Gregor Mendel

Qualis pater talis filius. Da tempo immemorabile l’uomo aveva compreso che di genera­zione in generazione i genitori trasmettono i loro caratteri ai figli; a volte si notava come il bambino presentasse certe caratteristiche non tanto dei genitori quanto piuttosto dei nonni o di ascen­denti ancora più lontani. Forse altrettanto antica era anche la polemica tra chi soste­neva che ognuno di noi è rigidamente determinato alla nascita dal contributo dei due geni­tori e chi invece attribuiva all’ambiente le capacità di trasformarci nel corso della no­stra vita. Sebbene si sapesse che certi caratteri fisici e comportamentali venivano trasmes­si dai ge­nitori alla discendenza, i modi con cui l’eredità si attua rimasero ignoti fino a tempi mol­to recenti.

All’inizio del Novecento le discussioni sulla natura e sul funzionamento del meccani­smo con cui si ereditano i caratteri si sono svolte prevalentemente sul piano teori­co men­tre ve­niva respinta ogni analisi basata su dati sperimentali. La nascita della nuova scienza, a cui il biologo inglese William Bateson (1861-1926) nel 1906 dette il nome di genetica (dal gre­co ghenesis che significa principio, sorgente), venne fissata nel momento in cui i botanici Hugo de Vries, Carl Correns ed Erich Tschermak sco­prirono gli scritti relativi agli esperimenti di un geniale biologo dilettante pubblicati nel bol­lettino della locale Società di Scienze Naturali. Questa istituzione, apprezzata in particolare nei paesi di lingua tedesca, pubblicava rego­larmente gli atti delle conferenze che si teneva­no nella sua sede e le inviava a molte socie­tà culturali, accademie e biblioteche del Vec­chio e del Nuovo Mondo. Ma il testo di quel la­voro venne letto da pochi e coloro che lo lessero non capirono il contenuto di ciò che vi era scritto.

 

VITA ED OPERE DI MENDEL

Lo sconosciuto biologo era Gregor Jo­hann Mendel nato il 22 luglio 1822 in un villaggio rurale della Slesia da una famiglia di contadini. Egli venne battezzato nello stesso giorno della na­scita nella chiesa cattolica del villaggio dal parroco Johann Schreiber e, forse in suo ono­re, al piccolo venne dato lo stesso nome del parroco. Il nome Gregor, con cui comune­mente è conosciuto, gli fu as­segnato all’età di 21 anni quando diventerà monaco. Fin da bambi­no mostrò interesse sia per i problemi dell’agricoltura che per quelli delle scienze esat­te. Il piccolo Jo­hann ebbe la possibilità di mettere in evidenza la sua attitudine allo studio in quanto nel villaggio, cosa rara, vi era una scuola per i bambini dei contadini dove non solo si insegna­va a leggere e scrivere ma si impartivano anche conoscenze agri­cole.

Affinché le capacità del ragazzo non andassero perdute, dopo la scuola elementare, ven­ne iscritto al Ginnasio, una scuola distante una trentina di chilometri da casa. La lonta­nanza della scuola rappresentò per la famiglia un notevole sacrificio che fu comunque compensato dall’im­pegno dimostrato dal giovane. Il titolo di studio ottenuto nel 1840 non bastava tuttavia al diciottenne ambizioso il quale avrebbe voluto continuare gli stu­di all’I­stituto filosofico in modo da poter essere ammesso a frequentare l’Università. Dopo alcune vicissitudini Johann poté finalmente iscriversi alla scuola superiore dove assieme ad altre materie fre­quentò un corso di fisica che fu particolarmente im­portante per il suo futuro. Inse­gnante di questa materia era un sacerdote cattolico che lo indi­rizzò verso la scelta fon­damentale del­la sua vita.

Per poter approfondire le sue conoscenze nel campo della fisica Mendel fu inviato dallo stesso Napp a Vienna presso l’istituto del professore Christian Doppler, il matematico e fisi­co austriaco fa­moso per aver spiegato il cambio di frequenza (il cosiddetto “effetto Dop­pler”) di un’onda sonora che si avvicina o si allon­tana a grande velocità da chi ascolta. In quella sede seguì corsi di fisica tenuti dallo stesso Doppler, ma anche corsi di matematica, di chimica, di zoologia, di botanica e di paleontolo­gia. Grazie a quella esperienza Mendel imparò a fare non solo riflessioni sui fenomeni della natura, ma a formulare leggi indivi­duabili attraverso la sperimentazione pianificata e l’ela­borazione matematica e statistica dei risultati ottenuti.

Il giovane religioso tuttavia non era la persona adatta a svolgere l’attività pastorale che consisteva nell’assistenza di malati e derelitti del vicino ospe­dale. Egli reagì a questo stato di disagio ammalandosi e per un intero mese ebbe bisogno delle cure e del­l’assistenza di un’infermiera. A salvarlo fu di nuovo l’Abate Napp che trovò una via d’uscita al fragile ca­rattere del frate di fresca nomina. Egli sapeva che il Ginnasio della vicina citta­dina aveva bisogno di un insegnante di materie classiche e di matematica. Mendel non aveva la quali­fica di insegnante ma grazie alla raccomandazione dell’Abate Napp l’incarico gli venne lo stesso assegnato. Del resto Mendel non si definì mai un biolo­go ma di volta in volta inse­gnante di fisica, naturalista o meteorologo. Ed è proprio la qua­lifica di meteorolo­go quella che si legge sulla sua tomba, dove fu sepolto il 9 gennaio 1884 all’indomani della sua mor­te.

Ottenuto il posto di supplente presso la Realschule poté dedicarsi alle ricerche sui mec­canismi ereditari per una quindicina di anni, fino agli inizi degli anni Settanta, mentre per il resto della sua vita si occupò fondamentalmente di meteorologia, in cui fece impor­tanti scoperte, e di agricoltura. Lo scritto fondamentale di Mendel si intitola Esperimenti sulla ibridazione delle piante. Si tratta della trascrizione di due conferenze, di cui abbiamo fatto cenno, che il frate aveva tenuto presso la Società di Scienze Naturali di Brünn l’8 febbraio e l’8 marzo 1865. In queste poche pagine di stampa venne riportata con gran­de chiarezza l’intera storia dello sviluppo della nuova teoria. Oltre a questo scritto esiste anche una se­rie di lettere che il monaco scrisse al botanico svizzero Carl von Nägeli un personaggio che era uno degli studiosi più autorevoli e molto stimato nel campo della botanica. Mendel in quelle lettere spiegava il metodo adottato nella sua ri­cerca che però non fu apprezzato dall’affermato biologo e forse nemmeno compreso appieno.

Nel 1866, l’anno seguente alle due conferenze che Mendel tenne per spiega­re il suo lavoro, fu stampata, come abbiamo detto, la relazione dei suoi esperimenti. Al fine di far conoscere i ri­sultati delle sue ricerche, Mendel, vincendo la sua naturale ritrosia, ordinò 40 estratti del suo lavoro per poterli spedire personalmente a tutti i docenti univer­sitari che riteneva po­tessero essere interessati all’argomento. Uno solo di essi gli comunicò di aver ricevuto lo scritto e di averlo letto. Alcuni testi vennero trovati, molti anni dopo, nelle biblioteche di quegli istituti con le pagine ancora intonse.

É opportuno tener presente che fin dai tempi molto lontani l’uomo tentò di migliorare le qualità delle coltivazioni e degli animali domestici mediante accoppiamenti e incroci. La fe­condazione artificiale ad esempio della palma da dattero con polline estratto da un’altra pianta al fine di ottenere frutti più dolci era già stata realizzata al tempo dei Babilonesi, ma questa conoscenza empirica e limitata non era stata generalizzata o usata nell’incrocio di altre piante. In genere gli antichi tentavano gli incroci fra piante e animali di specie diverse mentre, come vedremo, Mendel ottenne le leggi sulla ereditarietà dei caratteri incrociando piante dello stesso genere. Il mulo, un ibrido voluto dall’uomo, prodotto dall’incrocio di un asino con una cavalla, era noto fin dai tempi degli antichi greci. Poiché non si conoscevano le leggi della genetica, incroci bizzarri erano anche materia di numerose leggende. Così ad esem­pio si riteneva che cammello e leopardo si sarebbero occasionalmente incrociati dan­do vita alla giraffa, un animale con il collo lungo ereditato dal cammello e le macchie scure sul mantello fornite dal leopardo.

 

LO STUDIO DELLE PIANTE DI PISELLO

Alcuni immaginano l’abate Gregor Mendel come un vecchio e gentile ecclesiastico, che nel tempo libero cura l’orto del monastero in cui vive, ma in realtà egli era un ricercatore molto competente ed accurato. Esperto fisico e matematico Mendel affrontò il problema dell’ereditarietà dei caratteri seguendo il metodo scien­tifico indicato da Galileo. Si tratta di un metodo induttivo che ricava un principio generale partendo dall’analisi di casi particola­ri. Il prete-scienziato fu il pri­mo ad introdurre nello studio della biologia concetti peculiari della matematica e della fisi­ca e proprio per questo motivo furono pochi i biologi in grado di capire questa enorme rivolu­zione di metodo a cui Mendel arrivò, grazie alla sua particolare formazione culturale. I bio­logi di quel tempo analizzavano la forma e il comportamento di piante e ani­mali da un punto di vista esclusivamente estetico e naturale senza effettuare misurazioni o verifiche sperimentali. In particolare Carl von Nägeli, lo stimato botanico svizzero già ricor­dato e con il quale Mendel ebbe un nutrito scambio epistolare, criticava la possibilità di uti­lizzare i pochi dati statistici disponibili per riassumerli in una teoria più ampia.

Per i suoi esperimenti Mendel, fra le tante analizzate, scelse la pianta di pisello (Pisum sativum) perché questa presentava molte ca­ratteristiche favorevoli. Innanzitutto di essa esistevano in commer­cio numerose varietà, era­no piante facili da coltivare e producevano più generazioni in un periodo di tempo ra­gionevolmente breve. I discendenti di incroci di varietà diverse poteva­no poi riprodursi fa­cilmente e il fiore aveva una struttura adatta ad essere manipolata in modo da proteggere gli ibridi da qualsiasi polline estraneo. Inoltre Mendel aveva accurata­mente osservato la costanza di alcuni caratteri quali il colore e la forma dei semi, le dimen­sioni del fusto, il colore e la di­sposizione dei fio­ri e infine il colore e la forma del baccello. In tut­to aveva indivi­duato sette caratteri della pianta chiara­mente distinguibili ad occhio nudo. Al numero sette egli attribuirà un valore fondamentale nei suoi esperimenti. Per esempio valutò che i sette caratteri da lui individuati sulla pianta di pisello potessero formare tutte le combinazioni possibili secondo una potenza del due. Nel caso specifico egli calcolò che il numero delle combinazio­ne possibi­li fosse 2⁷, cioè 128, e affer­mò di averle ottenne tutte quante.

In un primo esperimento Mendel osservò che quando incrociava una pianta bassa con una pianta alta non otteneva una pianta di altezza media, ma una pianta dotata del carat­tere di uno dei genitori che egli chiamò dominante, mentre l’altro venne definito recessivo. Quando questa pianta si riproduceva per autofecondazione i caratteri delle piante di par­tenza apparivano sempre nella medesima proporzione: tre quarti di dominanti e un quarto di recessivi. Men­del tutta­via non si fermò qui. Con pazienza e tenacia incrociò pian­te di pi­selli a fusto alto con gli ibridi di prima generazione. Dai semi ottenuti si svilupparo­no sia piante a fusto alto che piante a fusto basso. Egli raccolse accuratamente i suoi semi e le sue piantine e trovò in più di mille diverse semine che nella seconda generazione i fu­sti alti e i fusti bassi appari­vano sempre in un rapporto definito: 75% alti e 25% bassi. I fusti alti tuttavia corrispondevano a tre classi geneticamente differenti: 1/4 era costituito da domi­nanti che si riproducevano come linea pura, 2/4 di dominanti che però non si riproduceva­no come linea pura ma davano origine ad una progenie che si divideva in 3/4 di dominanti e 1/4 di recessivi e infine 1/4 di recessivi che si riproducevano come linea pura. La deter­minazione, da parte di Mendel, di questo rapporto 1:2:1 costituì l’aspetto fondamentale della sua scoperta e cioè il fatto che gli ibridi producono semi che portano l’uno o l’altro dei due carat­teri differenti ma metà di questi si sviluppano ancora nella forma ibrida men­tre l’altra metà produce piante che rimangono costanti e ricevono in ugual numero il carat­tere dominante o quello recessivo.

A questo punto è essenziale sottolineare l’importanza di effettuare gli esperimenti su di un numero di campioni abbastanza grande per poter applicare ad essi il calcolo delle pro­babilità, cioè la regola matematica che cerca di predire le “possibilità” che un evento si ve­rifichi. Se si butta in aria una moneta essa potrebbe segnare testa per cinque volte di se­guito e in base a questo risultato si potrebbe concludere che la moneta segna sempre te­sta. Tuttavia se si continua nel lancio della moneta la tendenza a mostrare un uguale nu­mero di volte testa e croce aumenterà a mano a mano che il numero dei lanci cresce. Allo stesso modo il numero dei caratteri dominanti e recessivi nelle piante di seconda genera­zione si assesta nel rapporto di 3 a 1 se si analizza un buon numero di piante.

Egli ripeté questi esperimenti con piante di piselli a semi lisci e piante di piselli a semi rugosi e notò che quando venivano incrociate questi due tipi di piante tutti i semi davano origine a piante con semi lisci. Ma questa nuova generazione a semi lisci quando veniva a sua volta incrociata produceva sia piante con semi lisci sia piante con semi rugosi. Analiz­zando migliaia di piante lo sperimentatore riscontrò che il rapporto fra piante con semi lisci e piante con semi rugosi era di nuovo nel rapporto di tre a uno (75% dell’uno e 25% del­l’altro). Ecco messo in luce un primo schema dell’ereditarie­tà: le carat­teristiche dei genitori non sono trasmesse casualmente alla discendenza ma re­golate da un meccanismo suffi­cientemente preciso così da meritare il nome di legge.

In altre parole, Mendel riuscì a dimostrare che l’eredità non è una mescolanza di caratte­ri parentali come si era pensato in precedenza, ma che i caratteri ereditari sono trasmessi come entità distinte che vengono distribuite in modo diverso, o riassortite, a ogni genera­zione. Questa idea di eredità discontinua piuttosto che continua, è l’essenza dei risultati di Mendel e rappresenta un’anticipazione di quella che sarà la rivoluzione della fisica classica che fino all’inizio del Novecento aveva un’impostazione deterministica. Ci riferiamo al con­cetto di discontinuità presente nel fisico tedesco Max Planck (1858-1947) il quale, nella primavera del 1900, rivoluzionava il concetto di energia che fino a quel tempo era conside­rata una grandezza continua. Planck affermava invece che l’energia è costituita da elemen­ti indivisibili, che chiamò quanti, la presenza dei quali non consente più di stabilire valori unici ed esatti per la posizione e la velocità di singole particelle subatomiche.

Mendel non sperimentò solo su piante di piselli, ma anche su altri tipi di piante e su ani­mali. All’inizio del 1854 egli fece esperimenti su topi incrociando la comune varietà grigia con quella albina per vedere quale colore avrebbe presentato il mantello dell’ibrido. La visi­ta al mona­stero del Vescovo interruppe la sperimentazione sui topi in quanto l’alto prelato rimproverò severamente il monaco il quale a suo dire incoraggiava i topolini chiusi nelle gabbiette a compiere atti contrari alla morale cattolica. La sperimentazione venne imme­diatamente so­spesa ma Mendel commentò ironicamente l’imposizione del Vescovo facendo presen­te che egli non sapeva che anche le piante, al pari degli animali, sono sessuate.

Ora si trattava di interpretare i risultati ottenuti dagli incroci. Mendel pensò che i carat­teri ereditari fossero sempre determinati da una coppia di fattori distinti che egli chiamò Elemente e che in seguito vennero chiamati geni. Il termine “gene” deriva dal greco genos che significa origine. Di ogni gene esistono due o più for­me diverse: per esempio il gene che presiede nell’uomo alla forma­zione dei capelli può contenere l’informazione “capelli lisci”, “capelli ondulati”, “capelli cre­spi”, “capelli biondi” e così via; nel caso del colore dei semi della pianta di pisello, esiste un gene che determina il co­lore verde­ e un altro per il colore giallo; uno per il seme liscio e uno per il seme rugoso; uno per la pianta alta ed uno per la pianta nana e così via. Mendel ritenne quindi che ogni pianta avesse una coppia di geni per ogni carattere. Questa ipotesi era necessaria perché egli aveva notato che alcune piante col carattere dominante pro­ducevano una di­scendenza che presentava anche il carattere recessivo. Era ovvio pensare che le piante con un carat­tere dominante avessero al loro interno un gene dominante ad esso corrispon­dente così come non era possibile che gli stessi genitori producessero discendenza col ca­rattere re­cessivo senza avere anche un gene recessivo al loro interno. Quindi ogni pianta di questo gene­re doveva avere almeno due geni, uno per ogni tipo di carattere. Ogni membro di questa coppia di geni si chiama allele e alleli sono chiamate le varianti che un gene può assume­re.

NON SOLO PISELLI

Nell’inverno del 1868, all’età di 75 anni, moriva l’Abate Napp lasciando vacante una ca­rica che aveva occupato per 44 anni e che, nella città di Brünn, rappresentava un centro di potere culturale e sociale. Il più adatto a sostituire l’Abate Napp in un ruolo tanto impegna­tivo sembrava essere Matouš Klácel un frate di etnia ceca, che tuttavia non ricevet­te nelle prime votazioni i voti necessari per essere eletto. Lo stesso Klácel convinse allora alcuni dei suoi sostenitori a dare nella votazione successiva la preferenza a Mendel il quale fu effetti­vamente eletto, ma accolse la nomina con un certo imbarazzo. Nello stesso tem­po, però, nonostante la riduzione del tempo da dedicare alla ricerca, che l’incarico avrebbe comportato, ne fu anche compiaciuto. Con una lettera informava il professor Nägeli dell’i­naspettato cambiamento della sua situazione che, dalla assai poco prestigiosa posizione di insegnante di fisica sperimentale, veniva a trovarsi in uno stato nel quale molto gli appa­riva estraneo e concludeva affermando che ci sarebbe voluto parecchio tempo e fatica per sentirsi a suo agio nel nuovo incarico. In realtà la promozione ad Abate del monastero di San Tommaso comportava anche un discreto appannaggio che Mendel utilizzò in parte per far studiare i tre figli della sorella la quale molti anni prima aveva sacrificato una parte della sua dote per aiutare il fratello a proseguire gli studi superiori. I nipoti poterono così fre­quentare le scuo­le di Brünn e stare a pensione presso il monastero in modo da poter fare visita allo zio con il quale la domenica pomeriggio si impegnavano in appassionate partite di scac­chi. Due di essi si laurearono in medicina all’Università di Vienna. Frattanto Klácel colse l’occasione per rinunciare all’abito talare e trasferirsi negli Stati Uniti dove si dedicò al giornalismo: un campo in cui avrebbe potuto manifestare le sue idee di idealismo ateo e sociale.

La nomina ad Abate costrinse Mendel a rinunciare, sia pure a malincuore, alle sue ricer­che più impegnative di raccolta di dati relativi alle piante che coltivava nell’orto del mona­stero e nella serra che l’Abate Napp aveva fatto costruire appositamente e ad altre attività. Il che non precluse al religioso-scienziato di dedicarsi a lavori più sedentari svolti in biblioteca e nel frutteto dedicando maggiori attenzioni al­l’allevamento delle api e soprattutto alle quoti­diane osservazioni meteorologiche proseguite per lungo tempo e annotate con gran cura. Nel 1868, lo stesso anno della morte di Napp e della sua nomina ad Abate, Mendel fu no­minato vicepresidente della Società di scienze na­turali e, un paio di anni più tardi, vicepre­sidente della Società di apicoltura. Per quanto ri­guarda la meteorologia era da molti anni che Mendel si interessava di questa disciplina di cui raccoglieva dati relativi alla temperatu­ra, alla forza e direzione dei venti, all’intensità delle precipitazioni e alla copertura nuvolosa, facendo del monastero un vero e proprio cen­tro di raccolta di dati meteorologici.

La vita sedentaria e il particolare apprezzamento per i manicaretti preparati da cuoche molto stimate persino nei palazzi nobiliari di Vienna, aggiunti alla mancanza di moto, lo avevano notevolmente appesantito nel fisico. Il piacere della tavola non era l’unica debolezza del nostro monaco. Un’altra, e di peso molto maggiore, consisteva nel vizio del fumo. Era arrivato a fumare fino a 20 sigari al giorno (uno all’ora?) e ciò su consiglio del medico il quale lo invitava a fumare perchè diminuisse di peso: e invece fu un pessimo suggerimento che in verità gli accorciò la vita. Quanta strada dovrà ancora fare la medicina per garantire la salute della popolazione e forse a tutt’oggi non è ancora arrivata alla conclusione visto che il vizio del fumo è molto diffuso anche fra i medici.

Mendel soffriva di una disfunzione renale diagnosticata poi come una grave forma di nefrite detta “morbo di Bright”. La malattia si era aggravata nell’ultimo anno e gli provoca­va insufficienza cardiaca e un grave edema alla gambe che trasudavano liquidi che i reni non riuscivano a smaltire. Su consiglio dei nipoti medici aveva tentato di rinunciare ai nu­merosi sigari a cui si era abituato, ma non vi era riuscito; comunque sarebbe stato tardi. Egli peraltro si rese conto della gravità della malattia e attese la morte serenamente. Ritenendo che sa­pere qualche cosa di più sulla sua malattia sarebbe stato utile alla medicina, come ultimo omaggio alla scienza sperimentale, che era stato l’obiettivo che aveva perseguito per tutta la vita, chiese che sul suo cadavere venisse eseguita l’autopsia. La morte lo colse alle due di notte del 6 gennaio 1884 mentre riposava sul divano. Non aveva ancora compiuto 62 anni.

Alle esequie erano presenti le maggiori autorità ecclesiastiche e civili che resero un do­veroso omaggio all’alto prelato e al cittadino esemplare. Non tutti elogiarono i suoi impegni in campo scientifico ma tutti misero in evidenza che era scomparso un benefattore dei po­veri, un animo nobile, un protettore delle scienze e un prete esemplare.

Fra tante belle parole di circostanza vi fu anche qualcuno che accolse con malcelata soddisfazione la scomparsa dell’Abate. Si trattava di Anselm Rambousek il rivale di etnia ceca che finalmente poteva occupare il posto che 16 anni prima gli era stato negato. Con la scusa di mettere ordine nell’appartamento occupato da Mendel il nuovo Abate fece am­mucchiare tutte le carte scientifiche e personali del suo predecessore nel cortile del con­vento e dare loro fuoco. Brutto segno il fuoco che ricorda i roghi medioevali messi in atto per eliminare gli eretici. Andarono così perduti molti scritti relativi agli esperimenti e molta docu­mentazione che avrebbe potuto contribuire a far conoscere meglio la personali­tà del mo­naco moravo e il metodo che aveva seguito nei suoi esperimenti. Qualcosa fu possibile recuperare grazie alle lettere che Mendel aveva scritto a Nägeli e che il biologo svizzero aveva accuratamente conservato.

“VERRÀ IL MIO TEMPO…”

Trentacinque anni dopo la comunicazione relativa al lavoro sugli ibridi di Pisum sativum, le famose piante di piselli, esplose il “caso Mendel”. Tre persone, ciascuna per proprio con­to e nel medesimo anno, giunsero esattamente alle stesse conclusioni a cui era giunto Mendel alcuni anni prima. Erano l’olandese Hugo De Vries (1848-1935), professore di bo­tanica all’Università di Am­sterdam, il tedesco Carl Erich Correns (1864-1933) docente di botanica all’Università di Tu­binga e l’austriaco Erich von Tschermak-Seysenegg (1871-1962) assistente volontario presso le tenute della Fondazione della famiglia imperiale au­striaca di Esslingen, un paese vicino a Vienna: tre ricercatori che non si conoscevano fra loro né co­noscevano il la­voro di Mendel. Tutti e tre erano pronti a pubblicare le loro sco­perte nel 1900; tutti e tre in un controllo finale delle precedenti pubblicazioni sull’argomen­to trova­rono, con loro grande sorpresa, l’opera di Mendel; tutti e tre pubblicarono i loro la­vori nel 1900 citando l’opera di Mendel, attribuen­do a lui l’intero merito della scoperta e pre­sentando il loro studio solo come una conferma della teoria.

Vediamo ora di analizzare più nel dettaglio la riscoperta dell’opera di Mendel, un fatto di valore eccezionale e unico nel suo genere. Hugo de Vries il noto botanico olandese già da alcuni anni andava elaborando una teoria delle mutazioni o, come lui le chiamava, delle mostruosità, un termine che deriva da una parola latina che significa “ammonimento” in quanto si riteneva che gli animali con anomalie, rappresentassero un cat­tivo auspicio. Per spiegare come tali mostruosità potessero mantenersi all’interno di una popolazione di pian­te il botanico olandese aveva messo a punto una teoria che si rifaceva a quella della pan­genesi di Darwin. De Vries riteneva che nelle cellule delle piante fossero presenti dei pan­geni, ossia degli elementi materiali responsabili di un particolare carattere. Da pangene fu fatto derivare il termine “gene”, che a sua volta discende dal greco genos “gene­ratore di”. Il termine, insieme alla sua funzione, venne proposto nel 1909 dal botani­co da­nese Wilhelm Ludwig Jo­hannsen (1857-1927); destinato ad un intramontabile succes­so non ha nulla a che fare con la genetica di Bateson.

Nel marzo del 1900 de Vries pubblicò, nel giro di pochi mesi, tre lavori sulle relazioni fra ibridi di varie specie di piante compreso il granturco (Zea mays) e il pisello (Pisum sativum). Un lavoro fu letto a Parigi all’Acca­demia delle Scienze il 26 marzo di quell’anno e ad esso fece seguito un secondo lavoro più esteso pubblicato, sempre nel mese di marzo, sulla rivista francese Revue général de bo­tanique (Rivista generale di botanica). Un terzo lavoro, scritto in tedesco fu ricevuto dal­l’editore dei Berichte der deutschen botanischen Gesell­schaft (Comunicazioni della società tedesca di botanica) la principale ri­vista tedesca di bo­tanica con sede a Berlino e pubblicato il 25 aprile dello stesso anno. Il manoscritto portava il titolo “Das Spaltung­sgesetz der Bastarde” (La legge della separazio­ne degli ibridi).

Nel breve articolo, scritto in francese, veniva dato l’annuncio della riscoperta delle leggi di Mendel senza però menzionare lo scopritore delle stesse. In verità, nella pubblicazione tedesca de Vries aveva riconosciuto di essere venuto a conoscenza dei lavori di Mendel del 1866 ma solo dopo che la maggior parte delle sue ricerche erano state completate e ne erano state ricavate le conclusioni. L’articolo in francese di de Vries scatenò ire e polemi­che da parte di Carl Correns. Il 21 aprile 1900 Correns ricevette da de Vries una copia della comuni­cazione all’Accademia di Parigi. Immediatamente egli prese carta e penna e inviò alla rivista tedesca che stava per pubblicare lo scritto di de Vries una nota del suo lavoro con il titolo provocatorio di “La regola di G. Mendel sul comportamento della progenie degli ibridi tra razze” nel quale descriveva nei dettagli i suoi esperimenti di ibridazione. La provocazione consisteva nel citare il nome di Mendel. Egli conclude­va il suo lungo articolo informando che nei suoi esperimenti di ibridazione sulle stesse piante su cui aveva operato de Vries (e Mendel) quando scoprì la regolarità del fenomeno gli successe la stessa cosa di cui parla de Vries e cioè la convinzione di avere in­dividuato qualche cosa di nuovo. Ma poi aveva scoperto che Mendel aveva ottenuto gli stessi risultati una trentina d’anni prima.

Il 2 giugno 1900 l’editore dei Berichte ricevette un manoscritto intitolato “Sull’incrocio artificiale in Pisum sativum” che era stato inviato per la pubblicazione da Erich von Tscher­mak-Seysenegg. Lo scritto apparve nel numero di luglio dei Berichte.  Tschermak, tuttavia, aveva già pubblicato i suoi risultati sotto forma di relazione inaugurale tenuta alla Scuola supe­riore di Agraria il 17 gennaio 1900. Quando comparve la prima relazione di de Vries, Tschermak insistette perché la sua fosse stampata immediatamente. Essa viene general­mente considerata la terza delle comunicazioni della riscoperta. Dopo aver letto le esposi­zioni di Correns e di de Vries scrisse che a sua volta continuava a credere di aver scoperto qualche cosa di nuovo.

E così, nel giro di soli due mesi le prime leggi sull’eredità determinate per via sperimen­tale lasciarono improvvisamente l’oscurità in cui tre decenni di indifferenza le avevano te­nute. Estremamente importante fu il fatto che esse fossero state confermate in modo del tutto insolito: venendo cioè riscoperte non solo una volta ma tre volte e in modo del tutto indipendente da tre ricercatori diversi.

LE TRE LEGGI DI MENDEL

Vanno sotto questo nome le tre regole sulla modalità di trasmissione dei caratteri eredi­tari osservate da Gregor Mendel nel corso dei suoi esperimenti sulle piante di pisello. Pri­ma di esporre il contenuto delle leggi è opportuno chiarire che non fu Mendel a chiamarle così, ma vennero formalizzate quando il lavoro del frate di Brno venne riscoperto. Nem­meno nel numero gli autori concordano, in quanto per alcuni le leggi dovrebbero essere solo due.

La notazione più diffusa è la seguente:
1. Legge della dominanza.
Essa è detta anche legge dell’uniformità degli ibridi di prima generazione e recita così: incrociando due individui che differiscono per un certo carattere, nella prima generazione filiale (F1) si manifesta solo uno dei due caratteri, detto dominante, mentre sembra scom­parire quello recessivo.

2. Legge della segregazione.
Essa può essere espressa in questi termini: i due alleli che concorrono a determinare uno stesso carattere si separano durante la gametogenesi ovvero, durante la formazione dei gameti (cellule per la riproduzione: polline e uova), passa uno solo di essi. Essi quindi vengono segregati in gameti diversi.

3. Legge dell’indipendenza dei caratteri.
Essa afferma che ogni coppia di alleli viene trasmessa alla discendenza in modo indipendente dalle altre, per cui alleli facenti parte di coppie di­verse si possono trovare combinati nei figli in tutti i modi possibili.

Prof. Antonio Vecchia

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