La tettonica a placche

I PRECURSORI DI WEGENER

Quando si sono formati i continenti? Esistono da sempre? Nei miliardi di anni di storia della Terra hanno subito modificazioni o si sono conservati sempre simili a quelli originari? L’ipotesi della deriva dei continenti viene giustamente attribuita ad Alfred Wegener, ma egli non fu il primo ad ipotizzare che il mondo non è sempre stato così come oggi lo si vede.

I grandi viaggi di esplorazione del XVI secolo avevano consentito il disegno delle prime rudimentali carte geografiche del mondo su cui saltò subito all’occhio la strana concordanza del profilo costiero dell’Africa e del Sud America che si affacciano sull’Atlantico. Già nel lontano 1620 il filosofo e saggista inglese Francesco Bacone nel suo trattato Novum Organum, in riferimento a questa osservazione, pur ammettendo che la circostanza non poteva essere “un fatto del tutto casuale”, tuttavia non faceva cenno ad una eventuale separazione fra Africa e America Meridionale.

Alcuni anni più tardi il moralista francese François Placet avanzava l’ipotesi che anticamente Vecchio e Nuovo Continente fossero uniti e che il Diluvio Universale li avesse separati. All’inizio dell’Ottocento l’esploratore tedesco Alexander von Humboldt si dimostrò sorpreso della corrispondenza esistente fra la parte orientale dell’America Meridionale e le coste occidentali dell’Africa che andava molto al di là della similitudine del loro profilo comprendendo anche una spiccata somiglianza fra gli strati geologici e congetturò che l’Atlantico altro non fosse che un’immensa valle scavata dal mare.

La prima chiara indicazione dello smembramento e della deriva dei continenti venne da un certo Antonio Snider-Pellegrini, un italo-americano che viveva a Parigi, il quale nel 1858 pubblicò un libro in cui, accettando l’ipotesi che anticamente il nostro pianeta fosse allo stato fuso, sosteneva che con il raffreddamento i continenti si erano addensati tutti da una parte e che il Diluvio Universale smembrò questo unico blocco di terra determinando lo spostamento successivo dei suoi frammenti. La sua intuizione, corretta, non venne però presa in considerazione dalla comunità scientifica anche perché proprio in quegli anni si andavano affermando le teorie evoluzionistiche di Hutton e Lyell e nessuno era più disposto ad accettare l’antica idea dei catastrofismi di origine biblica.

James Hutton, medico e naturalista scozzese, vissuto nella prima metà dell’Ottocento, viene considerato il fondatore della geologia moderna. Partendo dall’osservazione attenta delle formazioni rocciose della sua Scozia dedusse che la Terra era in continua trasformazione per l’erosione e il disfacimento di alcune zone e l’accumulo di materiali erosi su altre parti del globo e questi fenomeni dovevano durare da tempi immemorabili. L’evoluzione della Terra non poteva quindi essere spiegata mercé l’utilizzazione di forze che non fossero connaturali al pianeta o con l’intervento di avvenimenti eccezionali, ma semplicemente con l’analisi dei processi naturali come quello dei ruscelli che dilavano le colline e trasportano il materiale eroso nei laghi e nel mare dove i detriti si vanno accumulando. Da queste osservazioni dedusse che a lungo andare non sarebbe rimasta più terra a meno che nuove formazioni rocciose non si fossero create in sostituzione di quelle erose.

Le idee di una sostanziale uniformità della natura non trovarono immediata accoglienza in seno alla comunità scientifica ma vennero riprese da un giovane avvocato inglese, Charles Lyell, il quale fin da studente dimostrò più interesse per la geologia che per i testi giuridici. L’indebolimento della vista che gli rendeva difficile la lettura lo spinse a dedicare sempre più tempo alla geologia che studiava recandosi direttamente ad osservare i fenomeni naturali. Come Hutton egli pensava che ogni configurazione morfologica della Terra fosse il risultato di processi naturali del passato, ma ancora attivi. Per cercare sostegno e convalida delle sue teorie viaggiò molto e durante il suo lungo peregrinare fu particolarmente affascinato dall’Etna che osservò attentamente e a lungo fino a convincersi che quel monte non poteva essersi formato in seguito ad un’unica esplosione, ma grazie ad una lunga serie di eruzioni che sarebbe continuata anche in futuro. La teoria dell’uniformismo di Hutton divenne così la teoria dell’attualismo di Lyell che può essere sintetizzata nel modo seguente: “I fenomeni del passato si possono spiegare osservando quelli del presente”.

Nonostante che nuove idee si stessero affermando l’ipotesi di uno spostamento di masse continentali associata a fenomeni catastrofici persisteva. Nel 1879 George Darwin, il figlio dello scopritore della teoria evoluzionistica, ipotizzò che la Luna si sarebbe originata dalla Terra quando questa era ancora in uno stato primordiale e che si sarebbe lasciata dietro un’enorme cicatrice rappresentata dall’Oceano Pacifico. Una probabile conseguenza di questo evento catastrofico avrebbe potuto essere il frammentarsi della crosta granitica dei continenti.

Frattanto, insieme a nuove teorie, si andava anche affermando l’idea che sotto la crosta solida vi fosse del materiale fluido sul quale galleggiavano i continenti. Su queste idee innovative si sviluppò l’ipotesi di Wegener.

 

WEGENER, UN UOMO ESUBERANTE

Alfred Lothar Wegener nacque a Berlino il 1° novembre nel 1880, ultimo di cinque figli di un pastore protestante. Da adolescente egli aveva manifestato un grande interesse per le scienze della Terra unito al desiderio di visitare la Groenlandia: un luogo dove si stavano svolgendo gli studi più avanzati di geofisica. Durante gli anni della scuola, convinto che un giorno avrebbe coronato il suo sogno di visitare quei luoghi freddi e inospitali, si sottoponeva ad esercizi fisici molto intensi che praticava soprattutto nella stagione invernale al fine di adattare il suo fisico ai rigori di una terra che, nonostante il nome (Groenlandia vuol dire “terra verde”), è permanentemente coperta di ghiaccio.

Si laureò nel 1904 in astronomia e meteorologia presso l’Università di Berlino discutendo una tesi sulla storia e sull’uso delle Tavole Alfonsine, la famosa raccolta dei moti dei pianeti, compilata a Toledo da astronomi di varia provenienza e cultura mentre regnava Alfonso X di Castiglia.

All’inizio del XX secolo la meteorologia muoveva i suoi primi passi avvantaggiata dai rapidi progressi delle tecniche di comunicazione e dalle escursioni con i palloni aerostatici che davano un contributo diretto alle conoscenze dell’alta atmosfera. Il giovane Wegener, che aveva spiccatissimo il gusto dell’avventura, fra l’altro dilagante a quei tempi fra i suoi coetanei, dopo la laurea si dedicò all’approfondimento di quella materia e divenne ben presto un pioniere dell’uso dei palloni sonda. In quegli anni, con il fratello Kurt conquistò anche il record di permanenza nello spazio con 52 ore di volo ininterrotto in aerostato.

Aveva terminato gli studi da appena un paio d’anni quando gli si presentò l’occasione di realizzare il sogno della fanciullezza: esplorare la Groenlandia; accettò quindi con entusiasmo di partecipare ad una spedizione danese come meteorologo ufficiale e per due anni rimase in quella terra in parte ancora inesplorata effettuando una serie di misurazioni dell’atmosfera e di osservazioni lunari per il calcolo della longitudine, la quale differiva da analoghe misurazioni effettuate in precedenza; questa scoperta gli sarà utile in seguito.

Tornato in Germania nel 1908 ebbe l’incarico di libero docente di astronomia e meteorologia presso l’Università di Marburgo dove si segnalò per la sincerità intellettuale e le larghe vedute unite ad una grande chiarezza espositiva. La sua forte personalità e la semplicità nei rapporti con i giovani gli valse a conquistarsi la simpatia e la fiducia dei suoi studenti.

Nel 1912 intraprese una seconda spedizione in Groenlandia, che si rivelò alquanto pericolosa, durante la quale rimase isolato per un anno. Di ritorno da quella esperienza negativa sposò la figlia del professor Wladimir Köppen, il “grande vecchio della meteorologia” che in seguito si rivelerà il più convinto sostenitore delle teorie del genero. Appena concluso il servizio militare, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, venne richiamato con il grado di ufficiale della riserva e spedito al fronte; una leggera ferita ad un braccio e poi una più seria al collo, gli consentirono il ritorno a casa e ai suoi interessi scientifici. Nel 1924 accettò una cattedra di meteorologia e geofisica, espressamente creata per lui, a Graz, in Austria. Nel 1930 partecipò ad una terza spedizione in Groenlandia che ebbe esito drammatico e si concluse con la sua scomparsa fra i ghiacci e la conseguente morte, avvenuta probabilmente a causa di un infarto. Egli allora aveva appena festeggiato, con i compagni di spedizione, i suoi cinquant’anni.

 

LA TERRA PRIMA DI WEGENER

Prima di parlare della teoria rivoluzionaria di questo meteorologo di professione e geologo per passione è opportuno spendere due parole per delineare il modello della struttura della Terra a quel tempo universalmente accettato. Questo nasce dalla convinzione che il nostro pianeta sia stato soggetto ad un processo di lento e graduale raffreddamento e conseguente contrazione a partire da una massa fusa. La Terra sarebbe quindi nata calda, anzi rovente, e durante il raffreddamento i materiali più leggeri si sarebbero spostati verso la superficie dove avrebbero dato origine a rocce che Eduard Suess, un geologo austriaco che fu uno dei maggiori sostenitori di questa idea, complessivamente chiamò sial perché ricche di silicati di alluminio nonché di altri elementi leggeri come sodio e potassio. Queste rocce, prevalentemente di tipo granitico, con i sedimenti ad esse associati, poggiavano su materiali di tipo basaltico che Suess, sinteticamente, chiamò sima, cioè silicati di magnesio e unitamente ad essi altri elementi pesanti come ferro e calcio. Le catene montuose e le depressioni si sarebbero quindi formate per contrazione susseguente al raffreddamento della parte interna che, a mano a mano che si ritirava, costringeva la crosta superficiale ad adattarsi all’area sottostante rimpicciolita fratturandosi e corrugandosi in modo simile a quello che succede alla buccia di una mela che si disidrata e raggrinzisce.

Lo strato più esterno della crosta terrestre, quello sialico, non è continuo e i continenti possono essere considerati come enormi zattere di roccia leggera galleggianti su uno strato continuo di basalto, più pesante, che si estende a formare anche il pavimento dei fondi oceanici. Questo strato sottostante alla crosta continentale è anch’esso solido, ma si comporta come tale solo di fronte a improvvise sollecitazioni (per esempio scosse sismiche), mentre si comporta come un corpo plastico di fronte a forze meno intense ma più persistenti. Per descrivere le caratteristiche di questo materiale di solito si usa l’analogia con una sbarretta di ceralacca che si frantuma sotto i colpi di un martello, ma quando viene poggiata a sbalzo, fra due sostegni, in modo che su di essa agisca in continuità la forza di gravità dopo qualche tempo appare stabilmente incurvata sotto l’azione del proprio peso.

La crosta solida e leggera che forma i continenti viene perciò a trovarsi in uno stato di equilibrio di gravità sul sima plastico sottostante, in cui le altezze dei diversi settori variano inversamente alla densità delle rocce che le formano. Il fenomeno è spiegato dal famoso principio di Archimede in virtù del quale la forza di sollevamento esercitata da un fluido (spinta idrostatica) è equivalente al peso della quantità di fluido spostata dal corpo galleggiante. Il termine scientifico per indicare questo fenomeno di galleggiamento dei continenti sul materiale plastico sottostante è “isostasia” (dal greco isos = uguale e stasis = stare, quindi “uguale posizione” o equilibrio) e consiste in un movimento verticale della crosta sialica in risposta ad un aumento o a una diminuzione del carico sovrastante. Una buona analogia con l’equilibrio isostatico della crosta continentale è offerto dal ghiaccio che galleggia nei mari polari. In questa similitudine i continenti sono rappresentati da estese masse di ghiaccio tabulari e le montagne da iceberg, mentre il basalto plastico sottostante corrisponde all’acqua marina più densa rispetto al ghiaccio. Il ghiaccio che galleggia, come si sa, è sommerso per nove decimi e quanto più esso si innalza sul livello del mare tanto maggiore è la parte sommersa; allo stesso modo la parte inferiore di una zona continentale si espande verso il basso nel substrato basaltico a profondità che sono proporzionali alle altezze dei rilievi.

La scoperta del galleggiamento della crosta terrestre sul sima sottostante venne fatta verso la metà del 1800 quando misure della gravità indicavano che l’Himalaya esercitava un’attrazione gravitazionale molto inferiore a quella che ci si sarebbe aspettati a giudicare dalle sue dimensioni. “Era come se l’interno di quei monti fosse vuoto” fu il commento di George Everest la guida inglese che poi dette il nome alla cima più alta del mondo. Se l’Himalaya fosse semplicemente un ammasso di rocce poggiate sul substrato più pesante il valore della gravità avrebbe dovuto essere più alto di quello osservato. Se così non era voleva dire che esisteva qualche cosa di più leggero del substrato che compensava la massa della montagna. George Airy, un astronomo inglese, spiegò quella anomalia con l’ipotesi che le montagne, fatte di rocce leggere, avevano radici profonde che si spingevano nel materiale sottostante più pesante finché la spinta idrostatica non avesse uguagliato la massa della parte emersa. Quelle radici avevano densità minore rispetto al materiale circostante e quindi compensavano abbondantemente l’eccesso di massa della parte visibile della catena montuosa.

L’equilibrio, come abbiamo detto, non è definitivo. L’ammassarsi di grandi quantità di materiale roccioso sopra qualche regione della crosta terrestre o viceversa la rimozione di grandi masse da queste regioni disturba l’equilibrio e le zone liberate dal peso tendono a salire mentre la pianura sovraccaricata di sedimenti tende ad abbassarsi. Il sollevamento postglaciale della penisola scandinava, in atto da alcune migliaia di anni, è una prova evidente dell’innalzamento isostatico conseguente all’alleggerimento di quella regione per la fusione del ghiaccio sovrastante.

 

LA TEORIA DI WEGENER

Se i continenti potevano muoversi in senso verticale – pensò Wegener – potevano anche spostarsi di lato. Si racconta che la prima idea della deriva dei continenti gli venne osservando le lastre di ghiaccio galleggianti sul mare che si spezzavano allontanandosi le une dalle altre, ma questo racconto non trova conferma negli scritti dell’autore. Egli invece racconta di aver letto dell’esistenza di un antico collegamento fra Brasile e Africa che avrebbe dovuto spiegare la somiglianza di alcuni reperti paleontologici raccolti sulle due sponde. Il collegamento fra Africa e America meridionale si poteva ottenere in due soli modi: attraverso un ponte di terra poi sprofondato o attraverso il contatto diretto che poi sarebbe cessato per l’aprirsi di una profonda frattura fra i continenti.

Ai tempi di Wegener la prima ipotesi era la più diffusa e non si trattava affatto di una ipotesi ridicola: in tempi non molto lontani anche fra Francia ed Inghilterra vi era una striscia di terra che avrebbe potuto essere percorsa a piedi e la stessa Siberia era collegata all’Alaska da un tratto di terra emersa. Ma in questo caso il collegamento non poteva consistere in una stretta lingua di terra lunga migliaia di kilometri: la larghezza, infatti, avrebbe dovuto essere dello stesso ordine di grandezza della lunghezza, quindi avrebbe dovuto trattarsi di un vero e proprio continente. Ma le rocce che costituiscono i continenti sono del tutto diverse da quelle che formano i fondi oceanici e l’ipotesi che dovevano essere esistiti altri continenti, là dove ora si trovano gli oceani profondi, si scontrava con il modello dell’isostasia perché un continente formato di materiale leggero non poteva sprofondare nel materiale più pesante su cui galleggiava; se poi qualche forza misteriosa lo avesse spinto in giù esso avrebbe dovuto riemergere, come un pezzo di legno immerso nell’acqua torna a galla appena lo si libera.

L’idea di un continente sprofondato traeva origine dal mito di Atlantide, la terra piena di favolose ricchezze citata da Platone, ma il mito di Atlantide è un’assurdità geologica e la leggenda del continente scomparso probabilmente si spiega con l’eruzione vulcanica di enormi proporzioni che 1.500 anni prima di Cristo demolì l’isola greca di Santorini provocando un’onda di maremoto che si abbatté su Creta e distrusse la fiorente civiltà minoica. Scartata l’idea di un collegamento terrestre non rimaneva che prendere in considerazione la seconda ipotesi.

Wegener, anziché riferirsi direttamente ai profili complementari delle coste del vecchio e nuovo mondo, per convalidare la sua ipotesi mosse dal presupposto che il modello di una Terra calda in via di contrazione presentava molti punti deboli. Innanzitutto non veniva chiarito il motivo per il quale le rughe, ossia le catene montuose, non sono distribuite uniformemente su tutto il pianeta (come avrebbero fatto le grinze di una mela secca) ma vengono limitate a fasce ristrette. Poi c’era il problema dell’età delle montagne le quali, se si fossero formate in seguito ad una Terra in via di raffreddamento e contrazione avrebbero dovuto essere tutte più o meno coeve, mentre i fossili e le recenti tecniche di datazione attraverso l’uranio radioattivo mettono in luce che ad esempio gli Appalachi sono molto più antichi delle Montagne Rocciose e i monti del nord Europa lo sono assai più rispetto alle Alpi.

Un altro motivo di contraddizione era la recente scoperta sulle Alpi delle cosiddette falde di ricoprimento, ossia di enormi masse rocciose che apparivano sovrascorse su materiali geologicamente più recenti. L’esistenza di queste enormi coltri di ricoprimento poteva essere spiegata in modo più chiaro e convincente invocando titaniche spinte laterali piuttosto che un raggrinzimento generale della Terra. Infine la scoperta dei materiali radioattivi che sprigionavano calore sufficiente a compensare la perdita termica nello spazio per irraggiamento, dimostrava che la Terra non si stava affatto raffreddando.

Wegener suppose quindi che all’inizio del Mesozoico, ossia circa 200 milioni di anni fa, esistesse un supercontinente che egli chiamò Pangea (cioè tuttoterra) circondato da un unico grande oceano chiamato Panthalassa (cioè tuttomare). Per effetto di forze dovute alla rotazione terrestre il supercontinente in seguito si sarebbe fratturato e i frammenti si sarebbero allontanati gli uni dagli altri. Lo studioso naturalmente portava a sostegno della sua idea molte prove che non si limitavano al profilo dei continenti che si affacciano sull’Atlantico: esse infatti erano di tipo paleontologico, morfologico, geologico e climatologico.

 

LE PROVE A SOSTEGNO DELLA TEORIA

L’argomento paleontologico viene considerato uno dei punti forti della teoria. I continenti meridionali, ora separati dall’Oceano Atlantico, hanno in comune molti fossili di animali e piante che da vivi non avrebbero potuto attraversare quel tratto di mare. Oggi sui due continenti vivono animali e piante con caratteristiche diverse perché le mutate condizioni ambientali hanno sviluppato in essi nuove strutture che li mettono in grado di sopravvivere in un ambiente modificato. La spiegazione del ponte continentale naturalmente non convinceva il giovane assistente universitario anche perché le misure che avrebbero dovuto indicare dei deficit gravitativi sugli oceani non esistevano. Si conosceva in verità un lungo rilievo sottomarino, la dorsale medio-atlantica, che secondo Wegener era un accumulo di detriti lasciati dai continenti nel loro tragitto attraverso l’oceano, ma era fatto di materiale pesante e poi correva parallelamente e non perpendicolarmente alle coste.

Wegener dava molta importanza ad un piccolo rettile fossile, il Mesosaurus, vissuto alla fine del Paleozoico e ritrovato solo in Brasile e Sud Africa: a suo avviso era estremamente improbabile che il Mesosaurus si fosse sviluppato contemporaneamente in queste due zone così distanti, e soltanto in esse, mentre era molto più probabile che il rettile fosse comparso in un’unica località che successivamente si sarebbe bipartita. Vi era inoltre la cosiddetta flora a Glossopteris, anche quella rigogliosa nello stesso periodo e diffusa soltanto nei continenti meridionali e in India, cioè in quel blocco di continenti antichi che Suess chiamò Terra di Gondwana dal nome di una regione dell’India centro-orientale dove per primi furono rinvenuti i fossili comuni a tutta la parte meridionale del globo.

Gli argomenti morfologici e geologici riguardavano l’evidente somiglianza delle rocce sui due lati dell’Atlantico, il che faceva pensare ad una loro contiguità nel passato. Peraltro non solo il tipo di rocce, ma anche i ripiegamenti combaciavano e Wegener sapeva che le catene montuose più antiche dell’Europa avevano il corrispettivo diretto in quelle della parte orientale dell’America del Nord: i due tronconi formavano evidentemente in origine una catena continua spezzatasi soltanto quando si aprì l’Atlantico. Per chiarire il concetto egli portava ad esempio la ricomposizione del giornale stracciato la quale non doveva limitarsi a far combaciare i profili dei frammenti, ma doveva preoccuparsi di far coincidere anche le righe stampate in modo da permettere la lettura di frasi di senso compiuto. Poi c’erano le misurazioni eseguite personalmente dallo scienziato in Groenlandia le quali dimostravano che quella terra si stava allontanando dall’Europa ad una velocità compresa fra i 20 e i 30 centimetri all’anno. Oggi si sa che quello spostamento effettivamente esiste, ma è molto minore.

Vi era infine l’argomento paleoclimatico che si basava su una tipica distribuzione di rocce e fossili la quale non si sarebbe potuta giustificare se i continenti avessero mantenuta invariata la loro posizione nel tempo. Ad esempio le tilliti, che sono dei ciottoli originati dalla fusione di coltri di ghiaccio, le quali si trovano attualmente in continenti meridionali a clima caldo e depositi di salgemma ossia di un minerale che precipita dalla soluzione in condizioni di grande caldo e aridità si rinvengono altresì in zone con condizioni climatiche opposte, come ad esempio in quella di Salisburgo (il “borgo del sale”). Wegener aveva anche scoperto che le Isole Spitsbergen, attualmente sepolte sotto i ghiacci perenni, conservavano nelle rocce fossili di pioppi, faggi, querce ed altre piante che testimoniano di un clima temperato e, più in profondità, egli rinvenne anche fossili di felci e palme. Si doveva quindi ritenere che quelle isole si fossero spostate dai tropici sino alle zone polari da esse occupate attualmente.

Il punto debole della teoria, un fatto di cui Wegener era consapevole, riguardava le forze motrici: pur ammettendo che la soluzione era ancora lontana, ciò non di meno azzardava alcune supposizioni parlando di fuga dai poli per spiegare il movimento dei continenti verso l’equatore e di una forza di marea per giustificare la deriva verso ovest dei continenti americani. La forza centrifuga conseguente alla rotazione terrestre avrebbe dovuto fare allontanare i continenti dal centro di rotazione cioè dai poli e l’attrazione gravitazionale esercitata da Sole e Luna, che causa il flusso e il riflusso delle maree, avrebbe dovuto spingere i continenti dalla parte opposta al senso di rotazione. Secondo Wegener il fronte di un continente in movimento prima o poi avrebbe incontrato la resistenza del fondo dell’oceano subendo una compressione e un ripiegamento fino a formare catene montuose. Le due Americhe, andando alla deriva verso ovest, originarono sulle loro coste occidentali le imponenti catene delle Montagne Rocciose e delle Ande lasciando indietro, dalla parte opposta, alcuni frammenti rappresentati dagli arcipelaghi giapponesi, filippini, delle Antille e delle isole Aleutine. I corrugamenti tettonici che vanno dall’Africa settentrionale attraverso le Alpi e il Caucaso fino all’Himalaya si sarebbero invece formati in seguito alla discesa delle masse continentali verso l’equatore.

 

LE CRITICHE ALLA TEORIA

La quasi totalità dei geologi si scagliò con furia selvaggia contro il meteorologo tedesco bocciando senza mezzi termini la sua teoria. Wegener venne accusato di allungare, distorcere e ripiegare i profili dei continenti nel tentativo poco onesto di farli combaciare. Se si distorcono le forme dei pezzi di un incastro – affermò indignato uno dei tanti detrattori – è facile poi farli combaciare, ma con ciò non si dimostra affatto che i pezzi siano stati disposti nella posizione giusta.

Il geofisico inglese Harold Jeffreys, noto fra l’altro per avere formulato insieme al collega James Jeans un’ipotesi sull’origine del sistema solare, attaccò la teoria nel punto più debole: la sua dipendenza dalla rotazione terrestre e dalla attrazione gravitazionale. Con semplici calcoli dimostrò che la crosta terrestre era troppo resistente per cedere sotto la spinta delle forze individuate da Wegener e che una forza in grado di spostare i continenti avrebbe invece fermato la rotazione terrestre in meno di un anno. Inoltre, se i continenti sono in grado di spostarsi attraverso il sima come una nave in navigazione si sposta attraverso il mare come è possibile che poi lo stesso sima deformi la prua della nave, ossia il bordo dei continenti, fino a sollevare le montagne? Come può essere che il materiale che forma il fondo degli oceani sia nello stesso tempo più debole e più rigido della crosta continentale?

Nel 1928 Wegener fu invitato a New York per partecipare ad un congresso internazionale sulla deriva dei continenti patrocinato dalla Associazione Americana dei Geologi del Petrolio. Egli accettò con entusiasmo l’invito, però una volta giunto sul posto dovette constatare con rammarico che non solo venivano messe in dubbio le sue idee, ma veniva nutrito anche qualche sospetto sulla sua stessa figura di scienziato. Un paleontologo americano, certo E.W. Berry, fece notare che il metodo adottato da Wegener nelle sue ricerche non era il metodo scientifico indicato da Galilei in quanto si fondava su un’idea iniziale che poi veniva sostenuta da prove a favore, mentre ignorava la maggior parte dei dati in contrasto con l’idea stessa: un procedimento del tutto opposto al metodo scientifico. In molti fecero anche presente che l’erosione delle terre che durava da milioni di anni avrebbe alterato i profili costieri dei continenti fino a distruggere la configurazione originale e quindi l’attuale apparente similitudine dell’Africa e del Sudamerica era una pura coincidenza.

C’era un motivo recondito di tanta animosità da parte degli scienziati contro le tesi di Wegener e risiedeva nel fatto che quando si va ad incrinare un sistema di idee ormai consolidato non è facile evitare pregiudizi. Un geologo presente al congresso invitò i colleghi alla prudenza facendo notare che un continente il quale si muovesse sulla superficie terrestre era un fenomeno così inusitato quanto, qualche secolo prima, il movimento della Terra intorno al Sole: tutte le apparenze infatti erano e sono contro questi movimenti. La resistenza verso le nuove idee dipendeva quindi fondamentalmente dal fatto che se queste fossero state accettate si sarebbe dovuto rinunciare a 70 anni di studi e di ricerche dirette in senso diametralmente opposto. La storia del progresso scientifico insegna che ogni ipotesi in contraddizione con l’opinione dominante in genere viene accantonata con la speranza che dopo un po’ si riveli infondata, ma in questo caso non si era trattato solo di mettere in disparte una teoria: si era tentato di renderla ridicola.

Alle ostilità incontrate da Wegener nel mondo scientifico contribuì anche il fatto che egli non era un geologo né un paleontologo né un biologo, eppure le sue idee sconfinavano in tutti questi campi del sapere che non erano di sua stretta pertinenza calpestando l’istituzione scientifica dominante. E invece oggi, quello che appariva una limitazione delle conoscenze di Wegener, viene considerato un vantaggio proprio per il fatto che il suo cervello era sgombro dalle teorie convenzionali. Wegener non fu un dilettante, ma un ricercatore interdisciplinare di talento che merita un posto importante fra i grandi della scienza.

In verità oltre a quella già ricordata vi fu anche un’altra timida presa di posizione a favore della teoria: il geologo svizzero Emile Argand, spirito libero e versatile, che aveva studiato a lungo la tettonica delle Alpi, si convinse che solo con la deriva dei continenti sarebbe stato possibile spiegare la formazione delle falde di ricoprimento che lui stesso aveva individuato su quelle montagne, rigettando la teoria della contrazione per raffreddamento alla quale aveva in precedenza aderito.

Anche il geologo americano Reginald Daly accettò l’ipotesi di Wegener però con una sostanziale modifica: la rotazione del pianeta, anziché spingere i continenti, avrebbe prodotto dei rigonfiamenti. I continenti sarebbero poi scivolati, spinti dalla gravità, lungo i pendii di quei rigonfiamenti producendo anche lente frane che avrebbero originato le catene montuose. Egli sosteneva inoltre che la stessa Pangea si sarebbe formata per aggregazione di masse continentali in movimento (un argomento, quello della situazione precedente la Pangea, che Wegener non trattò).

Il geologo inglese Arthur Holmes rafforzò considerevolmente la teoria della deriva proponendo un meccanismo per il movimento dei continenti molto più plausibile di quelli avanzati da Wegener. Le sue ricerche sulle rocce ignee e sugli effetti termici della radioattività lo avevano portato a concludere che sotto la crosta solida vi doveva essere uno strato di consistenza pastosa e privo di tenacità che chiamò astenosfera (dal greco, asthenés = debole e sfera, quindi “zona di debolezza”). Inoltre aveva calcolato che solo una parte del calore prodotto dalla radioattività veniva disperso attraverso l’attività vulcanica, mentre il rimanente avrebbe riscaldato il substrato. In questo modo si sarebbero create delle correnti convettive risalenti sotto i continenti dove la temperatura è più alta a causa di una maggiore concentrazione di materiale radioattivo e discendenti verso le zone periferiche, stirando e indebolendo la crosta in corrispondenza del punto di risalita. In altri termini, sotto la crosta solida si formerebbero dei giganteschi rimescolamenti di magma concettualmente analoghi ai movimenti convettivi che si generano nell’acqua di una pentola posta sul fornello.

Colui che difese senza incertezze fino alla morte le idee di Wegener fu il geologo sudafricano Alex du Toit. Egli presentò numerose nuove evidenze a favore della teoria, ma è ricordato soprattutto per aver supposto due continenti primordiali al posto dell’unico congetturato da Wegener e chiamò quello settentrionale “Laurasia” combinazione di Laurentia (nome che Suess dava a Groenlandia e nord America) e Asia, mentre a quello meridionale riservò il nome di Terra di Gondwana. I due supercontinenti sarebbero stati separati da un mare profondo che Suess chiamò Tetide (dal nome della dea greca del mare, madre di Achille) o Mare Mesogeo, destinato a scomparire quando l’Africa e l’India si fossero spinte a nord contro il continente eurasiatico.

Le nuove evidenze geologiche portate da valenti e affermati ricercatori, anziché rafforzare l’idea di una deriva dei continenti, la peggiorarono. Nel 1940 praticamente tutti i paleontologi erano concordi nell’affermare che i mammiferi fossili rappresentavano la prova che i continenti erano rimasti fissi per tutto il periodo connesso con l’evoluzione di quella classe di vertebrati.

 

LA SOLUZIONE VENNE DAGLI ABISSI

La ragione per cui nell’anteguerra le discussioni sulla teoria della deriva dei continenti si erano dimostrate tanto polemiche e inconcludenti risiedeva fondamentalmente nel fatto che a quei tempi non si conosceva nulla o quasi nulla di ciò che si trovava sotto gli oceani; questi tuttavia coprono ben due terzi dell’intera superficie terrestre e lo studio di una parte tanto rilevante della litosfera era indispensabile per conoscere in modo completo la struttura del nostro pianeta.

Nei primi anni Trenta aveva preso piede una nuova scienza, la sismologia, che avrebbe potuto essere utilizzata nel campo della ricerca geologica. Analizzando i sismogrammi di esplosioni provocate ad arte entro sedimenti di varia natura e consistenza era possibile risalire alla composizione di quei terreni e alla loro struttura. Esperto nell’interpretazione dei sismogrammi generati da sismi artificiali era un giovane laureto in fisica di nome Maurice Ewing e a lui venne affidato, nel 1935, il compito di studiare la natura della piattaforma continentale, cioè della parte sommersa più vicina alla costa. Le ricerche portarono alla scoperta che quel fondo marino era ricoperto da spessi sedimenti i quali potevano arrivare a due o tremila metri e quindi non era, come si pensava, una formazione geologica permanente. L’indicazione suggeriva che forse quei terreni contenevano giacimenti petroliferi, però di petrolio ve ne era tanto a portata di mano sulla terra ferma che non c’era motivo di andarlo a cercare anche in mare.

Le esplorazioni, nonostante l’inconsistenza dei primi risultati, ben presto si spostarono in mare aperto dove le nuove tecniche delle esplosioni sottomarine permisero la raccolta di tutta una serie di nuove informazioni nemmeno sospettate in precedenza. Esse, ad esempio, segnalarono che al largo i depositi sedimentari erano molto sottili mentre i calcoli mostravano che nel corso dei miliardi di anni di storia della Terra sul fondo dell’oceano si sarebbe dovuto formare uno strato di sedimenti spesso alcuni kilometri. Erano state misurate invece solo alcune centinaia di metri di sedimenti che si sarebbero potuti accumulare in non più di 100 o 200 milioni di anni, cioè ad iniziare dall’era geologica che va sotto il nome di Mesozoico. Quando la nave oceanografica arrivò in prossimità della dorsale medio-atlantica gli scandagli sismici segnalarono la presenza di uno strato inconsistente di sedimenti mentre la draga, trascinata sul fondo per alcuni kilometri, raccolse frammenti di lava di recente formazione. Lo studio del fondo marino confermò che la crosta oceanica era diversa da quella continentale e che sotto ad entrambe si estendeva una zona di materiale più denso, probabilmente di tipo ultrabasico, che da quel momento venne chiamata “mantello”, invece che substrato come si diceva in precedenza.

Le ricerche oceanografiche dovettero essere abbandonate per lo scoppio della seconda guerra mondiale, ma alla fine delle ostilità ripresero con maggior vigore e con tecniche d’avanguardia rese possibili dall’utilizzo di nuove e più sofisticate apparecchiature che erano state perfezionate proprio durante il conflitto. E ulteriori sorprese non si fecero attendere. Si scoprì, ad esempio, attraverso le prospezioni sismiche, che la crosta oceanica, formata di basalti, è spessa in alcuni punti solo 5 km, mentre la crosta continentale, essenzialmente granitica, ha uno spessore medio di circa 40 km.

Frattanto Bruce Heezen, un geologo dell’osservatorio geologico dell’Università della Columbia, coadiuvato dalla cartografa Marie Tharp, ebbe l’incarico di riportare i profili batimetrici eseguiti durante i rilevamenti condotti nell’Atlantico, su una mappa del fondo oceanico. La configurazione che ne risultò mostrava la presenza di una depressione, detta in inglese rift, cioè spaccatura, larga circa 15 kilometri e profonda qualche centinaio di metri, che correva lungo la cresta della dorsale in direzione nord-sud. Essi interpretarono questa fossa tettonica, caratterizzata da terremoti e continue emissioni di lava, come una spaccatura profonda della crosta oceanica. Un’ulteriore sorpresa si ebbe quando si scoprì che dorsali sottomarine analoghe a quella medio-atlantica esistevano in ogni oceano e non si trattava di strutture isolate, ma delle componenti di un’unica catena montuosa lunga più di 60.000 kilometri (una volta e mezzo il giro della Terra) che si snodava attorno ai continenti. La prova che queste dorsali medio-oceaniche avessero qualche origine comune risiedeva nei numerosi terremoti che erano stati registrati e nella presenza di profonde fratture trasversali, dette faglie trasformi, che disarticolavano quelle strutture in tanti segmenti indipendenti. Il ruolo di queste fratture trasversali che affettavano l’asse della dorsale spostando i tronconi adiacenti sarebbe stato quello di consentire loro di muoversi a velocità diverse. La maggior parte di queste faglie è nascosta sotto gli oceani ma una si esse, la famosa faglia di San Andreas, emerge dall’oceano Pacifico in corrispondenza di San Francisco in California e attraversa per centinaia di kilometri il territorio generando di frequente terremoti molto violenti.

Inoltre, la misura del flusso di calore lungo la rift valley risultava otto volte superiore alla media. Questa temperatura eccezionalmente alta in corrispondenza della cresta delle dorsali era evidenziata anche dalla velocità piuttosto bassa delle onde sismiche. La velocità di propagazione delle onde sismiche dipende dalle proprietà elastiche del materiale attraversato, proprietà che a loro volta sono determinate dalla temperatura. Alte velocità indicano zone dove le rocce sono più fredde e quindi più rigide e compatte e basse velocità corrispondono a zone calde e quindi più elastiche e meno dense.

L’esteso sistema delle dorsali medio-oceaniche tagliate longitudinalmente da una spaccatura assiale con intensa attività sismica ed elevato flusso di calore legato al vulcanismo locale non poteva avere che un’unica giustificazione: la Terra si stava dilatando e non contraendo come si era sempre pensato. Se però si voleva escludere che la Terra aumentasse di volume nel tempo, si doveva ammettere che mentre al centro delle dorsali usciva del materiale che poi veniva traslato lateralmente doveva esistere anche una zona in cui quel materiale veniva distrutto.

 

LA TERRA E’ UN MAGNETE

Fin dalla scoperta della calamita da parte dei cinesi ci si è resi conto che la Terra è essa stessa una calamita, ma da dove tragga origine il magnetismo terrestre ancora oggi non è chiaro. Si sa che il centro della Terra è formato quasi esclusivamente di ferro, ma ritenere che questo nucleo metallico possa comportarsi come un enorme magnete è sbagliato. La calamita, al di sopra della temperatura di 580 °C, detta “punto di Curie”, perde le sue proprietà magnetiche e questa temperatura nella Terra è raggiunta già alla profondità di 15 o 20 kilometri, mentre nel centro si calcola vi siano temperature di migliaia di gradi. Il magnetismo però può essere creato anche da una corrente elettrica in movimento e la Terra potrebbe quindi essere una specie di elettrocalamita, cioè una dinamo molto semplice generata dal moto rotatorio del nucleo di ferro fuso.

Dinamo o non dinamo rimane il fatto che la Terra è un magnete e non serve conoscere la natura di un fenomeno per poterlo sfruttare. Gli antichi marinai, ad esempio, senza conoscere niente sulle cause del magnetismo, sapevano tuttavia che la loro bussola puntava costantemente verso il nord. Sapevano anche che l’estremità rivolta a nord di un ago calamitato libero di oscillare nello spazio si inclinava verso il suolo nell’emisfero boreale e che l’angolo formato dall’ago con l’orizzonte, detto inclinazione magnetica, aumentava in prossimità del polo. Nell’altro emisfero succedeva la stessa cosa, ma con l’estremità dell’ago magnetico rivolta a sud.

Da più di un secolo erano state individuate alcune rocce che avevano le stesse proprietà di un magnete, ma questa scoperta fino a poco tempo prima non aveva trovato applicazione. La magnetizzazione delle rocce è, in pratica, un magnetismo fossile permanente che potrebbe servire come una sorta di bussola per determinare la direzione del campo magnetico antico (o campo paleomagnetico). A partire dagli anni Cinquanta si assiste ad un rinnovato interesse per il paleomagnetismo anche perché si era scoperto che dalla direzione della magnetizzazione di alcune rocce vulcaniche si sarebbe potuto risalire all’eventuale spostamento delle grandi masse continentali. Quando una lava, dopo essere stata eruttata da un vulcano, si espande in superficie, alcuni minerali del ferro in essa contenuti, sensibili alla presenza del campo magnetico terrestre, si magnetizzano per induzione e, divenuti piccole calamite, si dispongono nella direzione del campo magnetico esistente in quel momento. Quando la roccia si raffredda la magnetizzazione diviene permanente e si conserva tale per milioni di anni anche se il campo magnetico terrestre dovesse nel frattempo cambiare. Anche alcune rocce sedimentarie presentano una certa magnetizzazione dovuta ai granuli di magnetite che si sono depositati dopo essere stati asportati dalla roccia vulcanica originaria e trasportati da un fiume o da una corrente marina.

Conoscendo quindi l’età di una roccia magnetica gli scienziati avrebbero potuto determinare la posizione occupata dai poli magnetici all’epoca della formazione di quella roccia. Si scoprì così che l’orientamento magnetico di alcune rocce deviava in modo evidente dalla posizione attuale dei poli e, fatto ancora più sorprendente, che anche l’inclinazione magnetica in alcuni casi era di molto inferiore a quella che avrebbe dovuto essere. Ciò induceva a ritenere che quelle rocce avessero cambiato posizione e si fossero formate ad una latitudine inferiore a quella alla quale attualmente si trovavano. Ad esempio, l’America settentrionale e l’Europa presentavano due curve diverse di migrazione del polo nord magnetico nel passato geologico, come se la Terra avesse avuto, in tempi lontani, due poli nord contemporaneamente. Ma questa anomalia era solo apparente perché qualora si fossero fatti ruotare leggermente i due continenti riunendoli in un’unica struttura le due curve avrebbero finito per coincidere e rappresentare semplicemente la deriva relativa dei due blocchi dal momento in cui si erano separati.

Ma la scoperta più sorprendente si ebbe intorno agli anni Sessanta, quando alcuni ricercatori americani e giapponesi, in navigazione nelle vicinanze delle dorsali oceaniche atlantica e indiana, osservarono un fenomeno già registrato a terra: l’inversione del campo geomagnetico. In precedenza si era osservato infatti che alcune colate basaltiche formatesi in un lungo periodo di tempo, mostravano l’orientazione del campo magnetico opposta a quella attuale (il polo nord era al posto del polo sud): ora la stessa scoperta veniva fatta a quattromila metri sotto il livello del mare sulle rocce del fondo oceanico. Parallelamente alle dorsali venivano registrate anomalie magnetiche positive (con il polo nord nella stessa direzione di quello attuale) e negative (con il polo nord nella direzione opposta) alternativamente disposte in bande da una parte e dall’altra della dorsale stessa che testimoniavano di un campo magnetico terrestre il quale nel tempo era passato più volte da normale a inverso. Contemporaneamente l’osservazione evidenziava il fatto che la crosta oceanica non si era formata tutta insieme. Lo studio sul magnetismo delle rocce portò quindi ad una radicale modificazione della nostre conoscenze tanto da trasformare la visione fissista del pianeta in una ancor più mobilista di quella ipotizzata da Wegener.

 

L’ESPANSIONE DEI FONDI OCEANICI

I numerosi dati acquisiti negli anni seguenti l’ultimo conflitto mondiale tramite scandagli, sondaggi con impiego di sonar e di radar, riprese televisive, misurazioni del flusso di calore attraverso la crosta terrestre e rilevamento dei campi magnetici sottomarini, avevano ora bisogno di un’unica e coerente interpretazione.

Il primo a intuire che tutte quelle osservazioni mostravano come gli oceani fossero in continua espansione fu il geologo americano Harris Hess, il quale rese pubblica la sua ipotesi nel 1960, in occasione dell’assemblea annuale della Società Geologica Americana. Egli immaginava, sotto la crosta terrestre, delle grandi correnti di materiale fuso (già ipotizzate dall’inglese Holmes) che saliva dal fondo del mantello verso la superficie in corrispondenza delle dorsali medio-oceaniche, dove in parte fuoriusciva attraverso la fessura centrale e in parte ripiegava lateralmente, per poi, una volta raffreddatosi e appesantitosi, ritornare verso il basso. Appena uscite sul fondo del mare le lave, solidificate con la tipica forma “a cuscino” (in inglese, pillow), prodotta dal brusco raffreddamento a contatto con l’acqua, si spostavano lateralmente allontanandosi dall’asse della dorsale come trascinate da un nastro trasportatore. La spaccatura centrale che veniva così ad allargarsi, era riempita man mano da altro materiale magmatico proveniente dal basso. Questo processo dava origine alla litosfera oceanica e spiegava anche il motivo per il quale le lave del pavimento oceanico fossero sempre più vecchie a mano a mano che ci si allontanava dalla dorsale mediana e ci si avvicinava ai continenti. Se però al centro dell’oceano si formava continuamente nuova crosta e si voleva evitare che la Terra si gonfiasse come un pallone, era necessario prevedere che una identica quantità di crosta scomparisse. Secondo Hess ciò avrebbe potuto avvenire nelle fosse oceaniche che si trovano al margine dei continenti dove la crosta oceanica vecchia si sarebbe immersa, sotto la zolla con cui entrava in collisione, lungo il cosiddetto piano di Benioff, dal nome del sismologo russo Hugo Benioff che per primo lo mise in evidenza nel 1955. Si tratta di un piano che scende in profondità con un’inclinazione variabile da 30 a 70 gradi rispetto alla superficie terrestre e lungo il quale gli ipocentri dei terremoti diventano via via più profondi.

A sostegno della sua tesi Hess portò una scoperta da lui stesso effettuata quando durante la guerra era comandante di un sottomarino della Marina statunitense. Si tratta dei vulcani sottomarini dalla sommità piatta detti guyot dal nome del geografo svizzero Arnold Guyot che per primo li descrisse. Essi erano interpretati come isole vulcaniche che erano state spianate dall’azione delle onde del mare e che in seguito erano sprofondate per migliaia di metri. All’inizio anche Hess pensava che quei vulcani fossero antichissimi, ma quando nel dopoguerra dalla cima vennero dragati dei fossili piuttosto recenti e comunque non anteriori al Mesozoico, si convinse che in realtà quei vulcani “senza testa” erano sorti in prossimità della dorsale dalla quale si erano allontanati comodamente adagiati su di un tappeto mobile rappresentato dal fondo oceanico in espansione. Egli ipotizzò quindi che il fondo oceanico si formasse in corrispondenza delle dorsali si espandesse verso i continenti e poi scendesse sotto di essi all’interno del mantello.

Gli stessi continenti piuttosto che essere considerati come tante navi rompighiaccio che si aprono la strada entro un sima poco resistente, come supponeva Wegener, ora apparivano semplicemente come enormi lastroni di roccia leggera adagiati sulle placche e trasportati passivamente “a rimorchio” dal movimento del magma sottostante. Le idee di Hess avevano bisogno di integrazioni e verifiche che tuttavia, con le nuove tecniche disponibili, non fu difficile acquisire.

 

LA TETTONICA A PLACCHE

Negli anni 1967-68 l’imponente sforzo di ricerca innescato dall’ipotesi di Hess dette i suoi frutti generando un modello che tendeva a rappresentare l’attività del nostro pianeta come un tutt’uno: terremoti, vulcani, formazione delle montagne, isole vulcaniche e altre strutture secondarie non erano altro che la conseguenza di un’unica causa connessa con il movimento relativo di tratti di crosta terrestre. La teoria, per il suo carattere onnicomprensivo, venne chiamata “tettonica globale” (dal greco tekton = carpentiere, costruttore), ma anche, con riferimento alle porzioni di litosfera in cui era stata divisa la crosta terrestre, “tettonica a zolle (o, più propriamente, a placche)”. Questa teoria può, a ragione, essere considerata una rivoluzione nelle scienze della Terra (come la teoria evoluzionistica rappresentò una rivoluzione nelle scienze biologiche), proprio perché offre una visione nuova, unitaria e completa della superficie del pianeta.

Dopo che si definirono le aree di distensione (le dorsali medio-oceaniche), le aree cosiddette di subduzione (le fosse oceaniche) e le aree limite di contatto, la litosfera venne divisa in una ventina di zolle, cioè di frammenti di crosta fra loro indipendenti, generalmente molto estese ma poco spesse, in cui solo i margini sono attivi mentre la parte centrale non è interessata se non eccezionalmente da terremoti o attività vulcanica. Ciascuna placca è limitata quindi da tre tipi di margine: i margini divergenti che coincidono con le dorsali oceaniche dove vi è una continua produzione di crosta, mentre la porzione già formata tende ad allontanarsi; i margini convergenti che coincidono con le fosse oceaniche o con le grandi catene montuose continentali dove la crosta più vecchia sprofonda e viene distrutta; infine i margini a carattere conservativo lungo i quali le zolle adiacenti semplicemente scivolano l’una accanto all’altra generando faglie trasformi analoghe a quelle che si formano sulle dorsali. Le placche di più grandi dimensioni contengono oltre ad una parte di litosfera oceanica, anche un continente, e solo la placca pacifica, fra quelle di grandi dimensioni, è costituita esclusivamente di crosta oceanica.

Il problema del motore che fa muovere il complesso meccanismo delle placche non è ancora chiaro nei dettagli e la sua comprensione non sarà facile nemmeno in futuro anche perché, per scoprire cosa c’è sotto una zolla tettonica, si dovrebbe procedere a perforazioni profonde che per il momento sono irrealizzabili. Per la verità un tentativo di raggiungere il mantello venne fatto in passato, ma poi fu abbandonato in seguito ad una serie di errori e di difficoltà organizzative che fecero lievitare considerevolmente i costi dell’impresa. Nel 1957, in coincidenza con l’anno geofisico internazionale, un gruppo di geologi americani avviò un progetto di perforazione della crosta oceanica, che prese il nome di “progetto Mohole” (da Moho e hole = buco). La Moho (abbreviazione di discontinuità diMohorovicić) è una superficie di separazione di rocce di diversa natura individuata dal geologo croato Andrjia Mohorovicić studiando le onde sismiche emesse in occasione del terremoto di Zagabria del 1909. Essa segna il limite fra crosta e mantello ed è molto profonda sui continenti mentre è a solo 5 o 6 km di profondità sotto gli oceani. Dopo un primo tentativo con il quale vennero raggiunte le lave basaltiche perforando 170 metri di sedimenti sotto 3.500 metri di mare, il progetto nel 1966 venne abbandonato anche per mancanza di fondi che il governo americano aveva dirottato verso l’esplorazione della spazio. Proprio nel 1957 i russi avevano infatti messo in orbita il primo satellite artificiale lanciando la sfida per la conquista dello spazio a cui gli USA non potevano mancare.

L’esplorazione dei fondali oceanici tuttavia continuò, anche se con obiettivi meno ambiziosi, grazie a finanziamenti di privati. Le nuove ricerche, condotte da una nave appositamente costruita, la Glomar Challenger, furono indirizzate alla raccolta di campioni di roccia in tutti gli oceani: “not Mohole, but more holes” (non un unico grande buco, ma più buchi) fu il motto del nuovo programma di perforazione negli oceani.

Oggi è abbastanza evidente che esiste un sistema di celle convettive, all’interno del mantello, provocate da squilibri termici causati, a loro volta, dal calore liberato da processi radioattivi. Flussi convettivi in risalita con apporto di materiale caldo e leggero sarebbero presenti al di sotto delle dorsali medio-oceaniche, mentre nelle zone di subduzione scenderebbero i materiali del mantello freddi e densi. Non tutto comunque è chiaro; non si sa, ad esempio, quante celle siano in attività, né si conoscono con precisione le relazioni che intercorrano fra le placche in spostamento e il flusso convettivo.

 

LA DANZA DEI CONTINENTI

Con l’aiuto di un calcolatore i geologi hanno tentato di ricostruire i numerosi e multiformi cambiamenti del profilo delle terre emerse e della disposizione degli oceani nel corso della lunga storia del pianeta.

Duecento milioni di anni fa, come abbiamo visto, esisteva un solo grande continente che Wegener aveva chiamato Pangea. Quest’unico ampio e compatto blocco di terre emerse non era tuttavia una struttura piatta e monotona, ma comprendeva pianure solcate da fiumi, montagne, deserti, laghi salati e una ricca vegetazione fatta di prati e di boschi in cui trovavano riparo e sostentamento molte varietà di animali compresi i primi dinosauri. Sulle sue coste frastagliate si infrangevano le onde del grande oceano chiamato Panthalassa. Si calcola che la Pangea, comprensiva anche di quelle che oggi sono le piattaforme continentali e parte delle scarpate, cioè i bordi sommersi da mare poco profondo, coprisse quasi il 40 per cento della superficie terrestre mentre il fondo oceanico occupava il resto. La Panthalassa, circa all’altezza della fascia equatoriale, si insinuava nella Pangea formando un enorme golfo, detto “Mare della Tetide”. La zona a nord di questo grande mare interno era la Laurasia, una terra che in seguito si spaccherà per formare l’America del nord, l’Europa e l’Asia, mentre a sud vi era la Terra di Gondwana che inglobava quelle che sarebbero diventate l’America del sud, l’Africa, l’India, l’Australia e l’Antartide.

La Pangea non è stato il primo supercontinente formatosi sulla Terra. I rilievi paleomagnetici, lo studio delle più antiche catene montuose e la distribuzione dei fossili mostrano che le zolle hanno continuato a vagare per il globo avvicinandosi e allontanandosi più volte negli ultimi due miliardi di anni formando almeno due o tre supercontinenti precedenti la Pangea. Nel meccanismo della tettonica a placche il protagonista principale, come abbiamo visto, è la crosta oceanica, ma quella continentale, la “schiuma” di rocce leggere che costituisce le terre emerse, non è stata spettatrice passiva così da limitarsi a farsi portare a spasso dalle placche in movimento.

Per esempio, quando un continente adagiato su di una placca, finiva a ridosso di una fossa oceanica, era costretto ad arrestarsi perché la litosfera continentale più leggera di quella oceanica non poteva sprofondare sotto di essa. In questo caso era la crosta oceanica a infilarsi sotto quella continentale che comunque continuava ad avanzare corrugando i sedimenti oceanici che finivano per aggiungersi al margine del continente e formare una nuova striscia di crosta continentale sotto forma di catena montuosa. In questo modo si sarebbero formate le Ande, montagne ricche di andesiti cioè di rocce eruttive, che prendono il nome da queste montagne, e che si sarebbero formate proprio in seguito alla subduzione della placca oceanica sotto quella continentale.

Ma se la placca in subduzione comprendeva anch’essa un continente, la collisione fra i due continenti era inevitabile. Ciò è quanto sarebbe avvenuto ad esempio nello scontro fra l’India e l’Asia che portò alla formazione della catena dell’Himalaya o fra Africa ed Europa con formazione delle Alpi. In tale processo alcuni lembi del pavimento basaltico vennero strappati nell’atto della collisione e ora si ritrovano in mezzo alle montagne dove formano rocce particolari, a volte metamorfosate, che prendono il nome di rocce verdi o ofioliti.

Circa cinquanta milioni di anni dopo che si era assestato l’enorme continente di Pangea alcune profonde fratture avviarono la sua demolizione. Come abbiamo visto, non è del tutto chiaro che cosa abbia provocato l’enorme flusso di magma basaltico che risalendo dal mantello dilaniò il supercontinente, tuttavia è certo che un lento cedimento lungo punti di sutura più deboli consentì a masse di lava sempre più voluminose di salire in superficie. La prima frattura spaccò la Pangea all’incirca lungo l’equatore separando definitivamente la Laurasia dalla Terra di Gondwana: a questa prima frattura ne seguirono altre entro cui risaliva copiosa la roccia fusa che solidificando appesantiva la crosta facendola sprofondare e creando una serie di bacini temporanei entro i quali l’acqua si raccoglieva ed evaporava a più riprese. Cento milioni di anni fa il frazionamento della Pangea era in uno stadio avanzato ed una delle faglie più profonde aperte al suo interno raggiunse la costa consentendo all’acqua del grande oceano di penetrare fra sud America e Africa: si formò così un mare lungo e stretto simile al Mar Rosso che oggi divide la penisola arabica dall’Africa. Quella insenatura rappresentò il precursore dell’attuale oceano Atlantico e la fossa tettonica divenne in seguito la dorsale medio-atlantica.

Frattanto, due frammenti di litosfera, staccatisi dal continente di Gondwana, avevano iniziato una navigazione autonoma: l’India che si dirigeva verso nord e l’Antartide e l’Australia unite insieme che si spostavano verso sud. Settanta milioni di anni dopo l’inizio della deriva che mandò in pezzi la Pangea, l’India nel suo viaggio veloce (qualche centimetro all’anno) incontrò un punto caldo (hot spot, in inglese) da cui fuoriusciva basalto fuso che – solidificandosi – andò a formare quello che oggi è lo scudo del Deccan.

I punti caldi sono delle zone profonde del mantello da cui partono delle colonne di roccia incandescente chiamate pennacchi (o plume, in inglese) che procedono verso l’alto e sbucano sia sotto i continenti, sia sotto gli oceani, generando un’intensa attività vulcanica. La posizione dei punti caldi resta fissa nel tempo mentre le zolle litosferiche vi scorrono sopra. Quella dei punti caldi è un’ipotesi necessaria per completare la teoria delle celle convettive che da sole non spiegherebbero lo spostamento dei fondi oceanici. Abbiamo visto che l’energia la quale alimenta il moto delle zolle è costituita dal calore derivante dai processi radioattivi che si svolgono nel mantello: a questa fonte di calore si aggiungerebbe la risalita di materiale caldo sotto forma di enormi pennacchi. Questi pennacchi non hanno energia sufficiente per alimentare il movimento delle placche però, quando vengono a trovarsi in corrispondenza di una dorsale oceanica in espansione, provocano un aumento notevole di flusso di magma che va a formare in quel punto una crosta più spessa rispetto a quella che si trova lungo il resto della dorsale. Questo è ad esempio il caso dell’Islanda che nel suo moto di deriva molto probabilmente si è trovata in corrispondenza di un pennacchio ascensionale e dell’India che, come abbiamo detto, viaggiando verso l’Asia, si trovò anch’essa a passare sopra un punto caldo.

Cinquanta milioni di anni fa il mare della Tetide si era ridotto di dimensioni a causa dell’avvicinamento del continente africano a quello europeo e al suo interno ora si potevano individuare gli abbozzi delle penisole che in seguito sarebbero diventate Grecia, Italia e Spagna.

Avvicinandosi ai giorni nostri il pianeta andava assumendo l’aspetto che conosciamo: l’Atlantico era ormai diventato un vero e proprio oceano, il Madagascar si era separato dall’Africa; l’India era ormai a ridosso dell’Asia e quello che diventerà il Mediterraneo aveva troncato il collegamento con l’Oceano Indiano, mentre rimaneva ancora aperto verso l’Atlantico. Entro pochi milioni di anni il pianeta avrebbe assunto l’assetto definivo: l’India avrebbe urtato contro l’Asia sollevando la catena dell’Himalaya, l’Australia sarebbe andata alla deriva verso l’equatore abbandonando l’Antartide al suo destino e l’Africa avrebbe ruotato su se stessa chiudendo in tal modo il Mediterraneo che comunque sarebbe rimasto in comunicazione con l’Atlantico attraverso il piccolo passaggio dello Stretto di Gibilterra. Frattanto si completava la frattura del continente del nord: la Groenlandia si rese indipendente rompendo il legame esistente fra Europa, Nord America e Asia.

L’ultima profonda trasformazione della fisionomia terrestre, che indirettamente ebbe anche conseguenze sull’evoluzione dell’uomo riguardò il Mediterraneo il quale, circa 5 milioni di anni fa, evaporò completamente lasciando sul fondo una coltre di mille metri di sale. Il fenomeno fu conseguenza del sollevamento della soglia di Gibilterra che isolò il Mediterraneo dall’Oceano Atlantico e lo ridusse ad un lago che l’evaporazione essiccò. Questo episodio provocò un profondo cambiamento del clima che, fra le altre conseguenze, indirizzò i preominidi verso le forme che avrebbero portato direttamente all’uomo moderno. Lo stesso fenomeno, abbassando il livello di base, produsse una profonda escavazione della roccia da parte dei fiumi che scendevano dalle Alpi e di conseguenza creò profonde depressioni oggi colmate dai grandi laghi delle Prealpi. Questo radicale cambiamento del paesaggio mediterraneo durò circa un milione di anni poi la soglia di Gibilterra si abbassò consentendo alle acque dell’Atlantico di tornare a riversarsi nel bacino riempiendolo rapidamente.

 

IL FUTURO

Cosa succederà in futuro? Difficile dirlo, ma noi tenteremo lo stesso di immaginare l’evoluzione della superficie terrestre sicuri di non essere smentiti dai fatti. E’ probabile che in un lontano futuro esseri viventi più evoluti dell’uomo assisteranno alla formazione di nuovi oceani e di nuove montagne nati dal continuo frammentarsi e riaggrupparsi di blocchi continentali.

Se il modello della tettonica delle placche è esatto l’Oceano Pacifico in futuro dovrebbe ridursi di dimensioni fino a diventare, entro una cinquantina di milioni di anni, un semplice lago anche se di notevoli dimensioni, mentre l’Atlantico assumerà il ruolo di maggiore oceano della Terra. Il progredire della rift valley africana produrrà un mare e staccherà la parte nord orientale dal resto del continente come in precedenza si era staccato il Madagascar. Altri movimenti delle placche separeranno un lembo della California dall’America del nord che diventerà un’isola abbandonata alla deriva nel Pacifico. L’Australia si staccherà dall’Antartide ed inizierà a viaggiare verso l’Asia sud orientale dove schiaccerà le isole indonesiane che si trasformeranno in catene montuose.

Cambieranno le cose, e in modo non positivo, anche vicino a casa nostra. La zolla Africana, spingendo verso nord ridurrà le dimensioni del Mediterraneo e ripiegherà l’Italia fino a farle assumere una posizione quasi parallela all’equatore. La Grecia sarà compressa fino ad essere portata a ridosso della Turchia e il mare Egeo diventerà un lago. In compenso si allargherà il mar Rosso da cui è destinato ad originarsi un nuovo oceano.

In un lontano futuro nuove fosse di subduzione si formeranno lungo le Americhe e intorno all’Australia quando vecchi fondali carichi di sedimenti sprofonderanno nel mantello. Frattanto il movimento delle zolle in subduzione consumerà la crosta oceanica costringendo gli oceani Atlantico e Indiano a restringersi. Forse nuove fosse tettoniche torneranno ad espandere l’oceano Pacifico mentre il viaggio della California verso nord finirà contro la costa dell’Alaska e verrà incorporata in una nuova catena montuosa. L’Africa penetrando nell’Europa chiuderà definitivamente il Mediterraneo e si formerà un unico continente a nord comprendente Africa, Europa, Asia e Australia, preludio ad una futura Pangea. Il ciclo quindi si ripeterà anche se la sua storia sarà ben diversa da quella già vissuta.

Prof. Antonio Vecchia

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