ma ormai il Regime del Terrore o semplicemente il Terrore come ve­niva chiamata la fase storica della Rivoluzione francese aveva cominciato a girare a pieno ritmo con l’uccisione di Maria Antonietta, la vedova del re di Francia Luigi XVI. Dopo aver assistito alla decapitazione del suo­cero, toccò a Lavoisier finire sulla ghigliottina. Poco tempo dopo la stessa sorte sarebbe capitata a Robe­spierre.

     Dopo quasi cento anni dalla morte fu eretta a Parigi una statua di Lavoisier molto ammirata e apprezzata fino a che qualcuno non fece notare che non assomigliava affatto al famoso chimico. In realtà lo scultore aveva usato la testa del matematico, filosofo e poli­tico rivo­luzionario francese Nicolas de Condorcet di cui conservava evidente­mente un dop­pione di un lavoro precedente. La statua rimase sul posto per oltre cinquan­tanni ma al tempo della Seconda guerra mondiale fu rimossa e distrutta.

 

L’ATOMO

     Nel 1808 si assistette al lancio definitivo della chimica nell’ambito delle scienze naturali. A darle la spinta decisiva fu un inglese di nome John Dalton il quale era nato nel 1766 in un paesino della regione montuosa del nord ovest dell’Inghilterra. I suoi genitori erano dei poveri tessitori, quaccheri ferventi. Fu uno scolaro molto intelligente e diligente tanto che all’età di dodici anni gli venne affidata la gestione della scuola quacchera del villaggio. La cosa appare sorprendente ma forse non tanto se si considera che dalla lettura dei suoi diari risulta che a quell’età aveva già letto i Principiadi Newton nella versione originale in latino e altre opere altrettanto impegnative. Dopo pochi anni si trasferì a Manchester da dove non si muoverà più per i restanti cinquanta anni della sua vita.

     A Manchester Dalton si era impegnato nella scrittura e nella pubblicazione di argomenti molto diversi che spaziavano dalla meteorologia alla grammatica. Soffriva di un difetto alla vista che gli impediva di distinguere il rosso dal verde. La malattia di cui in precedenza non aveva avuto sentore era la dicromatopsia. Di essa si accorse quando comprò un paio di calzini che credeva fossero di colore marrone mentre erano di un rosso vivo. Si dedicò allo studio di questo difetto che oggi prende il nome da lui e si chiama daltonismo. La fama però arrivò dopo la pubblicazione di un libro in cui in poche pagine si parlava di atomi.

     Dalton aveva osservato l’aspetto di­scontinuo della materia: scoprì cioè che le sostanze rea­givano per formare composti secondo rapporti di peso fissi e costanti. Se ad esempio si mettevano a reagire idrogeno e ossigeno per formare acqua il rapporto in peso dei due rea­genti doveva essere sempre lo stesso ovvero di 1 a 8. Mettendo a reagire un grammo di idrogeno i grammi di ossigeno dovevano essere 8; se questo rapporto in peso non veniva rispettato, dopo che si era formata acqua avanzava o un poco di idrogeno o un poco di os­sigeno a seconda del peso eccessivo dell’uno o dell’altro dei reagenti. Questa scoperta gli fece ritenere che la reazione degli elementi in grande fosse la somma di tante reazioni fra piccole particelle di cui già gli antichi greci avevano parlato. Però, rispetto all’intuizione degli antichi, per i quali queste piccole particelle che chiamarono atomi erano qualche cosa di metafisico privo di qualsiasi riscontro sperimentale, l’idea del chimico inglese aveva invece il pregio di fondarsi su solide basi sperimentali. 

      Dalton sapeva che l’idrogeno era l’elemento più leggero di tutti quindi attribuì all’atomo di quell’elemento peso 1. Se negli otto grammi di ossigeno che reagivano con il grammo di idrogeno per formare acqua vi fosse stato lo stesso numero di atomi allora l’atomo del­l’ossigeno sarebbe pesato otto volte di più dell’atomo dell’idrogeno. Quest’ultima afferma­zione era del tutto arbitraria tanto è vero che in seguito si scoprì che l’atomo di ossigeno pesava non 8 ma 16 volte di più di quello di idrogeno. Nonostante le imprecisioni sulla de­terminazione dei pesi dei singoli elementi il principio era sensato e pose le basi di tutta la scienza chimica.

     Nel 1811 un italiano, con un nome esageratamente ampolloso, Lorenzo Romano Ame­deo Carlo Avogadro, conte di Quaregna e Cerreto, fece una scoperta che a lungo termine si sarebbe dimostrata molto significativa: comprese che due volumi uguali di qualsiasi gas, se tenuti nelle stesse condizioni di pressione e temperatura, contenevano lo stesso numero di molecole. La molecola (da un termine latino che significa “piccola massa”) è composta da due o più atomi che cooperano in modo più o meno stabile: se prendiamo due atomi di idrogeno e ne aggiungiamo uno di ossigeno, otteniamo la molecola di acqua.

     Nell’affascinante semplicità del principio di Avogadro (come divenne poi noto) c’erano due cose molto rilevanti. In primo luogo esso fornì una più accurata misurazione delle di­mensioni e dei pesi degli atomi. In secondo luogo bisogna sapere che per cinquanta anni nessuno seppe nulla di questo fondamentale principio. Ciò dipese in parte dal caratte­re schivo e riservato di Avogadro che non diffuse le sue scoperte ma so­prattutto dalla per­sonalità molto forte del chimico svedese Jöns Jacob Berze­lius (1779-1848) il quale godeva di grande prestigio e autorità nel mondo accademico e non voleva sentir parlare di mo­lecole formate da atomi uguali. Avogadro morirà nel 1856 senza aver visto riconosciuta l’e­sattezza delle sue idee. 

      Le conoscenze in campo chimico a quel tempo circolavano con difficoltà perché poche erano le occasioni di incontri fra studiosi della materia in cui era possibile scambiarsi le proprie esperienze. Solo con il primo congresso internazionale di chimica tenutosi a Karl­sruhe in Germania nel 1860 la comunità scientifica venne a sapere dell’importanza della scoperta di Avogadro che consentì di fare ordine nel campo della chimica. Fino a quel tem­po le mole­cole ad esempio ve­nivano rappre­sentate in modo diverso in luoghi diversi ed an­che gli elementi non portavano ovunque lo stesso nome e lo stesso simbolo. Fu proprio lo svedese Berze­lius a disciplinare l’ordine di cui aveva immenso bisogno la chimi­ca. Egli stabilì ad esempio che gli elementi avessero il nome derivato dal greco o dal latino e per esempio l’azoto ve­nisse chiamato nitrogenum ed espresso con il simbolo N e il sodio na­trium quindi con il simbolo Na. Per indicare il numero di atomi presenti nella molecola Berzelius impiegò una notazione posta come esponente e ad esempio la molecola dell’ac­qua veniva scritta in questo modo: H2O. In se­guito il numero da esponente fu posto a pe­dice del simbolo e la molecola dell’acqua diven­ne: H2O.

 

L’ORDINE

     Nonostante qualche utile riordinamento la chimica, nella seconda metà del diciannovesi­mo secolo, si trovava ancora in uno stato di sostanziale confusione. A mettere ordine nella nuova scienza che faticava ad organizzarsi ci pensò un professore dall’aria un po’ sbadata che proveniva dall’Università di San Pietroburgo. Il suo nome era Dimitri Ivanovich Mende­leev, nato nel 1834 a Tobolsk, nell’estremo ovest della Siberia da una famiglia molto nume­rosa. Egli era ultimo di quindici o forse di diciassette figli (il numero è controverso) in una famiglia di ceto medio il cui padre era direttore di una scuola locale. Questi ancora in età lavorativa perse la vista costringendo la moglie a lavorare per mantenere la famiglia.

      La madre era sicuramente una persona eccezionale che, dopo l’infermità del marito fu assunta in una fabbrica di vetro di cui divenne dirigente, fino a che un incendio non la di­strusse riducendo la famiglia in miseria. Morto anche il marito l’indomita donna intraprese con il suo ultimogenito un lungo viaggio con mezzi di fortuna fino a San Pietroburgo con lo sco­po di iscriverlo all’Istituto pedagogico dove il giovane nel 1855 si laureò in fisica-matemati­ca. Frattanto la madre morì stremata dalla fatica conseguente ai disagi che aveva dovuto subire per garantire un futuro al figlio.

    A trentacinque anni decise di de­dicarsi alla ricerca di un me­todo per ordinare gli elementi noti a quel tempo. Non era il pri­mo a impegnarsi in una ri­cerca del genere ma tutte le altre per un motivo o per l’altro non ebbero seguito. Un certo successo ebbe il chimico inglese dilettante John Newlands il quale ave­va scoperto che di­sponendo gli elementi per peso atomico crescente ad ogni otto di essi si ripetevano pro­prietà simili. Poiché il chimico inglese aveva avuto un’educazione musicale chiamò questa relazione legge delle ottave per analogia con la scala musicale in cui l’otta­va nota dà una percezione simile alla prima. L’idea fu considerata insensata e oggetto di scherno. Durante i convegni vi era qualcuno che chiedeva se gli elementi erano in grado di suonare una pic­cola melodia. Scoraggiato, Newlands smise di sostenere la sua idea, ma la stessa non fu dimenticata del tutto e infatti qualche anno più tardi fu ripresa da Mende­leev. 

     Il chimico russo utilizzò una base del criterio strutturale un po’ diversa. Organizzò gli elementi in gruppi di sette invece che di otto. Poiché le proprietà degli elementi si ripeteva­no periodicamente il sistema venne chiamato Tavola Periodica. Ordinandoli secondo peso atomico crescente gli elementi si disponevano spontaneamente in file orizzontali dette pe­riodi e in colonne verticali dette gruppi. Le colonne verticali raggruppavano le sostanze chi­miche che mostravano somiglianze delle loro proprietà. Così ad esempio, litio, sodio e po­tassio (i metalli alcalini) e cloro, bromo e iodio, detti alogeni (dal greco: “generatori di sali”) si disponevano naturalmente l’uno sotto l’altro. Il vero fattore determinante l’ordine degli elementi si dimostrò essere non il peso, ma la valenza cioè il potere di combinazione degli atomi che per i metalli alcalini e per gli alogeni citati sopra era la stessa per ciascun gruppo. 

     Oggi si conoscono circa centoventi elementi, novanta naturali e una trentina creati in laboratorio. L’ultimo elemento naturale è il novantaduesimo, l’uranio, ma fra l’idrogeno, che è il primo e l’uranio, ve ne sono due che sono artificiali. Uno è il “tecnezio” che come dice il nome è stato creato dalla tecnica e l’altro è il sessantunesimo, il prometeo. Ai tempi di Mendeleev gli elementi noti erano soltanto sessantatré ma il pregio della tavola stava proprio nel lasciare prevedere dove sarebbero andati ad inserirsi i nuovi elementi una volta scoperti. 

     Alcuni degli elementi pesanti, i transuranici, sintetizzati in laboratorio vivono soltanto per qualche frazione irrilevante di secondo e poi decadono, ovvero si dissolvono nel nulla. Per questo motivo nessuno sa a quanto potrà ammontare il numero totale degli elementi. Oggi si è arrivati all’elemento 118 con il quale si è completato il settimo periodo del Sistema Periodico.

Prof. Antonio Vecchia

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