Pianeti fantasma

PIANETI EXTRASOLARI

Nell’ottobre del 1995 due astrofisici svizzeri, Michel Mayor e Didier Queloz, annunciarono la scoperta di un pianeta esterno al sistema solare. Si trattava di un pianeta di grande massa in orbita intorno a 51 Pegasi, una stella all’incirca delle dimensioni del Sole e distante da noi una quarantina di anni luce. Pochi mesi più tardi alcuni ricercatori americani confermavano la scoperta degli Svizzeri e contemporaneamente riferivano di avere individuato essi stessi altri due corpi in orbita intorno a stelle dello stesso tipo. Attualmente i pianeti esterni al sistema solare, noti alla scienza, sono una cinquantina e il loro numero continua ad aumentare.

In realtà non si tratta di osservazioni nel senso più comune del termine: nessuno ha visto materialmente questi lontani pianeti. Si tratta invece di una serie di misure molto accurate sul moto proprio di alcune stelle, che hanno messo in evidenza come questi astri si muovano oscillando leggermente e ciò farebbe supporre la presenza di un corpo celeste che gira intorno ad essi. Quando un oggetto orbita intorno ad un altro, la sua attrazione di gravità provoca piccole oscillazioni del corpo centrale: dalla periodicità di queste oscillazioni è possibile ricavare informazioni relativamente alle dimensioni e alla forma dell’orbita percorsa dall’oggetto orbitante e alla sua massa.

Nel caso dei nuovi pianeti, si tratterebbe di corpi un po’ particolari e molto diversi per dimensioni e comportamento da quelli presenti nel sistema solare. Naturalmente la prima cosa a cui si è pensato, appena avuta la conferma dell’esistenza di questi corpi celesti orbitanti intorno a stelle delle dimensioni più o meno del nostro Sole, è stata la possibilità che questi eventuali pianeti siano popolati da forme di vita simili a quelle che esistono sulla Terra, ma da questa eventualità siamo ben lontani. I corpi osservati sono quasi tutti molto grandi (più di Giove e quindi quasi piccole stelle piuttosto che pianeti veri e propri) e quelli che sono di dimensioni minori girano su orbite fortemente ellittiche, cosa che li sospinge periodicamente o molto vicini o molto lontani dal loro Sole: pertanto forniti di temperature superficiali molto variabili.

La verità è che dal lieve moto oscillatorio delle stelle non è possibile trarre conclusioni sulla presenza di pianeti di tipo terrestre. Un “vero” pianeta, come la nostra Terra, non sarebbe percepibile con i mezzi attualmente a disposizione, nemmeno se si trovasse a girare intorno alla stella a noi più vicina. Oltre che annegato nella luce abbagliante del proprio Sole, le influenze gravitazionali di un pianeta così piccolo sul corpo centrale risulterebbero tanto evanescenti da non poter essere assolutamente poste in evidenza.

Fino a poco tempo fa erano stati osservati solo singoli pianeti gravitanti intorno a stelle simili al Sole, ma ora c’è qualche indizio di stelle circondate da veri e propri sistemi solari in formazione. In verità vi è un unico caso in cui si ha la certezza di un sistema extrasolare: si tratta però di una pulsar le cui oscillazioni delle emissioni elettromagnetiche probabilmente vengono perturbate dalla vicinanza di tre pianeti grandi più o meno quanto la Terra. La pulsar è una stella di neutroni cioè un astro estremamente denso e quindi ben diverso dal nostro Sole. Per il momento abbiamo pertanto la conferma che sono state scoperte stelle simili al nostro Sole intorno alle quali ruotano pianeti diversi dalla Terra o pianeti simili alla Terra orbitanti però intorno a stelle diverse dal nostro Sole.

Alla luce delle più recenti osservazioni, il convincimento di trovarci di fronte a veri e propri corpi di natura planetaria deve venire purtroppo ridimensionato e gli entusiasmi alquanto raffreddati. D’altra parte non è la prima volta, nella storia dell’astronomia, che viene annunciata la scoperta di qualche nuovo corpo celeste che poi risulta inesistente. Proviamo allora a percorrere insieme le vicende di queste false scoperte iniziando da Vulcano, il fantomatico pianeta che avrebbe dovuto trovarsi tra il Sole e Mercurio.

La storia di Vulcano inizia il 2 gennaio 1860 quando il matematico francese Urban J. J. Le Verrier (1811-1877) annunciò, per giustificare un’anomalia riscontrata nell’orbita di Mercurio, che vicino al Sole avrebbe dovuto trovarsi un altro pianeta.

Le Verrier era un personaggio molto noto che aveva acquistato fama e prestigio nel 1846 quando riuscì a calcolare a tavolino la posizione di un ipotetico pianeta che con la sua presenza perturbava la traiettoria di Urano. Il pianeta indicato da Le Verrier fu effettivamente osservato proprio nella posizione suggerita dal matematico francese e ciò rappresentò per lui un notevole successo scientifico. Quindi, quando in seguito comunicò che secondo i suoi calcoli sarebbe dovuto esistere un pianeta in movimento su di un’orbita ancora più interna di quella di Mercurio, si scatenò, fra gli astronomi, la caccia al nuovo oggetto misterioso.

Un astrofilo, appena avuta notizia dell’idea di Le Verrier, gli inviò i risultati di una sua osservazione avvenuta l’anno precedente, in cui veniva descritto il passaggio di un puntino nero sulla superficie dell’astro centrale che non sembrava essere una normale macchia solare. Le Verrier prese per buona la segnalazione dell’astronomo dilettante e dette il nome di Vulcano, il mitico dio romano del fuoco, all’ipotetico pianeta del quale calcolò perfino l’orbita sulla base dei pochi dati di cui disponeva. Il pianetino sarebbe dovuto ruotare intorno al Sole in 19 giorni e 7 ore a una distanza di circa 21 milioni e mezzo di kilometri. La conferma della scoperta di questo misterioso pianeta divenne quindi lo scopo della sua vita. Ora però, prima di vedere come si concluse la vicenda, dobbiamo raccontare la storia dei due pianeti effettivamente scoperti sulla scorta dei calcoli eseguiti dal famoso matematico.

 

LE SCOPERTE DEI PIANETI A TAVOLINO

Come tutti sanno i pianeti del sistema solare sono nove, ma solo sei di essi erano noti fin dai tempi più antichi e cioè, oltre alla Terra, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Bisognerà aspettare quasi due secoli dopo l’invenzione del telescopio, prima che ne venisse scoperto un altro. Il 13 marzo del 1781 l’astronomo tedesco trasferitosi in Gran Bretagna, William Herschel, accidentalmente, scoprì Urano osservando una lastra fotografica su cui appariva un puntino luminoso, che in un primo momento fu scambiato per una cometa. Lo studioso però, dopo aver seguito per alcuni mesi il suo tragitto, capì che doveva invece trattarsi di un pianeta al quale dette il nome di Georgium Sidus (cioè stella di Giorgio) in onore di Re Giorgio III d’Inghilterra; in seguito, l’astronomo inglese John Couch Adams mutò questo nome in quello di Urano, un dio pagano, uniformandolo ai nomi assegnati agli altri pianeti.

Dopo la sua scoperta, Urano fu osservato ripetutamente e ne fu quindi determinata la grandezza e il tempo di rivoluzione intorno al Sole, che risultò di 84 anni. Continuando nelle osservazioni del nuovo pianeta e della sua traiettoria che veniva determinata con sempre maggiore accuratezza e scrupolo, fu possibile verificare che i suoi movimenti non erano conformi ai calcoli. Nel 1834, quando Urano aveva percorso poco più della metà della sua orbita intorno al Sole dal giorno della sua scoperta, un astronomo inglese dilettante, il reverendo T.J. Hussey, intuì che la deformazione dell’orbita che mostrava il pianeta poteva essere causata dall’influenza di un altro corpo celeste ancora più esterno. Egli informò della cosa l’astronomo inglese George Biddel Airy, il quale non dette credito all’ipotesi di un pianeta sconosciuto e sottovalutò la segnalazione.

Una decina di anni più tardi anche John Couch Adams, uno studente dell’Università di Cambridge, e Urban Le Verrier, l’uno all’insaputa dell’altro, si impegnarono in una serie di calcoli per determinare la posizione del pianeta che secondo loro doveva essere la causa delle perturbazioni di Urano. Essi sottoposero quindi l’argomento all’attenzione degli astronomi.

Nel 1845, Adams inviò i suoi risultati a Cambridge dove James Challis, professore di astronomia di quella Università, si limitò ad una osservazione superficiale del cielo e concluse, dopo un errore nei calcoli che avrebbe dovuto metterlo sulla giusta strada, che il pianeta non esisteva. A quel punto Adams, deluso dal trattamento riservato al suo lavoro, abbandonò gli studi che con tanto entusiasmo aveva intrapreso.

Le Verrier fu più fortunato perché si rivolse all’astronomo tedesco Johann Goffried Galle il quale, con la convinzione e la tenacia che lo distinguevano (ma che dovrebbero contraddistinguere qualsiasi buon ricercatore), prese la cosa seriamente e si mise ad osservare il cielo con molta attenzione per tutta la notte del 23 settembre 1846. La mattina successiva egli comunicò di aver avvistato il pianeta cercato.

La scoperta del nuovo pianeta che fu chiamato Nettuno, in ossequio alla tradizione che vuole siano assegnati ai pianeti i nomi di personaggi della mitologia greca, rappresentò la conferma della validità della teoria gravitazionale di Newton ed ebbe una risonanza enorme. Molti astronomi, sull’onda del successo di Le Verrier, ne cercarono di altri sia all’interno dell’orbita di Mercurio sia all’esterno dell’orbita di Nettuno.

Impegnato attivamente nella ricerca all’esterno dell’orbita di Nettuno fu, all’inizio del secolo scorso, un ricco astronomo dilettante americano di nome Percival Lowell il quale, proprio per raggiungere questo scopo, aveva costituito un gruppo di matematici incaricati di eseguire i calcoli necessari per individuare la posizione di un ipotetico nuovo pianeta. I suoi sforzi però non furono premiati e Lowell morì nel 1916 senza aver realizzato il sogno della sua vita. Le ricerche tuttavia continuarono presso l’osservatorio di Falgstaff, in Arizona, costruito dallo stesso Lowell proprio per l’indagine dei pianeti finché, nel 1930, un certo Clyde Tombaugh, astronomo statunitense morto nel 1997 all’età di 91 anni, annunciò di avere individuato su alcune foto riprese con il telescopio, il nuovo pianeta che fu chiamato Plutone.

Alcuni ritengono che questo, come Nettuno, sia stato scoperto sulla base di precisi calcoli matematici: altri sono dubbiosi, in quanto Plutone sembra essere molto piccolo e molto leggero e quindi non in grado di perturbare con la sua presenza l’orbita di Nettuno. A conferma di ciò si può osservare che mentre Le Verrier indicò la posizione di Nettuno con molta precisione, quella di Plutone fu segnalata dai matematici che lavorarono con Lowell con un errore di oltre 6°. La scoperta di Plutone, molto probabilmente, fu dovuta ad una straordinaria coincidenza.

 

IL PIANETA CHE NON ESISTE

Veniamo ora al pianeta che avrebbe dovuto trovarsi all’interno dell’orbita di Mercurio. Come abbiamo detto, fin dal 1860 gli astronomi, su indicazione di Le Verrier, si misero alla caccia di questo fantomatico pianeta la cui esistenza era stata ipotizzata sulla base di piccole deviazioni osservabili sull’orbita di Mercurio.

La teoria di Newton prevede che, a prescindere dal moto proprio delle stelle e dall’influenza dei satelliti e dei pianeti vicini, il moto rotatorio lungo un’ellisse di un pianeta intorno al Sole dovrebbe conservare sempre la stessa posizione rispetto alle stelle fisse. In altre parole, i pianeti dovrebbero muoversi, se non fossero influenzati da altri corpi celesti ad essi vicini, sempre lungo la medesima orbita ellittica la quale dovrebbe rimanere immobile nello spazio. In effetti osservazioni protratte per anni verificarono questa circostanza per tutti i pianeti, con la sola eccezione di Mercurio, il pianeta più vicino al Sole.

L’orbita di Mercurio, rettificata nel modo descritto sopra, mostrava un comportamento anomalo rappresentato da un leggero movimento dell’ellissi che quindi non si manteneva fissa nello spazio come previsto dalla teoria gravitazionale di Newton. La Verrier cercò di spiegare l’anomalia immaginando la presenza di un altro pianeta fra Mercurio e il Sole. Questo ipotetico pianeta, ricercato affannosamente da generazioni di astronomi, non fu mai trovato.

Alla fine la soluzione fu individuata all’interno della teoria della relatività generale di Einstein la quale contiene tra l’altro un modo originale di interpretare la gravitazione, tanto che spesso viene anche chiamata «teoria della gravitazione di Einstein».

L’aspetto fondamentale e qualificante di questa teoria è che le proprietà geometriche dello spazio vengono modificate dalla presenza di forze gravitazionali. Lo spazio, prima di Einstein, era sempre stato ritenuto qualche cosa di “piatto” ossia un contenitore vuoto nel quale, per passare da un luogo ad un altro per la strada più breve, si sarebbe dovuto procedere in linea retta, come succede appunto quando ci si muove su una superficie piana.

Per rimanere nell’analogia con il piano bidimensionale, tutti sanno che un triangolo disegnato su una superficie piana presenta la somma degli angoli interni uguale a 180°; mentre un triangolo disegnato su una superficie sferica presenta la somma degli angoli interni maggiore di 180°. Questo fatto è ben noto ai cartografi i quali devono disegnare con la massima accuratezza possibile su di un piano (la carta geografica) ciò che sta su di una sfera (la superficie terrestre). Se le superfici sono piccole, il problema si risolve da sé perché la differenza è minima, ma quando le superfici diventano grandi, per esempio come tutta l’Europa o l’America, allora è impossibile trasferire la figura dalla superficie sferica a quella piana senza deformarla. In questi casi, per fare assomigliare il più possibile il disegno sulla carta alla realtà, bisogna ricorrere ad opportuni artifizi.

Quello che vale per il piano a due dimensioni vale anche per lo spazio a tre dimensioni. Quindi in uno spazio “piatto”, cioè a tre dimensioni, è possibile costruire un triangolo con la somma degli angoli interni uguale a 180°, mentre in uno spazio “curvo” ciò non è più possibile. Continuando nell’analogia, in uno spazio “piatto” un oggetto per andare da un punto ad un altro lungo la strada più breve deve percorrere segmenti di linea retta, mentre in uno spazio “curvo”, per fare la stessa cosa, l’oggetto deve seguire linee curve che comunemente vengono dette geodetiche.

Questa è la differenza fondamentale fra lo spazio concepito dalla teoria newtoniana della gravità e quello che scaturisce dalla teoria einsteiniana. Il primo è uno spazio “piatto”, cioè liscio e uniforme, il secondo è uno spazio “curvo” o, per meglio dire, pieno di avvallamenti e gobbe. Lo spazio, secondo Einstein, è reso curvo dalle stesse masse che lo occupano.

Un modo elegante ed efficace per visualizzare il fenomeno è quello di immaginare un piano di gommapiuma perfettamente liscio: esso rappresenterebbe lo spazio vuoto, quindi piatto. Immaginiamo ora di farvi rotolare sopra un oggetto pesante, per esempio una sfera di acciaio: questo oggetto in movimento si dirigerà in linea retta ma contemporaneamente incurverà il piano di gommapiuma. Immaginiamo ora una seconda sfera pesante in movimento sul foglio di gommapiuma: essa non si muoverà più lungo percorsi rettilinei perché “sentirà” gli avvallamenti prodotti dalla prima. La seconda sfera però, a sua volta, provocherà al suo passaggio un avvallamento nella gommapiuma, che influenzerà il moto della prima ed eventualmente di altre sfere in movimento, e così via. Questo è il punto fondamentale della relatività di Einstein: ogni oggetto si muove nello spazio seguendo il percorso più breve. Sarà la geometria dello spazio a dirci quale risulterà l’andamento di questo percorso.

 

LA RICERCA CONTINUA

Alla luce di quanto detto Mercurio è costretto a descrivere attorno al Sole un’orbita irregolare, determinata dalla sua posizione interna ad uno spazio deformato dalla presenza del Sole stesso, oltre che da quello degli altri pianeti ed eventualmente delle stelle lontane. La traiettoria seguita da Mercurio non è quindi un’ellisse cioè un percorso chiuso che si ripete sempre uguale a sé stesso, ma una serie di orbite aperte: conseguenza del fatto che le ellissi stesse si muovono nello spazio. Il movimento di rotazione dell’orbita è lentissimo e dipende dal fatto che Mercurio si muove in uno spazio curvo. Quindi, proprio per conformarsi alla deformazione creata dal Sole e, in misura minore, dagli altri corpi celesti, esso è costretto a seguire una traiettoria a rosetta. Il movimento di precessione (o avanzamento) dell’orbita di Mercurio è molto piccolo, ma tuttavia rilevabile.

Lo stesso movimento irregolare esiste anche negli altri pianeti ma in questo caso è impercettibile. L’orbita della Terra, ad esempio, ripulita dalle perturbazioni dei pianeti che le stanno intorno, ruota come un tutt’uno intorno al Sole, ad una velocità di soli 3,8 secondi d’arco ogni secolo. A questa velocità, per fare un giro completo attorno al Sole, impiegherebbe 43 milioni di anni. La lentezza del movimento dell’ellissi e la leggera deformazione dello spazio nel quale si muove rendono praticamente impossibile registrare questo movimento, anche perché l’orbita seguita dalla Terra è un’ellissi leggermente schiacciata e quindi è difficile fissare un punto particolare di riferimento (ad esempio il perielio) e stabilire di quanto questo punto si sposti nello spazio. Invece Mercurio non solo si muove piuttosto velocemente intorno al Sole ma descrive anche un’orbita ellittica molto schiacciata, cose queste che rendono il fenomeno più evidente.

Dopo il 1916, cioè dopo che Einstein pubblicò la sua teoria sulla gravitazione che spiegava esattamente la deviazione dell’orbita di Mercurio, nessuno comunicò più di avere avvistato il fantomatico pianeta in prossimità del Sole. Vi fu un’unica eccezione intorno al 1970 quando alcuni ricercatori credettero di avere visto, durante un’eclissi, un debole oggetto vicino al Sole. La notizia venne però smentita prontamente l’anno seguente.

Cosa erano in realtà gli avvistamenti di Vulcano avvenuti prima del 1916 se queste segnalazioni si rivelarono successivamente tutte false? Se non era Vulcano, che cosa avevano visto gli astronomi? La risposta non è facile. Potevano essere piccoli asteroidi che a quel tempo non erano ancora ben noti e quindi facilmente confondibili con il pianeta misterioso, o stelle molto deboli, o ancora piccole comete che finivano la loro corsa direttamente nel Sole.

Un’altra storia interessante fu quella relativa ai satelliti di Venere, Marte e della stessa Terra. Tutte osservazioni che non vennero mai confermate.

Nel 1672, Gian Domenico Cassini uno dei più geniali astronomi mai esistiti, annunciò di aver visto muoversi un satellite intorno a Venere. A questa luna di Venere, che sarebbe stata l’unica del pianeta, venne dato il nome di Neith, la dea della mitologia egizia protettrice delle arti domestiche. Essa fu osservata più volte da astronomi diversi, ma sempre con parametri orbitali discordanti. Gli astronomi furono molto dubbiosi e alla fine convennero che probabilmente si trattava di effetti ottici. Della stessa idea era anche Fathel Hell, il direttore dell’osservatorio di Vienna, secondo il quale poteva trattarsi dell’immagine di Venere che, riflettendosi sull’occhio dell’osservatore, ritornava poi sullo specchio del telescopio dando origine ad una seconda immagine ingannatrice.

Anche la storia della misteriosa seconda luna della Terra merita di essere raccontata. Nella notte del 21 marzo del 1846 tre ricercatori francesi, in modo indipendente l’uno dall’altro, osservarono un oggetto celeste che sembrava essere un secondo satellite della Terra. Di esso vennero forniti anche alcuni dati, in verità poco verosimili, relativi all’orbita. Il nuovo satellite naturale – si precisò – ruotava intorno alla Terra in poco più di 2 ore e tre quarti e si portava a soli 11 km dal nostro pianeta durante il passaggio più ravvicinato.

La pseudo-scoperta del secondo satellite naturale della Terra cadde ben presto nel dimenticatoio e di essa non si sarebbe più parlato se non fosse che un sunto della ricerca finì fra le mani del giovane Giulio Verne il quale prese spunto da questo fenomeno per costruirvi il romanzo “Dalla Terra alla Luna”. Il libro di Verne venne letto da milioni di persone e, quasi per una specie di suggestione collettiva, la storia delle due lune terrestri divenne una realtà. Benché astronomi di chiara fama facessero notare l’impossibilità dell’esistenza di un simile corpo celeste con i parametri proposti, numerosi astrofili si misero alla ricerca del secondo satellite terrestre. E le sorprese non tardarono a venire.

Alla fine dell’Ottocento un astronomo dilettante dichiarò di avere visto la nuova luna insieme con altri piccoli corpi. La stessa osservazione dello sciame di piccole lune terrestri venne annunciata da uno scienziato americano fra il 1966 e il 1969. Secondo questo ricercatore d’oltre oceano, le dieci lune osservate sarebbero il risultato della frantumazione di un grosso asteroide esploso nello spazio pochi anni prima. Egli dichiarò di essere riuscito ad individuare i piccoli corpi analizzando le deboli perturbazioni che i satelliti artificiali subiscono girando intorno alla Terra.

Tuttavia le nuove lune della Terra non vennero mai più osservate e pertanto, per la scienza, sono da ritenersi inesistenti.

La vicenda poi dei due satelliti di Marte, Phobos e Deimos (in greco: paura e terrore), ha addirittura dell’incredibile: nel 1747, lo scrittore Jonathan Swift nel suo romanzo “I viaggi di Gulliver”, parla di due lune marziane, note agli abitanti della favolosa isola volante di Laputa, i cui periodi di rivoluzione avrebbero la durata rispettivamente di 10 e 21,5 ore. A quel tempo le lune di Marte non erano note: esse verranno scoperte solo 150 anni più tardi. La cosa sorprendente è che i veri satelliti di Marte hanno periodi di rivoluzione rispettivamente di 7 ore e 39 minuti e 30 ore e 18 minuti, due valori molto vicini a quelli ipotizzati dallo scrittore britannico.

La storia infinita della ricerca di corpi celesti fantasma continua tuttora. Nel 1983 due paleontologi dell’Università di Chicago, risalendo fino a 250 milioni di anni fa, hanno riconosciuto una decina delle cosiddette “estinzioni di massa”, cioè di quei periodi della storia della Terra in cui molte specie di animali e piante scomparvero misteriosamente. La scoperta li condusse a concludere che se le estinzioni su larga scala di tanti esseri viventi erano cicliche, e non casuali, esse dovevano avere una causa comune. Poiché non si conosceva alcun fenomeno terrestre (eruzioni vulcaniche, terremoti, glaciazioni o altro) che potesse spiegare un ciclo di circa 25–30 milioni di anni, gli scienziati si rivolsero al cielo in cerca di una risposta che avesse i caratteri della periodicità.

Si pensò allora che il Sole potesse avere una compagna debole, una stella molto piccola in movimento su un’orbita molto allungata che si porterebbe in prossimità del sistema solare appunto ogni 25-30 milioni anni. Questa “stella della morte”, a cui fu assegnato il nome di Nemesis, non fu mai osservata, ma sarebbe la responsabile indiretta delle estinzioni di massa sul pianeta. Gli scienziati ritengono infatti che questo corpo massiccio, passando in prossimità del Sole, perturberebbe la cosiddetta nube di Oort, un anello di polvere e di detriti che circonda il sistema solare ben oltre l’orbita di Plutone determinando una pioggia periodica di piccoli corpi celesti sulla Terra. Questo periodico bombardamento di asteroidi e comete sarebbe quindi la causa della estinzione di un numero molto elevato di organismi.

Pur senza escludere l’ipotesi della stella della morte, alcuni astronomi adombrano un’altra possibilità per spiegare le estinzioni di massa. Da oltre un secolo, il mondo degli astronomi è alla ricerca di un pianeta che dovrebbe sostituire Plutone nel ruolo di perturbatore delle orbite di Urano e Nettuno. Secondo i calcoli effettuati, dovrebbe infatti esistere all’interno del sistema solare un decimo pianeta, chiamato Pianeta X (ics o decimo?), in movimento su di un’orbita molto allungata che transiterebbe in prossimità del sistema solare molto di rado. Questo fantomatico pianeta spiegherebbe tanto le discrepanze dell’orbita di Urano e Nettuno, quanto i periodici sciami di comete sulla Terra. Molti gruppi di astronomi scandagliano il cielo alla ricerca di Nemesis e del Pianeta X con poche speranze di trovarli. Alcuni fisici e matematici fanno notare che anche qualora si riuscisse ad individuare i corpi misteriosi, questi non dovrebbero passare in prossimità della Terra prima di una ventina di milioni di anni.

Anche quando le probabilità di fare nuove scoperte sembrano nulle, lo scienziato non si arrende: egli persevera nella ricerca perché sa che solo dall’accumulo di altri dati di osservazione potrà scaturire una dimostrazione convincente delle sue idee.

Prof. Antonio Vecchia

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