Storia della chimica

GLI INIZI

La chimica si costituì come disciplina scientifica in tempi relativamente recenti ma come insieme di tecniche e di attività indirizzate alla estrazione e alla trasformazione della materia essa ha una storia molto antica che si confonde con le origini stesse dell’uomo. Si ritiene infatti che questa disciplina sia iniziata quando l’uomo ha imparato ad utilizzare il fuoco per estrarre i metalli dai loro minerali, per associarli in leghe, per produrre vetro, per cuocere l’argilla al fine di ottenere mattoni e vasellame e per arrostire la selvaggina con lo scopo di renderla più saporita e meglio digeribile. Successivamente, con lo sviluppo dell’economia agricola, comparvero e si affermarono nuove attività artigianali come la preparazione di bevande alcoliche e infusi con proprietà curative o coloranti.

Gli artigiani del settore, al fine di valorizzare il proprio lavoro custodivano gelosamente le loro ricette e le tecniche di lavorazione che riservavano solo a pochi e fidati adepti passando in questo modo per maghi o stregoni in diretto rapporto con la divinità.

La lontana origine della chimica è dimostrata anche dalla etimologia del termine khemeia che secondo alcuni deriva dalla parola egiziana Kham che significa “nero”, con allusione al colore scuro del fertile suolo dell’Egitto, dal quale si pensava provenissero le conoscenze naturali più remote: l’espressione potrebbe quindi significare “arte della terra d’Egitto”. Un’altra teoria afferma che khemeiaderiva dall’Arabo al-Kimiya dove al ha la funzione di articolo determinativo, mentre Kimiya dovrebbe intendersi come arte di fare leghe metalliche o, in alternativa, arte di trattare i succhi vegetali. E ciò perché quel termine rimanda ad una parola che noi traduciamo con “liquido”: i succhi sono liquidi e le leghe si ottengono dalla fusione di due o più metalli. Ora però, qualsiasi sia il significato che si intende attribuire a khemeia, è certo che con l’aggiunta dell’articolo arabo al si perviene alla parola “alchimia” e ciò fa ricordare i contributi arabi a questa pseudoscienza che pretendeva di trasformare in oro i metalli vili, mentre se si esclude l’articolo determinativo si ottiene la parola “chimica” ossia la scienza che con metodo sperimentale studia le proprietà, la composizione, la preparazione e le trasformazioni profonde e permanenti della materia.

Le prime sostanze utilizzate dall’uomo presumibilmente furono quelle presenti nell’ambiente in cui egli viveva e cioè legno, ossa, pelli e pietre. Fra queste la più durevole è la pietra e infatti non è un caso che proprio gli oggetti di pietra ci rechino testimonianza dell’attività dell’uomo primitivo. Per tale motivo si parla per l’appunto di età della pietra.

L’umanità viveva ancora in questo lontano periodo preistorico quando imparò ad addomesticare gli animali e a coltivare le piante. Con questa attività si garantì una fonte sicura di nutrimento che in precedenza era costretta a procurarsi andando a caccia o raccogliendo i prodotti spontanei della terra. Grazie allo sviluppo dell’allevamento del bestiame e dell’agricoltura l’uomo poté disporre di una fonte di alimenti più sicura ed abbondante che consentì fra l’altro un aumento della popolazione e con esso la necessità di costruire abitazioni permanenti. Ebbe così inizio la “civiltà” un termine che deriva da “città” parola che a sua volta discende dal latino civitas.

Alcuni secoli più tardi, i nostri antenati impararono a scheggiare la pietra con maggior precisione e a levigarla per poterla utilizzare come oggetto di lavoro o per fabbricare armi: si passò quindi dal paleolitico (o “età antica della pietra”), attraverso il mesolitico, (o “età di mezzo della pietra”) al periodo storico che prende il nome di neolitico (o “nuova età della pietra”).

In un tempo ancora successivo l’uomo imparò a servirsi di oggetti naturali relativamente rari. Già circa 8000 anni prima di Cristo egli scoprì alcuni metalli (parola che forse deriva da un termine greco che significa “cercare”) che si trovavano allo stato libero. Questi erano l’oro e il rame, elementi facili da individuare, fra le grigie rocce, per il loro colore luccicante. Essi, se riscaldati, potevano essere battuti fino a essere ridotti in lamine con bordi taglienti, senza che si spezzassero, cosa che invece avveniva facilmente con la pietra se trattata allo stesso modo.

Questi metalli, come si è detto, erano però rari e quindi per approfittare delle loro caratteristiche l’uomo era costretto a lunghe e noiose ricerche e lavorazioni. Probabilmente per caso, i nostri antenati si accorsero che il rame si poteva ottenere anche riscaldando alcune pietre azzurre o verdastre (l’azzurrite e la malachite di colore verde, sono due minerali del rame) con un fuoco di legna e quindi questo metallo non fu più così raro e poté essere utilizzato per fabbricare utensili di vario genere. Il periodo storico prende pertanto il nome di età del rame. Sempre casualmente, circa 3000 anni prima di Cristo, l’uomo ottenne il bronzo scaldando insieme minerali di rame e di stagno. Nel 2000 a.C. il bronzo era abbastanza diffuso tanto da venire utilizzato su larga scala per foggiare armi e armature. Quel periodo della storia dell’umanità prende infatti il nome di età del bronzo.

Frattanto i nostri antenati vennero a conoscenza di un metallo ancora più duro e resistente del bronzo: il ferro. All’inizio questo elemento era molto scarso perché veniva fornito dalle meteoriti (corpi di provenienza cosmica) che non sono molto frequenti né facilmente distinguibili dalle pietre comuni presenti sul terreno; praticamente non si era ancora scoperto che quello stesso metallo poteva anche essere ricavato dalle rocce.

I minerali del ferro per poter essere trasformati in ferro puro richiedevano una quantità di calore superiore a quello che si poteva ottenere bruciando la legna, ma sostituendo questa con il carbone di legna si riuscì ad estrarre il ferro dai suoi minerali. Questo era però un metallo di qualità scadente che tuttavia migliorava se gli veniva addizionata una piccola quantità di carbonio: la lega ferro-carbonio prende il nome di acciaio. Con il ferro vennero costruite armi e corazze di qualità superiore a quelle di bronzo ed infatti gli eserciti forniti di queste attrezzature prevalsero sugli altri. Siamo così giunti nella cosiddetta età del ferro.

Molte delle tecnologie metallurgiche dell’antichità rimanevano tuttavia legate a pratiche magiche. Nell’antica Siria si era ad esempio scoperto che le spade di acciaio diventavano particolarmente flessibili se, dopo essere state arroventate, venivano fatte passare attraverso il corpo di uno schiavo. La spiegazione magica del fenomeno era che con questa procedura veniva trasferita l’energia vitale dello schiavo nella spada. In seguito si scoprì che lo stesso effetto si otteneva immergendo la spada rovente in una vasca piena d’acqua contenente pelli e corpi di animali morti perché, ciò che causava il miglioramento delle qualità del metallo era l’azoto organico, e non già la vita dello schiavo. Questa procedura cruenta dimostra fra l’altro come la mancanza di conoscenze teoriche abbia prodotto nell’antichità il sacrificio inutile di molti uomini innocenti.

 

LE PRIME IPOTESI

I primi tentativi di rielaborazione teorica delle conoscenze attorno al mondo della natura vennero operate dai pensatori greci del VI secolo avanti Cristo. Questi studiosi che venivano chiamati filosofi(ossia “amanti del sapere”) non si interessavano tanto alla tecnologia o alla possibilità di applicazioni pratiche delle scoperte quanto alla spiegazione delle stesse.

Colui che per primo propose una teoria in grado di giustificare le trasformazioni della materia, fu Talete, un filosofo che visse a cavallo fra il 600 e il 500 avanti Cristo. In realtà, è probabile che prima di lui vi fossero stati altri uomini, in Grecia o in altre parti del mondo, che meditarono sul significato delle trasformazioni della materia ma di essi non abbiamo conoscenze certe.

Le attività di questo famoso filosofo greco (uno dei sette savi del mondo antico) furono quindi guidate da curiosità intellettuale piuttosto che da necessità pratiche. Talete riteneva che tutto ciò che vi era di materiale derivasse da un’unica realtà, che egli aveva individuato nell’acqua. L’idea che alla base di tutto vi fosse l’acqua discendeva dalle stesse proprietà di questo elemento che quando evapora si trasforma in gas e quando gela diventa un solido, e quindi nell’intuizione del pensatore greco presumibilmente esso sarebbe stato in grado di trasformarsi anche in tutte le altre forme con cui si presenta la materia. Qualche interprete più tardo della dottrina di Talete aggiungeva che l’acqua è origine della vita: infatti i semi degli animali e delle piante sono umidi. A ciò si può aggiungere il fatto che il seme della pianta si sviluppa nella terra umida e ci fa assistere ad una progressiva trasformazione dell’acqua nella materia solida che costituisce il fusto dell’albero. In seguito altri filosofi proposero altre sostanze come principio originario dell’Universo: alcuni ad esempio suggerirono l’aria, altri il fuoco.

Alla fine venne trovata una soluzione di compromesso nella sintesi di tutti gli elementi indicati e fu così che, con l’aggiunta della terra, nacque la dottrina dei quattro elementi (fuoco, aria, acqua e terra). In realtà esistevano validi motivi per ritenere che gli elementi stessi fossero interscambiabili: l’acqua ad esempio, come aveva già fatto notare Talete, si trasformava in aria attraverso l’evaporazione e l’aria ridiventava acqua sotto forma di pioggia. Inoltre, riscaldando il legno, questo si trasformava in fuoco, in fumo (una specie di aria scura) e in cenere, cioè in terra, e così via. Pareva quindi possibile produrre una trasformazione qualsiasi: si trattava soltanto di trovare la tecnica adatta.

La teoria dei quattro elementi sostenuta da Empedocle, filosofo greco nato in Sicilia circa nel 490 a.C., fu accettata e diffusa dal più grande dei filosofi greci, Aristotele (384-322 a.C.), il quale ne aggiunse un quinto che chiamò etere (da un termine greco che significa “brillante”). Di questo elemento perfetto, eterno e incorruttibile dovevano essere fatti i corpi celesti mentre le cose terrene erano composte da elementi imperfetti e deteriorabili.

Aria, acqua, terra e fuoco sono concetti primitivi superati dalle nuove scoperte ma se li sostituiamo rispettivamente con gas, liquido, solido ed energia finiamo con l’esprimere concetti moderni perché i gas se vengono raffreddati si convertono in liquidi e se si abbassa ulteriormente la temperatura i liquidi diventano solidi. Inoltre, il concetto di fuoco come elemento fondamentale può essere interpretato come “energia”: causa ed effetto essa stessa delle trasformazioni della materia.

Frattanto veniva discusso un altro problema altrettanto importante: ossia quello relativo alla divisibilità della materia. Due erano le ipotesi che prevalevano in quel periodo: secondo la prima di esse era possibile dividere la materia all’infinito e all’origine dei corpi materiali stava qualche cosa di immateriale, come ad esempio una non meglio specificata “proprietà elementare”; l’altra affermava che era possibile suddividere un corpo materiale solo fino ad un limite finito, cioè fino ad ottenere una particella minuta e non più divisibile ulteriormente. È facile notare come alla base di queste due posizioni vi siano aspetti fortemente spiritualistici nella prima di esse e materialistici nell’altra: si tratta di giudizi tuttora presenti nel pensiero scientifico moderno.

Sembra che il filosofo ionico Leucippo (450 a.C. circa) per primo abbia messo in dubbio il fatto che un pezzetto di materia, per quanto piccolo, potesse essere diviso in parti ancora più piccole. Il suo discepolo Democrito, accettò il ragionamento del maestro e chiamò atomo (parola che in greco significa “indivisibile”) la particella minima della materia. Egli riteneva che gli atomi di ciascun elemento fossero diversi per forma e dimensioni e che proprio questa diversità spiegasse le differenti proprietà dei corpi materiali. Democrito pensava inoltre che gli atomi fossero in grado di muoversi nello spazio vuoto e di aggregarsi in vario modo e quindi ogni sostanza potesse trasformarsi in un’altra modificando la natura e il numero degli atomi che la costituivano. Proprio questa visione disordinata delle cose convinse Dante a riservare nell’Infero un posto a “colui che il mondo a caso pone”.

 

L’ALCHIMIA

Nel II secolo dopo Cristo ha inizio quella diffusione delle scienze occulte che preparerà il terreno favorevole al sorgere e al prosperare dell’alchimia. Durante tutto il Medioevo e soprattutto nel Rinascimento gli alchimisti si dedicarono alla ricerca della pietra filosofale, l’ipotetico reagente capace di trasformare in oro i metalli vili. Oltre alla pietra filosofale la ricerca era indirizzata anche alla preparazione di un liquido, l’elisir di lunga vita, che doveva avere le proprietà di allungare la vita e di guarire le malattie. Obiettivi evidentemente assai lontani dalle possibilità umane, ma così affascinanti da nutrire per secoli il desiderio di ricerca.

Dell’alchimia e degli alchimisti in genere si dà una un’immagine negativa anche perché questa attività, per molti aspetti oscura, appare congiunta con la magia e spesso con la religione mentre in realtà essa accumulò, attraverso una lunghissima serie di errori e di tentativi nel buio, un patrimonio inestimabile di osservazioni e scoperte; tale fatto costituì l’indispensabile premessa alla creazione della chimica sistematica moderna che in un certo senso sta all’alchimia come l’astronomia sta all’astrologia.

L’alchimia sembra aver avuto origine in Egitto dove la conoscenza della chimica era strettamente connessa con l’imbalsamazione dei morti e i riti religiosi. Proprio per il fatto che quest’arte misteriosa appariva intimamente legata alla religione, la gente comune aveva un certo timore e rispetto per le persone che la praticavano, considerandole seguaci di arti segrete e depositarie di conoscenze misteriose. Il convincimento che questi personaggi possedessero poteri superiori finì per accrescere il loro prestigio e forse anche la fiducia in sé stessi.

L’alone di mistero che avvolgeva il lavoro degli alchimisti ebbe due aspetti negativi. In primo luogo esso ritardò il progresso in quanto ciascun ricercatore, non potendo venire a conoscenza del lavoro dei colleghi, non poteva trarre utili insegnamenti dagli errori altrui o approfittare degli esperimenti ben condotti da ricercatori onesti e coscienziosi. In secondo luogo dava a tutti i ciarlatani e agli imbroglioni la possibilità di spacciarsi per studiosi seri purché parlassero in modo abbastanza incomprensibile. (A ben pensarci ancora oggi circolano persone che dicono di essere in grado di far accrescere il poco denaro risparmiato con grandi sacrifici dalla povera gente o di guarire dalle malattie più gravi !)

Lungo i secoli IV e V l’alchimia pare fosse fiorentissima e il suo centro principale era ad Alessandria d’Egitto dove era stato edificato un tempio dedicato alle Muse (il “Museo”) con annessa la più grande biblioteca dei tempi antichi, in cui erano conservati più di 700.000 libri. Con il consolidarsi del cristianesimo la “scienza pagana” cominciò però ad essere considerata con sospetto. Il Museo e la biblioteca di Alessandria subirono gravi danni in seguito a tumulti cristiani che ebbero luogo dopo il Quattrocento e alla fine un incendio mandò a fuoco quasi tutti gli scritti che vi erano custoditi.

Nel Settimo secolo dall’Egitto l’arte alchimistica passò agli Arabi i quali molto la perfezionarono e soprattutto la trasferirono in Occidente. Essi pertanto scoprirono e utilizzarono molti procedimenti ancora oggi in uso come ad esempio la distillazione, la calcinazione e la filtrazione, e produssero anche alcuni composti come il carbonato di sodio, la potassa e il sale di ammonio. Inoltre molte parole usate ed arrivate fino a noi come alambicco, alcol, amalgama, alcalino ed altre ancora derivano dall’arabo.

Passate in Occidente le dottrine alchimistiche si diffusero con grande rapidità e furono coltivate, oltre che dai soliti ciarlatani, anche da uomini di reale valore fra i quali va ricordato il frate inglese Ruggero Bacone (1214-1292) famoso al giorno d’oggi soprattutto per avere chiaramente espresso la convinzione che, per aspirare al progresso, fosse necessario fondarsi sull’esperienza e applicare alla scienza metodi matematici. Aveva ragione, ma i tempi non erano ancora completamente maturi per questo salto di qualità.

I libri che insegnavano quest’arte erano un intreccio di empirismo e misticismo espresso con un linguaggio enigmatico, pieno di allegorie, metafore, allusioni e analogie che lo rendevano per lo più incomprensibile. Ma le pubbliche dimostrazioni degli alchimisti venivano spesso condotte con tanta consumata maestria da ingannare anche gli osservatori più vigili. I meno abili o i più ingenui di questi personaggi, tuttavia, pagarono spesso con la vita il fallimento dei loro esperimenti e le delusioni delle speranze dei loro protettori: le impiccagioni e i roghi furono frequenti particolarmente in Germania, regione assai sensibile al sospetto di stregoneria. Spesso le impiccagioni degli alchimisti bari venivano eseguite su forche dipinte, per l’occasione e al fine di macabro dileggio, con vernice dorata.

Riguardo ai risultati concreti ottenuti dagli alchimisti, cioè alle scoperte che hanno dato un contributo al progresso della chimica, è istruttivo ricordare la definizione che dell’alchimia dette il filosofo e uomo politico inglese Francesco Bacone (1561-1626), il quale paragonava questa pseudoscienza che condusse alla chimica, ossia alla vera scienza, alla favola dell’uomo che rivelò ai figli di aver nascosto l’oro in un luogo non precisato della vigna. I figli si impegnarono a scavare fra le piante senza tuttavia trovare nulla: lavorarono però così bene il terreno da ottenere un’abbondante vendemmia.

 

LA FINE DELL’ ALCHIMIA

Gli alchimisti fecero luce su parecchi elementi e composti: verso il 1300 riuscirono a preparare l’acido solforico, la sostanza più importante impiegata nell’industria chimica moderna. Questo acido, insieme con il nitrico e il cloridrico venne ottenuto partendo dai minerali mentre in precedenza l’unico acido noto era l’acetico, un acido debole che derivava dal mondo vegetale. Scoprirono anche le proprietà di solventi e ossidanti fra cui l’acqua regia (“acqua reale”) miscela di acido nitrico e di acido cloridrico in grado di intaccare anche il re dei metalli, ossia l’oro. Questi sperimentatori ottennero alcuni elementi come l’antimonio, l’arsenico, il bismuto e il fosforo prima sconosciuti. A proposito del fosforo si racconta che questo elemento fu ricavato da un chimico tedesco di nome Hennig Brand (considerato l’ultimo degli alchimisti, e vissuto nella seconda metà del 1600) mentre stava cercando la pietra filosofale che era convinto di poter trovare proprio nell’urina.

Gli alchimisti scoprirono anche molti composti come gli allumi, il borace, l’etere, il minio e svariati composti del piombo, del ferro e dell’argento. Introdussero inoltre nell’uso pratico molte apparecchiature da laboratorio come i crogioli, gli alambicchi e le storte per la distillazione, e operazioni come il riscaldamento a bagnomaria (così detto perché sperimentato da un alchimista che si faceva chiamare Maria l’Ebrea, dal nome della leggendaria sorella di Mosè e di suo fratello maggiore Aronne) e anche rudimentali bilance.

La scoperta degli acidi inorganici peraltro costituì il più importante progresso compiuto dalla chimica dopo le tecniche di estrazione del ferro dal minerale. Per il progresso dell’umanità, l’importanza degli acidi minerali era di gran lunga superiore di quella dell’oro il quale, anche qualora fosse stato ottenuto attraverso la trasmutazione dei metalli vili, avrebbe perso di valore a mano a mano che fosse aumentata la sua produzione. Non così con gli acidi minerali la cui produzione non impressionò molto la gente comune che vedeva nell’oro il proprio arricchimento, ma rappresentò una scoperta fondamentale per il progresso tecnologico. Fino a pochi anni fa infatti la produzione di acido solforico rappresentava l’indice dell’attività dell’industria chimica di un Paese e, insieme a poche altre materie fondamentali, come ad esempio l’acciaio, essa rappresenta tuttora l’indicatore dell’industrializzazione in generale.

Dopo la scoperta fondamentale degli acidi inorganici l’alchimia cominciò a degenerare anche in Europa, come in precedenza era già avvenuto in Grecia e presso gli Arabi. La ricerca dell’oro divenne appannaggio quasi esclusivamente degli imbroglioni anche se vi furono alcuni grandi scienziati che continuarono ad interessarsi delle pratiche alchemiche. Lo stesso Isaac Newton era dedito all’alchimia e si affannava a cercare in tutta l’Europa ricette che gli permettessero di produrre l’oro per trasmutazione.

Il 1543 rappresentò un momento fondamentale per la scienza perché in quell’anno uscirono due libri che ebbero un ruolo determinante per il progresso scientifico. Il primo era stato scritto dall’ecclesiastico e astronomo polacco Niccolò Copernico (1473-1543) il quale, nel suo De revolutionibus orbium coelestium (“Sulla rivoluzione delle orbite celesti”), sosteneva che al centro del mondo conosciuto vi era il Sole e non più la Terra, come avevano insegnato i grandi astronomi greci.

Il secondo libro fu scritto dall’anatomista Andrea Vesalio, nome italianizzato del fiammingo André van Vésale (1514-1564), che lavorò per la maggior parte del tempo a Padova. Nel suo monumentale trattato De humani corporis fabrica Libri septem (“Sulla struttura del corpo umano in sette libri”) egli contestò il modo di insegnare l’anatomia, che consisteva nella ripetizione di ciò che aveva affermato Claudio Galeno (il famoso medico romano vissuto nel II secolo d.C.), senza verificare se le conoscenze corrispondevano effettivamente alla realtà. Per sostenere le sue idee egli eseguì personalmente delle dissezioni di cadaveri umani correggendo molti errori di Galeno. Le tavole anatomiche presenti nel suo libro, eseguite in gran parte da un allievo di Tiziano, sono così belle e precise da venire utilizzate ancora oggi dagli studenti di medicina. Vesalio è considerato il padre dell’anatomia moderna e la sua opera può essere ritenuta rivoluzionaria quanto lo fu quella di Copernico.

Il simultaneo rovesciamento dell’astronomia e della biologia greca segnò l’inizio della rivoluzione scientifica che coinvolse anche il mondo dell’alchimia la quale, da questo momento, si avviò a trasformarsi in quella che sarà la nuova e feconda scienza: la chimica. Tuttavia per tre o quattro secoli ancora le due dottrine, alchimia e chimica, continuarono ad incrociarsi ma mentre l’alchimia cadrà sempre più nel dominio della magia, la chimica diventerà oggetto di appassionato studio da parte dei dotti.

Tipici rappresentanti del trapasso furono due medici: l’uno tedesco di nome Georg Bauer più noto come Agricola (che in latino, al pari di Bauer in tedesco, significa contadino) e l’altro svizzero di nome Theopharastus Bombastus von Hohenheim più conosciuto come Paracelso, un soprannome che si era scelto personalmente e che significa “migliore di Celso” (ovvero di uno scrittore romano di testi di medicina vissuto nel I secolo dopo Cristo).

Agricola si interessò di mineralogia cercando di individuare i possibili rapporti fra questa scienza e la medicina e in realtà il suo libro, De re metallica libri XII (“Sulla metallurgia in dodici libri”), è un ottimo trattato di mineralogia e di lavori metallurgici che ancora oggi non sfigurerebbe fra i classici della scienza.

Paracelso, curiosa sintesi di genio e follia, affermava che gli obiettivi fondamentali dell’alchimia non dovevano essere la scoperta di tecniche della trasmutazione dei metalli ma la preparazione di medicine in grado di curare le malattie. Egli sosteneva che “ogni corpo consta di tre cose: zolfo, mercurio e sale.” Ciò che brucia è zolfo, ciò che va in fumo è mercurio e ciò che si riduce in cenere è sale. Questi tre principi sono presenti nella materia in determinati rapporti e vengono continuamente consumati e sostituiti attraverso una serie di procedure complesse controllate da una forza vitale che egli chiamava archeus. I seguaci di Paracelso tentarono poi di mettere questi tre principi in relazione con i quattro elementi aristotelici (terra acqua, aria e fuoco). Infine, per curare le malattie, egli pensava che quelli che nei tempi andati erano stati i vegetali, ora dovevano essere sostituiti dai minerali.

 

LA NASCITA DELLA CHIMICA

Nonostante i progressi che gli alchimisti avevano ottenuto con la scoperta di prodotti chimici e tecniche di lavorazione originali a ciò che definiamo la “chimica” mancava tuttavia, perché essa fosse considerata vera scienza, il passaggio dalla semplice descrizione qualitativa all’accurata misurazione quantitativa del fenomeno.

In verità, già ai tempi di Galileo si era avvertita una tendenza della chimica a costituirsi a disciplina autonoma, affrancata dalla medievale servitù dell’alchimia e differenziata dalla medicina e dalle cosiddette scienze naturali (anatomia, botanica, zoologia, ecc.). Più lento e meno netto, come vedremo, fu il distacco dalla fisica. Del resto ancora oggi in molti ritengono che la chimica costituisca una branca della fisica e in effetti l’insegnamento di questa disciplina richiede che vengano impartite preliminarmente alcune basilari nozioni di fisica.

Gli esperimenti di Galileo sulla caduta dei gravi che dimostravano come i corpi cadano con velocità indipendente dal loro peso, al contrario di quanto sosteneva Aristotele (per il quale la velocità di caduta dei gravi era direttamente proporzionale al loro peso) provarono che il grande filosofo di Stagira era soggetto a sbagliare come un comune mortale. Gli esperimenti galileiani mettevano infatti in luce che il primo atto della ricerca della verità stava nell’osservazione dei fatti che si vogliono studiare, e che l’osservazione medesima si concretizza nella esecuzione di misure quantitative delle grandezze interessate al fenomeno.

Frattanto in tutto il mondo occidentale si era verificata una serie di avvenimenti veramente eccezionale che avrebbe cambiato il modo di pensare e di agire dell’umanità. La scoperta dell’America, la rivoluzione copernicana, l’invenzione della stampa (che consentiva di produrre libri a buon mercato e in gran quantità), l’inizio della rivoluzione industriale e la Riforma protestante furono tutti eventi che in un modo o nell’altro contribuirono a mettere in discussione l’interpretazione delle opere di Aristotele fatta dai suoi seguaci per spiegare i fenomeni naturali. Una delle conseguenze più importanti di questa “crisi del sapere” è stato il riconoscimento del metodo sperimentale come l’unico in grado di assicurare una conoscenza della natura che abbia i caratteri del rigore scientifico e della universalità.

Il risultato di questa svolta decisiva nell’atteggiamento intellettuale dello studioso è il raggiungimento della convinzione che le scienze possono essere qualificate come tali solo quando, e solo se, utilizzano come metodo per arrivare alla conoscenza quello sperimentale. E fra le scienze avrà modo di affermarsi, acquisendo sempre maggiore autonomia, vigore e potenza, anche la chimica.

Alcuni fanno nascere la chimica moderna con l’irlandese Robert Boyle (1627-1691), che nel 1661 scrisse un’opera dal titolo The Sceptical Chymist (il “chimista” scettico) con la quale invitava i ricercatori a non accettare ciecamente le antiche conclusioni che erano state raggiunte con ragionamenti basati su premesse arbitrarie e quindi li invitava a fidarsi solo delle proprie osservazioni e dei propri esperimenti; nello stesso tempo attaccava gli alchimisti per il loro modo di scrivere volutamente involuto e poco comprensibile.

Contestualmente alle riserve mosse agli alchimisti per il loro modo di esprimersi, egli inviava una lettera al governo del suo Paese per ottenere la revoca delle leggi contro la produzione alchimistica dell’oro che erano state emanate dal Parlamento di quel Paese nel 1400. Nella missiva il grande scienziato irlandese spiegava che non si doveva ostacolare l’avanzare delle conoscenze umane e la ricerca di nuovi e più sicuri elementi, anche se diversi da quelli aristotelici.

Boyle in verità per primo nel mondo scientifico formulò una definizione precisa di elemento chimico che esprimeva nei seguenti termini: “Io intendo per elementi certi corpi primitivi e semplici, che costituiscono gli ingredienti di cui sono fatti tutti gli altri corpi chiamati composti, e nei quali questi ultimi possono essere risolti”. Tale definizione è valida ancora oggi: si tratta solo di sostituire la parola “corpi” con “sostanze”. I corpi infatti sono oggetti materiali dotati di massa, forma e dimensioni mentre sostanza è la materia che costituisce detti corpi (ad esempio un bastone di legno è un corpo, il legno di cui è costituito il bastone è una sostanza).

In termini più espliciti ed attuali il chimico irlandese affermava che composti sono le sostanze che si possono scomporre in sostanze più semplici, mentre elementi sono sostanze che non si possono ulteriormente scomporre. Il gesso, ad esempio, è un minerale di formula chimica CaSO4 che si può scomporre in calcio (Ca), zolfo (S) ed ossigeno (O), tutti elementi questi ultimi che in realtà Boyle non conosceva, come ovviamente non conosceva nemmeno la formula chimica del composto. Oggi sappiamo che il gesso è un composto mentre calcio, zolfo e ossigeno sono elementi.

Il semplice fatto che Boyle fosse favorevole al metodo sperimentale nella definizione degli elementi non significa che egli sapesse quali erano i vari elementi. In verità Boyle non aveva individuato nemmeno un elemento ed anzi pensava che i metalli non fossero elementi e per tale motivo riteneva che questi corpi potessero trasformarsi gli uni negli altri come auspicavano gli alchimisti. Per quanto lo riguardava egli non escludeva che il metodo sperimentale dimostrasse che i quattro elementi dei Greci (fuoco, aria, acqua e terra) fossero effettivamente degli elementi semplici.

 

LE MISURE

Per il salto definitivo nel mondo della scienza mancava ancora l’applicazione, alla ricerca chimica, delle misure quantitative nonché quella delle tecniche matematiche. Verso le fine del 1600 nacque, ad opera del medico e chimico tedesco Georg Ernest Stahl (1660-1734), la teoria del flogisto (da un verbo greco che significa “bruciare” o “infiammare”) secondo la quale tutte le sostanze coinvolte nella combustione, liberano una sostanza che è appunto il flogisto. Le sostanze combustibili, affermava Stahl, sono ricche di flogisto e il processo di combustione determinava la cessione di questo non meglio specificato elemento all’aria la quale lo trasferiva ad altri corpi che quindi diventavano a loro volta combustibili. Ciò che rimaneva dopo la combustione era privo di flogisto e quindi non bruciava più. Il flogisto, per fare un esempio, era presente nella legna, ma non nella cenere.

Stahl sosteneva inoltre che, nei metalli, la formazione della ruggine era un fenomeno simile alla combustione del legno e quindi anche i metalli contenevano flogisto mentre le rispettive ruggini ne erano prive. Oggi la trasformazione del metallo in ruggine per riscaldamento si chiama calcinazione e corrisponde ad una ossidazione.

I processi di combustione (a cui si può assimilare la respirazione) e quelli di calcinazione sono simili nella forma ma non nella sostanza. Infatti essi portano a risultati ponderali opposti perché il prodotto della combustione (la cenere) è più leggero del combustibile (il legno) mentre la calce (l’ossido) è più pesante del metallo.

Ora, nel caso della calcinazione, anziché dare al fenomeno la spiegazione più logica (ossia quella che con il riscaldamento all’aria vi era qualcosa che entrava nel metallo) i sostenitori della teoria di Stahl affermavano che in questo caso il flogisto aveva peso negativo così che quando usciva dal metallo, e si formava la calce, questa pesava di più del metallo di partenza.

La soluzione del paradosso fu trovata dal grande chimico Antoine Laurent Lavoisier il quale nacque a Parigi nel 1743 da una ricca famiglia della borghesia francese. Dopo aver compiuto studi classici nel Collegio delle Quattro Nazioni di Parigi, si laureò in legge senza però mai trascurare lo studio delle scienze naturali. Alla morte della madre ereditò una notevole somma di denaro che investì nella Ferme Générale, un’organizzazione di finanzieri che aveva in appalto la riscossione delle imposte indirette. Lavoisier purtroppo visse in un’epoca di profondi sconvolgimenti sociali ed economici, dai quali gli scienziati non furono di certo immuni.

Nel 1793, soppressa l’Académie Royale des Sciences di cui faceva parte, Lavoisier fu arrestato dal governo rivoluzionario, insieme con tutti i membri della Ferme Générale e ghigliottinato l’anno successivo. A chi tentava di ottenergli la grazia fu risposto, con un’ottusità valida ancora oggi in tante parti del mondo e purtroppo anche nel nostro Paese, che “ la Repubblica non ha bisogno di scienziati”. “Pochi istanti – commentò il matematico italiano Giuseppe Luigi Lagrange – sono bastati a far cadere quella testa, e non basterà forse un secolo a riprodurne una simile”. Noi italiani naturalmente non tagliamo la testa a nessuno ma qualora uno scienziato decidesse di andare a lavorare all’estero certo non facciamo nulla per trattenerlo.

Gli esperimenti di calcinazione pertanto furono condotti da Lavoisier con il riscaldamento del mercurio in presenza di aria ed essi davano, come prodotto, la calce di mercurio, ossia l’ossido. Le misure ponderali molto precise dimostravano che il metallo aumentava di peso e l’aumento corrispondeva esattamente alla diminuzione in peso dell’aria che aveva partecipato alla reazione. Viceversa, riscaldando la calce di mercurio ad una temperatura un po’ superiore a quella utilizzata nella operazione contraria, si ripristinava il metallo e si liberava una quantità di aria esattamente uguale a quella che si era consumata nella calcinazione. In questo modo Lavoisier pervenne alla formulazione della legge della conservazione della massa la quale con parole semplici afferma che “in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”.

Inoltre, dopo aver passato in rassegna tutti i fenomeni che comportano assorbimento e fissazione di aria (combustione, calcinazione e respirazione) Lavoisier poté dimostrare che nell’aria è presente un elemento particolare cui fu dato il nome di ossigeno (parola che in greco significa “generatore di acidi” perché si pensava, sbagliando, che fosse presente in tutti gli acidi) mentre ciò che rimaneva dopo che dall’aria era stato sottratto l’ossigeno venne chiamato azoto (parola che in greco significa “senza vita” perché gli animali posti in un ambiente saturo di quel gas morivano e le candele accese si spegnevano).

Prof. Antonio Vecchia

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