La velocità della luce

Fin dai tempi antichi si sapeva che la luce si propagava a velocità straordinaria, forse ad­dirittura infinita. Si era notato ad esempio che quando si accendeva una lampada all’inter­no di un ambiente buio questo si illuminava istantanea­mente. Il dubbio se la velocità della luce fosse infinita come pensava fra gli altri il filosofo francese René Descartes (1596-1642), più noto con il nome di Cartesio, o finita come sostenevano altri fra cui Galileo Ga­lilei (1564-1642) si accentuò, più che in altri tempi, agli inizi del 1600. Galileo fu il primo a cer­care di misurarne la velocità; il metodo utilizzato, come vedremo, era corretto dal punto di vista teorico, ma la velo­cità della luce è così elevata da rendere impossibile la sua mis­urazione con il sistema proposto dal fisico pisano.

Prima di affrontare l’argomento forse è opportuno pre­mettere una parola sulla velocità del suono perché essa fu misurata prima di quella della luce. Si tratta, anche in questo caso, di un segnale che si trasmette molto velo­cemente, anche se non quanto quello lu­minoso. Già gli anti­chi avevano notato che quanto più si era lontani dal punto in cui ca­deva il fulmine tanto più tardi si udiva il rumore del tuono che lo accompagnava. Tuttavia, una prima misura della velocità del suono fu compiuta solo nel Medio Evo per opera del fis­ico, filosofo e religioso Marin Mersenne (1588-1648). Egli comandò ad un suo aiutante di far fuoco con un cannone posto alla distanza di molti kilometri da lui. Dopo aver visto le fiamme conseguenti allo sparo, il fisico francese misurò, contando le oscillazioni di un pen­dolo, l’intervallo di tempo che il rumore prodotto dallo scoppio impiegava per giungere alle sue orecchie. L’esperimento fu ripetuto varie volte con metodi sempre più precisi fino che si giunse alla conclusione che il suono si propaga alla velocità di 340 metri al secondo, cor­rispondente a 1224 kilometri all’ora. Sembra una velocità non molto elevata, ma a quel tempo nulla viaggiava così veloce.

 

I PRIMI TENTATIVI DI MISURARE LA VELOCITÀ DELLA LUCE

Veniamo ora al tentativo operato da Galileo al fine di di­mostrare l’esattezza della pro­pria opinione. Egli si recò, in una notte buia, su un’altura munito di una lampada dotata di schermo mentre un suo assistente, anch’egli fornito di una lampada dello stesso tipo, si posizionava ben visibile a qualche kilometro di distanza. Galileo scopriva la sua lam­pada e l’assistente, non appena ne scorgeva il lampo, seg­nalava la cosa scoprendo a sua volta la propria.

L’esperimento fu ripetuto a distanze sempre maggiori nel convincimento che il tempo necessario all’assistente per dare la sua risposta restasse sempre uguale, così che ogni aumento temporale fra il segnale inviato da Galileo e la ris­posta dell’assistente avrebbe rappresentato il tempo impie­gato dalla luce a coprire la distanza maggiore. L’idea era buona, ma l’esperimento fallì perché il tempo necessario all’assistente per percepire il segnale e mettersi in movi­mento era molto lungo in confronto a quello impie­gato dalla luce per propagarsi.

Desta meraviglia il fatto che Galileo non si sia reso conto che il suo esperimento poteva venir realizzato molto più semplicemente ed accuratamente da un solo operatore. In­vece di piazzare un collaboratore a distanza, egli avrebbe potuto sostituirlo con uno specchio il quale, non appena ricevuto il segnale, lo avrebbe subito rinviato. Circa 250 anni più tardi, questo semplicissimo principio venne applicato dal fisico francese Louis Fizeau che fu il primo a determinare la velocità della luce con un esperimento terrestre e non astronomico come furono i primi tentativi riusciti.

Per ottenere un risultato plausibile era necessario misur­are il tempo impiegato da un raggio di luce a percorrere una distanza molto lunga, oppure operare su una distanza minore utilizzando però una tecnica sperimentale molto raffinata. Il caso volle che si scegliesse la prima soluzione. Fu infatti una delle prime scoperte di Galileo a fornire l’occasione adatta per eseguire la misura. Nel 1610, pochi mesi dopo che costruì il primo cannocchiale, Galileo individuò i quattro maggiori satelliti di Giove. Come nel caso della Luna ciascuno di essi percorre un’orbita intorno al pi­aneta, impiegando per ogni giro un tempo sempre costante chiamato periodo.

Nel 1675 Olex Roemer (1644-1710), un astronomo danese, misurò i periodi dei satelliti di Giove ottenendo ri­sultati differenti quando li verificò alcuni mesi più tardi. In particolare notò che gli intervalli tra eclissi successive di una determinata luna diventavano più lunghi quando la Terra si allontanava da Giove e più brevi quando gli si avvicinava. In capo a sei mesi, quando Giove si trovava nel punto più lontano dalla Terra rispetto a quando i due pianeti erano vi­cini l’eclissi avveniva con un ritardo di 1000 secondi. La sola conclusione logica che Roemer potesse trarre era che questo ritardo rappresentasse il tempo impiegato dalla luce proveniente dal satellite di Giove a percorrere la maggiore distanza fra questo pianeta e la Terra, pari ad un diametro dell’orbita terrestre. Roemer sapeva che la distanza della Terra dal Sole era di circa 110 milioni di kilometri e pertanto il diametro dell’orbita terrestre doveva essere di circa 220 milioni di kilometri. Poté così stabilire che la luce proveniente dal satellite di Giove viaggiava alla velocità di circa 220.000 kilometri al secondo, un valore in verità non molto preciso; importante fu però la sua determinazione perché diede mag­gior credito al concetto che si andava rapidamente affermando del valore sicuramente fi­nito, ancorché strabiliante, della velocità della luce.

Una successiva determinazione del fenomeno fu fatta con un altro metodo as­tronomico nel 1728 dall’inglese James Bradley (1693-1762). Per descrivere il suo procedi­mento spesso si ricorre ad una semplice analogia che ci è familiare. Supponiamo quindi di essere su di un treno in partenza mentre sta piovendo. Sul finestrino si vedono le gocce di pioggia che scendono in linea retta. Se ora il treno si mette in movimento si nota che le gocce non cadono più verticalmente, ma con una certa in­clinazione.

Dalla misura della inclinazione delle gocce di pioggia e della velocità del treno si può risalire alla velocità di caduta delle gocce lungo il finestrino. Analogamente la Terra si muove rispetto ai raggi luminosi che provengono dalle stelle e l’astronomo deve inclinare un pochino il telescopio, e in direzioni diverse, via via che la Terra muta la sua posizione viaggiando intorno al Sole. Dall’entità dell’inclinazione a cui Bradley dette il nome di aber­razione della luce, il fisico inglese poté stimare il valore della velocità che ri­sultò pari a 283.000 kilometri al secondo, un valore solo leg­germente in­feriore a quello noto at­tualmente.

Veniamo ora alla prima determinazione della velocità della luce senza l’impiego di metodi astronomici fatta dal fisico francese Armand Hippolyte Louis Fizeau (1819-1896) nel 1849, il quale, come abbiamo accennato, apportò una in­gegnosa modifica all’esperimento non riuscito di Galileo. Egli sostituì l’assistente con uno specchio lontano otto kilometri. Un rag­gio di luce veniva diretto verso lo specchio e quindi da esso riflesso verso l’osservatore che si poneva dietro ad una ruota dentata in rapida rotazione. Quando la ruota girava ad una certa velocità il raggio di luce che all’andata passava in mezzo a due denti colpiva il dente successivo nel ritornare indietro riflesso dallo specchio e quindi Fizeau stando dietro alla ruota non lo vedeva. Quando la ruota veniva accelerata il raggio di ritorno non veniva più bloccato, ma poteva passare attraverso il successivo intervallo fra un dente e l’altro. In questa maniera, controllando e misurando la velocità di rotazione della ruota dentata, Fizeau riuscì a misurare il tempo impiegato di andata e ritorno del raggio di luce e quindi la sua velocità di propagazione che risultò di 313.300 km/s, un valore impreciso per eccesso.

Un anno più tardi, il fisico francese Jean Bernard Léon Foucault (1819-1868) perfezionò le misurazioni facendo uso di uno specchio rotante anziché di una ruota dentata. Con questo sistema Foucault per la velocità della luce nell’aria ottenne il valore di 298.000 kilo­metri al secondo. Inoltre il fisico francese usò il suo metodo per determinare la velocità della luce in diversi liquidi e in altre sostanze trasparenti, come il vetro e i cristalli di quarzo. Egli ottenne in questo modo valori sempre inferiori alla velocità nell’aria la quale era prat­icamente identica a quella nel vuoto, che venne misurata fa­cendo uso di un tubo lungo più di un kilometro e mezzo in cui era stato praticato il vuoto. Nei calcoli correnti si assume per la velocità della luce nel vuoto e nell’aria il valore ap­prossimato di 300.000 km/s. Per la precisione, il valore della velocità della luce nel vuoto oggi è fissata a 299.792,458 km/s.

 

LA BARRIERA DELLA LUCE

Quella della luce è la velocità massima che i corpi materi­ali possono raggiungere. Per comprendere il significato di questa affermazione è necessario partire dall’opera fonda­mentale di Einstein che, come tutti sanno, consiste nella Teoria della Relatività, la quale si divide in due parti princip­ali: la Teoria della Relatività Ristretta (o Speciale) e la Teoria della Relatività Generale. La prima fu presentata nel 1905 e riguarda gli oggetti o i sistemi che si muovono a velocità costante l’uno rispetto all’altro o che non si muovono af­fatto. La Re­latività Generale si occupa invece di oggetti o di sistemi che accelerano o rallentano la loro velocità l’uno rispetto all’altro. A noi interessa solo la prima delle due teor­ie alla quale, ad appena quattro mesi dalla pubblicazione, fu aggiunto un post scriptum di tre pagine in cui lo scienziato riportava la formula più celebre di tutta la fisica: E=mc² (dove E è l’energia, m la massa e c² la velocità della luce al quadrato). Dalla equazione si deduce che il solo fatto che un oggetto materiale possieda una certa massa m gli dà anche un contenuto energetico pari a mc². Questa quantità risulta un numero molto grande, poiché tale è la ve­locità delle luce, e quindi, a maggior ragione, il suo quadrato.

Einstein, nello stesso articolo, non escludeva che i pro­cessi radioattivi, nei quali il con­tenuto di energia si modifica in modo rilevante, potessero un giorno dimostrare la validità della sua teoria. La prima verifica della legge di variazione della massa di un corpo con la sua velocità si ebbe proprio con lo studio di alcune sostanze radioattive, che presentavano l’emissione di tre diversi tipi di particelle o raggi. Si era notato in particolare che la velocità con cui venivano emesse dal radio le particelle che costituivano la radiazione nota con il nome di raggi β presentava masse più grandi quando venivano espulse a velocità confrontabili con quelle della luce. Questi risultati portavano a postulare l’esistenza di diverse parti­celle β aventi ognuna una massa diversa. In realtà quando si è scoperto che le particelle beta non erano altro che elettroni, i quali hanno tutti la stessa carica e la stessa massa, si comprese che quest’ultima aumentava semplicemente con l’aumentare della velocità con cui venivano espulse dalla sostanza radioattiva.

In seguito vi furono tanti altri esempi di incremento di massa con l’incremento della ve­locità di particelle sub­atomiche ottenuti con le gigantesche macchine dette ciclo­troni costruite per indagare la struttura dei nuclei atomici. Lo scopo fondamentale di tali mac­chine è quello di acceler­are particelle subatomiche di tipo diverso ad alte velocità per lan­ciarle contro i nuclei atomici al fine di frantumarli. L’energia fornita da questi acceleratori è andata continua­mente aumentando con il risultato che le particelle sub­atomiche usate come proiettili raggiunsero nel caso particola­re degli elettroni masse di circa mille volte maggiori delle stesse par­ticelle in riposo.

Per dimostrare l’insuperabilità della velocità della luce dob­biamo fare un passo indietro e analizzare la legge del moto che abbiamo im­parato al liceo. Essa ci informa che a mano a mano che un oggetto procede con velocità via via crescente anche l’ener­gia che gli com­pete è via via crescente. Ciò è conseguenza del fatto che l’energia cinetica, ossia l’energia legata al mo­vimento di un corpo, è proporzionale al quad­rato della sua velocità (In sim­boli: Ec=½m⋅v²). Pertanto, se per disgrazia finissimo con la nostra automobile contro un muro viaggiando alla velocità di 50 km/h ci faremmo male, ma non troppo soprattutto se avevamo allac­ciato la cintura di sicurezza, e sull’automobile si produrrebbe un danno facil­mente ri­parabile. Se però contro lo stesso muro ci finissimo procedendo a 100 km/h non ci faremmo male il doppio, ma quattro volte di più e l’automobile subi­rebbe un danno quattro volte maggiore rispetto a quello che si era prodotto viaggiando a 50 all’ora.

D’altra parte l’equazione E=mc², riportata sopra, mostra che massa ed energia vanno di pari passo: se aumenta l’una aumenta anche l’altra; c² è una costante, un numero fisso. Quindi, riprendendo l’esempio pre­cedente, quando la velo­cità dell’automobile passa da 50 a 100 km/h aumenta la sua energia, ma aumenta anche la sua massa. Tuttavia, essendo la velocità piuttosto ridotta rispetto a quella della luce la massa della nostra automobile aumenterà di ben poco: se il suo peso fosse ad esempio di 1000 kilo­grammi, rimarrebbe pratica­mente lo stesso anche se a rigore sarebbe cresciuto di qualche frazione in­finitesimale di grammo, del quale non ci accorgeremmo assolutamente. Se però la nostra automobile viaggiasse a centomila kilometri al secondo (ossia 360 milioni di kilometri all’ora, circa un terzo della velocità della luce) il suo peso aumenterebbe di una quantità misurabile. Se infine la velo­cità della nostra auto­mobile si avvicinasse a quella della luce il suo peso di­venterebbe come quello di un autotreno con rimorchio e per accelerarla ulteriormente si dovrebbe spendere una quantità enorme di energia, ben poca della quale an­drebbe tuttavia ad aumentare la velocità del mezzo.

La Teoria della Relatività Ristretta mostra dunque che un qualunque oggetto in movi­mento diventa sempre più pes­ante (ovvero aumenta la sua massa) quanto più si accresce la sua velo­cità. É bene chiarire che l’aumento della massa con la velocità non significa che la nostra automobile di­venti più grande, nel senso che aumentino le sue dimen­sioni. É vero il contrario: la teoria relativistica di Einstein prevede che le sue dimensioni lineari di­minuiscono, ossia il veicolo si accorcia. Nemmeno l’orologio che sta a bordo della nostra automobile segnerebbe l’ora esatta in quanto andrebbe indietro e tanto più rallenterebbe quanto più ci si avvicina alla velocità della luce.

Per concludere possiamo dire che alle basse velocità quasi tutta l’energia spesa per ac­celerare la nostra automobile in­fluenza la ve­locità che diventa sempre maggiore, mentre la massa aumenta solo di una quantità imper­cettibile. Però, aumentando la potenza del motore che spinge il mezzo e continuando ad incrementarla, si riuscirà soltanto ad aumentarne la massa, a diminuire la lunghezza del mezzo e a rallentare l’orologio di bordo senza modific­are la velo­cità se non in minima misura. Alla fine ci accorgeremmo che esiste di fatto un limite alla velocità che riusciremmo a raggiungere.

Vi è un’ultima precisazione da fare. I fenomeni che ab­biamo descritto sono notati da un osservatore esterno al mezzo in movimento, ché, se l’osservatore fosse in macch­ina, egli non si ac­corgerebbe di nulla.

Prof. Antonio Vecchia

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