Siamo in pochi o siamo in troppi ?

 «Non c’è limite all’invadenza dei catastrofisti». Con queste parole si concludeva un articolo riguardante il decremento demografico di questi ultimi anni, pubblicato dal settimanale “L’Espresso”. Il contenuto dell’articolo mi ha riportato alla mente il modo in cui veniva affrontato, una trentina di anni fa, il problema opposto ossia quello relativo alla crescita esplosiva della popolazione, che aveva raggiunto il suo acme, in tutta Europa, qualche anno prima. Negli anni ‘70 venne distribuito nelle scuole un libretto curato da Mario Pavan, professore all’Università di Pavia e, in quegli anni, vicepresidente del comitato europeo per la salvaguardia della natura, dal titolo accattivante e impegnativo per gli operatori scolastici: «Aspetti e prospettive della crisi ecologica mondiale».

 

SIAMO TROPPI

    Allegato al libretto vi era l’invito a diffondere fra gli studenti le informazioni in esso contenute e a commentarle. La pubblicazione – era scritto sulla copertina – rappresentava “un contributo della Amministrazione Forestale Italiana all’informazione dei giovani sui problemi dell’ambiente” ed era presentata dal Ministro dell’Agricoltura e Foreste. Essa aveva quindi tutti i crismi dell’ufficialità.

    I primi due capitoli del libretto, intitolati rispettivamente “Crisi di sviluppo dell’umanità” e “Irrazionalità del popolamento umano”, delineavano una situazione a dir poco allarmante nei riguardi dell’incremento demografico. Si legge fra l’altro, sottintendendo una certa preoccupazione per la situazione che si era venuta a creare, che la popolazione umana a fine secolo sarebbe stata di 6-7 miliardi di individui: quasi il doppio di quella di allora. Subito dopo, esasperando i toni, si calcava ulteriormente la mano affermando che, qualora ci si fosse moltiplicati al ritmo di quegli anni, entro un secolo e mezzo gli abitanti della Terra sarebbero stati 100 miliardi, un numero enorme, paragonabile a quello di tutti gli uomini vissuti sul pianeta da quando è comparsa la nostra specie. Ma poi si andava ancora oltre fornendo numeri e dati senza senso come quelli che prospettavano per i millenni a venire situazioni semplicemente paradossali. Si affermava, per esempio, che nel 5.200 la massa del genere umano sarebbe stata uguale a quella del Sole e nel 9.000 a quella dell’Universo intero. Era chiaro che queste cifre venivano fornite all’unico scopo di impressionare il lettore. 

    Si passava quindi a parlare dell’Italia, enfatizzando ulteriormente i toni e i termini del problema. Si faceva notare, ad esempio, che continuando di quel passo nel nostro Paese si sarebbero raggiunte, in 150 anni, varie centinaia di milioni di abitanti e pertanto sarebbe diventata più drammatica una situazione che già allora doveva considerarsi al limite della sopportabilità. A quel tempo l’Italia contava circa 54 milioni di abitanti (oggi ve ne sono più di 58 milioni), con una densità media di 183 abitanti per km2 (oggi sono circa 195): un valore che era ritenuto ampiamente superiore all’indice ottimale. 

    La popolazione italiana era cresciuta notevolmente negli anni Sessanta del secolo scorso con un incremento annuo che era arrivato a sfiorare l’un per cento. Alla metà degli anni Sessanta in Italia la natalità sfiorava il milione di unità all’anno (oggi è meno della metà) e l’alta fecondità degli Italiani veniva presentata come si trattasse di un pericolo imminente per la nostra società. Con brutalità venivano scaricate addosso alle giovani generazioni una serie impressionante di minacce e di prospettive apocalittiche che avrebbero finito per creare loro dei sensi di colpa, se non avessero partecipato attivamente e responsabilmente alla soluzione del problema. Guai se non si fosse preso subito qualche provvedimento importante per arrestare l’aumento esplosivo della popolazione. Ma cosa poteva fare il singolo cittadino per partecipare, nel suo piccolo, al miglioramento della situazione, o quanto meno a non renderla ancora più tragica?

     L’unica imprescindibile soluzione era ovviamente limitare il numero di figli da mettere al mondo; e in effetti, soprattutto i giovani, approfittando anche del momento di espansione dei consumi conseguente al boom economico degli anni Sessanta, preferirono godersi la vita piuttosto che dedicare tempo ed energie alla famiglia e all’educazione dei figli. Divenne quindi sempre maggiore il numero di coloro che rimandavano la data del matrimonio o che, pur sposandosi, evitavano di mettere subito al mondo dei figli. Frattanto si faceva anche strada, almeno fra le persone più sensibili al problema e meglio informate, una nuova coscienza demografica che scalzava la convinzione millenaria che fosse utile al singolo e alla società creare famiglie numerose. Alla decisione di limitare il numero di figli da mettere al mondo fu determinante la prospettiva di doverli allevare in un ambiente ostile: risorse scarse, inquinamento ai limiti della sopportabilità, difficoltà di trovare lavoro per l’enorme numero di concorrenti. Molti giovani scelsero così di non dare il loro contributo al peggioramento di una situazione già di per sé tanto drammatica. E non procrearono.

    Quando gli insegnanti trattavano questo argomento in classe con i ragazzi, cercavano di enfatizzare la situazione che si era venuta a determinare. D’altra parte, prospettare scenari catastrofici era proprio quello che si chiedeva da parte degli organi ufficiali dello Stato che avevano avallato la distribuzione dell’opuscolo citato nelle scuole. Il pericolo era che, in tempi brevi, il pianeta avrebbe potuto esplodere per la sovrappopolazione, finire avvelenato dai rifiuti e far morire di fame quanti in esso abitavano. Gli insegnanti a quel tempo erano molto ligi al dovere e assolvevano il loro compito di educatori con convinzione e scrupolo. 

    Proseguendo nella lettura della pubblicazione si incontrano tabelle e grafici che illustrano una situazione ecologica e ambientale a livello locale e mondiale che non è esagerato definire terrificante. Molte materie prime – c’è scritto – si stavano esaurendo, il petrolio si sarebbe consumato definitivamente nel giro di 20-30 anni (oggi si sa che ci sono riserve almeno per altri cento anni) e l’inquinamento era ormai giunto a livelli intollerabili anche a causa di una dissennata deforestazione. A questo riguardo si faceva l’esempio della foresta amazzonica dalla quale proviene il 50% dell’ossigeno prodotto da tutte le foreste equatoriali. Ebbene questa foresta, che può essere considerata una specie di depuratore del nostro Pianeta (trasforma l’anidride carbonica in ossigeno), veniva allora e viene tuttora depredata e distrutta senza scrupoli per soddisfare le crescenti esigenze di una società in cui il benessere e la prosperità sono in continuo e rapido sviluppo.

 

SIAMO POCHI

    Negli ultimi due decenni del secolo che si è appena concluso la situazione si è capovolta e, per la prima volta, in tutte le principali regioni del mondo si è assistito ad una riduzione consistente del tasso di natalità. Quali siano le ragioni profonde di questo processo non è del tutto chiaro, ma indubbiamente vi ha contribuito lo sviluppo economico, la centralità dello studio e dell’educazione di massa e una maggiore informazione nei riguardi dei metodi anticoncezionali. Forse vi ha concorso anche il catastrofismo degli anni Settanta che, se non altro, è servito per vincere l’indifferenza dell’opinione pubblica e spingere i governi di molte Nazioni a impegnarsi nelle campagne per la limitazione delle nascite. 

    In Italia il boom economico aveva creato centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro, quasi interamente a disposizione delle donne e con il loro ingresso nel mondo del lavoro, si è assistito ad una vera e propria rivoluzione culturale. L’emancipazione della donna attraverso il lavoro ha significato infatti la ricerca di una migliore qualità della vita che si poteva realizzare solo se al rientro dal lavoro, oltre a sbrigare le normali faccende domestiche, non vi era anche da provvedere alla cura dei figli. Al calo demografico del nostro Paese una certa responsabilità va addossata anche ai mariti i quali stentavano a staccarsi dal modello della famiglia d’infanzia, dove la mamma in casa faceva tutto e il papà non muoveva un dito. Rimaneva l’intenzione delle giovani mogli di mettere al mondo qualche figlio, ma solo dopo aver dedicato tempo ed energie alla professione, allo studio, alla carriera e a qualche svago che, con la presenza di bambini in tenera età da accudire sarebbe stato impossibile realizzare. 

    Fino a non molto tempo addietro, l’elevato numero di figli rappresentava l’unica ricchezza su cui fare affidamento per il futuro e ancora oggi, nei Paesi più poveri, i figli sono considerati un vantaggio economico perché possono essere mandati a lavorare in giovane età. Tanti figli assicuravano inoltre che qualcuno di loro si sarebbe preso cura dei genitori in età avanzata. Oggi i figli, soprattutto nei Paesi altamente industrializzati, invece che una ricchezza, rappresentano un costo e non solo per vestirli a dar loro da mangiare. Con tutte le giuste regole di igiene, di prevenzione e di educazione per allevare un solo bambino occorrono le attenzioni che un tempo erano necessarie per cinque o sei di loro. Inoltre, almeno nei Paesi meglio organizzati, l’esistenza di strutture pensionistiche e di assistenza sanitaria ha alleviato la dipendenza degli anziani dai propri figli. 

    All’improvviso e inopinatamente, una decina d’anni fa, l’Italia è diventato l’unico Paese al mondo che fa meno figli. Essa è arrivata buon’ultima fra gli Stati europei e nord americani pur avendo davanti a sé due spinte straordinarie e originali verso la procreazione: l’influenza morale della Chiesa e la cultura dominante (che voleva la donna in casa) ma alla fine ha battuto tutti i record. Oggi le donne italiane presentano il tasso di fertilità (cioè l’indicatore del numero di figli che una donna ha mediamente nella sua vita riproduttiva) estremamente basso: meno di 1,2 figli a testa. Questo numero serve a rimpiazzare solo uno dei due genitori che li hanno generati e quindi la popolazione del nostro Paese sarebbe destinata a scomparire nel giro di poche generazioni se non fosse che contemporaneamente è in aumento la vita media. Continuando con questa tendenza, si calcola che fra vent’anni l’Italia avrà un milione di abitanti in meno di oggi e fra quarant’anni gli Italiani saranno ridotti a 45 milioni, quanti eravamo sessant’anni fa alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Il nostro Paese è quindi il primo al mondo sia per la bassa natività sia per la longevità. Questo stato di cose comporta un restringimento della fascia lavorativa. La situazione è diventata di nuovo drammatica, ma per i motivi opposti a quelli di trent’anni fa e la stessa cosa, che si auspicava a quel tempo come una necessità, oggi rappresenta una calamità. 

    Alla fine degli anni Sessanta quando in Italia nasceva quasi un milione di bambini all’anno, il nostro Paese contava circa 54 milioni di abitanti; oggi, quando nasce meno della metà dei bambini di allora, gli abitanti sono aumentati (più di 58 milioni). Esiste quindi uno sfasamento temporale, una specie di inerzia, fra i comportamenti demografici che si osservano in un determinato momento e gli effetti di lungo periodo. Una caratteristica della demografia è proprio questa e cioè che le tendenze demografiche in atto si vivono nel futuro: la demografia di ieri si vive infatti oggi e quella di oggi si vivrà domani. 

    Quando, agli inizi degli anni ’70, si agitavano quelle agghiaccianti statistiche per segnalare il pericolo di un incremento demografico incontrollato, in realtà si stava già verificando l’inversione di tendenza. Erano i tempi in cui, per garantire l’istruzione di base ad un numero molto consistente di studenti, si era costretti ai doppi e a volte persino ai tripli turni di lezione perché mancavano aule e si chiedeva a gran voce la costruzione di nuove scuole. Oggi le aule scolastiche (e le caserme) sono in abbondanza e quello che manca sembrano essere piuttosto le carceri e i ricoveri per anziani.

 

SOLUZIONE IMMIGRATI?

    Questo è quanto è avvenuto in Italia dove, nonostante il decremento demografico, la popolazione ha continuato a salire anche se sempre più lentamente fino a sfiorare i 58 milioni di alcuni anni fa, poi l’incremento si è arrestato e sarebbe iniziata la discesa se non ci fossero state le immigrazioni le quali, potendo trasferire in pochissimo tempo masse più o meno consistenti di persone in età adulta, hanno riequilibrato, almeno in parte, il decremento demografico dovuto alla forte denatalità.

    Il decremento demografico ha prodotto nel nostro Paese una preoccupazione che mai era emersa in precedenza e cioè quella che gli Italiani siano una razza in via di estinzione. Ma esiste veramente questo pericolo? Prima di rispondere è necessario chiedersi se sia corretto parlare di “razza italiana”. 

    Il nostro patrimonio genetico è pieno di cromosomi vichinghi, celtici e arabi e quindi non siamo sicuramente una razza pura. In verità non esiste una razza italiana, esiste invece una cultura italiana. Tra cent’anni forse gli Italiani avranno la pelle un po’ più scura di oggi, ma mangeranno sempre spaghetti al pomodoro e tiferanno per la Lazio o per la Juventus. 

    Ma il problema attuale non è il numero (quanti siamo e quanti saremo) bensì l’equilibrio fra i vari gruppi di età. La nostra Italia dei record negativi è anche diventata il primo Paese al mondo, nella storia dell’umanità, in cui le persone con oltre sessant’anni sono più di quelle che ne hanno meno di venti. Se i giovani e anche gli adulti in età produttiva diminuiscono, come faremo a mantenere gli attuali standard produttivi e l’autofinanziamento della protezione sociale? Mancheranno le risorse – si dice – per pagare le pensioni e le cure mediche agli anziani. E che ne sarà del nostro tenore di vita se per fare funzionare il sistema dovremo ricorrere massicciamente alla manodopera straniera? Oggi bisogna quindi tornare a fare figli e come trent’anni fa la campagna era tutta protesa alla diffusione della pillola anticoncezionale, ora è mirata alla promozione del Viagra, una pillola miracolosa (?) che dovrebbe fare aumentare la virilità dei maschi.  

    Non è la prima volta che Nazioni opulente, nella convinzione che il declino demografico possa esporle all’invasione di gente proveniente da paesi poveri e sovrappopolati, sono indotte ad incentivare le nascite. Poi quando queste Nazioni scoprono che, ad esempio, la prolifica Germania perse due guerre di fila, comprendono che la tecnologia, i capitali e l’organizzazione sono più importanti della superiorità numerica di un popolo, ma il danno ormai è stato fatto.   

    A complicare le cose, in questi ultimi anni, si è anche manifestata l’incapacità da parte delle forze politiche di regolamentare il flusso di extracomunitari nel nostro Paese. L’Italia, che per decenni è stato un Paese di emigranti, dovrebbe essere sensibile verso il fenomeno dell’immigrazione mentre si osserva che il nostro, come gli altri Paesi che oggi temono più gli immigrati, sono proprio quelli che in passato produssero i flussi emigratori più copiosi. Il flusso migratorio dai Paesi poveri verso quelli ricchi ha creato, qui da noi, una serie di pregiudizi che è bene fugare. 

    Innanzitutto non è vero che l’arrivo degli stranieri dipende dal fatto che in Italia la natività sia drasticamente diminuita. La pressione alle frontiere ci sarebbe lo stesso anche se in Italia il tasso di natalità fosse lo stesso di quarant’anni fa, perché il fenomeno è originato dalla esplosione demografica mondiale non dalla carenza di nascite che si registra qui da noi. E allora, anziché raccomandare agli Italiani di essere più prolifici, la Chiesa (e alcuni politici sprovveduti) dovrebbe raccomandare agli altri di esserlo di meno. Raccomandare l’incremento delle nascite anche là dove la miseria è immensa può avere, in qualche caso, effetti perversi. Potrebbe voler dire moltiplicare nei Paesi poveri fame, miseria e morte e nei paesi ricchi razzismo e intolleranza.

    Un altro pregiudizio è quello di far credere che gli immigrati ci servono per pagare le pensioni. Chi si preoccupa delle pensioni per gli anziani che hanno lavorato duramente tutta la vita dovrebbe innanzitutto ridurre gli immorali cumuli di “pensioni d’oro” dei molti privilegiati che forse non hanno nemmeno lavorato molto nella loro vita e soprattutto non dovrebbe costringere alla pensione chi desidera continuare a lavorare. Per molte persone, essere in pensione nel pieno delle loro forze equivale ad una specie di condanna a morte. Oggi un uomo di sessant’anni non è un vecchio, ma un adulto ricco di esperienza, spesso sano di mente e di corpo e quindi in grado di continuare a lavorare per almeno altri dieci anni della sua vita. Anziché preoccuparsi di trovare i fondi per pagare le pensioni, perché non si pensa di alzare l’età pensionabile almeno per coloro che desiderano continuare a lavorare? 

    Una terza assurdità è quella di ritenere che gli immigrati siano indispensabili per lo sviluppo economico del nostro Paese perché al Nord manca la mano d’opera. Si dimentica che al Sud la disoccupazione è enorme e quindi la mano d’opera nel nostro Paese ci sarebbe in abbondanza solo che si riuscisse a convincere i nostri disoccupati meridionali a trasferirsi dove i posti di lavoro abbondano. Se un ragazzo senza lavoro del Sud rifiuta le offerte di lavoro che vengono dal Nord, vuol dire che è pagato troppo in sussidi e che preferisce rimanere a casa dove vive agiatamente senza fare niente.

    In verità la colpa di questa situazione è anche da imputarsi agli imprenditori del Nord-Est i quali preferiscono assumere immigrati piuttosto che Italiani perché li pagano di meno. In questo modo, però, non si rendono conto che lasciano i nostri giovani disoccupati (e anche gli extracomunitari, quando non serviranno più) a carico della comunità. Se i disoccupati del Sud non si trasferiscono al Nord per lavorare è perché, come abbiamo detto, il salario di soli due milioni mensili appare ben poco allettante. Occorrono quindi salari più alti, ma anche alloggi popolari e una formazione professionale adeguata. E se anche a queste condizioni i ragazzi disoccupati preferiscono rimanere a casa ad oziare, allora si imitino, nelle nostre normative, quelle francesi: si riducano i sussidi di disoccupazione a chi rifiuta un lavoro. 

    L’estate del Duemila si è chiusa con una sorpresa sul fronte delle nascite. Dopo che il desiderio di concepimento aveva raggiunto il livello più basso, oggi si assiste ad un suo generale risveglio. E a guidare la riscossa è stata proprio Milano, una città che in passato si era distinta in senso negativo. Si calcola che in un anno a Milano nasceranno 11 mila bambini e, anche se non è dato sapere quanti di questi saranno figli di extracomunitari, si tratta di un evento che non si verificava più da vent’anni. E questa riscoperta del desiderio di maternità sembra non si esaurisca a Milano. Dobbiamo essere felici di questa notizia? Molti sociologi rispondono di no, perché ritengono che i problemi demografici oggi non debbano essere interpretati a livello locale, ma globale. E a livello globale l’incremento della popolazione è molto superiore all’incremento delle risorse.

      Ma da cosa è causato questo risveglio limitato della voglia di fare figli? Prima di tutto dal convincimento latente che il calo della popolazione possa continuare all’infinito rendendo senza ritorno il declino demografico; poi c’è la Chiesa che cinicamente incoraggia ad avere più figli perfino là dove più acuti sono la miseria e il degrado. Infine c’è tutta una parte politica che potremmo definire di “destra” che è xenofoba (dal greco: “paura dello straniero”) e che quindi è convinta che l’unica possibilità di evitare l’invasione straniera sia quella di riempire l’Italia di Italiani.

    Da alcuni decenni anche noi siamo diventati un Paese ricco (uno dei sette Paesi più ricchi del mondo) ed essere ricchi porta a due effetti successivi: in un primo tempo si diventa egoisti ed edonisti e quindi si tende ad accumulare ricchezza e a godersi la vita. In un secondo momento si cambia atteggiamento, si diventa molto fiduciosi nel futuro e si vuole lasciare le fortune accumulate ai propri figli e questo crea una spinta ad avere una famiglia numerosa. Così accade, ad esempio, negli Stati Uniti dove è frequente incontrare famiglie numerose e …obese.

Prof. Antonio Vecchia

Reply