Le soluzioni

Gli oggetti che ci circondano normalmente non sono costituiti da elementi chimici o da composti, ma da miscele di sostanze diverse. L’acqua che beviamo, ad esempio, non è una sostanza pura, come qualcuno potrebbe pensare, ma una soluzione (seppure molto diluita) di alcuni sali. La stessa aria che respiriamo è un miscuglio di svariati gas, alcuni dei quali, purtroppo, tossici.

Le miscele che si possono formare fra composti ed elementi diversi, poiché non devono rispettare alcun rapporto preciso di combinazione, come avviene invece per gli elementi che formano i composti, sono in numero praticamente illimitato. Per essere più precisi, le diverse sostanze non sono sempre miscibili fra loro in tutte le proporzioni (per esempio non è possibile disciogliere nell’acqua quanto zucchero si vuole), tuttavia la composizione della soluzione acqua-zucchero può essere variata entro limiti molto ampi.

 

MISCELE DI SOSTANZE DIVERSE

Le miscele possono essere classificate, in dipendenza delle dimensioni delle particelle che le costituiscono, in sospensioni, dispersioni colloidali e soluzioni.

L’argilla finemente suddivisa in acqua è un esempio di sospensione. In essa, le particelle sono di dimensioni tali da essere visibili al microscopio e, se la miscela non viene agitata, in un tempo più o meno lungo, le stesse finiranno per depositarsi, mosse dalla gravità, sul fondo del recipiente.

Il latte o la farina sciolta nell’acqua sono esempi di dispersioni colloidali (ossia simili alla colla). Le particelle disperse nel liquido, sono, in questo caso, all’incirca mille volte più piccole di quelle presenti nelle sospensioni. Esse non sono visibili al microscopio, ma possono tuttavia essere messe in risalto illuminandole opportunamente. Il fenomeno si chiama “effetto Tyndall” dal nome dello scienziato inglese John Tyndall (1820-1893) e consiste in una particolare diffusione della luce da parte delle particelle illuminate lateralmente. Questo fenomeno può essere assimilato all’osservazione di uno specchietto illuminato dal Sole posto a notevole distanza. In questo caso, quello che si vede non è lo specchietto nella sua forma e dimensione, ma il bagliore che esso crea per effetto della luce che lo colpisce.

Le soluzioni sono miscele omogenee di due o più componenti, la cui composizione può variare, anche se solo entro certi limiti. Con il termine omogeneo si intende affermare che due volumi diversi della stessa soluzione hanno le medesime proprietà chimico-fisiche e la stessa composizione.

Per quanto riguarda lo stato fisico delle soluzioni non esiste alcuna restrizione: esse possono essere gassose, liquide o solide. Esempi di soluzione di solidi sono le leghe come l’ottone che è formato di rame e zinco o il bronzo, lega di rame e stagno. La gomma è un esempio di soluzione di un gas in un solido. L’aria è invece un esempio di soluzione gassosa e l’aria umida quella di un liquido in un gas. Le soluzioni più comuni sono però quelle in cui sostanze di vario tipo sono sciolte in un liquido, molto spesso acqua.

Come abbiamo accennato, non tutte le sostanze sono miscibili fra loro, né lo sono in tutte le proporzioni. L’olio, ad esempio, non si scioglie nell’acqua, ma lo fa nella benzina: una soluzione di olio e benzina è ad esempio la “miscela” che si usa come carburante per le moto. Viceversa lo zucchero è solubile nell’acqua ma non nella benzina: uno scherzo di cattivo gusto, come molti sanno, è quello di versare dello zucchero nel serbatoio dell’automobile.

Una regola per stabilire la reciproca solubilità delle sostanze è quella di fare riferimento al detto “il simile scioglie il simile”. Con ciò si vuole intendere che soluti di natura ionica o polare sono solubili in solventi polari come l’acqua, mentre soluti non polari come i grassi sono solubili in solventi non polari come gli idrocarburi (cioè le sostanze che compongono la benzina). I saponi sono costituiti da lunghe molecole polari (cioè affini con l’acqua) da una parte e apolari (cioè affini con i grassi) dall’altra ed è grazie a questa particolare struttura molecolare che i saponi staccano le molecole di grasso dai colli delle camicie e le trasferiscono nell’acqua.

Lo studio delle soluzioni di solito viene condotto su soluzioni diluite anche perché tali soluzioni tengono un comportamento che molto si avvicina ad una situazione ideale. In queste soluzioni, poiché un componente è preminente sugli altri, si usa parlare di solvente riferendosi al componente più abbondante e di soluto riferendosi a tutti gli altri. E’ evidente comunque il significato relativo di una tale distinzione: per i liquidi miscibili in tutte le proporzioni (come per esempio per acqua ed alcool), non ha senso parlare di soluto e solvente.

 

LE SOLUZIONI ACQUOSE

Come abbiamo accennato, le soluzioni acquose sono quelle in cui il solvente è l’acqua. L’acqua è una delle sostanze più importanti che esista sulla Terra: essa si trova in ogni luogo e, a causa delle sue proprietà, determina la natura stessa del mondo fisico e biologico in cui viviamo. Queste proprietà sono esclusive e derivano fondamentalmente dalla particolare struttura delle sue molecole le quali, essendo fortemente polari, sono capaci di attrarsi reciprocamente in modo molto energico.

Una delle proprietà più interessanti dell’acqua allo stato liquido è quella di disciogliere gran numero di sostanze, solide, liquide e gassose, formando soluzioni di ogni genere. Senza essere il solvente uni­versale, in quanto molte sostanze non sono solubili in essa, l’acqua rappresenta tuttavia il solvente più diffuso, sia nell’ambiente naturale sia in quello artificiale. In soluzioni acquose si svolgono infatti la maggior parte dei processi geologici e biologici, così come in soluzioni acquose avvengono molte trasformazioni industriali.

Le soluzioni acquose acquistano particolare interesse nella chimica perché rappresentano il mezzo più appropriato attraverso il quale le sostanze possono venire a contatto e quindi reagire. Ad esempio, alcune sostanze che allo stato solido reagirebbero molto lentamente e molto limitatamente, sciolte nell’acqua, reagiscono invece velocemente e completamente.

In seguito vedremo di approfondire alcune leggi che regolano il comportamento delle soluzioni in generale e di quelle acquose in particolare, soprattutto quelle inerenti agli equilibri. Gli equilibri che si instaurano fra le molecole e fra gli ioni in soluzione consentono di comprendere i meccanismi che regolano i rapporti di interdipendenza fra le particelle del soluto e quelle del solvente e quindi di spiegare il decorso delle reazioni stesse.

Prima di entrare in argomento è importante chiarire che l’acqua, all’interno delle soluzioni, non gioca il ruolo di semplice comprimario, nel senso che la sua azione non si esaurisce con la dispersione del soluto nel solvente, ma partecipa essa stessa attivamente alle tra­sformazioni che avvengono al suo interno. Il processo di solubilizzazione viene ritenuto normalmente un fenomeno fisico perché le proprietà chimiche del soluto non cambiano quando questo si trova disciolto in un solvente. Ma che cosa succede in realtà quando sostanze di varia natura vengono poste in acqua? Le evidenze sperimentali e i modelli sulla costituzione intima della materia, consentono di interpretare il fenomeno della dissoluzione come un fenomeno di natura non fisica, ma chimica. Esso cioè, a dispetto delle apparenze, è un fenomeno nel quale avviene una vera e propria reazione fra le molecole del solvente e quelle del soluto.

 

SOLUZIONI SATURE E SOLUBILITÀ

In precedenza abbiamo definito le soluzioni come miscugli fisicamente e chimicamente omogenei di due o più specie chimiche. Abbiamo anche detto che normalmente al componente in quantità maggiore viene dato il nome di solvente, mentre le altre sostanze si chiamano soluti. Nelle soluzioni acquose vedremo che l’acqua viene sempre definita il solvente.

Vi sono sostanze molto solubili in acqua e sostanze poco solubili o per nulla solubili. Avviene molto di rado, tuttavia, che soluto e solvente siano miscibili in tutte le proporzioni. Di solito si nota che dopo che si è versata in acqua una certa quantità di soluto, questo non si scioglie più oltre, ma sfugge dal sistema e, se è un gas si libera nell’aria, se è un liquido si separa in uno strato superiore o inferiore e se è un solido si deposita sul fondo del recipiente, formando il cosiddetto “corpo di fondo”. Quando una soluzione ha raggiunto il limite massimo di concentrazione ed è anche in presenza del soluto indisciolto, si dice che è satura.

In una soluzione satura, a temperatura costante, sembra che non avvenga alcun cambiamento in quanto la concentrazione del soluto rimane costante. In realtà, fra soluto indisciolto e soluto in soluzione, vi è un continuo scambio di particelle. Lo scambio fra le particelle di soluto indisciolto e le particelle di soluto disciolto può essere messo in evidenza in modo molto semplice. Se ad esempio, in una soluzione satura di un solido si aggiunge della sostanza identica a quella che forma il corpo di fondo, ma con gli atomi radioattivi, si osserva, dopo breve tempo, che la soluzione diviene anch’essa radioattiva senza che sia cambiata tuttavia la sua concentrazione. Possiamo quindi affermare che in una soluzione satura, il processo di dissoluzione che porta particelle di soluto in soluzione e quello di precipitazione che riporta particelle dalla soluzione al corpo di fondo, sono due operazioni che avvengono alla stessa velocità. Una soluzione satura è quindi un sistema in equilibrio dinamico.

Si definisce solubilità di una certa sostanza in un determinato solvente, la massa (normalmente espressa in grammi o in moli) di quella certa sostanza che, ad una data temperatura, si trova disciolta in 1 litro di soluzione (o di solvente), quando la soluzione stessa è satura. La solubilità di una sostanza varia con la temperatura e, se il soluto è un gas, anche con la pressione.

 

I FATTORI FISICI CHE INFLUENZANO LA DISSOLUZIONE

Il fenomeno della dissoluzione, oltre che dipendere dalla natura del soluto e del solvente, dipende anche dalla pressione e dalla temperatura. La pressione ha influenza solo nel caso di gas, mentre, per quanto riguarda la temperatura, bisogna stare accorti a non confondere l’effetto che questa ha sulla velocità della dissoluzione, con quello relativo alla solubilità.

Per i gas si osserva che la loro solubilità nei liquidi, e in particolare nell’acqua, è direttamente proporzionale alla pressione esercitata su di essi: i gas infatti sono più solubili nei liquidi se la pressione alla quale sono sottoposti è alta. A tutti è noto, ad esempio, che l’anidride carbonica, contenuta nelle bevande gassate e nello spumante, si trova sotto pressione e, quando la bottiglia viene stappata, la pressione diminuisce e il gas esce dal liquido producendo il classico “botto”: tale detonazione è tanto più forte quanto più gas si libera al momento dell’espulsione del tappo, e quindi quanto maggiore era la pressione alla quale in quel momento si trovava sottoposto il gas nel liquido.

La dipendenza della solubilità di un gas dalla sua pressione viene espressa da una legge scoperta dal chimico inglese William Henry (1775-1836) all’inizio del 1800. La legge, detta legge di Henry, può essere enunciata nei seguenti termini: “La quantità di gas che si scioglie in un liquido è direttamente proporzionale alla pressione parziale del gas a temperatura costante”.

Per quanto riguarda la temperatura, si osserva che un suo aumento, fa aumentare sempre la velocità della dissoluzione (come d’altronde per qualsiasi reazione chimica), mentre, per la solubilità, in genere, un aumento di temperatura, favorisce la dissoluzione dei solidi e dei liquidi, mentre ostacola quella dei gas. Tutti avranno notato, ad esempio, che quando si stappa una bibita gassata calda, l’anidride carbonica tende ad abbandonare il liquido tumultuosamente, formando la tipica schiuma, mentre, quando la bibita è ben fredda, le molecole di CO2 sono più restie ad allontanarsi dal liquido stesso. Questo succede perché i gas sono più solubili nei liquidi freddi che in quelli caldi. Lo stesso effetto di un aumento della temperatura si ottiene, come tutti avranno notato, agitando la bottiglia che contiene la bibita gassata. Ciò dimostra che la temperatura è l’espressione dell’agitazione delle molecole che costituiscono il corpo.

Un altro esempio che mette in evidenza la diminuzione della solubilità dei gas nei liquidi, con l’aumento della temperatura, è dato dalle bollicine che si formano sulle pareti interne della pentola nella quale si sta riscaldando dell’acqua: le bollicine non sono altro che l’aria la quale, nel liquido caldo, diviene meno solubile e quindi tende a liberarsi. D’altronde si sa che i mari del Nord sono più pescosi di quelli del Sud perché quelle acque fredde sono più ricche di ossigeno.

Per quanto riguarda i solidi e i liquidi vi sono casi in cui un aumento di temperatura fa aumentare la loro solubilità in acqua e casi in cui l’aumento di temperatura ne fa diminuire la solubilità. In genere possiamo però affermare che una variazione di temperatura provoca modesti effetti sulla solubilità dei liquidi e dei solidi.

 

UN MODELLO PER LE SOLUZIONI

Le leggi che regolano il comportamento delle soluzioni sono molto simili a quelle che descrivono il comportamento dei gas. Come mai questa coincidenza? Una risposta convincente esce dal confronto fra il modello dei gas e quello delle soluzioni. Cominciamo allora col costruire un modello, come si è fatto per i gas, anche per le soluzione.

Quando ad esempio si scioglie nell’acqua del sale (ad esempio cloruro di sodio), che cosa succede a livello microscopico? Verosimilmente le molecole di acqua nel loro moto disordinato e frenetico vanno ad urtare gli ioni che formano il solido cristallino, liberandoli dal reticolo nel quale sono tenuti insieme da forze elettrostatiche. A mano a mano che il cristallo di sale si disgrega, gli ioni positivi e negativi che lo costituiscono finiscono nell’acqua e dopo un certo tempo il soluto si trova disperso uniformemente nel solvente.

Possiamo a questo punto immaginare che nel recipiente che contiene la soluzione vi siano particelle di soluto (sotto forma di ioni) libere di muoversi fra quelle di solvente (l’acqua) e che fra le particelle di solvente e quelle di soluto si instaurino forze di attrazione più forti di quelle gravitazionali che tenderebbero a far cadere le particelle di soluto sul fondo del recipiente.

Siamo in grado quindi di costruire il nostro modello di soluzione immaginando un sistema nel quale le particelle di soluto e quelle di solvente (che in prima approssimazione possiamo ritenere sferette più o meno tutte delle stesse dimensioni) che, indipendenti fra loro, vagano liberamente all’interno del recipiente che le contiene. Questo modello può ritenersi effettivamente coerente con la realtà? In particolare, le particelle di soluto possono considerarsi realmente indipendenti l’una dall’altra?

Ecco allora che il nostro modello di soluzione diventa molto simile a quello dei gas. Nel modello di gas le particelle di materia vengono immaginate molto distanziate fra loro e quindi praticamente indipendenti. Una mole di acqua, ad esempio, che allo stato liquido occupa il volume di 18 cm³ (il contenuto di un cucchiaio), allo stato gassoso occupa il volume di 22,4 dm3 (una tanica di cherosene). La distanza fra le molecole è quindi aumentata di più di mille volte e le particelle si trovano a distanze tali da risultare del tutto indipendenti le une dalle altre.

L’assenza di interazioni fra particelle fa sì che molecole molto diverse per proprietà chimiche, dimensioni, massa e forme, possano essere descritte semplicemente come microscopiche sferette tutte identiche fra loro. In altre parole, gas di natura diversa sottostanno a leggi di validità generale e il loro comportamento non dipende dalla natura, ma solo dal numero, dall’affollamento e dall’agitazione di queste particelle.

Ora, il motivo per il quale le leggi che descrivono il comportamento delle soluzioni assomigliamo molto a quelle dei gas risiede proprio nel fatto che i due modelli si assomigliamo molto soprattutto se ci si riferisce a condizioni ideali, ossia a gas rarefatti e a soluzioni diluite. L’unica differenza consiste nel fatto che mentre nei gas lo spazio fra le molecole è vuoto, nelle soluzioni tale spazio è occupato dalle molecole del solvente. Per tale motivo, nelle soluzioni, le particelle del solvente, non rappresentando il “nulla”, come nel caso dei gas, ma determinano esse stesse differenze, anche sostanziali, fra un tipo di soluzione e un altro.

 

IL MECCANISMO DELLA DISSOLUZIONE

Il processo di dissoluzione viene ritenuto normalmente un fenomeno fisico perché le proprietà chimiche del soluto non cambiano quando questo si trova disciolto in un solvente. Ma che cosa succede in realtà quando sostanze di varia natura vengono poste ad esempio in acqua? Le evidenze sperimentali e i modelli sulla costituzione intima della materia, consentono di interpretare il fenomeno della dissoluzione come un fenomeno di natura chimica. Esso cioè, a dispetto delle apparenze, è un fenomeno nel quale avviene una vera e propria reazione fra le molecole del solvente e quelle del soluto. Nel caso in cui l’acqua si limiti a rompere i legami che tengono unite le molecole di un solido molecolare (es. zucchero) senza produrre ioni, si parla di semplice solubilizzazione.

Al fenomeno della dissoluzione deve essere quindi possibile applicare le stesse leggi che regolano il comportamento delle sostanze che reagiscono chimicamente e in particolare dovrebbero essere valide le leggi della termodinamica in cui la spontaneità di una reazione chimica è determinata dall’aumento di entropia dell’Universo. Pertanto, anche la dissoluzione di un soluto in un solvente dovrebbe avvenire per le stesse ragioni.

In effetti, quando si discioglie una sostanza in un solvente le particelle del soluto si disperdono nel solvente e il disordine, all’interno del recipiente, aumenta. Se a ciò si aggiunge il fatto che la disso­luzione spesso è accompagnata da produzione di calore, si comprende come questo evento faciliti ulteriormente la dissoluzione. Il calore liberato in seguito alla dissoluzione va infatti ad aumentare il disordine dell’ambiente circostante e quindi, nel complesso, si ha un cospicuo aumento di entropia dell’Universo.

La dissoluzione del soluto nel solvente non produce tuttavia sempre disordine all’interno del recipiente. Quando ad esempio un gas si discioglie nell’acqua avviene un aumento di ordine e non di disordine. Le molecole del gas e quelle dell’acqua sono infatti più disordinate quando sono a sé stanti che quando si trovano mescolate insieme in soluzione. La dissoluzione di un gas avviene quindi con aumento di ordine e se non fosse che il fenomeno procede con produzione di calore esso non sarebbe spontaneo e i gas non sarebbero solubili in acqua.

In realtà, anche la liberazione di calore che avviene in seguito alla dissoluzione dei gas in acqua potrebbe non essere sufficiente a garantire la spontaneità del processo; bisogna infatti vedere a quale temperatura il fenomeno si realizza. In altre parole, quando il fattore entalpico e quello entropico di un processo, sono fra loro discordanti (come è appunto il caso dei gas che si sciolgono in acqua) la temperatura diviene il parametro discriminante per decidere della spontaneità del fenomeno stesso. I gas, come abbiamo visto, sono più solubili in acqua fredda che in acqua calda proprio perché a temperature basse il termine entropico, che ostacolerebbe la spontaneità della dissoluzione, acquista un valore piuttosto basso e tale da essere generalmente sovrastato da quello entalpico che è invece favorevole alla dissoluzione.

Vediamo ora che cosa succede quando la mescolanza avviene fra due liquidi. In questi casi è preferibile parlare di miscibilità piuttosto che di solubilità. L’esperienza insegna che vi sono casi in cui i liquidi sono miscibili in tutte le proporzioni (ad esempio acqua ed alcol), e casi in cui i liquidi non sono miscibili affatto (ad esempio acqua ed olio). A che cosa sono dovuti questi comportamenti così diversi?

Per rispondere è necessario analizzare il fenomeno della dissoluzione a livello microscopico. Che cosa avviene cioè a livello delle singole particelle quando un soluto si disperde in un solvente liquido? Possiamo immaginare, in generale, che quando un liquido o un solido si discioglie ad esempio nell’acqua le singole particelle del soluto vengano sottoposte alla concorrenza di due processi opposti: da una parte il distacco di particelle del soluto per azione del solvente e dall’altra la formazione di nuovi legami fra particelle di soluto e particelle di solvente. Quest’ultimo fenomeno è detto solvatazione delle particelle del soluto.

Il primo processo richiede energia per avvenire e può essere assimilato alla fusione di un solido o alla evaporazione di un liquido; esso richiede energia perché si tratta di allontanare fra loro particelle che sono legate insieme. Il secondo processo invece libera energia e può essere assimilato alla caduta di un grave verso una posizione di minor contenuto energetico.

Se il primo processo prevale sul secondo la reazione è endotermica ed è facilitata da un aumento di temperatura; se il secondo processo prevale sul primo la reazione è esotermica ed è facilitata da una diminuzione di temperatura. Nel caso di soluzioni acquose di liquidi, i differenti gradi di solubilità dipendono, come già sappiamo, dalle differenti strutture molecolari che caratterizzano i liquidi stessi. Pertanto, liquidi con strutture molecolari molto simili e quindi anche con attrazioni inter­molecolari più o meno della stessa intensità, si mescolano in tutte le proporzioni. Nel caso di acqua ed alcol ad esempio, le molecole sono, in entrambi i casi, strutture polari legate a loro volta da legami a idrogeno. Quando questi liquidi si mescolano, i legami a idrogeno si rompono, ma poi si riformano, dello stesso tipo, fra le molecole del solvente e quelle del soluto. Poiché non cambiano i tipi di legame, né le forze di attrazione fra molecole, non vi è alcuna variazione di energia fra i liquidi prima e dopo il mescolamento. In questi casi, ovviamente, la miscibilità non è né ostacolata, né facilitata, da una variazione di temperatura.

L’immiscibilità o la parziale miscibilità di alcuni liquidi si ha invece quando le rispettive forze intermolecolari sono molto forti e anche di natura diversa. L’olio e l’acqua, ad esempio, sono praticamente immiscibili perché le molecole apolari dell’olio sono tenute insieme da legami di natura diversa da quella che tiene unite le molecole polari dell’acqua. Le forze attrattive olio-acqua sono quindi molto più deboli di quelle che sono presenti fra le molecole dei rispettivi liquidi puri e per questo motivo non si realizza la mutua dissoluzione.

Nel caso della dissoluzione di un solido in un liquido, è evidente che questa comporta un aumento di disordine nel sistema in quanto, le particelle all’interno del solido, sono sicuramente più ordinate di quanto non lo siano nella soluzione. Tuttavia, se il processo è endotermico (come accade ad esempio quando si scioglie in acqua il nitrato di ammonio) bisogna vedere se l’ordine creato nell’ambiente, in seguito alla sottrazione di calore da parte del sistema, non superi il disordine prodotto all’interno del sistema stesso: in tal caso la dissoluzione non avverrebbe.

Qualora, in seguito ad una reazione, si formasse un solido il quale avesse la caratteristica di dissolversi con processo endotermico, cioè assorbendo calore dall’esterno, tale dissoluzione non avverrebbe e il solido precipiterebbe sul fondo del recipiente, se il richiamo di calo­re dall’esterno, da parte del sistema, fosse di notevole entità. In tal caso infatti l’abbassamento di temperatura all’esterno del sistema produrrebbe un aumento di ordine di tale portata da sopraffare il disordine che eventualmente si sarebbe prodotto nel sistema in seguito alla dissoluzione.

E’ necessario ancora, prima di concludere, giustificare il fatto che alcuni gas, come ad esempio anidride carbonica ed ammoniaca, risultano enormemente più solubili in acqua rispetto alla media. Ciò dipende dal fatto che questi gas non si limitano a disciogliersi nell’acqua, ma reagiscono con essa formando nuove molecole, e scomparendo quindi come tali. La soluzione allora, essendosi liberata di molecole di gas, è in grado di accoglierne di nuove, dando la sensazione che il gas in questione sia molto solubile. Le reazioni con l’acqua di anidride carbonica e ammoniaca sono le seguenti:

CO2 + H2O  ⇄  H2CO3   (acido carbonico)
NH3 + H2O  ⇄  NH4OH  (idrossido di ammonio)

 

METODI PER ESPRIMERE LA CONCENTRAZIONE DELLESOLUZIONI

Le proprietà delle soluzioni dipendono, in larga misura, dal rapporto quantitativo dei loro componenti. E’ importante quindi definire con precisione la composizione di una soluzione, cioè la sua concentrazione. Sono stati escogitati vari sistemi per esprimere la concentrazione delle soluzioni e una tale varietà di metodi diversi dipende sia dalla molteplicità delle tecniche sperimentali utilizzate per la loro determinazione, sia dal fatto che alcune leggi acquistano forma matematica molto semplice scegliendo una determinata unità di misura piuttosto che un’altra.

Un modo molto semplice per esprimere la concentrazione delle soluzioni è quello di pesare i vari costituenti (oppure, nel caso di gas e liquidi, di misurare i volumi) e di esprimere poi i valori in percentuali (%) in peso (o in volume). Questa tecnica, tuttavia, non è molto usata in chimica.

Le unità di misura più comuni usate dai chimici per esprimere le concentrazioni delle soluzioni, sono la molarità (M), la molalità (m), la frazione molare (X) e la normalità (N).

La molarità di una soluzione è il numero di moli di soluto contenute in un litro di soluzione (mol/L = moli per litro). Ad esempio, una soluzione 0,1 molare di cloruro di sodio in acqua si prepara pesando un decimo di mole di NaCl (5,85 g) ed aggiungendo acqua fino a raggiungere il volume complessivo di un litro. La molarità si indica con M, oppure ponendo fra parentesi quadra la formula del soluto. Nel nostro esempio la soluzione può essere espressa in uno dei seguenti modi: 0,1 M di NaCl, oppure [NaCl] = 0,1.

La molalità di una soluzione viene definita come il numero di moli di soluto in 1000 grammi di solvente (mol/kg = moli per kilogrammo). Ad esempio, una soluzione 0,1 molale di cloruro di sodio in acqua, si ottiene pesando 0,1 moli di NaCl (5,85 g) e aggiungendo 1000 g di acqua. Il simbolo della molalità è m.

La frazione molare può essere definita come il rapporto tra il numero di moli (n) del soluto e il numero di moli totali di tutti i costituenti la soluzione. Nel caso di una soluzione a due soli componenti, A e B, le rispettive frazioni molari vengono espresse con i seguenti due rapporti:

nA                                       nB
XA = —————                   XB = —————
nA  + nB                              nA  + nB

Ad esempio, una soluzione formata da 5 moli di alcool e 10 moli di acqua, avrà una frazione molare, rispetto all’alcool (Xal) pari a:

Xal =  5/(5+10) = 1/3,

mentre rispetto all’acqua la frazione molare (Xaq) sarà:

Xaq = 10/(5+10) = 2/3.

Si osservi che Xal + Xaq = 1.

Per definire la normalità di una soluzione, di cui si parlerà in seguito, servono i concetti di peso equivalente e grammo equivalente.

 

PROPRIETA’ COLLIGATIVE DELLE SOLUZIONI

Sotto il termine di proprietà colligative (dal greco kollikes = particelle), va tutto quell’insieme di proprietà della materia che dipende esclusivamente dal numero delle particelle presenti senza riguardo alla loro composizione chimica, alla loro forma o ad altro. Trattando i gas, senza averlo indicato esplicitamente, sono state descritte alcune loro proprietà, come il volume o la pressione, che sono altrettanti esempi di proprietà colligative dei sistemi gassosi.

Le proprietà colligative delle soluzioni sono la tensione di vapore, l’innalzamento ebullioscopico, l’abbassamento crioscopico e la pressione osmotica. Cominciamo con l’analizzare la prima di esse.

Come abbiamo accennato, esistono dei liquidi, come acqua ed alcool etilico, che sono miscibili in tutte le proporzioni. Consideriamo allora una soluzione di questi due liquidi in un recipiente chiuso riempito a metà. Poiché si tratta di sostanze volatili, si formeranno, sopra la soluzione, dei vapori, la cui pressione totale sarà data dalla somma delle pressioni parziali degli stessi. Quindi in ottemperanza con la legge di Dalton delle pressioni parziali, varrà:

Pt = Pal + Paq

Cioè la pressione totale (Pt) dei vapori che si liberano dalla nostra soluzione, è data dalla somma delle pressioni parziali Pal e Paq dei singoli vapori relativi ai due liquidi che costituiscono la soluzione (cioè alcool e acqua).

Se ora prendiamo in considerazione la pressione parziale di uno solo dei liquidi che costituiscono la soluzione, è evidente che il suo valore dipenderà sia dalla volatilità del liquido da cui deriva il vapore stesso, sia dalla sua abbondanza relativa nella soluzione.

Il fisico e chimico francese François-Marie Raoult (1830-1901) riuscì ad individuare l’equazione matematica che lega tali grandezze fisiche. Essa prende il nome di “legge di Raoult” e si presenta nella seguente forma:

PA = XA ∙ P°A

dove con PA si è indicata la pressione parziale del vapore di un generico liquido A in seno alla soluzione, con XA la frazione molare relativa al liquido A, e con P°A la pressione di vapore che il liquido A eserciterebbe se fosse allo stato puro.

La legge che abbiamo mostrato è valida solo per soluzioni diluite. Le soluzioni diluite che seguono la legge di Raoult sono soluzioni molto vicine ad una situazione ideale, cioè ad un comportamento limite analogo a quello che abbiamo individuato per i gas.

Consideriamo ora una soluzione che contiene un soluto non volatile, come ad esempio una soluzione di acqua e zucchero. Se indichiamo con A il solvente e con B il soluto, sostituendo nella legge di Dalton, i valori espressi dalla legge di Raoult, avremo:

Pt  = PA + PB = (XA ∙ P°A) + (XB ∙ P°B)

Ora, poiché il soluto che abbiamo preso in considerazione non è volatile, per esso deve valere P°= 0, e di conseguenza tutto il secondo termine dell’equazione scritta sopra assumerà valore zero. L’equazione allora diventerà:

Pt = PA = XA ∙ P°A

Questa espressione suggerisce che la tensione di vapore Pt di una soluzione contenente un soluto non volatile, è sempre minore della tensione di vapore P°A del solvente puro (si ricordi che XAassume sempre un valore inferiore a 1). Dalla stessa equazione si ricava anche che la tensione di vapore di una soluzione assume valori tanto più bassi quanto maggiore è la sua concentrazione.

 

EBULLIOSCOPIA E CRIOSCOPIA 

Esperimenti effettuati su soluzioni di diversa natura e a diverse concentrazioni, hanno consentito di individuare alcune regolarità che legano le variazioni delle temperature di ebollizione e di congelamento delle soluzioni con le rispettive concentrazioni.

Sappiamo, ad esempio, che l’acqua pura bolle a 100 °C se la pressione è quella di 1 atmosfera. Abbiamo anche potuto verificare sperimentalmente che le soluzioni contenenti un soluto non volatile, presentano una tensione di vapore inferiore a quella del solvente puro. Da ciò si deduce che una soluzione contenente un soluto non volatile (del tipo acqua e zucchero), alla pressione di 1 atm, dovrebbe bollire a temperature superiori ai 100 °C .

Questo è proprio ciò che l’esperienza mostra. Se indichiamo con teb l’innalzamento della temperatura di ebollizione (innalzamento ebullioscopico) di una soluzione e con m la sua molalità, la relazione matematica che lega le due grandezze è la seguente:

teb = Keb ∙ m

dove Keb è una costante detta “costante ebullioscopica”, che dipende solo dalla natura del solvente. Per l’acqua Keb = 0,52 kg ∙ K ∙ mol-1.

Analogamente si osserva che le soluzioni congelano a temperature inferiori a quelle dei solventi puri che le costituiscono. Se indichiamo con tcr l’abbassamento della temperatura di congelamento di una soluzione, l’espressione matematica relativa all’abbassamento crioscopico (dal greco kryos = gelo) di una soluzione, assume la seguente forma:

tcr = Kcr ∙ m

dove Kcr è la “costante crioscopica”. Per l’acqua vale 1,86 kg ∙ K ∙ mol-1.

Anche in questi casi le leggi sono applicabili solo a soluzioni sufficientemente diluite, e solo se i soluti passano in soluzione sotto forma di molecole. Vedremo in seguito che se le particelle del soluto in soluzione si dissociano, cioè si dividono in ioni, si riscontrano deviazioni anche notevoli dalle leggi che abbiamo esposto.

Infine si fa osservare, per inciso, che le leggi descritte sopra rappresentano altrettanti metodi per la determinazione dei pesi molecolari delle sostanze.

 

LA PRESSIONE OSMOTICA

L’osmosi (dal greco osmòs = spinta) è un processo caratteristico delle soluzioni e riveste particolare importanza nel mondo biologico per gli scambi di materia che le cellule operano con l’ambiente esterno. Cerchiamo di comprendere il meccanismo d’azione del fenomeno attraverso l’esperimento che si svolge all’interno di una vaschetta a forma di U, in cui una membrana semipermeabile posta a metà strada fra i due bracci della vaschetta separa una soluzione molto concentrata (per esempio acqua e zucchero) dall’acqua pura. Le membrane semipermeabili sono strutture molto diffuse in natura (ma si possono anche preparare artificialmente) che hanno la caratteristica di lasciarsi attraversare da alcune sostanze, ma non da altre. La loro azione è quindi selettiva nei confronti delle molecole di una soluzione.

Dopo un po’ di tempo dall’inizio dell’esperimento si osserva che il livello del liquido, all’interno di uno dei due bracci del contenitore, è salito, mentre nell’altro è sceso: fra i due bracci si è venuto quindi a formare un certo dislivello.

L’analisi quantitativa della soluzione rivela che essa è ora più diluita di quanto non fosse all’inizio; la composizione dell’acqua pura, dall’altra parte della membrana, è rimasta invece identica. Poiché si è anche osservato che il livello della soluzione è salito, mentre è sceso quello dell’acqua pura, bisogna ammettere che dell’acqua ha attraversato la membrana dirigendosi, da dove era contenuta allo stato puro, verso la soluzione.

Come possiamo spiegare il fenomeno? Naturalmente facendo ricorso alla teoria atomico molecolare della materia. Cominciamo allora con l’osservare che la membrana semipermeabile è fatta anch’essa di molecole e fra le molecole, verosimilmente, vi sono degli spazi attraverso i quali possono passare le molecole di acqua, ma non quelle di zucchero.

All’inizio dell’esperimento, le molecole di acqua che urtano contro la membrana, dalla parte in cui è contenuta acqua pura, sono in numero maggiore rispetto a quelle che fanno altrettanto dalla parte opposta. Pertanto, per una questione di probabilità, deve risultare alla fine maggiore il numero di molecole d’acqua che passano da dove questa è allo stato puro verso la soluzione che non nel senso opposto. Le molecole di zucchero, frattanto, non si spostano perché la membrana semipermeabile, proprio per le sue particolari caratteristiche, ne impedisce il passaggio. L’effetto complessivo a cui si assiste deve essere quindi quello di uno spostamento netto di molecole d’acqua da dove è allo stato puro verso la soluzione la quale, conseguentemente, aumenterà di volume e si diluirà.

Ora, a mano a mano che il livello del liquido aumenta, aumenta anche il suo peso e di conseguenza aumenta la pressione idrostatica che si produce sulla membrana semipermeabile. L’osmosi ha quindi l’effetto di produrre una pressione, la quale a sua volta arresterà il movimento delle molecole d’acqua verso la soluzione e il fenomeno avrà termine.

Sperimentalmente si osserva che maggiore è la concentrazione di zucchero della soluzione e maggiore è la pressione idrostatica necessaria per arrestare il processo. La misura di questa grandezza fornisce pertanto informazioni relative alla composizione quantitativa della soluzione.

Per misurare questa pressione, immaginiamo di porre dei pesi sul braccio dell’apparecchio in cui è contenuta la soluzione fino ad impedire il processo osmotico. Dal valore di questi pesi si perviene alla determinazione di quella che viene definita la pressione osmotica: questa infatti non è altro che la pressione che bisogna esercitare sulla soluzione affinché non si verifichi il fenomeno di osmosi.

Sperimentalmente si è osservato che esiste una relazione semplice che lega pressione osmotica e concentrazione di una soluzione. Indicando con π (pi greca) la pressione osmotica, con n il numero di moli di soluto contenute in una soluzione di volume V, alla temperatura T, si ricava una relazione molto simile all’equazione di stato dei gas ideali. Essa viene scritta nel modo seguente:

π · V = n · R · T

dove R è una costante di proporzionalità che assume lo stesso valore numerico della costante dei gas.

Sostituendo il rapporto n/V con M, cioè con la molarità della soluzione, l’equazione diventa:

π = M · R · T

Gli effetti della pressione osmotica, come abbiamo accennato, sono molto importanti sulle cellule degli organismi viventi. Tutte le cellule sono circondate da membrane semipermeabili che consentono il passaggio di molecole d’acqua e di altre molecole di piccole dimensioni, ma non delle molecole più grosse. Se una cellula viene posta in una soluzione più concentrata (soluzione ipertonica) di quella del suo protoplasma, la cellula tenderà a cedere acqua all’esterno per riportare ad uguale valore le pressioni interna ed esterna, e si raggrinzirà. Se invece la cellula si trovasse immersa in una soluzione ipotonica cioè più diluita rispetto a quella del contenuto cellulare, l’acqua tenderà a passare all’interno della cellula fino a farla eventualmente scoppiare. Per conservare le cellule integre, bisogna porle in soluzioni che abbiano la stessa concentrazione del protoplasma. Non ha importanza la composizione chimica della soluzione: purché non si tratti di sostanze velenose, può andar bene qualsiasi soluto. Due soluzioni che abbiano la stessa concentrazione sono dette soluzioni isotoniche.

 

LE SOLUZIONI ELETTROLITICHE

Le soluzioni acquose possono condurre o meno la corrente elettrica. Il passaggio della corrente elettrica attraverso una soluzione acquosa non può che dipendere dalla presenza del soluto in quanto, come sappiamo, l’acqua di per sé non conduce l’elettricità.

Abbiamo visto che alcune sostanze, quando si sciolgono in acqua, formano ioni, mentre altre liberano semplicemente le loro molecole senza formare ioni. Si chiamano elettroliti quelle sostanze che, allo stato fuso, oppure in soluzione, conducono l’elettricità, perché sono presenti sotto forma di ioni.

Le soluzioni acquose di sali, di acidi e di basi sono tutte soluzioni elettrolitiche, ma gli ioni presenti in soluzione, in alcuni casi già si trovavano come tali nel soluto (composto a struttura ionica), in altri casi si sono formati in seguito ad una reazione fra le molecole del soluto e l’acqua. Nel primo caso si parla, più precisamente, di un fenomeno di dissociazione elettrolitica, cioè di un processo che consiste nella demolizione del reticolo ionico, da parte del solvente. Nel secondo caso è più appropriato parlare di ionizzazione perché gli ioni non sono preesistenti nel composto come tali, ma si formano in seguito a vere e proprie reazioni tra il solvente e le molecole disciolte. Infine, nel caso in cui l’acqua si limiti a rompere i legami che tengono unite le molecole di un solido molecolare (es. zucchero) senza produrre ioni, si parla di semplice solubilizzazione.

Tutti i sali sono solidi ionici e vengono definiti elettroliti forti in quanto presentano in soluzione tutti gli ioni già esistenti allo stato cristallino. Si definiscono invece elettroliti deboli quelle sostanze molecolari che presentano in soluzione un piccolo numero di ioni rispetto alla quantità di molecole che vi sono state disciolte.

Non solo i sali sono elettroliti forti, lo sono anche alcune sostanze che, pur presentandosi sotto forma di molecole, in soluzione reagiscono con l’acqua formando un numero di ioni molto elevato a causa della frammentazione di quasi tutte le molecole messe in soluzione. Dalla misura della conducibilità elettrica di una soluzione è possibile risalire alla concentrazione degli ioni presenti.

Oltre che con misure rigorose, è possibile valutare la quantità di ioni in soluzione anche in modo empirico attraverso esperimenti molto semplici. Se ad esempio sciogliamo in un litro d’acqua una mole di acido solforico (98 g) e una mole di acido carbonico (62 g) tanto nell’una quanto nell’altra soluzione vi dovrebbero essere due grammi di ioni H+ (cioè due moli di tali ioni) dato che le formule dei due composti sono simili e cioè rispettivamente: H2SOe H2CO3. I due liquidi dovrebbero perciò, oltre che far passare la corrente elettrica in ugual misura, avere anche lo stesso potere corrosivo in quanto questo dipende proprio dalla presenza degli ioni idrogeno. In realtà le cose stanno in modo molto diverso e, per quanto riguarda il potere corrosivo, la soluzione di acido carbonico può essere tranquillamente bevuta, perché non è altro che acqua di seltz, mentre la soluzione di acido solforico, se bevuta, risulterebbe letale. Se ne deduce che l’acido solforico è molto più dissociato dell’acido carbonico e quindi anche molto più “forte”.

 

GLI ASPETTI QUANTITATIVI DELLA DISSOCIAZIONE ELETTROLITICA

La maggiore o minore diluizione di una soluzione elettrolitica fa aumentare o diminuire il grado di dissociazione della sostanza disciolta. Si può dire che, per ogni valore della concentrazione, esistono in equilibrio un numero sempre diverso di molecole di soluto dissociate in ioni e di molecole indissociate.

Si definisce grado di dissociazione (simbolo, α) il rapporto fra il numero di molecole (o moli) dissociate e il numero di molecole (o moli) totali presenti in soluzione:

numero di molecole (o moli) dissociate
α = ————————————————————
numero totale di molecole (o moli)

Il valore di α può variare, ovviamente, fra zero e uno (0≤ α ≤1). Esso assume il valore 0 quando non avviene dissociazione alcuna (soluzione non elettrolitica), mentre assume il valore 1 quando si dissociano tutte le molecole del soluto poste in soluzione (soluzione di elettrolita forte). Nel caso di un elettrolita debole, α assumerà valori via via più prossimi allo zero al diminuire della forza dell’elettrolita.

Nota la concentrazione molare di un elettrolita in soluzione, e noto pure il suo grado di dissociazione α, è possibile risalire alla concentrazione degli ioni in cui l’elettrolita è dissociato.

Si voglia, ad esempio, conoscere la concentrazione degli ioni X+ (che coincide con quella degli ioni Y) di un generico elettrolita binario XY che si dissocia nel modo seguente: XY →  X++Y, sapendo che esso è presente in soluzione in concentrazione 0,5 M e sapendo pure che è dissociato per il 2% (α=0,02). Avremo allora:

[X+]           2
———— = ——— = 0,02
[XY]         100

da cui:    [X+] = 0,02 · [XY] = 0,02 · 0,5 = 0,01 mol/L

La concentrazione degli ioni X+ è quindi 0,01 molare.

La diluizione, come abbiamo già detto, favorisce la dissociazione in quanto fa aumentare il numero delle molecole di solvente che possono interagire con quelle del soluto. Ad esempio, una soluzione 1 M di acido acetico (una mole di acido per litro di soluzione) presenta un grado di dissociazione pari a 0,0042, ossia, l’acido acetico in acqua, è dissociato per lo 0,42% quando la soluzione è 1 molare; ma se la soluzione fosse 0,1 M, cioè se la mole di acido acetico, invece che in un litro, fosse disciolta in 10 litri di soluzione, il grado di dissociazione assumerebbe il valore di 0,013, pari all’1,3% di acido dissociato (una dissociazione, quindi, 3 volte maggiore di prima). Si noti tuttavia che in quest’ultima soluzione, pur essendovi una maggiore dissociazione di molecole, vi è una minore concentrazione di ioni.

Nelle soluzioni acquose di elettroliti deboli, tra le molecole indissociate e gli ioni, si stabilisce un equilibrio chimico al quale può essere applicato, esattamente come a qualsiasi altro equilibrio, la legge di azione di massa. L’acido acetico, ad esempio, in acqua, subisce la seguente dissociazione:

CH3COOH + acqua  →   CH3COO(aq) + H+(aq)

Con il simbolo (aq), dal latino “aqueus”, si indica lo ione idratato, cioè lo ione circondato da molecole d’acqua. Questa notazione dovrebbe essere usata tutte le volte che si tratta di ioni in soluzione acquosa, ma per semplicità molto spesso la si omette.

Per l’equilibrio di cui sopra possiamo dunque scrivere la seguente relazione:

[CH3COO] · [H+]
—————————— = K
[CH3COOH]

Alla temperatura di 25 °C, K vale 1,8·10-5 mol/L. Il valore molto piccolo di K, chiamata costante di dissociazione elettrolitica, o costante di ionizzazione, indica che il denominatore, che rappresenta la concentrazione di acido acetico indissociato, è un numero assai grande rispetto al numeratore, costituito dal prodotto delle concentrazioni degli ioni.

La forza di un elettrolita può essere espressa, oltre che con α, anche attraverso il valore di K. Come abbiamo appena visto, un elettrolita è tanto più forte, cioè tanto più dissociato, quanto più grande è K. Si noti tuttavia che mentre a cambia di valore al variare della concentrazione di una determinata soluzione, K non varia mai di valore al variare della concentrazione della soluzione in esame. Ciò dipende dal fatto che mentre a esprime un rapporto fra ioni e molecole indipendentemente dal volume della soluzione in cui gli stessi sono contenuti, K esprime invece un rapporto fra concentrazioni molari, cioè fra quantità contenute sempre nello stesso volume.

Per concludere riportiamo alcuni esempi di dissociazione di elettroliti in soluzione acquosa:

NaCl        + acqua    →    Na+        + Cl         (elettrolita binario)
H2SO4      + acqua   →   2 H+        + SO4– –    (elettrolita ternario)
CaCO3     + acqua    →    Ca++       + CO3– –    (elettrolita binario)
Al2(SO4)3 + acqua    →    2 Al+++   + 3 SO4– –  (elettrolita quinario)
NH3         + acqua    →    NH4+       + OH       (elettrolita binario)

 

LE PROPRIETA’ COLLIGATIVE DELLE SOLUZIONI ELETTROLITICHE

Nel capitolo 8 sono state trattate le proprietà colligative delle soluzioni acquose. In quell’occasione si disse esplicitamente che le leggi esposte potevano essere ritenute valide solo per quelle sostanze le cui molecole in soluzione non subivano dissociazione alcuna.

Poiché le proprietà colligative delle soluzioni sono un insieme di proprietà che dipendono dal numero delle particelle presenti, e non dalla loro natura chimica, è logico attendersi delle deviazioni dalle leggi presentate a suo tempo, qualora in soluzione vengano poste sostanze che si dissociano in ioni, perché ciò produce un aumento del numero delle particelle.

Già nel 1884, il chimico svedese Svante Arrhenius aveva avanzato un’ipotesi, che in seguito si rivelò corretta, sulla dissociazione elettrolitica, proprio analizzando attentamente il comportamento delle soluzioni degli elettroliti deboli.

In verità, poiché le soluzioni elettrolitiche conducono la corrente elettrica, in un primo tempo, si era pensato che fosse la corrente stessa a provocare la suddivisione delle molecole in ioni. Ma poi Arrhenius, avendo osservato, per alcune sostanze, che il valore dell’ab­bassamento crioscopico si scostava notevolmente da quello previsto in base alla formula  tcr= Kcr·m, si convinse che gli ioni dovevano essere presenti nella soluzione indipendentemente dal passaggio della corrente elettrica. L’azione della corrente elettrica all’interno delle soluzioni elettrolitiche si doveva quindi limitare al trasporto degli ioni già presenti.

Ora, al fine di modificare le leggi relative alle proprietà colligative delle soluzioni elettrolitiche, è necessario trovare un modo per calcolare il numero reale di particelle presenti in soluzioni di elettroliti deboli.

Per determinare questo valore supponiamo di porre in acqua un certo numero nt di molecole di un elettrolita debole e supponiamo anche che sia μ (ni) il numero dei frammenti (ioni complessivi) in cui la singola molecola si rompe (nel caso di H2SO4 μ varrebbe 3). Se α è il grado di dissociazione, α·nt sarà il numero delle molecole che subiscono dissociazione: esse daranno vita a α·nt·μ ioni complessivi. Il numero delle molecole indissociate che rimarranno in soluzione, dopo che alcune di esse avrà subito la dissociazione, sarà quindi: n– α·n(cioè le molecole iniziali meno quelle dissociate). Il numero totale di particelle (ioni e molecole prese insieme) presenti alla fine in soluzione, sarà allora:

(nt – α·nt)  +  α·nt·μ  =  nt ·[1 + α·(μ – 1)]

Il numero totale delle particelle di soluto presenti in soluzione è dato quindi dal numero delle molecole iniziali di soluto nt moltiplicato per il fattore [1 + α · (μ – 1)], che chiameremo “binomio di dissociazione”. Sarà quest’ultimo, dunque, il fattore correttivo da introdurre nelle formule che esprimono le proprietà colligative delle solu­zioni molecolari per adattarle alle soluzioni di elettroliti deboli.

Ad esempio, nella formula che esprime la pressione osmotica di una soluzione molecolare π·V=n·R·T, si dovrà moltiplicare il numero di moli n che compare nella formula per il binomio di dissociazione appena ricavato (n, numero delle moli, è direttamente proporzionale a nt, numero delle molecole, che abbiamo usato per ricavare la formula) al fi­ne di rendere l’espressione valida anche per le soluzioni ioniche. La formula modificata assumerà pertanto il seguente aspetto:

π·V = n·[1 + α·(μ – 1)]·RT,  ossia:

π = M·R·T·[1 + α·(μ – 1)], dove M = n/V  è la molarità.

Analoghe modifiche si dovranno apportare alle equazioni che esprimono le altre proprietà colligative. Ad esempio, le formule relative all’innalzamento ebullioscopico e all’abbassamento crioscopico diventeranno rispettivamente:

teb = Keb·m·[1 + α·(μ – 1)]

tcr = Kcr·m·[1 + α·(μ – 1)]

 

NORMALITA’ DI UNA SOLUZIONE

Trattando dei modi per esprimere la concentrazione delle soluzioni abbiamo detto che ne esiste uno, detto normalità, di cui si sarebbe parlato in seguito. Ora è giunto il momento di farlo. Per dare la definizione di normalità di una soluzione è necessario però prima precisare i concetti di peso equivalente e di grammo equivalente.

Peso equivalente di un elemento o di una sostanza, è un numero che viene assegnato ad un singolo elemento o ad una determinata sostanza in relazione rispettivamente al composto di cui l’elemento stesso è parte, o al tipo di reazione a cui la sostanza partecipa.

Noi daremo la definizione di peso equivalente solo delle sostanze che prendono parte a reazioni chimiche perché è questo che ci interessa di conoscere per definire la normalità di una soluzione. Proviamo ad arrivarci attraverso un esempio.

Prendiamo in considerazione la reazione fra l’idrossido di alluminio e l’acido solforico che porta alla formazione di solfato di alluminio e acqua, secondo la seguente equazione:

2 Al(OH)3 + 3 H2SO4  →   Al2(SO4)3 + 6 H2O

L’equazione mostra che due moli di Al(OH)3 (cioè 2·78 = 156 g) reagiscono con tre moli di H2SO(cioè 3·98 = 294 g). Dividendo questi due numeri per il minimo comune multiplo dei loro coefficienti di reazione (cioè per 6), si ottiene: nel primo caso 156:6=26; e nel secondo caso 294:6=49. Questi due valori si definiscono rispettivamente peso equivalente di Al(OH)3 e peso equivalente di H2SO4. Ne consegue che le due sostanze che stiamo esaminando possono reagire fra loro, oltre che nel rapporto di due a tre rispetto ai loro pesi molecolari, anche nel rapporto di uno a uno rispetto ai loro pesi equivalenti. Infatti, rispetto ai pesi molecolari, il rapporto di reazione sarebbe 156 a 294 mentre, rispetto ai pesi equivalenti, il rapporto sarebbe 26 a 49. Ma i due rapporti sono uguali e precisamente valgono entrambi 0,53.

Il ragionamento fatto in questo caso vale per qualsiasi reazione chimica e pertanto si può affermare che: “le diverse sostanze che partecipano ad una determinata reazione intervengono in essa con lo stesso numero di pesi equivalenti”.

Vediamo ora come si procede per determinare il peso equivalente delle diverse sostanze. Per un sale, che in soluzione è dissociato in ioni, il peso equivalente è uguale al suo peso formula diviso per il numero delle cariche positive (o negative) prodottesi in seguito alla dissociazione. Per esempio, nel caso di NaCl, il cui peso formula è 58,5 il peso equivalente è lo stesso del peso formula 58,5 : 1= 58,5; per Na2SO4, il cui peso formula è 142, il peso equivalente è uguale alla metà di esso, cioè 71; per Na3PO4 il cui peso formula è 164, il peso equivalente è uguale alla terza parte di esso: 54,6.

Per un acido il peso equivalente è uguale al peso molecolare diviso per il numero degli ioni H+ che una molecola, dissociandosi, libera in soluzione. Per esempio, per HCl (PM=36,5) il peso equivalente è uguale al peso molecolare (36,5); per H2SO4 (PM=98) il peso equivalente è uguale alla metà del peso molecolare (49); e per H3PO4 (PM=98) il peso equivalente è uguale ad un terzo del peso molecolare (32,7).

Per una base il peso equivalente è uguale al peso molecolare diviso per il numero degli ioni OH che una molecola, dissociandosi, libera in soluzione. Per esempio, per NaOH (PM=40) il peso equivalente è uguale al peso molecolare (40); per Ca(OH)2 (PM=74) il peso equivalente è uguale alla metà del peso molecolare (37); e per Fe(OH)3 (PM=107) il peso equivalente è uguale a un terzo del peso molecolare (35,6).

Si chiama grammo-equivalente (o anche semplicemente equivalente) di un elettrolita il peso in grammi corrispondente al suo peso equivalente. Per esempio, un grammo-equivalente di acido solforico è 49 g.

Ora siamo in grado di dare la definizione di normalità di una soluzione. Si definisce normalità (N) di una soluzione il numero di equivalenti di soluto presenti in 1 litro di soluzione.

Ad esempio, una soluzione 1 N di acido solforico è una soluzione che contiene 1 equivalente (ossia 49 g) di acido solforico in un litro di soluzione: essa corrisponde ad una soluzione 0,5 M dello stesso acido.

I chimici fanno largo uso dei pesi equivalenti e della normalità per ragioni di utilità pratica in quanto, tutte le specie chimiche che prendono parte ad una reazione, come abbiamo detto all’inizio, vi partecipano sempre con un ugual numero di equivalenti, oppure con ugual volumi di soluzioni con la stessa normalità (mentre il numero delle moli è diverso di volta in volta).

Riportiamo ora un esempio che dimostra l’utilità dell’uso della normalità nella pratica dell’analisi chimica volumetrica.

Consideriamo la reazione:

3 NaOH  +  H3PO4  →  3 H2O  +  Na3PO4

in cui 3 moli di NaOH (40·3 = 120 g) reagiscono con 1 mole di H3PO4 (98 g) per dare 3 moli di acqua e una mole di Na3PO4. Se i reattivi sono presenti in soluzione molare per avere una reazione completa dobbiamo mettere a reagire 3 litri di NaOH con un litro di acido fosforico (o quanto meno le due soluzioni nel rapporto volumetrico di 3 a 1).

Ora, se i reattivi fossero in soluzioni 1 N (invece che 1 M) in un litro di soluzione di NaOH vi sarebbero 40 grammi di idrossido di sodio e in un litro di H3PO4 98/3 grammi di acido. Per mettere a reagire 120 grammi di idrossido di sodio e 98 grammi di acido fosforico si dovrà prendere 3 litri di ciascun reattivo (o quanto meno lo stesso volume di entrambe le soluzioni). Quindi, mentre quando si ragiona in termini di soluzioni molari si mettono a reagire volumi diversi delle due soluzioni nel caso di soluzioni normali i volumi da mettere a reagire sono uguali. La disponibilità di soluzioni normali facilita pertanto il lavoro del chimico sperimentale.

IL PRODOTTO DI SOLUBILITÀ

A volte, le reazioni chimiche che avvengono in soluzione, si concludono con la precipitazione di alcune sostanze all’interno delle soluzioni stesse. Queste sostanze sono composti poco solubili e pertanto, una volta precipitati, rimangono sul fondo del recipiente in equilibrio con i propri ioni in soluzione. Analizzeremo ora, con qualche esempio, il comportamento di tali soluzioni per comprendere le reazioni di precipitazione, cioè quelle reazioni che conducono alla formazione di sostanze solide a partire da sostanze in soluzione.

Consideriamo una soluzione satura di cloruro di argento, il quale è un sale poco solubile e pertanto, quando viene posto in acqua in quantità abbondante, solo una piccola frazione di esso si discioglie, rendendo immediatamente satura la soluzione. Il resto si deposita sul fondo del recipiente dove va a costituire quello che abbiamo chiamato “corpo di fondo”. Poiché i sali, come sappiamo, sono solidi ionici e quindi elettroliti forti, la quantità di essi che si discioglie in acqua, si presenta anche sotto forma di ioni.  Nel caso del cloruro di argento, tra la quantità di sale dissociata in soluzione e il corpo di fondo solido si stabilisce un equilibrio eterogeneo detto “equilibrio di solubilità” che può essere espresso nella forma seguente:

AgCl  →  Ag+ + Cl

La costante di questo equilibrio prende il nome di “prodotto di solubilità”, che si indica con Kps, ed assume la seguente semplice forma:

[Ag+] · [Cl] = Kps

Si noti che nell’espressione di equilibrio non compare la concentrazione di AgCl. Trattandosi di un equilibrio eterogeneo, come abbiamo visto a suo tempo, le concentrazioni dei solidi non vengono riportate nelle equazioni che esprimono la legge di azione di massa.

La formula generale del prodotto di solubilità di un generico sale di formula XmYn che si dissocia in soluzione acquosa dando m cationi X+ e n anioni Y, è:

[X+]m · [Y]n = Kps

Possiamo allora dire in generale che: “Il prodotto di solubilità di un sale poco solubile in acqua è dato dal prodotto delle concentrazioni dei suoi ioni, misurate in una soluzione satura di detto sale, elevata ciascuna ad una potenza pari al coefficiente di dissociazione”.

Alcuni esempi:
CaF2        →    Ca++     + 2 F           Kps = [Ca++] · [F]2      = 3,2 · 10-11  M
Fe(OH)3   →     Fe+++    + 3 OH       Kps = [Fe+++] · [OH]3  = 6,0 · 10-38  M
BaSO4      →     Ba++     + SO4– –       Kps = [Ba++] · [SO4– –]  = 1,2 · 10-10  M

I singoli fattori del prodotto delle concentrazioni degli ioni presenti in soluzione esprimono la solubilità (in mol/L), ad una certa temperatura, del soluto intero. Conoscendo quindi il prodotto di solubilità di un composto poco solubile, è possibile calcolare la sua solubilità, e viceversa.

Ad esempio, la solubilità (S) del cloruro di argento in acqua a 25 °C è 1,9 · 10-3 g/L, pari a 1,3 · 10-5 mol/L. Dato che il cloruro di argento, sciogliendosi in acqua, libera, per ogni unità di formula AgCl, uno ione Ag+ e uno ione Cl, le concentrazioni di questi due ioni in soluzione saranno identiche fra loro e ciascuna uguale a 1,3 · 10– 5 M (cioè come il sale intero). Il prodotto di solubilità sarà pertanto:

Kps = [Ag+] · [Cl] = (1,3 · 10-5) 2

= 1,7 · 10– 10 M

Il procedimento che abbiamo illustrato può essere condotto anche in senso opposto e cioè, conoscendo il prodotto di solubilità (Kps) di un sale, è possibile determinare la sua solubilità (S), cioè la quantità (in grammi su litro) presente nella soluzione satura. Ad esempio, il prodotto di solubilità di CaF2 è 3,2 × 10– 11 Me pertanto, poiché il sale si dissocia nel modo seguente:

CaF2  →   Ca++ + 2 F

all’equilibrio, cioè quando la soluzione è satura, la concentrazione degli ioni Ca++ corrisponderà ad S, mentre la concentrazione degli ioni F sarà 2 × S. Pertanto possiamo scrivere:

Kps = S · (2S)2 = 4S3

da cui,

   3,2 · 10–11
S3 = —————— M3 = 8 · 10–12 M3
     4

Estraendo la radice cubica avremo:

S = 2,0 · 10–4 M, pari a 1,56 · 10–2 g/L.

Se in una soluzione di un composto poco solubile si aggiunge una sostanza che ha, con il composto già disciolto, uno ione in comune, si osserva la precipitazione di un’ulteriore quantità del composto poco solubile. Il fenomeno viene detto “effetto dello ione comune”.

Il fatto si spiega analizzando l’equazione dell’azione di massa relativa all’equilibrio di solubilità. Poiché in essa è indicato che il prodotto di solubilità è una quantità costante, aumentando la concentrazione di uno degli ioni presenti in soluzione, deve diminuire, di conseguenza, la concentrazione dell’altro: solo in tal modo, infatti, il prodotto  rimarrà costante, come impone la legge.

Aggiungendo ad esempio, ad una soluzione di AgCl (sale poco solubile), una certa quantità di NaCl, o di HCl (sostanze molto solubili), si osserva la precipitazione di AgCl. Un sale poco solubile diminuisce quindi ulteriormente la sua solubilità se viene posto in una soluzione che contiene alcuni ioni in comune con esso.

Su questo principio si basano le analisi di riconoscimento in soluzione di alcuni ioni. Lo ione Ba++, ad esempio, è un prodotto tossico di cui può essere importante rivelarne la presenza in soluzione. Per stabilire la sua esistenza nell’acqua basta aggiungere alla soluzione una piccola quantità di un sale molto solubile, per esempio Na2SO4. Si otterrà l’effetto di unire lo ione SO4– – allo ione Ba++, formando il sale BaSO4. Questo sale, essendo poco solubile (Kps=1,2·10–10 mol/L), formerà un precipitato che rappresenterà la prova della presenza degli ioni Ba++ in soluzione.

Prof. Antonio Vecchia

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