Michael Faraday

Michael Faraday nacque il 22 settembre 1791 in un villaggio ubicato nei pressi di Londra entro una famiglia di lavoratori manuali (il padre era maniscalco) privi di cultura e talmente poveri da non potersi permettere il lusso di mantenere il figlio agli studi. Pertanto, dopo aver ricevuto un’istruzione rudimentale, all’età di tredici anni, il ragazzino fu mandato a lavorare come garzone presso un libraio e l’anno successivo venne assunto nella stessa bottega con la qualifica di apprendista rilegatore di libri, un incarico che mantenne per sette anni.

 

DAVY E LA ROYAL INSTITUTION

Nel suo laboratorio il giovane Faraday non si limitava a rilegare i libri, ma anche li leggeva; soprattutto egli era interessato a quelli che riguardavano la chimica e l’elettricità. La lettura di quei libri gli permise di arricchire il suo bagaglio culturale e coltivare il desiderio di dedicarsi un giorno alla ricerca scientifica. Nel tempo in cui il lavoro glielo permetteva aveva anche eseguito qualche semplice e poco costoso esperimento scientifico e costruito una macchina elettrica (utilizzando un’ampolla di vetro) ed altri apparati elettrici dello stesso tipo. Per questa attività fu notato da un cliente della libreria che gli regalò alcuni biglietti d’ingresso per assistere alle lezioni che il chimico inglese Humphry Davy (1778-1829) teneva presso la Royal Institution di Londra.

La Royal Institution era un centro culturale fondato nel 1800 per iniziativa dell’americano Benjamin Thomson (1753-1814) un fisico che passò gli ultimi anni di vita in Europa. Coinvolto in un clamoroso caso di spionaggio, da Londra dove si era trasferito, e dove si occupava di attività economico-militari, Thomson fu costretto a riparare in America, ma dopo un paio d’anni ritornò in Europa per mettersi al servizio dell’Elettore di Baviera ossia di uno di quei prìncipi che avevano il compito di procedere all’elezione dell’imperatore del Sacro Romano Impero. In quel ruolo il fisico americano aveva il compito di riorganizzare l’esercito bavarese e in virtù di quell’incarico fu nominato conte del Sacro Romano Impero con il titolo nobiliare di conte di Rumford. Assolto il mandato lasciò la regione germanica e si stabilì nuovamente a Londra.

L’obiettivo originale della Royal Institution era quello di mostrare agli operai come si potesse applicare la ricerca scientifica alle loro attività. Tuttavia, quell’istituzione dipendeva in larga misura dalle offerte di persone abbienti e pertanto finì per concedere maggiore spazio alle conferenze per i benestanti che alle lezioni pratiche per gli operai. In seguito ad un diverbio che ebbe con gli altri organizzatori del centro culturale, Rumford tornò sul continente dove conobbe la vedova di Lavoisier, che poi sposò. Prima di partire convinse Humphry Davy a recarsi a Londra per tenere alcune conferenze presso il centro culturale da lui fondato.

Davy era un chimico analista abilissimo ma anche un ottimo oratore che in breve attrasse un folto pubblico alle conferenze e all’epoca in cui Faraday assisteva alle sue lezioni egli aveva reso la Royal Institution uno dei principali centri scientifici d’Inghilterra. Nell’ottobre del 1812 il chimico inglese rimase temporaneamente accecato da un’esplosione avvenuta mentre eseguiva un esperimento e Faraday fu assunto come suo assistente personale per pochi giorni. In quell’occasione Faraday chiese a Davy di tenerlo in considerazione per un eventuale incarico nel suo laboratorio anche perché gli interessi scientifici del professore inglese erano gli stessi che aveva lui, ovvero la chimica e l’elettricità. Davy metteva alla prova i suoi collaboratori con un sistema che in passato aveva dato buoni risultati. All’inizio assegnava al giovane richiedente un incarico molto umile come quello di lavare le provette o spazzare il laboratorio, perché pensava che se il giovane fosse stato in gamba avrebbe accettato il lavoro modesto, mentre se fosse stato un inetto si sarebbe rifiutato.

In quell’anno Davy, che nel frattempo aveva sposato una ricca vedova, dette le dimissioni dalla Royal Institution per intraprendere un viaggio nei maggiori centri culturali dell’Europa continentale. Chiese pertanto ed ottenne il permesso di farsi accompagnare da Faraday il quale nei diciotto mesi della durata del viaggio, ebbe modo di conoscere molti scienziati famosi come Ampère, Volta e Gay-Lussac, i quali riconobbero il valore del giovane riservato che accompagnava Davy. Di ritorno dal viaggio Faraday dedicò il suo tempo all’analisi chimica e alle mansioni di dipendente della Royal Institution, a cui rimase legato per tutta la vita e in cui tenne egli stesso molte lezioni popolari e corsi di istruzione scientifica.

 

LE LEGGI DI FARADAY SULL’ELETTROLISI

Poco dopo essersi trasferito da Bristol, dove aveva studiato i gas, a Londra, Humphry Davy si interessò di elettrochimica. Egli aveva raggiunto in precedenza una certa fama per avere inventato la lampada di sicurezza per le miniere ed ora, dopo l’invenzione della pila da parte di Volta, come molti scienziati, anch’egli si era cimentato in una serie di ricerche sul funzionamento di quell’apparecchio e sugli effetti che esso poteva produrre sulla materia. Qualcosa di interessante era già emerso: due scienziati inglesi, ad esempio, avevano dimostrato che l’elettricità era in grado di scomporre l’acqua nei suoi elementi costituenti: idrogeno e ossigeno.

Davy intuì che il fenomeno, che in seguito fu chiamato “elettrolisi”, avrebbe potuto rappresentare un mezzo per identificare nuovi elementi chimici. In effetti, con quel sistema egli individuò sei nuovi elementi: il potassio, il sodio, il calcio, lo stronzio, il bario e il magnesio. La scoperta fu considerata di così grande valore che gli fu assegnato un premio istituito da Napoleone sebbene in quel momento la Francia fosse in guerra con l’Inghilterra.

Davy esercitò un forte fascino su Faraday tanto da coinvolgerlo nelle sue ricerche. Fra queste vi era naturalmente lo studio dell’elettrolisi: un fenomeno del quale era necessario stabilire una serie di termini per poter esprimere brevemente concetti che altrimenti avrebbero avuto bisogno di una lunga descrizione. Il compito fu affidato a Faraday, il quale, considerandosi poco preparato in filologia (letteralmente: “amore delle lettere”), non avendo avuto una educazione classica sufficiente, chiese aiuto al reverendo William Whewell (1794-1866) celebre filosofo e matematico di Cambridge e studioso di lettere classiche.

Il dotto professore suggerì di chiamare elettroliti i composti o le soluzioni capaci di lasciare passare la corrente elettrica ed elettrodi le aste o piastre di metallo collegate alla pila inserite nella massa fusa o nella soluzione. Quindi per distinguere l’elettrodo (il suffisso –odo deriva dal greco hodos che vuol dire sentiero, strada, pertanto nel nostro caso un oggetto che fa strada alla corrente) positivo dal negativo chiamò il primo anodo e il secondo catodo (i prefissi greci ana- e kata- significano rispettivamente su, in alto e giù, in basso, con riferimento del fatto che a quel tempo si pensava che la corrente elettrica si spostasse dal polo positivo della batteria a quello negativo come fa l’acqua di un torrente che scorre dall’alto del monte al basso della valle). La corrente elettrica veniva trasportata attraverso la soluzione o la massa fusa da entità che vennero chiamate ioni (da una parola greca che significa “viandante”). Denominò quindi anioni gli ioni negativi diretti verso l’anodo positivo e cationi gli ioni positivi diretti verso il catodo negativo.

Dopo la morte di Davy, avvenuta nel 1829, il Faraday si sentì liberato dal peso della personalità del famoso insegnante che, dopo averlo così generosamente aiutato e protetto in passato, alla fine era diventato sempre più geloso del talento del suo non più giovane assistente. Egli poté quindi dedicarsi con rinnovato entusiasmo allo studio dei fenomeni chimici ed elettrici. Dopo aver isolato il magnesio in seguito alla decomposizione chimica di una soluzione di solfato di quell’elemento mediante corrente elettrica, nelle successive ricerche su questo fenomeno scoprì due importanti leggi che da lui presero il nome di prima e seconda legge di Faraday.

La prima di esse afferma che: “In una data soluzione la quantità di sostanza liberata (o depositata) agli elettrodi è proporzionale alla quantità totale di elettricità (ossia al prodotto dell’intensità di corrente per il tempo per cui è passata) che attraversa la soluzione”. In altri termini la legge stabilisce che le particelle cariche (cioè gli “ioni”), che trasportano l’elettricità nelle soluzioni, possiedono una carica elettrica ben definita.

La seconda legge afferma invece che: “Le particelle di sostanze diverse con una sola carica elettrica (ioni monovalenti) trasportano tutte la stessa quantità di elettricità, mentre quelle con carica doppia, tripla, ecc. trasportano quantità di elettricità proporzionalmente maggiori”. Questa legge dimostra che esiste una unità di carica elettrica, che a quei tempi si pensava fosse associata ai vari atomi, ma che in seguito fu rivelata sotto forma di elettrone: una particella libera di muoversi nello spazio.

Fino all’età di quarant’anni, se si esclude il breve periodo che segue alla scoperta del danese Hans Oersted (1777-1851) il quale aveva osservato lo spostamento di un ago calamitato in vicinanza di un filo percorso da corrente, Michael Faraday si occupò soprattutto di chimica. Oltre alle leggi dell’elettrolisi, riuscì a liquefare parecchi gas utilizzando un apparecchio molto semplice da lui stesso inventato. Preparò inoltre una serie di composti del carbonio e del cloro che ottenne facendo reagire il cloro gassoso con l’etilene (C2H4). Scoprì anche il benzene analizzando il residuo che un gas usato per illuminare le strade principali di Londra lasciava nelle bombole in cui era contenuto. Tuttavia lo studioso non comprese l’importanza di quel composto e ancor meno la sua particolare struttura molecolare.

 

L’ELETTROMAGNETISMO

Anche se Faraday non avesse fatto altro sarebbe comunque ricordato come un chimico insigne. Ma egli è più noto per le sue ricerche sull’elettricità e sul magnetismo che condussero ad una serie di scoperte tali da cambiare per sempre il corso della civiltà.

Nel 1821, come abbiamo accennato, aveva analizzato la scoperta da Oersted. In realtà si trattava di un fenomeno che diversi scienziati, fra cui lo stesso Faraday, avevano ipotizzato e cioè il fatto che esistesse un legame fra elettricità e magnetismo. La cosa sorprendente nell’esperimento di Oersted stava tuttavia nell’osservazione che l’azione magnetica era perpendicolare alla direzione della corrente che la produceva. Le forze allora note – gravità, magnetismo ed elettricità – agivano tutte lungo una linea che univa i due oggetti sottostanti a quella determinata forza. Se ad esempio si lascia cadere una pietra essa procede, attratta dalla gravità, in linea retta dal punto di partenza verso la superficie terrestre. La stessa cosa succede quando una calamita attira a sé un oggetto metallico: procede anch’esso in linea retta verso la calamita. Anche un pezzetto di carta viaggia diritto dal tavolo in cui si trova verso la bacchetta di vetro elettrizzata.

Nell’esperimento di Oersted invece si notava che l’ago calamitato non veniva deviato in direzione del filo percorso da corrente o in direzione opposta, bensì ad angolo retto rispetto alla direzione filo elettrico–ago calamitato. Ciò significava che la forza magnetica prodotta dal filo metallico percorso da corrente non agiva in linea retta ma circolarmente intorno al filo stesso. L’analisi di quell’esperimento convinse Faraday che se una corrente poteva produrre un campo magnetico, anche un campo magnetico doveva essere in grado di produrre una corrente elettrica.

Un giorno del 1831, muovendo una calamita nei pressi di una bobina di filo metallico, Faraday notò che lungo il filo si generava una corrente elettrica senza che quel filo nemmeno venisse toccato dalla calamita. Ciò spiegava il motivo per il quale la conversione del magnetismo in elettricità non era mai stata osservata in precedenza: essa si verificava solo quando si aveva una variazione del flusso magnetico, non quando questo era regolare.

In tal modo lo scienziato aveva scoperto il fenomeno dell’induzione elettromagnetica ossia la possibilità di passare dall’elettricità al magnetismo o viceversa. Il requisito fondamentale per ottenere il passaggio da una forma all’altra di energia si basava sulla variazione: per determinare la quale l’apparecchio più semplice era costituito da una bobina di filo metallico in cui si poteva introdurre un magnete. Ogni volta che il magnete veniva inserito o estratto dalla bobina nel filo passava la corrente. Un apparecchio un poco più complesso consisteva in un disco metallico che veniva fatto ruotare fra le estremità di un magnete a forma di ferro di cavallo. Con un semplice esperimento Faraday aveva inventato la dinamo: un metodo per generare elettricità dal moto. Poiché appariva ormai chiaro che elettricità e magnetismo erano interdipendenti fu coniato il termine “elettromagnetismo” che comprende entrambi.

 

LA “TEORIA DEL CAMPO” DI FARADAY

In precedenza Faraday aveva notato che se su un foglio di carta sistemato nei pressi di una calamita si spargeva della limatura di ferro quest’ultima si disponeva in modo ordinato a formare una specie di ragnatela che si estendeva in ogni direzione. Si trattava di quelle che Faraday chiamò linee di forza che in questo caso risultavano visibili ma che in assenza della limatura di ferro si sarebbero comunque formate. Le calamite producono quindi linee immaginarie che descrivono graficamente il modo in cui l’azione della calamita medesima si proietta nello spazio. Attraverso questa osservazione Faraday pervenne al concetto di “campo di forza” o semplicemente “campo”. Esso non è solo magnetico, cioè prodotto da una calamita, ma anche elettrico, cioè prodotto da un filo metallico percorso da corrente o gravitazionale generato da una massa.

I campi di forza scoperti e rappresentati da Faraday non erano scarabocchi inutili come li avevano definiti alcuni fisici, molto critici verso un collega che non conosceva la matematica e che quindi non era in grado di tradurre in formule le sue scoperte. Il fatto che le notevoli scoperte di Faraday non fossero sostenute da un’altrettanto valida esposizione teorica a causa della mancanza di una spiegazione quantitativa (cioè matematica) delle osservazioni rappresentava in realtà un aspetto positivo nella comprensione del fenomeno, in quanto è facile smarrirsi entro la giungla delle formule complicate mentre diventa più agevole comprendere un concetto attraverso schemi e disegni esplicativi. A questo proposito è interessante ricordare un proverbio russo il quale afferma che: “spesso non si vede il bosco a causa degli alberi”.

La luce che illumina le nostre città e l’energia che fa funzionare il computer che attualmente sto utilizzando sono alimentate dalle scoperte di Faraday sull’elettromagnetismo. Questa energia potrebbe essere generata ad esempio dall’acqua proveniente da una diga o dalla forza prodotta dal vapore che fa girare un enorme magnete il quale a sua volta mette in moto gli elettroni di un cavo metallico, generando una corrente elettrica che viene trasportata dalla rete dell’alta tensione fino alle nostre città e alle nostre case. Quando un uomo politico gli chiese a cosa servissero quelle scoperte, sembra che Faraday gli rispondesse: “Al momento attuale non lo so, ma un giorno sarete in grado di tassarle”.

Con un famoso esperimento, fatto servendosi di un grande cubo conduttore, dimostrò che le cariche elettriche si raccolgono sempre all’esterno di oggetti cavi e ogni recipiente che si comporta in tal modo venne poi detto “gabbia di Faraday”. Questa proprietà spiega perché durante un temporale le automobili sono luoghi sicuri: se un fulmine le colpisce, l’elettricità viaggia sulla superficie esterna e poi si scarica a terra mentre all’interno del veicolo non si corre alcun pericolo, a meno che non si tocchino parti metalliche in contatto con l’esterno.

Il compito di tradurre in termini matematici le idee di Faraday toccò ad un famoso matematico scozzese di nome James Clerk Maxwell nato ad Edimburgo un paio di mesi dopo che Faraday aveva annunciato al mondo la scoperta dell’induzione elettromagnetica.

 

VITA PUBBLICA E PRIVATA

Alcuni studiosi di scienze naturali ritengono che il genio sia destinato a manifestarsi in ogni caso, anche a dispetto delle condizioni in cui viene a trovarsi nei primi anni di vita. Certo è che alcuni grandi scienziati hanno dovuto superare ostacoli enormi per perseguire i loro obiettivi e potersi affermare e Michael Faraday è un chiaro esempio di questo tipo di situazione.

L’ottimo rapporto fra Faraday e Davy che aveva caratterizzato il legame fra i due nei primi anni di attività si era andato via via deteriorando nel tempo. I primi screzi si verificarono durante il loro viaggio in Europa a causa dell’invadenza della moglie di Davy nei confronti di Faraday, che veniva trattato dalla donna come fosse un domestico. Ma i contrasti si inasprirono quando i due non si trovarono d’accordo sui metodi da applicare nella soluzione di alcuni aspetti pratici della ricerca.

Lo scontro giunse al culmine quando fu proposta l’elezione di Faraday alla Royal Society di cui Davy era presidente. Davy si oppose alla nomina e, sebbene Faraday riuscisse alla fine a farsi eleggere, i rapporti fra i due rimasero definitivamente compromessi.

Faraday era essenzialmente un ricercatore solitario. Egli non ebbe allievi o collaboratori scientifici, se si eccettua un assistente di laboratorio che fu assunto grazie alle sovvenzioni concesse dalla Royal Society per le ricerche sulle proprietà del vetro che gli vennero affidate. Il prescelto fu un sottufficiale a riposo che si dimostrò la persona ideale a fargli da aiutante perché obbediva ciecamente alle sue direttive e non parlava mai. Si racconta che una mattina di buon’ora Faraday scese in laboratorio dove trovò il suo assistente che mescolava una sostanza fusa. Meravigliato gli domandò cosa stesse facendo e si sentì rispondere che il pomeriggio del giorno prima aveva ricevuto ordine di mescolare quella sostanza ma non gli era mai stato chiesto di smettere.

Faraday era anche profondamente religioso e apparteneva ad una piccola setta protestante fondata da un certo R. Sandeman genero dell’ecclesiastico presbiteriano John Glas e quindi detta dei sandemanisti o glasiti. Egli rimase fedele a quella setta per tutta la vita e per molti anni ne fu anche un “anziano”, ossia una specie di pastore non essendo previsto in quella Chiesa un clero ufficiale. Molti dei suoi amici più stretti e la sua stessa moglie appartenevano alla medesima setta. Egli si sposò nel 1821 con Sarah Barnard con cui rimase felicemente unito per tutta la vita ma dalla quale non ebbe figli.

Pur non avendo figli Faraday si interessò in modo particolare all’educazione dei bambini per i quali istituì una serie di conferenze che tenne nelle festività natalizie per molti anni consecutivi presso la Royal Institution. Quale sussidio per questa serie di conferenze scrisse un libro dal titolo “Storia chimica di una candela” in cui mostra quante osservazioni e quanti piccoli esperimenti si possono fare con tale oggetto. Il libro e gli esperimenti in esso descritti hanno ispirato molti insegnanti fra cui il sottoscritto.

Negli anni giovanili Faraday aveva sofferto di emicranie, di vertigini e soprattutto di vuoti di memoria. I sintomi venivano attribuiti al troppo lavoro e in effetti lo scienziato migliorava quando riusciva a riposare. I disturbi divennero più gravi nei primi anni ’40 quando fu costretto ad un lungo periodo di riposo che passò in Svizzera dove faceva lunghe passeggiate immerso nella natura. Alcuni ritengono che i suoi disturbi fossero provocati da un avvelenamento da mercurio che veniva usato nei laboratori senza le dovute precauzioni. In effetti altri chimici e fisici soffrivano degli stessi disturbi.

L’attività dello scienziato riprese nel 1845 dopo cinque anni di esaurimento nervoso quando, finalmente ristabilito, riprese ad occuparsi di elettricità. Negli ultimi anni di vita di Faraday la perdita di memoria si aggravò. Nel 1860 tenne le ultime lezioni di Natale e nel 1865 rinunciò all’insegnamento presso la Royal Institution. L’anno prima rinunciò anche alla carica di “anziano” della setta sandemanista.

Morì il 25 agosto 1867, all’età di 76 anni quando ormai non riusciva più a parlare e a muoversi. Avrebbe potuto essere sepolto nell’Abbazia di Westminster, ma lasciò detto di preferire una semplice sepoltura nel cimitero di Highgate dove oggi si trovano anche le tombe di Karl Marx e George Eliot.

Prof. Antonio Vecchia

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