Gerarchia sociale

Ogni tanto la cronaca riporta casi di insubordinazione, come ad esempio quello di un militare che disubbidisce al suo superiore, di un giudice che non rispetta le direttive del proprio ministro o di un figlio che si ribella al padre.

L’atto d’insubordinazione non è altro che il mancato rispetto di una gerarchia sociale necessaria per garantire l’ordine all’interno delle istituzioni di cui facciamo parte. L’esigenza di stabilire una gerarchia sociale è sentita in tutte le organizzazioni umane, a cominciare dalle più semplici come la tribù e la famiglia fino all’esercito e alla scuola, ma è presente anche fra gli animali.

Per gli animali vivere in gruppo porta sicuramente dei vantaggi, come ad esempio quello di sfuggire ai predatori i quali, com’è noto, preferiscono attaccare prede isolate o disperse, ma esso reca altresì una serie di svantaggi e fra questi vi sono indubbiamente le tensioni conseguenti all’affollamento di aree di ridotte dimensioni con risorse alimentari insufficienti per tutti. Queste tensioni sfociano inevitabilmente in scontri con conseguenti sprechi d’energia vitale e rischi di ferite: di qui l’esigenza di creare un’organizzazione all’interno del gruppo con l’individuazione di una scala gerarchica tra gli elementi del gruppo stesso.

Le galline che vivono nel pollaio, ad esempio, attraverso una serie di contese preliminari sviluppano quello che si chiama «ordine di beccata» che consiste in un atto di sottomissione del più debole al più forte. La gallina meglio attrezzata geneticamente becca le compagne senza ricevere beccate in cambio; una seconda gallina può beccare ogni altra, tranne la prima; una terza non può beccare le prime due ma tutte le altre sì, e così via. L’ultima, la più sfortunata, che evidentemente è la più debole, è beccata da tutte, ma non può rifarsi su nessuna. Le galline che si trovano sugli scalini più alti della gerarchia godono di particolari privilegi, come quello di avvicinarsi per prime alla scodella del cibo.

Come è evidente l’esistenza di una gerarchia, più che favorire il singolo, tutela la sopravvivenza della specie. Qualora le condizioni ambientali evolvessero in modo tale da non assicurare il cibo per tutti, l’ordine gerarchico consentirebbe la sopravvivenza almeno dei più forti, garantendo loro l’accoppiamento e la trasmissione dei caratteri ereditari migliori.

Fra gli animali in cui si è stabilita una gerarchia le contese dirette ovviamente risultano diminuite, ma la competizione tuttavia continua attraverso le cosiddette «lotte simboliche» fatte di sguardi minacciosi o d’assunzione d’atteggiamenti aggressivi, che però non producono danni. Questi comportamenti sono presenti soprattutto presso i carnivori di grossa taglia dotati di armi d’offesa molto efficaci, come ad esempio i lupi, e vengono accettati supinamente dai più deboli: in questo modo la violenza e lo spreco d’energie ne risultano limitati. Ogni scontro infatti indebolisce tutti, anche i vincitori (almeno per un po’ di tempo), i quali potrebbero cadere vittime essi stessi di qualche predatore.

E’ quasi impossibile osservare la competizione negli animali senza pensare al comportamento umano. A prescindere da quanto si è detto sopra, vi è da chiedersi: “E’ giusta questa competizione?” E’ moralmente accettabile che una popolazione (anche se di animali) sia divisa in «privilegiati» e «svantaggiati»? Essere un perdente in una società dominata dalla competizione significa che le possibilità di sopravvivenza vengono fortemente diminuite? Ad esempio è stato osservato che il territorio a disposizione degli uccelli «scapoli», allontanati dal gruppo, è un territorio di seconda scelta, più povero di cibo e di ripari sicuri ed è perciò maggiore, per questi individui, già di per sé deboli, la possibilità di cadere vittime di predatori. Vale la stessa cosa per gli uomini?

Nel gruppo organizzato secondo una strutturazione gerarchica regna un maggior ordine e diminuiscono le occasioni di scontri: l’accettazione della propria posizione all’interno di esso avvantaggia quindi anche i più deboli, i quali hanno a disposizione del cibo che altrimenti verrebbe utilizzato dai più forti per sopperire alla spesa energetica conseguente alle continue lotte.

Diceva William Paley, un teologo inglese vissuto nel XVIII secolo: «Un errore molto comune fuorvia l’opinione degli uomini su questo argomento, vale a dire la convinzione che il comando sia universalmente piacevole, la sottomissione penosa. Esaminando il corso generale della storia umana si rivela più vicino alla verità l’esatto contrario di questo convincimento: il comando produce affanni, l’obbedienza [però solo se accettata di buon grado] invece tranquillità. Una posizione elevata e preminente porta inevitabilmente con sé preoccupazioni e responsabilità.»

Qualcosa di simile pensavano anche i latini, i quali dicevano: «Qui addit scientiam addit et laborem» che, tradotto liberamente, significa che quando si accresce il sapere, si sale sì nella scala gerarchica, ma aumentano anche i doveri e le responsabilità verso la comunità.

Prof. Antonio Vecchia

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