I dinosauri

I dinosauri, senza alcun dubbio, sono i fossili più familiari al grande pubblico e, soprattutto i bambini, spesso conoscono meglio questi animali estinti di quelli viventi. A rendere popolari i dinosauri ha contribuito quello strano fenomeno letterario che si chiama fantascienza ma anche il cinema, la televisione e l’industria dei giocattoli si sono impadroniti della loro immagine. Questo fatto ha prodotto fra la gente una maggiore coscienza scientifica (ciò di cui ci si deve rallegrare) ma ha anche portato con sé alcuni aspetti negativi legati alle deformazioni e alle tante false opinioni con cui è stato presentato il fenomeno. Fra esse vi è quella che ritiene questi animali come un pericolo per l’uomo delle caverne: i dinosauri, invece, si estinsero molto tempo prima della comparsa dell’uomo sulla Terra.

E’ esagerata anche l’idea che i dinosauri fossero sempre di dimensioni enormi e sanguinari rapaci, mentre in realtà molti di essi erano piccoli come tacchini e quelli più grandi erano prevalentemente erbivori timidi e docili come pecore. Con questo non si vuol dire che fra di essi non vi fossero specie feroci, ad iniziare dal terribile Tyrannosaurus rex, il più grande carnivoro terrestre mai esistito, che spargeva terrore e distruzione sul suo cammino; e che alcuni erbivori non raggiungessero dimensioni enormi, come il famoso Brachiosaurus, che in lunghezza misurava quanto tre autobus messi in fila e doveva pesare una cinquantina di tonnellate. Inoltre, non tutti i grandi animali vissuti in quel lontano tempo geologico erano dinosauri. Vi erano, di dimensioni altrettanto gigantesche, forme volanti come gli pterosauri (o rettili con le ali) e forme marine come gli ittiosauri (o rettili pesci) nonché i plesiosauri, dal lungo collo e con gli arti a forma di pinne.

Parte della responsabilità di tante opinioni errate intorno a questo gruppo di animali estinti risale al secolo XIX quando esso ricevette il nome di “Dinosauria” dal famoso anatomista inglese Richard Owen. In quell’epoca, in effetti, si conoscevano soltanto alcune delle forme più grandi a cui Owen impose un nome formato da due parole greche: deinos che significa “enorme” e sauros che significa “lucertola” o “rettile”. Quando fu scoperto un numero sempre più grande di forme di piccola taglia si vide che il nome non era più adeguato, ma non fu necessario cambiarlo perché deinos in greco significa anche “terribile”. I dinosauri divennero così “rettili terribili”, anche se in effetti, come abbiamo visto, molti di essi non facevano paura a nessuno essendo impegnati tutto il giorno, con la testa bassa, a brucare l’erba delle zone paludose in cui vivevano per soddisfare le esigenze alimentari di un corpo di dimensioni colossali.

 

I FOSSILI

Per lungo tempo i fossili (dal verbo latino fodere che significa “dissotterrare“) costituirono uno degli enigmi più profondi e imperscrutabili della natura e soltanto nel corso del XVIII secolo l’uomo ha compreso che quegli strani oggetti che si rinvenivano nelle rocce altro non erano che i resti degli antichi abitanti del nostro pianeta. Senza ovviamente sapere cosa fossero, le vestigia degli antichi esseri viventi erano conosciute perfino dall’uomo primitivo nelle cui caverne sono state trovate collane composte di gusci di conchiglie fossili o delle loro impronte. Anche i greci antichi conoscevano bene i fossili, di cui in genere veniva data un’interpretazione corretta. Aristotele, però, in questo campo, non ebbe quelle intuizioni meravigliose che lo guidarono nelle sue ricerche intorno ai fenomeni naturali e pensava che i fossili fossero delle forme organiche simili a quelle viventi che però si erano sviluppate direttamente nelle rocce per azione di una non meglio specificata vis formativa. Il guaio è che quello che diceva Aristotele nel campo della scienza era Vangelo e quindi le sue idee rimasero irremovibili per quasi 2000 anni.

Del grande pensatore greco normalmente si dà un’immagine negativa sottolineandone gli errori: in realtà i risultati da lui raggiunti furono danneggiati dall’operato degli studiosi medioevali i quali, intimiditi forse dalle sue formidabili intuizioni e dalla vastità delle sue conoscenze, erano giunti a considerarlo infallibile. Opponendosi alla cultura dominante del suo tempo, Aristotele fu soprattutto un empirista che verificava le sue ipotesi osservando e sezionando. Quello che riuscì a realizzare senza avere a disposizione altri strumenti di indagine se non gli occhi, fu davvero straordinario. Egli capì ad esempio che i delfini sono mammiferi e non pesci come tutti pensavano a quel tempo e come si continuò a ritenere fino a un paio di secoli fa. Osservò che le api raccolgono il nettare dai fiori. Comprese la forma e la natura delle trombe di Eustachio, strutture dell’orecchio che furono descritte con esattezza solo 2000 anni più tardi dall’anatomista italiano Bartolomeo Eustachio.

Il filosofo di Stagira, con il suo lavoro, sottolineò l’importanza delle osservazioni nella scoperta del funzionamento delle strutture interne degli organismi viventi e degli aspetti più segreti della natura, sbagliandosi solamente dove l’osservazione diretta dei fenomeni era impossibile. Così ad esempio pensava che le anguille nascessero dal fango, mentre si riproducono nel mare dei Sargassi un luogo che solo Colombo nel suo viaggio verso le Americhe scoprì nel 1492. Analogamente, aprendo uova di età diverse, poté osservare l’embrione del pulcino nelle diverse fasi dello sviluppo, ma non poteva vedere direttamente la fecondazione perché il processo si svolge a livello microscopico. Intuì infatti che nella formazione dell’embrione il contributo del padre era dato dallo sperma, mentre sbagliò nel ritenere che quello della madre si trovasse nel sangue mestruale. Pertanto se è vero che molto egli si ingannò soprattutto nell’ambito della fisica, è altrettanto vero che fu per quei tempi ineguagliabile nel metodo della ricerca scientifica.

Dopo la parentesi aristotelica, torniamo ora al nostro argomento. Senza una teoria precisa che ne chiarisse l’essenza, per tutto il Medioevo i fossili avevano eccitato la curiosità e stimolato l’immaginazione della gente, tanto che erano state avanzate di essi le spiegazioni più fantasiose e suggestive. Si parlava di scherzi della natura, che si sarebbe divertita ad imitare forme tipiche delle piante e degli animali per burlarsi dell’uomo. Alcuni vi avevano visto i risultati imperfetti del Creatore che aveva condotto delle prove prima di giungere a modellare, con maggiore maestria, le attuali forme viventi. Altri ancora parlavano di conchiglie lasciate cadere dai pellegrini di ritorno dai viaggi in Terra Santa.

Fu Leonardo da Vinci (1452–1519), durante i suoi lavori di ingegneria idraulica nella pianura padana, ad intuire la vera natura dei fossili. Egli aveva avuto l’opportunità di esaminare diverse rocce ricche di conchiglie non molto dissimili da quelle che si trovavano nelle spiagge vicine: dalla loro osservazione aveva dedotto che i fossili erano esattamente quello che apparivano, cioè resti di organismi marini che erano vissuti nel periodo di formazione delle rocce nelle quali ora si trovavano. Secondo il grande artista e scienziato rinascimentale le conchiglie erano state quindi seppellite sul fondo di un mare che in tempi passati aveva ricoperto il nord d’Italia. Questi sedimenti successivamente si sarebbero solidificati e quindi sarebbero emersi a seguito di spinte che traevano origine nell’interno del pianeta. Tali affermazioni peraltro non trovarono seguito fino al XVIII secolo, quando nacque la paleontologia come scienza. Il termine è l’unione di tre parole greche: palaios = antico, ontos = essere e logos = discorso, quindi la paleontologia è un “discorso sugli antichi esseri viventi”.

L’uomo difficilmente abbandona le vecchie idee per le nuove e quindi non deve stupire che anche in questo caso abbia cercato a lungo e in buona fede di interpretare le scoperte paleontologiche alla luce della tradizione. L’influenza della Chiesa in campo scientifico, come si sa, fu determinante: essa sosteneva che la Terra era stata creata in sei giorni e la sua età era di pochi millenni. I fossili venivano quindi ignorati e quando non se ne poteva fare a meno venivano considerati opera della genialità del demonio il quale, ponendo nel terreno quelle strane forme pietrificate, si divertiva ad ingannare e confondere il genere umano. Il moltiplicarsi di nuove scoperte costrinse però la Chiesa a rivedere le sue posizioni ed allora i fossili furono ritenuti i resti di esseri annegati durante il Diluvio universale.

Anche gli scienziati stentavano a rendersi autonomi dalle Sacre Scritture. Un forte condizionamento subì perfino il grande naturalista francese Georges Cuvier, al quale tuttavia va il merito di avere esteso le sue ricerche di anatomia comparata agli organismi del lontano passato. L’anatomia comparata è quella scienza che mette a confronto le strutture di vari esseri per evidenziarne differenze e analogie. Cuvier raggiunse il massimo della popolarità quando, avendo trovato in un deposito gessoso nei dintorni di Parigi uno scheletro che mostrava scoperta solo la mascella, che nei caratteri della dentatura gli ricordava quella di un marsupiale, predisse che nel resto dello scheletro si sarebbero trovate ossa di marsupiale: cosa che in effetti si verificò con l’isolamento completo del fossile.

Ma si trattò di un vero colpo di fortuna perché il paleontologo non può fare miracoli: non può, ad esempio, come generalmente si crede, ricostruire un animale intero in base ad un unico osso. In questo trabocchetto cadde proprio lo stesso Cuvier quando enunciò le sue celebri leggi sulla correlazione dei caratteri. In virtù delle medesime ad un certo tipo di dentatura doveva necessariamente essere associato un particolare tipo di arti. Avvenne invece, nel caso di un mammifero estinto di cui si era trovato il cranio, che quando fu rinvenuto lo scheletro intero gli arti erano muniti di artigli e non di zoccoli come avrebbe dovuto essere sulla base delle leggi formulate dal naturalista francese.

Nonostante le sue profonde conoscenze degli esseri viventi e dei fossili il Cuvier rimase fissista e creazionista. Egli sosteneva che nel passato erano avvenuti fenomeni geologici di violenza imponente, veri e propri cataclismi, che avevano distrutto ogni forma di vita sulla faccia della Terra, ma poi una nuova creazione aveva ripopolato le terre e i mari. E tutto ciò per mano di Dio che di volta in volta aveva perfezionato la sua opera creando animali e piante di più elevata organizzazione: sostanzialmente correggendo sé stesso. Gli ultimi fissisti verso la metà del 1800 erano arrivati a contare ben ventisette cataclismi e altrettanti atti creativi!

Insieme a conchiglie, foglie e semi di piante furono rinvenute impronte e ossa di vertebrati, comprese quelle di dinosauri ma non essendo noti animali di dimensioni enormi, di queste ultime vennero date le interpretazioni più incredibili. Ad esempio, le grandi impronte a tre dita rinvenute in Africa vennero attribuite ad un fantomatico corvo gigante che non aveva trovato posto sull’arca di Noè e le ossa fossili trovate in Cina furono considerate appartenenti a dragoni precipitati dal cielo come meteoriti e finiti sotto terra. Uno dei primi naturalisti inglesi, il reverendo Robert Plot, vissuto nella seconda metà del XV secolo, attribuì un osso di enormi proporzioni (molto più grande di quelli di elefante), trovato negli scavi della sua parrocchia, ad un uomo di taglia colossale, un autentico gigante di cui si sarebbe parlato anche nella Bibbia.

 

GLI STUDI SCIENTIFICI SUI DINOSAURI

Solo all’inizio del 1800, per il moltiplicarsi di nuove scoperte, la comunità scientifica fu in grado di dare la giusta interpretazione ai fossili di grandi dimensioni. Dopo qualche esitazione anche il Cuvier si convinse che in un lontano passato geologico dovevano essere esistiti giganteschi rettili erbivori. Ma che cosa sono esattamente i dinosauri?

Si tratta di animali vissuti in un arco di tempo compreso fra i 225 e i 65 milioni di anni fa, cioè in quella che va sotto il nome di Era mesozoica (dal greco mesos = medio e zoion = animale), ossia l’Era di animali non ancora completi come saranno i mammiferi dell’Era successiva né primitivi come erano i pesci corazzati dell’Era precedente. Potrebbero quindi essere di dinosauro solo i fossili rinvenuti in terreni del Mesozoico, mentre sicuramente non sono di dinosauro né i fossili trovati in terreni più antichi, né quelli estratti da terreni più recenti. Spesso, per indicare le ere e i periodi geologici si usa l’aggettivo sostantivato (ad esempio il Mesozoico invece di Era mesozoica). Il Paleozoico (dal greco palaios = antico e zoion = animale), come abbiamo accennato, è detto “era dei pesci” perché in quel periodo a dominare l’ambiente furono i pesci. Quella successiva, la mesozoica, è detta “era dei rettili”, i quali derivarono non direttamente dai pesci ma dagli anfibi, che a loro volta si differenziarono dai pesci dopo avere sviluppato strutture anatomiche e fisiologiche tali da consentire loro, primi fra i vertebrati, di invadere la terra ferma. I rettili a loro volta dettero origine ai mammiferi e agli uccelli.

Il nome di rettile deriva dal latino repo, che significa “striscio”: è evidente che quando fu scelto il termine per designare questi animali si conoscevano solo serpenti e lucertole, non i grandi dinosauri del passato, che non strisciavano, e forse nemmeno tartarughe e coccodrilli. Oggi si conoscono quattro ordini di rettili: i sauri o lucertole, i cheloni o tartarughe, i loricati o coccodrilli e gli ofidi o serpenti. Sono tutti animali a sangue freddo che si muovono lentamente strisciando in modo piuttosto incerto sul terreno. A parte i serpenti che sono privi di arti, gli altri rettili viventi hanno le zampe situate lateralmente rispetto all’asse del corpo. Questa disposizione degli arti non consente loro di sostenersi saldamente sul terreno e pertanto, quando stanno fermi, poggiano il ventre a terra. Quando invece si muovono la loro andatura ricorda un po’ quella di un soldato che avanza, facendo molta fatica, a “passo di leopardo”. Nei dinosauri questo non accade e per capire l’andatura di uno di loro bisogna pensare più ad un elefante o a un bue, che a un coccodrillo. I dinosauri, tutti animali terrestri, si differenziano dagli altri rettili per la disposizione delle zampe le quali sono poste verticalmente sotto il corpo. Essi possono essere bipedi o quadrupedi, ma il ventre e la coda non toccano mai (o quasi mai) il terreno.

I dinosauri, inoltre, non rappresentano un gruppo omogeneo di animali come pensava chi propose per loro questo nome. Oggi il termine di dinosauro sopravvive nel linguaggio comune, ma da un punto di vista scientifico questi animali vengono suddivisi in due grandi gruppi sistematici che prendono il nome di Saurischi (cioè con ischio da rettile) e Ornitischi (cioè con ischio da uccello). L’ischio è un osso del bacino che si completa con altri due: l’ileo e il pube. Al primo gruppo appartengono quindi quei dinosauri che hanno una disposizione delle ossa del bacino che ricorda quelle di un rettile, mentre i secondi hanno le ossa del bacino che ricordano quelle di un uccello. Paradossalmente gli uccelli non si sono evoluti dagli Ornitischi, ma dai Saurischi. Dell’ordine dei Saurischi fanno parte i giganteschi quadrupedi erbivori come il Brontosaurus (la “lucertola del tuono”), il Diplodocus (cosiddetto per la presenza di due ossa dello sterno) e molti bipedi carnivori; mentre gli Ornitischi, bipedi e quadrupedi, sono tutti erbivori: fra questi si annoverano lo Stegosaurus dal corpo corazzato e l’Adrosaurus, dal muso a becco d’anatra.

Per quanto concerne le dimensioni i dinosauri probabilmente erano ai limiti di taglia. Il più grande esemplare che si conosca era il Brachiosaurus, un bestione alto sedici metri (sarebbe potuto arrivare con la testa all’altezza della finestra del quinto piano di un palazzo) lungo un po’ meno di 40 metri il cui peso doveva sfiorare le 50 tonnellate. Si tratta di dimensioni enormi che tuttavia non sono in assoluto le massime raggiunte da un animale; alcune delle attuali balene, ad esempio, sono grosse almeno il doppio del più grande dei dinosauri ma esse sono animali costantemente acquatici e carnivori, adattati ad uno speciale modo di catturare il cibo, che ottengono filtrando l’acqua attraverso i fanoni ed ingoiando le piccole prede che si fermano in bocca. Questo modo di nutrirsi consente loro di non dovere spendere energie nella caccia o per sfuggire a predatori naturali: il loro unico nemico è l’uomo. I dinosauri erano invece animali terrestri che molto probabilmente passavano gran parte della loro vita nella palude dove l’acqua, attraverso la spinta di Archimede, li aiutava a sostenere la loro immensa mole e dove potevano nutrirsi di piante molli e di alghe. Anche i dinosauri dalla leggendaria ferocia, secondo alcuni paleontologi, vivevano in realtà una vita relativamente inattiva in modo da conservare preziose calorie alimentari. In effetti con tutto quel ben di Dio a disposizione, rappresentato da animali di grandi dimensioni e praticamente immobili, i carnivori forse non erano costretti a furiosi inseguimenti per catturare la preda come accade attualmente ad esempio per il ghepardo, che vive assai vicino al crollo energetico dato che ben pochi dei suoi rapidissimi inseguimenti sono coronati da successo.

Pur passando la maggior parte del tempo in acqua non si esclude che i dinosauri erbivori di grandi dimensioni non potessero andare a riva, se non altro per deporre le uova. Sulla terra ferma indubbiamente si saranno mossi lentamente e a fatica: bisogna infatti sapere che le esigenze meccaniche di un animale terrestre pongono un limite all’accrescimento corporeo, che non può superare certe dimensioni imposte dalle ossa con funzione di sostegno. E’ del tutto evidente che più pesante è il carico che un osso deve sopportare, maggiore è il diametro che quest’osso deve avere. Quello che normalmente non si considera è che le zampe di un animale di grosse dimensioni sono spropositatamente più grandi di quelle di un animale di piccole dimensioni. Le zampe di un elefante ad esempio non sono solo più grandi di quelle di un topo, ma spropositatamente più grandi. I motivi di tutto ciò trovano giustificazione matematica in una legge di natura che va sotto il nome di “effetto scala”.

Questa legge afferma che il rapporto superficie/volume in un qualsiasi corpo solido diminuisce con l’aumentare delle dimensioni complessive di quel corpo perché il valore numerico del volume cresce di più di quello della superficie. Dal momento quindi che la massa di un animale cresce con il cubo, mentre la resistenza degli arti cresce con la superficie di sezione delle loro ossa, cioè con il quadrato, un animale molto grosso deve possedere da un lato ossa spropositatamente grandi e dall’altro il resto del corpo spropositatamente piccolo. Pertanto più è grande l’animale, minore è, in proporzione, la mole rappresentata dai muscoli e dagli organi interni rispetto a quella delle ossa al punto che, se potesse crescere indefinitamente, verrebbe il momento in cui quell’animale sarebbe formato di sole ossa senza muscoli in grado di muoverle. Ecco perché gli animali, quanto più grandi sono, tanto più lentamente si muovono.

Lo stesso discorso vale per le esigenze di cibo le quali crescono proporzionalmente all’aumento di massa corporea cioè con il cubo, mentre la superficie masticatoria cresce con il quadrato e il rapporto fra superficie e volume è tanto più piccolo quanto più l’animale è grande. Questo è il motivo, ad esempio, per cui non è possibile far lavorare gli elefanti addomesticati per più di quattro ore continuative: il resto della giornata deve essere occupato a mangiare.

Un’altra delle caratteristiche più notevoli dei dinosauri era data dalle modestissime dimensioni del cervello il quale occupava un minuscolo recesso nella parte posteriore del cranio. La sua funzione probabilmente era solo quella di azionare le mascelle e ricevere generiche informazioni circa la localizzazione del cibo e forse di un pericolo incombente. Alcune delle forme più grandi possedevano anche una espansione del midollo spinale alla base della colonna vertebrale che fungeva da secondo cervello. Questo era molto più grande di quello situato nel capo, ma si limitava a controllare il funzionamento della muscolatura delle zampe posteriori e della coda. Un giornalista americano, venuto a conoscenza di questa particolarità, scrisse, ironicamente, che il successo di questi giganteschi animali era dovuto al fatto che potevano ragionare sia a priori che a posteriori. In realtà nessuno dei due cervelli di cui erano dotati i grandi dinosauri era sviluppato abbastanza da permettere loro la minima facoltà di pensiero razionale; il successo biologico di questi strani animali pertanto va cercato da altre parti.

Sebbene la documentazione fossile non sia sufficiente per stabilirlo con certezza, oggi alcuni paleontologi ritengono che i dinosauri, a differenza degli attuali rettili, fossero omeotermi cioè a sangue caldo, come lo sono i mammiferi e gli uccelli. Ciò si deduce dal fatto che alcuni dinosauri vantavano una crescita rapida, una postura eretta e raggiungevano grandi velocità nella corsa, tutte prestazioni queste che richiedono un forte dispendio di energia di cui un animale a sangue freddo non dispone.

 

L’ESTINZIONE DI MASSA

Al passaggio fra Mesozoico e Cenozoico (dal greco kainos = recente e zoion = animale) qualche cosa deve essere successo se in poco tempo scomparvero tutti i dinosauri dalla faccia della Terra. Ma cosa? Nel corso di più di due secoli sono state elaborate svariate teorie nel tentativo di spiegare l’estinzione di queste strane creature fisicamente potenti, longeve e dotate di grande capacità di adattamento ad ambienti diversi. Esse dominarono la vita sulla Terra per 160 milioni di anni, un tempo lunghissimo soprattutto se paragonato alle poche centinaia di migliaia della specie umana sul pianeta. Ma in quella circostanza non scomparvero solo i dinosauri: insieme a loro furono cancellate per sempre molte altre specie di piante e animali.

Per ordinare la lunghissima storia del pianeta, durata quattro miliardi e mezzo di anni, i geologi hanno ritenuto conveniente dividere il tempo proprio sulla base delle cosiddette estinzioni di massa, cioè su quelle fasi in cui molte specie di animali e piante scomparvero improvvisamente e definitivamente dal pianeta per fare posto ad altre. Quello della fine del Mesozoico non fu l’unico evento di questo tipo, molte altre volte la vita sul pianeta è andata vicino alla estinzione totale: ad esempio, fra il Paleozoico e il Mesozoico, oltre il 95 per cento delle specie esistenti, fra cui le felci arboree (specie di dinosauri giganteschi del regno vegetale), sparirono per sempre. Oggi le felci (come è successo per i rettili) sono rappresentate da piante piccole e poco appariscenti.

L’estinzione delle specie animali e vegetali è un fatto normale nella storia della vita sulla Terra. L’evoluzione infatti è guidata proprio dalla selezione naturale in cui gli organismi più deboli muoiono sopraffatti da quelli più adatti all’ambiente, cioè in pratica da quelli che lasciano più prole, garantendo il successo della propria specie. In questo caso però non si trattò di un fatto normale, ma di un evento eccezionale in cui avvenne una drammatica estinzione di massa che cancellò, in un solo colpo, da mare e terra, quasi tutte le specie viventi. Come abbiamo detto, dal Paleozoico ad oggi, avvennero svariate estinzioni di massa, di proporzioni più o meno consistenti, in cui ogni volta scomparve fra il 25 e il 95 per cento delle specie presenti. Queste grandi estinzioni avvennero per cambiamenti graduali dell’ambiente o a causa di eventi catastrofici?

In passato, per spiegare la fine dei dinosauri, si invocarono teorie che facevano riferimento a graduali cambiamenti ambientali provocati da un generale ritiro dei mari che avrebbe prosciugato le vaste zone paludose nelle quali vivevano i grandi dinosauri erbivori che si nutrivano di piante molli acquatiche. Il ritiro dei mari, conseguente ad un generale sollevamento dei continenti, ben documentato da dati geologici, avrebbe anche causato un inasprimento del clima con variazioni stagionali più spiccate che sarebbero risultate fatali ai grandi rettili eterotermi. Ancora oggi i rettili, che si sono salvati dalla catastrofe, sono animali che vivono nei climi caldi, almeno quelli di grande mole, come coccodrilli e grossi serpenti, mentre nei climi temperati vivono soltanto piccole forme che si difendono nella stagione avversa andando in letargo. Nei climi freddi mancano del tutto i rettili. Ma molti dinosauri, come abbiamo visto, probabilmente erano animali a sangue caldo. Alcuni ricercatori pensarono anche alla concorrenza dei mammiferi più piccoli, ma più vivaci, i quali avrebbero mangiato tutte le uova dei dinosauri. I mammiferi, però, hanno coabitato con i dinosauri per tutto il Mesozoico senza che questi ultimi ne risentissero e quindi i piccoli animali notturni e a sangue caldo non causarono la fine dei rettili mesozoici, piuttosto fiorirono dopo la loro scomparsa.

Per giustificare il declino dei dinosauri si sono anche ipotizzate cause interne alla vita stessa di quegli animali come ad esempio una degenerazione biologica che, attraverso la apparizione di alcune strutture anatomiche aberranti, fra cui gigantismo e crescita spropositata di ossa e corna, avrebbe indebolito il gruppo. Ma alla fine del Mesozoico i dinosauri non apparivano affatto in declino: essi si erano invece ulteriormente diversificati. Né maggiore fortuna ha avuto la tesi che a provocare la fine dei dinosauri possa essere stata una pestilenza provocata dalla diffusione di uno specifico virus, perché insieme con questi animali perì anche una notevole varietà di altre forme viventi con caratteristiche fisiologiche del tutto diverse.

Come abbiamo appena detto, alla fine del Mesozoico non scomparvero solo i dinosauri, ma si estinsero anche ittiosauri, pterosauri e tanti altri animali meno noti, compresi molti invertebrati marini come le ammoniti dalle eleganti conchiglie avvolte a spirale e le rudiste, strani bivalvi costruttori di scogliere, e perfino alcuni organismi marini unicellulari. Si calcola che circa il settantacinque per cento delle specie allora viventi si sia estinto in un periodo relativamente breve da un punto di vista geologico, ma che, secondo alcuni, avrebbe potuto durare anche un milione di anni. Forse morì anche la stragrande maggioranza della popolazione delle specie che si salvarono dallo sterminio, ma trattandosi, in questo caso, di animali piccoli e molto fecondi essi riuscirono a riprodursi in fretta e ad evitare lo spopolamento totale. Si pensa che al culmine della strage morisse il novanta per cento di tutti gli animali e di tutte le piante presenti sulla Terra. Non scomparve però la quasi totalità delle fauna delle acque dolci. Come mai? Le teorie che devono dare una spiegazione delle estinzioni alla fine del Mesozoico devono chiarire il motivo per il quale alcune specie si salvarono dal massacro.

 

LA FINE VENUTA DAL CIELO

Agli inizi degli anni Ottanta quattro ricercatori americani diretti da Walter Alvarez, professore di geologia dell’Università di Berkeley in California, avanzarono una nuova proposta circa la possibile causa della catastrofe di fine mesozoico. All’inizio l’obiettivo della ricerca, come spesso accade nella scienza, non era quello di indagare sulle cause della estinzione dei dinosauri, ma di studiare, attraverso il rilevamento di concentrazioni estremamente piccole di alcuni elementi chimici, la velocità di accumulo del fango negli antichi mari prima che questo si trasformasse in roccia. La tecnica adottata consisteva nel bombardare con neutroni alcuni campioni di argilla per far diventare radioattivi gli atomi presenti. Del gruppo faceva parte anche il padre di Walter, Luis Alvarez, che alcuni anni prima era stato insignito del premio Nobel per la fisica per aver elaborato un metodo che permetteva di rendere visibili le particelle elementari con vita media molto breve.

Dopo avere sperimentato svariate possibilità il gruppo decise di applicare la propria tecnica all’iridio, un elemento piuttosto raro nella crosta terrestre ma abbastanza ben rappresentato nei corpi celesti. In realtà l’iridio era presente in quantità comune al resto dell’Universo anche sulla Terra quando questa si formò, ma poi, trattandosi di un elemento pesante, finì, insieme con il ferro, il nichel, l’osmio ed altri elementi simili nel centro del pianeta durante la fase di differenziazione gravitativa che precedette la solidificazione della crosta nella quale si fermarono elementi leggeri come carbonio e silicio. Pertanto, quel poco di iridio che si trova nelle rocce (meno di una parte su dieci miliardi) deriva dalla pioggia di particelle di polvere cosmica, una quantità che si calcola possa essere rimasta invariata per tutta la vita del pianeta. Misurando quindi la percentuale di questo elemento nelle rocce il gruppo degli Alvarez sperava di poter ottenere informazioni relative al tempo impiegato a depositarsi nei sedimenti e quindi, indirettamente, sulla velocità di formazione delle rocce stesse.

La loro ricerca li condusse a Gubbio, la cittadina dell’Umbria nota per le sue ceramiche artistiche e proprio l’argilla con cui queste ceramiche venivano prodotte da alcuni secoli attrasse l’attenzione del gruppo degli Alvarez. Quando fu analizzato un campione di roccia, spesso un centimetro, corrispondente al periodo di transizione fra Mesozoico e Cenozoico, si osservò che il tasso di iridio presente era almeno 100 volte maggiore di quello registrato negli strati un poco più antichi o un poco più recenti.

Walter Alvarez era convinto che una tale anomala abbondanza di iridio, presente solo in quel sottile strato di roccia, dovesse derivare da un grosso corpo carico di quel raro elemento caduto dal cielo. Ad ogni modo, prima di rendere pubblica la scoperta e le conclusioni che se ne potevano trarre, era necessario verificare se l’arricchimento dell’iridio nelle argille di Gubbio era un fatto locale, oppure si potevano trovare concentrazioni simili da altre parti. Le ricerche vennero quindi estese un po’ in tutto il mondo e perfino sotto il mare dove la nave di studio degli Stati Uniti, la Glomar Challenger, raccolse alcuni campioni di roccia, relativi al periodo in questione, che mostravano le stesse concentrazioni insolite di iridio riscontrate sulla terra ferma. Le ricerche portarono alla scoperta che anche altri elementi chimici come l’osmio, l’arsenico e il nichel mostravano una concentrazione più abbondante della media nello strato di confine fra il Mesozoico e il Cenozoico. Inoltre si osservò che il numero dei fossili presenti in terreni immediatamente successivi a quelli in cui si era depositata la quantità anomala di iridio era molto scarso.

In molti, fra cui chi scrive, all’inizio si mostrarono pregiudizialmente scettici nei confronti del ritorno di un neocatastrofismo che si riteneva superato da oltre un secolo. Ma, con il passare del tempo, gli indizi di un evento straordinario nella storia della Terra si moltiplicarono ed ora non è fuori di luogo prendere questa ipotesi in seria considerazione.

Ammesso quindi che possa essere caduto dal cielo un oggetto di grandi dimensioni, come ad esempio un meteorite o una cometa del tipo di quella che nel 1994 è precipitata sulla superficie di Giove, ci si chiese come avrebbe potuto questo proiettile naturale uccidere tutti i dinosauri, compresi quelli che stavano lontani dal punto di impatto e risparmiare altri animali fra cui anche alcuni rettili che sono arrivati indenni fino ai giorni nostri.

La conseguenza più importante di una collisione cosmica potrebbe essere stata la frammentazione del corpo celeste susseguente all’impatto e la successiva emissione nell’atmosfera di una grande quantità di polveri che, trascinate dalle correnti atmosferiche, avrebbero avvolto il pianeta impedendo ai raggi del Sole di raggiungere la superficie terrestre. Gli scienziati hanno calcolato che la sovrabbondanza totale di iridio presente nello straterello di argilla di 65 milioni di anni fa era di circa cinquemila tonnellate. Per depositare una tale quantità di questo elemento bisognava ipotizzare l’impatto di un meteorite con un raggio di quattro o cinque kilometri e pesante alcuni milioni di tonnellate, quindi di un corpo, ad esempio, un po’ più grande del nucleo della cometa di Halley.

L’oscuramento totale o parziale del Sole avrebbe potuto durare alcuni mesi, forse anche un paio di anni rendendo impossibile la fotosintesi. A seguito di ciò si sarebbe interrotto il primo anello della catena alimentare lasciando senza cibo gli erbivori e di conseguenza anche i carnivori che degli erbivori si cibano. Furono invece solo parzialmente colpiti quegli animali onnivori che basavano la loro dieta su qualsiasi cosa riuscivano a trovare come insetti, vermi, larve e i detriti organici in sospensione sull’acqua. Questo sarebbe il motivo per il quale gli animali di acqua dolce, cioè pesci, anfibi e alcuni rettili furono solo parzialmente colpiti dal disastro.

Certo, la prova definitiva, quella che avrebbe dovuto convincere anche i più scettici, era il ritrovamento del cratere prodotto dall’impatto del meteorite con il suolo. Secondo i calcoli il bolide avrebbe dovuto creare una cavità circolare profonda qualche migliaio di metri e larga più di cento kilometri. Recentemente, nello Yucatan (Messico), è stata individuata una struttura geologica di grandi dimensioni che potrebbe corrispondere al cratere cercato. Anche i sedimenti che ricoprono questo avvallamento del terreno mostrano un’età compatibile con il periodo oggetto di esame. I sostenitori della teoria dell’impatto ritengono che questa sia la prova irrefutabile di come il meteorite fosse l’unica causa della estinzione di massa della fine del Mesozoico.

Nonostante questi ultimi ritrovamenti vi sono ancora alcuni scienziati che però rimangono dubbiosi e preferiscono cercare la causa del disastro ambientale all’interno del pianeta. Costoro sono convinti che una intensa attività vulcanica potrebbe spiegare altrettanto bene l’abbondanza dell’iridio nel periodo di transizione fra Mesozoico e Cenozoico e la fine di gran parte di animali e piante. Si è osservato infatti che alcuni vulcani che emettono lave basaltiche, come ad esempio quelli hawaiani, portano in superficie grandi quantità di iridio. Questi vulcani sorgono in corrispondenza dei cosiddetti punti caldi, zone del mantello profondo da cui partono flussi di materiale fuso ricco di elementi pesanti. Una intensa attività vulcanica del passato avrebbe anche liberato quantità enormi di polveri e anidride carbonica, il gas responsabile dell’attuale surriscaldamento globale per effetto serra. Un notevole aumento della temperatura avrebbe creato dei problemi agli animali di grande taglia. Come abbiamo visto, più un animale è grande più il rapporto fra la sua superficie e il suo volume è piccolo. Ora, poiché attraverso la superficie del corpo avvengono gli scambi di calore con l’ambiente esterno, un animale grande si riscalderà più lentamente di uno piccolo, ma si raffredderà anche più lentamente. I giganteschi dinosauri avrebbero quindi fatto fatica a disperdere il calore accumulato morendo letteralmente di caldo.

Anche in questo caso esiste la prova che in quel periodo l’attività vulcanica fu eccezionalmente intensa. Ad esempio in India in tempi relativamente brevi e proprio nel periodo che sta a cavallo fra il Mesozoico e il Cenozoico si accumularono enormi quantità di lave basaltiche, i famosi traps del Deccan, colate dello spessore di alcune migliaia di metri ed estese per centinaia di migliaia di kilometri quadrati. Nonostante l’incontestabile esistenza dei traps del Deccan l’ipotesi vulcanica di questo straordinario evento presenta alcuni punti deboli, a cominciare dal fatto che il vulcanismo basaltico non è di tipo esplosivo come avrebbe dovuto essere l’eruzione per spiegare l’enorme nube di polvere e gas e la distribuzione di iridio su tutto il pianeta.

Si è tentato anche di conciliare le due proposte, quella del meteorite caduto dal cielo e quella delle eruzioni vulcaniche, immaginando che queste ultime siano state provocate proprio dalla caduta del meteorite. Si ritiene ad esempio che l’Islanda, un’isola vulcanica che si trova in corrispondenza di un punto caldo e nella quale non sono state mai raccolte rocce di età superiore ai 65 milioni di anni, potrebbe essere emersa proprio a seguito dell’impatto di un meteorite caduto nelle sue vicinanze.

 

I CICLI DI ESTINZIONE

Ma gli scienziati non si stancano mai di proporre nuove soluzioni a vecchi problemi. Se l’estinzione di massa di fine Mesozoico è stata causata dall’impatto con un meteorite o con una cometa non è da escludere che anche quelle precedenti e quelle seguenti siano state originate dalla stessa causa. Di recente alcuni astrofisici americani, coadiuvati da un gruppo di paleontologi, hanno condotto uno studio sulla estinzione di diverse specie di animali marini venendo alla conclusione che la loro scomparsa su larga scala si sarebbe verificata mediamente ogni 26 milioni di anni. Se quindi le estinzioni di massa fossero cicliche anziché accidentali come si era sempre ritenuto, esse avrebbero dovuto avere una causa comune. Quale potrebbe essere questa causa? Poiché non si conosceva alcun fenomeno terrestre che si verificasse con questa periodicità, i ricercatori alzarono ancora una volta gli occhi al cielo.

L’evento che avrebbe provocato le periodiche estinzioni di massa potrebbe avere avuto origine nella cosiddetta “nube di Oort”, un anello di polvere e detriti che circonda il sistema solare molto al di là dell’orbita di Plutone. Qualcosa, passando periodicamente nei pressi di quella regione, avrebbe prodotto delle perturbazioni gravitazionali con la conseguente caduta di un gran numero di comete e di meteoriti verso il centro del sistema solare. Inevitabilmente alcuni di questi proiettili sarebbero finiti anche sulla Terra.

Ma quale sarebbe questo “qualcosa” che periodicamente crea scompiglio all’interno della nube di Oort? Secondo l’astronomo americano Richard Muller il responsabile del turbamento gravitativo in quella lontana regione del cielo sarebbe una compagna del Sole, una nana bruna, quindi una stella poco luminosa e di piccola massa (appena un poco più grande di Giove). Questa stella non è stata mai osservata, ma le è stato comunque assegnato un nome: l’hanno chiamata Nemesis (la dea greca della giustizia vendicatrice). Essa avrebbe un periodo di 26 milioni di anni, girerebbe cioè attorno al Sole su un’orbita molto allungata e, durante il viaggio, si troverebbe a sfiorare la nube di Oort causando la fuoriuscita di un numero anomalo di comete destinate a bombardare i pianeti del sistema solare. Le cose però sono tutt’altro che chiare: alcuni astronomi ritengono infatti che un sistema binario del tipo Sole-Nemesis non possa esistere in quanto Nemesis, nel punto più lontano del suo percorso, si avvicinerebbe molto ad altre stelle che con la loro massa ne modificherebbero il tragitto.

Gli stessi scienziati che avanzano dubbi sulla presenza di una stella compagna del Sole pensano che a provocare la caduta anormale di meteoriti sulla Terra possa essere, anziché una stella lontana, un pianeta vicino. Da oltre un secolo gli astronomi stanno cercando un pianeta che perturba il movimento orbitale di Nettuno e Urano. La scoperta di Plutone, avvenuta nel 1930, non ha risolto l’anomalia perché esso è troppo piccolo per giustificare il movimento irregolare dei due grossi pianeti. Alcuni sono convinti che da qualche parte debba esserci un decimo pianeta a cui è stato assegnato il nome di Pianeta X.

Questo pianeta si troverebbe più lontano di Plutone, ma non così lontano da interagire con la nube di Oort che staziona alla distanza di un anno luce dal Sole (per confronto Plutone si trova a sole sei ore luce dal Sole). Esiste però un’altra piccola riserva di comete detta cintura di Kuiper (dal nome dell’astronomo americano che ne suggerì l’esistenza), molto più vicina al sistema solare di quanto non sia la nube di Oort; essa potrebbe essere quindi sfiorata da questo misterioso decimo pianeta la cui massa dovrebbe essere tale non solo da giustificare le discrepanze riscontrate nell’orbita di Urano e Nettuno, ma anche i periodici sciami di comete caduti in passato sulla Terra. Per quanto ampia si possa immaginare l’orbita del Pianeta X essa però non è così grande da far compiere al pianeta un giro intorno al Sole in 26 milioni di anni. In realtà quest’orbita sarebbe resa irregolare da un fenomeno di precessione che porterebbe il pianeta, solo dopo molti giri, in vicinanza della cintura di Kuiper.

E’ chiaro che solo l’osservazione diretta dei due corpi celesti potrebbe convincere gli scettici a prendere in considerazione anche queste ultime ipotesi. Per tale motivo in tutto il mondo gruppi di ricerca sono a caccia di Nemesis e del Pianeta X. Però, anche qualora dovessero venire individuati, gli astronomi fanno notare che se i calcoli sono esatti i due corpi dovrebbero tornare il prossimità della fascia di asteroidi non prima di 13 milioni di anni.

Infine è necessaria un’ultima considerazione: se fosse dimostrata vera la teoria dell’impatto essa rappresenterebbe un cambiamento profondo delle idee consolidate sui meccanismi evolutivi delle forme viventi. Le attuali teorie, infatti, per spiegare le estinzioni degli organismi viventi fanno riferimento a cambiamenti climatici, abbondante attività vulcanica o lotta per l’esistenza: tutti fenomeni che avvengono sulla Terra. L’impatto catastrofico e imprevedibile con corpi di origine extraterrestre introdurrebbe invece, nel processo evolutivo, una causa esterna al pianeta.

Alcuni biologi ritengono inoltre che con la teoria dell’impatto l’importanza della competizione fra specie indicata da Darwin come causa dell’evoluzione sarebbe di molto ridotta. Ad esempio, i mammiferi non avrebbero strappato la Terra ai dinosauri perché più adatti dei rettili ad un ambiente in graduale modificazione, ma a causa di un evento traumatico che se non ci fosse stato, avrebbe potuto consentire ai rettili, e non a loro, di evolvere verso la forma di vita più intelligente del pianeta.

Prof. Antonio Vecchia

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