Le forze

Il concetto di forza ci è familiare anche perché spesso esso è legato all’azione muscolare: abbiamo ad esempio esperienza che per spingere un’automobile bisogna esercitare su quel mezzo una grande forza che ad ogni modo non sarebbe adeguata per spingere un pesante autotreno. Sappiamo anche che esiste una grande varietà di forze: la forza che la Terra esercita sulla Luna, la forza elettrica che avvia il motore dell’automobile, la forza meccanica che frena l’automezzo evitandogli l’impatto contro un ostacolo che si presenta all’improvviso davanti agli occhi del conducente e così via.

Nonostante siano numerose e di tipo diverso, in realtà tutte le forze che esistono in natura possono essere spiegate per mezzo di quattro forze (o interazioni, come i fisici preferiscono chiamarle) fondamentali, le quali sono: la forza gravitazionale, la forza elettromagnetica, la forza nucleare forte e la forza nucleare debole.

Il compito di discutere la natura intima di questa, come di altre entità fisiche è lasciato alla filosofia mentre la scienza si incarica di dare delle grandezze fisiche una definizione operativa, ossia una definizione tale da consentirne l’inserimento in equazioni matematiche. La forza viene quindi definita semplicemente in base agli effetti misurabili che essa provoca, nei seguenti termini: “Forza è qualunque causa in grado di modificare il movimento di un corpo o di produrre in esso deformazioni.”

L’unità di misura della forza nel Sistema Internazionale è il newton (N), una grandezza che corrisponde all’incirca al peso di un decimo di kilogrammo. In passato, per definire l’unità di forza, denominata kilogrammo-peso (kgp), veniva utilizzato il kilogrammo-massa (kgm), un blocco cilindrico di platino-iridio conservato al Bureau International des Poids et Mesures con sede a Sèvres (Parigi), il quale, in quel luogo, esercita una forza di un kilogrammo-peso.

È interessante ricordare che la somiglianza fra i nomi della vecchia unità di forza (kilogrammo-peso) e dell’unità di massa (kilogrammo-massa) poteva indurre facilmente in errore facendo dimenticare che in realtà si trattava di due unità di misura di grandezze fisiche molto diverse. Nel moderno sistema di unità tale pericolo non esiste più: l’unità di massa oggi si può perciò designare con il solo nome di kilogrammo.

Poiché la forza è stata definita in base agli effetti misurabili che essa provoca, oltre al valore numerico che ne specifica l’intensità è indispensabile fornire di essa anche altri paramenti che sono la direzione (cioè la retta lungo la quale agisce), il verso (che può essere in un senso o in quello opposto) e il punto di applicazione.

Ogni grandezza fisica che, come la forza, sia completamente descritta da un modulo, una direzione e un verso, si chiama grandezza vettoriale (e graficamente si rappresenta con una freccia di lunghezza proporzionale all’intensità della misura in esame). Ogni grandezza fisica completamente descritta invece dal solo valore numerico (ossia dal modulo) si chiama grandezza scalare. La temperatura è un esempio di grandezza scalare. Passiamo ora in rassegna, singolarmente, le quattro forze fondamentali.

 

LA FORZA GRAVITAZIONALE

La forza gravitazionale, anche se la più debole di tutte, ci è familiare perché è quella che ci tiene con i piedi per terra. Il motivo per cui tale forza risulta così evidente è la presenza della grande massa della Terra. Il meccanismo della gravitazione in verità agisce su tutti i corpi, e tale grandezza può essere misurata, facendo uso di un’apparecchiatura estremamente sensibile, anche su corpi molto piccoli.

Per primo Isaac Newton, nel 1687, formulò una teoria funzionale della gravità attraverso la famosa legge dell’inverso del quadrato della distanza. Essa può essere espressa nei seguenti termini:

               M1 ⋅ M2
F = G ⋅ ⎯⎯⎯⎯⎯
r2

dove F è la forza di gravità, G è una costante universale che vale 6,67⋅10-11 N⋅m2/kg2, M1 e M2 sono le masse di due corpi, r la loro distanza. La forza gravitazionale di Newton è sempre e solo attrattiva. Questa legge, fra le altre cose, spiega le dimensioni e la forma delle orbite planetarie del sistema solare descritte da Keplero.

Nel De revolutionibus Copernico supponeva che le orbite dei pianeti fossero circolari (come d’altronde si era sempre ritenuto) ma questa ipotesi non era in accordo con le precise misure del moto dei pianeti eseguite dall’astronomo danese Tycho Brahe effettuate nel suo osservatorio privato posto su un’isoletta in prossimità di Copenhagen. Keplero, dopo molti anni di studio, riuscì finalmente a scoprire non solo la reale forma delle orbite dei pianeti ma anche le leggi fisiche che ne governano il moto.

Utilizzando la teoria della gravitazione e le leggi del moto da lui stesso formulate, Newton, una cinquantina d’anni più tardi, spiegò le cause delle tre leggi di Keplero le quali potevano essere considerate come casi particolari delle scoperte del grande scienziato inglese. Le leggi di Newton attualmente continuano ad essere applicate con successo al moto dei pianeti, degli asteroidi e dei veicoli spaziali e hanno consentito di portare al successo il viaggio umano sulla Luna e il preciso atterraggio del modulo lunare sul nostro satellite naturale.

Il proseguimento dell’opera di Newton da parte dei grandi matematici del Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, condusse alla nascita di quel grande campo dell’astronomia che prende il nome di “meccanica celeste”, la quale ci permette di calcolare con assoluta precisione il moto dei pianeti del sistema solare sotto l’azione della mutua attrazione gravitazionale. Uno dei più sbalorditivi risultati della meccanica celeste si ebbe nel 1846 con la scoperta del pianeta Nettuno la cui esistenza era stata predetta, indipendentemente, da due astronomi, il francese Urbain Jean Joseph Le Verrier e l’inglese John Couch Adams; essi osservarono che il moto del pianeta Urano era perturbato da forze di tipo gravitazionale, dovute alla presenza in vicinanza di un pianeta a quel tempo ancora sconosciuto. Un evento simile si ebbe nel 1930 quando fu osservato il pianeta Plutone dopo che la sua esistenza era stata prevista per via teorica.

Applicando la stessa legge di gravità al moto del nostro pianeta Newton diede la prima spiegazione accettabile del fenomeno della precessione degli equinozi. Egli dimostrò che le forze di gravitazione del Sole, agendo sul rigonfiamento equatoriale del globo, causano una lenta rotazione dell’asse terrestre con la conseguenza che gli equinozi (e quindi anche i solstizi) cadono ogni anno con circa 20 minuti di anticipo rispetto alla data dell’anno precedente.

Usando la teoria della gravitazione lo scienziato inglese riuscì anche a dimostrare che le maree sono dovute all’attrazione combinata del Sole e della Luna. Egli osservò che poiché la gravità decresce con la distanza, la forza che agisce sulle acque esposte alla Luna durante la rotazione della Terra, era lievemente maggiore di quella che agisce sulla parte solida sottostante, mentre la forza agente sulle acque delle regioni nascoste alla Luna era ovviamente leggermente minore di quella agente sulla crosta solida sottostante. Di conseguenza, la superficie delle acque esposte alla Luna tende a sollevarsi lievemente rispetto al fondo marino e la superficie diametralmente opposta subisce anch’essa un fenomeno dello stesso tipo, ma in direzione opposta: ragione per cui, quando è alta marea da una parte, è alta marea anche dalla parte opposta.

Nel fenomeno delle maree, come abbiamo anticipato, interviene anche la forza di attrazione del Sole, che agisce in modo analogo a quello della Luna, ma con intensità minore a causa della molto maggiore distanza dalla Terra. Quando Sole, Luna e Terra sono allineati gli effetti combinati dei due astri sul pianeta si sommano e si raggiungono i massimi valori della marea; quando invece i centri del Sole e della Luna formano un angolo retto con la Terra, le attrazioni lunisolari si annullano parzialmente e si hanno le minime oscillazioni di marea.

 

LA FORZA DI GRAVITÀ SECONDO EINSTEIN

Anche se la teoria di Newton è adatta per la maggior parte delle applicazioni tecnologiche e astronomiche essa non è precisa quando le forze gravitazionali diventano molto intense o quando i corpi in esame si muovono con velocità prossime a quelle della luce. In questi casi serve una teoria della gravitazione di tipo diverso e nella fattispecie è quella formulata nel 1916 da Albert Einstein. Nella sua “Relatività Generale” egli spiega che la gravità non è affatto una forza ma la conseguenza della distorsione dello spazio (o meglio dello spazio-tempo a quattro dimensioni). Secondo questa nuova teoria della gravità la Terra è attratta dal Sole non attraverso una forza che agisce a distanza e istantaneamente su di essa, ma perché il Sole con la sua massa crea una depressione intorno a sé nella quale la Terra rotola.

Questa teoria venne verificata anche su particelle, i fotoni, che sono prive di massa. Durante l’eclisse di Sole del 29 maggio 1919 si osservò che i raggi luminosi provenienti da una stella lontana venivano deflessi dall’astro che ci illumina perché costretti a percorrere l’affossamento creato dal nostro corpo celeste di grande massa.

A questo punto è di fondamentale importanza fare un cenno del concetto di “campo” e dei motivi che hanno determinato il suo prevalere su quello di “azione a distanza”. Per chiarire la differenza esistente fra il punto di vista dell’azione a distanza e quello di campo, possiamo immaginare nello spazio un corpo massiccio e disporre in vicinanza un corpo molto più piccolo (le ridotte dimensioni di questo secondo corpo servono per evitare che, con la sua presenza, venga alterata la situazione preesistente).

Secondo la visione classica la forza del corpo pesante (detto corpo sorgente) agisce su quello più piccolo (detto corpo di prova) con una forza che dipende dalle masse in gioco e dalla distanza. In base invece all’idea di campo si suppone che il corpo sorgente produca nello spazio immediatamente circostante una modificazione che a sua volta ne produce un’altra nelle zone adiacenti e così via: in tale modo si stabilisce un ambiente alterato indipendentemente dal fatto che esista o meno il corpo di prova.

Se esiste il corpo di prova, su di esso si esercita una certa forza in accordo con la legge di Newton la quale peraltro non è dovuta all’effetto diretto del corpo massiccio su quello più piccolo, bensì alla modificazione locale dello spazio, cioè al valore del campo esistente nel punto in cui si trova il corpo di prova.

A prima vista la differenza fra le due impostazioni sembra un fatto puramente formale dato che il valore della forza gravitazionale risulta del tutto indipendente dal punto di vista che si adotta, ma in pratica, scegliere il concetto di campo, significa attribuire alle modificazioni dello spazio un significato fisico concreto. Ad esempio, l’azione gravitazionale del Sole sulla Terra non è istantanea ma dipende dalla posizione che aveva il Sole otto minuti prima. La graduale modificazione dello spazio che parte dal Sole viaggia infatti alla velocità della luce e poiché l’astro che ci illumina e riscalda si trova ad una distanza di otto minuti luce (circa 150 milioni di kilometri), l’azione gravitazionale del Sole impiega otto minuti per raggiungere la Terra. Se il Sole sparisse per qualche motivo misterioso, la modificazione dello spazio creata in precedenza rimarrebbe tale e sulla Terra non ci si accorgerebbe immediatamente della scomparsa dell’astro centrale perché il nostro pianeta continuerebbe ad esserne attratto come se lo stesso fosse ancora presente.

Laddove è facile vedere se una superficie è piatta o curva è difficile invece verificare la forma di uno spazio a tre dimensioni. La difficoltà nell’immaginare uno spazio curvo sta nel fatto che, mentre possiamo guardare una superficie dall’esterno e notare se è piatta o curva, non ci è consentito uscire dallo spazio per osservare la sua eventuale curvatura.

Il modo migliore per visualizzare le proprietà dello spazio curvo è quindi quello di rifarsi ad un’analogia con esseri immaginari a due dimensioni che vivono su una superficie e non possono staccarsi da essa. Come potrebbe, un essere piatto che striscia su una superficie piatta, stabilire se essa è piana, sferica o di una qualsiasi altra forma?

Se l’individuo piatto fosse intelligente (in verità una condizione poco probabile per un individuo piatto!) potrebbe disegnare su quella superficie un triangolo di grandi dimensioni e misurarne gli angoli interni. Se questi fossero esattamente di 180° avrebbe la prova di trovarsi su di una superficie piatta, se fossero di più di 180° la superficie sarebbe sferica; se infine la somma degli angoli interni del triangolo fosse minore di 180° la superficie su cui giace il nostro individuo piatto sarebbe a forma di sella. Si suole attribuire ad una superficie piatta una curvatura nulla, ad una superficie sferica una curvatura positiva e ad una superficie a sella una curvatura negativa.

Possiamo ora estendere queste considerazioni ad uno spazio a tre dimensioni e stabilire se tale spazio è piano o possiede una curvatura positiva o negativa e ciò senza che si ricorra alle misure di improbabili esseri piatti. Immaginiamo allora tre astronauti muniti di teodolite posizionati il primo sulla Terra, il secondo su Marte ed il terzo su Venere. Lanciando raggi luminosi i tre astronauti sarebbero in grado di costruire un triangolo con i vertici nei tre pianeti e quindi misurare gli angoli interni, la cui somma risulterebbe superiore a 180°, in quanto i raggi luminosi saranno deflessi dal campo gravitazionale generato dal Sole. Eseguite le misure i tre astronauti potranno affermare che lo spazio intorno al Sole ha una curvatura positiva. I tre raggi luminosi lanciati dai tre astronauti verso i pianeti non sono delle linee rette ma delle geodetiche, ovvero delle linee curve che tuttavia rappresentano la minima distanza che unisce due punti. Se la stessa costruzione venisse fatta su tre pianeti lontani dal Sole, dove è meno evidente la distorsione dello spazio creata dall’astro centrale, la somma degli angoli interni del triangolo sarebbe molto vicina a 180°.

L’equivalenza fra campo gravitazionale e curvatura dello spazio può essere ulteriormente chiarita dal seguente esempio relativo ad uno spazio a due dimensioni. Immaginiamo quindi di fare rotolare una biglia sul tavolo verde di un bigliardo che presenta una depressione nella quale ad una certo punto del suo percorso scende la biglia deviando dalla sua traiettoria lineare. Se l’osservazione del moto della biglia venisse fatta dall’alto, ad esempio da un buco praticato nel soffitto, non ci si accorgerebbe della depressione presente nel bigliardo e l’accelerazione che subisce la biglia scendendo nell’avvallamento verrebbe interpretata come conseguenza di una forza che improvvisamente l’attira a sé.

 

ELETTRICITÀ E MAGNETISMO

È molto facile mettere in evidenza le forze elettriche e magnetiche, che erano già note agli antichi Greci e, probabilmente, al resto del mondo antico: è sufficiente in un caso strofinare con un panno un oggetto di plastica o di vetro e notare che attrae pezzetti di carta e osservare, nell’altro caso, lo spostamento che subisce l’ago calamitato della bussola. I primi studi sistematici di questi fenomeni furono però intrapresi ai tempi di Galileo quando il medico personale della regina Elisabetta I, William Gilbert (1544-1603), sostenitore convinto del sistema copernicano, tentava di spiegare le forze attrattive planetarie come generate dall’attrazione magnetica fra i pianeti e il Sole.

Approfondendo lo studio del fenomeno attraverso gli esperimenti condotti sulla magnetite (minerale del ferro), il fisico inglese scoprì che il nostro globo può essere considerato un enorme magnete i cui poli sono posti in vicinanza dei poli nord e sud geografici. Questa idea venne in seguito confermata, mentre risultò del tutto errata, come spiegò Newton con la sua legge di gravitazione universale, quella che riteneva le forze magnetiche responsabili del moto dei pianeti.

Frattanto, mentre Newton elaborava le sue idee in proposito, un altro fisico, il tedesco Otto von Guericke (1602-1686) noto per l’esperimento con i cosiddetti “emisferi di Magdeburgo” (in cui due emisferi metallici, messi a contatto e al cui interno era stato fatto il vuoto, non potevano più essere separati nemmeno con la forza di otto pariglie di cavalli che tiravano in senso opposto), tentava di spiegare l’attrazione fra il Sole e i pianeti mediante interazioni di natura elettrica.

Anche se non raggiunse il suo obiettivo, von Guericke riuscì a rivelare alcune proprietà delle cariche elettriche. Fra l’altro scoprì l’esistenza di due tipi di elettricità: quella prodotta dallo strofinio dell’ambra e di altre sostanze resinose e quella prodotta dallo strofinio di sostanze vetrose. Non fu difficile notare che cariche elettriche presenti sullo stesso tipo di materiale si respingevano mentre cariche sistemate su materiali di tipo diverso si attraevano. Da queste osservazioni si stabilì che la carica elettrica poteva essere positiva o negativa. Circa un secolo dopo la formulazione della legge di gravitazione universale, il fisico francese Charles-Augustin Coulomb (1736-1806) riuscì a misurare la forza che agisce fra due cariche elettriche per la quale derivò un’equazione assai simile a quella della gravità. L’equazione si presenta nella seguente forma:

           e1 ⋅ e2
F = K ⋅ ⎯⎯⎯⎯⎯
r2

in cui F è la forza, e1 ed e2 rappresentano i valori delle due cariche, r è la distanza che le separa e K è una costante di proporzionalità, analoga alla costante gravitazionale G, che, nel Sistema Internazionale delle misure, assume il seguente valore: 8,987⋅109 N⋅m2/C2, in cui N è il newton, m il metro e C il simbolo del coulomb, l’unità di misura della carica elettrica.

Le forze elettriche e magnetiche furono studiate in modo approfondito all’inizio del 1800. La cosa che non si riusciva a comprendere era il fatto che due sferette cariche di elettricità dello stesso segno, appese ad un filo, si respingevano senza che vi fosse un contatto fra di esse. Per gli antichi le forze di contatto erano le uniche forze reali e questa opinione persistette fino a tempi relativamente recenti. Un concetto del tutto nuovo, come abbiamo accennato, sorse quando Newton formulò la teoria della gravitazione universale per cui Sole, Terra, Luna e pianeti esercitano tutti delle forze gli uni sugli altri senza essere a contatto. Per descrivere le forze gravitazionali e in seguito anche quelle elettriche e magnetiche fu adottata l’espressione “azione a distanza”. Per superare il dilemma delle forze agenti a distanza senza contatto diretto fu inventato l’etere, una specie di gelatina invisibile e senza massa che riempiva l’Universo e che aveva la sola proprietà di trasmettere le forze da un corpo all’altro. In seguito Einstein, con la sua teoria della relatività, eliminò l’etere e lo sostituì con il concetto di campo.

Elettricità e magnetismo sono due fenomeni che si assomigliano abbastanza, ma presentano anche alcune diversità. Ad esempio, il magnetismo è una proprietà permanente del materiale mentre l’elettricità generata per strofinio può essere eliminata. Inoltre, a differenza delle cariche elettriche, sembra che poli magnetici non possano essere isolati. Se si taglia una sbarretta magnetica che porta ad una estremità il polo nord e all’altra il polo sud in vicinanza di quest’ultimo non otterremo il solo polo sud ma una piccola sbarretta con entrambi i poli ed una più lunga anch’essa con polo nord e polo sud. Nemmeno se si continuasse il processo di suddivisione fino a livello atomico si riuscirebbe a separare il polo nord dal polo sud perché ogni singolo atomo può comportarsi anch’esso come un magnete microscopico, ma completo.

Fin qui abbiamo parlato di elettricità statica, quella cioè di una carica che, situata su di un oggetto, vi rimane. La scoperta di una carica elettrica che si muove, cioè di corrente elettrica, venne fatta dall’anatomista italiano Luigi Galvani (1737-1798) il quale, accidentalmente, scoprì che le zampe di una rana sezionata appesa per mezzo di un gancio di rame alla ringhiera di ferro del suo balcone si contraevano come se fossero animate da un soffio vitale. Galvani dopo aver ripetuto l’esperimento più volte e in condizioni più sicure si convinse che le zampe dell’anfibio si contraevano quando esso veniva posto a contatto simultaneamente con due metalli diversi, perché i muscoli della rana contenevano qualcosa che egli chiamò elettricità animale.

Nel 1800 il fisico Alessandro Volta, amico del Galvani, interpretò il fenomeno in modo diverso e dimostrò che la corrente elettrica che causava la contrazione delle zampe della rana era dovuta ad un fenomeno del tutto inorganico che si osservava tutte le volte che due metalli diversi venivano immersi in una soluzione salina. Dispose quindi una pila di dischetti alternati di rame e zinco separati da strati di cartone inumiditi in acqua salata e da questa disposizione dei materiali ricavò un flusso continuo di corrente elettrica.

Doveva trascorrere un secolo prima che gli scienziati capissero che la correte elettrica generata in tal modo era dovuta ad un flusso di elettroni ma nel frattempo essi fecero uso della corrente elettrica prodotta dalla pila di Volta per condurre vari esperimenti, fra cui la separazione di atomi da molecole dotate di legami chimici molto forti.

 

LA FORZA ELETTROMAGNETICA

Fino agli inizi del Diciannovesimo secolo, l’elettricità e il magnetismo furono considerati due fenomeni indipendenti. Nel 1820 il fisico danese Hans Christian Oersted, venuto a conoscenza delle ricerche di Volta sulla pila, se ne costruì una personale ed iniziò vari esperimenti con essa. Un giorno, recatosi all’Università di Copenhagen per tenere una lezione, ebbe l’idea di collegare i due poli della sua pila con un filo di platino ed avvicinare ad essa l’ago calamitato di una bussola il quale, invece che orientarsi in direzione nord sud, fece un mezzo giro su sé stesso e si fermò in direzione perpendicolare a quella del filo percorso da corrente.

Gli studi sui conduttori elettrici continuarono ad opera soprattutto del fisico francese André Marie Ampère (1775-1836) il quale dimostrò che due fili metallici paralleli percorsi da corrente che correva nella stessa direzione si attraevano fra loro mentre si respingevano se la corrente si muoveva nei due fili in direzioni opposte. Ciò ricordava da vicino quanto avviene fra due poli magnetici che si respingono se uguali (ad esempio entrambi nord o entrambi sud) e si attirano se opposti. L’esperimento più significativo di Ampère fu però quello che lo scienziato condusse avvolgendo un filo metallico a spirale (solenoide): al passaggio della corrente elettrica esso si comportava come una barra magnetica con il polo nord ad un estremo e il polo sud all’altro.

L’autodidatta fisico e chimico inglese Michael Faraday (1791-1867), venuto a conoscenza degli esperimenti che si stavano conducendo sui fili metallici percorsi da corrente elettrica che generano campi magnetici, pensò che poteva valere anche l’inverso, ossia che un magnete potesse indurre una corrente elettrica.

Creò quindi un solenoide all’interno del quale spostava avanti e indietro un magnete permanente. Il movimento repentino di inserimento ed estrazione del magnete nell’avvolgimento del filo metallico del solenoide generava una corrente elettrica che veniva registrata da un galvanometro che collegava gli estremi del solenoide.

Quando un magnete viene inserito o estratto dall’avvolgimento si genera
una corrente elettrica nel solenoide.

Le scoperte di Faraday posero le basi su cui il fisico teorico scozzese James Clerk Maxwell (1831-1879) eresse la teoria elettromagnetica, una delle parti più belle e nello stesso tempo più complesse della fisica: la sua bellezza, la sua eleganza formale, risiedono nella possibilità di condensarne l’essenza in un piccolo gruppo di equazioni la cui complessità deriva sia dalla necessità di usare tutta la potenza del formalismo matematico per raggiungere tale sintesi, sia dalla vastità dei fenomeni che quelle equazioni riescono a spiegare.

Si tratta di quattro equazioni di cui una sola è stata introdotta effettivamente da Maxwell: le altre erano espressione di leggi fisiche già note. La quattro leggi di Maxwell possono essere sintetizzate nei seguenti termini.

La prima descrive il campo elettrico generato da cariche elettriche ferme, secondo la legge di Coulomb.

La seconda descrive il campo magnetico; in particolare specifica che, diversamente da quanto accade con le cariche elettriche, non esistono “cariche magnetiche” isolate e pertanto il polo nord di una calamita è sempre legato al suo polo sud.

La terza esprime la legge di induzione elettromagnetica, secondo cui il campo magnetico variabile nel tempo produce una corrente elettrica.

La quarta afferma che il campo magnetico viene generato sia da una corrente continua sia da un campo elettrico variabile nel tempo.

Il “galleggiamento” degli astronauti nello spazio ha dimostrato che è possibile vivere senza la forza di gravità ma gli stessi astronauti (e non solo loro) si disintegrerebbero senza l’ausilio della forza elettromagnetica. Questa forza tiene uniti gli elettroni al nucleo degli atomi, tiene insieme gli atomi che formano le molecole e le molecole che si aggregano per costituire qualsiasi oggetto materiale e noi stessi. L’elettromagnetismo non è responsabile solo dell’attrazione di particelle di segno contrario, ma determina anche la repulsione dei protoni e degli elettroni fra di loro. Grazie a questa repulsione le cose stanno separate e ad esempio quando camminiamo non affondiamo nel marciapiede di cemento, perché vi è una repulsione fra gli elettroni dello strato superiore del cemento e gli elettroni dello strato inferiore delle scarpe. La stessa forza inoltre governa il moto degli elettroni lungo un filo metallico generando corrente elettrica. Anche se la cosa può sembrare inverosimile, è legato all’interazione di cariche elettriche lo svolgersi delle funzioni del nostro organismo ivi comprese le possibilità del nostro cervello di riconoscere, analizzare e capire. In definitiva, la quasi totalità delle forze che intervengono nella nostra vita quotidiana è legata in modo diretto o indiretto a fenomeni elettromagnetici.

 

LA FORZA FORTE

Vediamo ora di capire che cosa tiene insieme le particelle che stanno all’interno del nucleo atomico. Fino al 1935 erano note due sole forze che potevano unire gli oggetti: quella gravitazionale e quella elettromagnetica. La prima, come abbiamo visto, è così debole che la si può trascurare completamente nel mondo della fisica subatomica e infatti essa si fa sentire solo quando siano in gioco grandi masse. La forza gravitazionale è importante al livello di satelliti, pianeti, stelle e galassie, ma non ha alcun ruolo nella formazione degli atomi e delle particelle che li costituiscono.

Restava quindi l’interazione elettromagnetica, perfettamente adeguata per spiegare in che modo le cariche elettriche positive e negative degli ioni siano tenute insieme nei cristalli, in che modo gli atomi siano tenuti insieme nelle molecole e in che modo siano tenuti insieme gli elettroni e i nuclei negli atomi. Quando però i fisici tentarono di spiegare le forze che tengono unite le particelle che stanno all’interno dei nuclei atomici la forza elettromagnetica si dimostrò inadeguata.

Il nucleo atomico estremamente piccolo (il raggio è dell’ordine di 10– 13 cm) è formato da neutroni e protoni. I neutroni sono senza carica mentre i protoni hanno tutti carica elettrica positiva dello stesso valore e quindi dovrebbero respingersi e mandare in frantumi il nucleo stesso il quale, anzi, non dovrebbe nemmeno formarsi. Il nucleo atomico invece esiste ed è stabile.

In realtà, tale problema non si poneva fino a quando si riteneva che i nuclei fossero formati di protoni ed elettroni perché queste particelle con carica elettrica contraria si saldano con forza e con una forza tanto più grande quanto più le stesse sono vicine, e nel nucleo le particelle sono praticamente a contatto diretto. L’idea conteneva però un’incoerenza in quanto i singoli protoni, carichi positivamente, e i singoli elettroni, carichi negativamente, erano anch’essi in effetti a contatto gli uni con gli altri e quindi avrebbero dovuto respingersi.

Nel 1932, poco dopo che il fisico inglese James Chadwick (1891-1958) individuò il neutrone, il fisico tedesco Werner Heisenberg (1901-1976) formulò l’ipotesi che il nucleo atomico fosse costituito dall’insieme di protoni e neutroni i quali dovevano stare insieme grazie alla presenza di supposte forze di scambio. L’idea era quella di immaginare che i protoni trasferissero sui neutroni la carica elettrica diventando essi stessi neutroni ma subito dopo i neutroni, che nel frattempo si erano trasformati in protoni, restituissero la carica elettrica alle particelle che gliel’avevano ceduta. In questo modo ogni protone si trasformava in neutrone tanto rapidamente da non sentire la repulsione di un altro protone posto in vicinanza. Ad un’analisi più attenta i fisici si resero però conto che l’idea di Heisenberg non poteva funzionare.

Il fisico giapponese Hideki Yukawa (1907-1981) applicò i principi della meccanica quantistica alla interazione elettromagnetica individuando nel fotone la particella responsabile del trasferimento di energia fra le particelle elettriche producendo su di esse repulsione, se avevano la stessa carica, attrazione, se avevano carica opposta. Anche fra corpi materiali vi è uno scambio di particelle speciali che ne determina l’attrazione. Queste particelle si chiamano gravitoni e per quanto nessuno le abbia ancora individuate i fisici sono convinti che esistano. Come i fotoni anche i gravitoni dovrebbero essere senza massa perché fanno sentire i loro effetti a distanza infinita. Vi è però una differenza fra questi due tipi di particelle di scambio perché mentre i gravitoni agiscono solo in senso attrattivo, in quanto esiste un unico tipo di massa, i fotoni possono provocare attrazione o repulsione in quanto agiscono su corpi carichi di elettricità sia positiva che negativa.

Anche all’interno del nucleo doveva esserci una particella di scambio che si spostava incessantemente fra protoni e neutroni. Rispetto alle altre due interazioni, quella forte diminuisce d’intensità molto rapidamente con la distanza: ciò significa che essa ha un raggio d’azione molto ridotto. La distanza in cui l’interazione forte fa sentire i suoi effetti è di poco maggiore delle dimensioni del nucleo e questo è il motivo per cui nei nuclei più grandi questa forza si avverte a stento; ne deriva che con facilità tali nuclei, come ad esempio quelli dell’uranio, si spezzino con fuoriuscita di energia (fissione nucleare). D’altro canto il fatto che questa forza dovesse agire solo a distanze dell’ordine delle dimensioni nucleari era inevitabile, in quanto non avrebbe dovuto attirare i protoni appartenenti ad atomi vicini poiché, se l’avesse fatto, tutto l’Universo sarebbe imploso.

Restavano ancora da individuare le particelle di scambio responsabili della forza forte alle quali era stato dato il nome di “gluoni” (da glue che in inglese significa colla). Queste particelle dovevano essere dotate di massa perché, a differenza di quelle coinvolte nella forza di gravità e dell’elettromagnetismo, agivano a distanza molto breve. Quando nel 1936 il fisico statunitense Carl David Anderson (1905-1991) individuò il mesone, una particella la cui massa sta a metà strada fra quella del protone e quella dell’elettrone (da cui il nome che le venne assegnato) si pensò potesse essere quella la particella di scambio dell’interazione forte.

Di particelle di massa intermedia fra protoni ed elettroni in seguito ne furono scoperte altre. A quella individuata da Anderson fu dato il nome di mesone µ (mu o mi, dalla prima lettera della parola greca meson = medio, intermedio). Il mesone mu spesso indicato semplicemente come muone ha in realtà massa troppo piccola per essere considerato un vero mesone. Esso in realtà è un leptone (cioè una particella simile all’elettrone) e può essere ritenuto come un elettrone “troppo cresciuto”, una particella che non mostra alcuna tendenza a interagire con protoni e neutroni.

Qualche anno più tardi il fisico britannico Cecil Frank Powell (1903-1969) scoprì un nuovo mesone, più pesante del muone, con le caratteristiche richieste da Yukawa come particella di scambio. Questa nuova particella non era un leptone e interagiva facilmente con protoni e neutroni. Fu chiamato mesone- ( è la p greca che presumibilmente si richiamava al nome del suo scopritore). Si tratta di un vero mesone che tuttavia per brevità venne chiamato pione. Nel 1949, in seguito alla scoperta della forza forte, Yukawa ebbe il premio Nobel; l’anno seguente fu assegnato lo stesso premio anche a Powell.

 

LA FORZA DEBOLE

Vi sono alcuni processi nucleari che non possono essere descritti mediante l’interazione forte perché vi partecipano elettroni e neutrini, due tipi di particelle che non risentono di questa forza.

Nel 1934 il fisico italiano Enrico Fermi costruì una teoria che spiegava in termini matematici il modo in cui i neutroni presenti all’interno dei nuclei emettevano elettroni e neutrini trasformandosi in protoni. Il fenomeno si realizzava in seguito ad un’interazione molto debole che aveva una portata cortissima, pari a circa un millesimo dell’ampiezza del nucleo atomico: essa quindi doveva essere attiva non su tutta la struttura ma solo su singole particelle nucleari. A questa nuova interazione, all’inizio chiamata “interazione di Fermi”, venne in seguito assegnato il nome di interazione debole. La parola “debole” è stata introdotta come contrapposta a “forte” perché tale interazione risulta di gran lunga meno intensa non solo di quella forte, ma anche di quella elettromagnetica; essa è più intensa solo della gravitazionale.

L’interazione debole differisce dalle altre tre in quanto è la sola che non abbia parte attiva in una azione di attrazione molto evidente. Essa non tiene insieme nulla, ma si limita semplicemente a favorire la conversione di certe particelle in altre particelle. Ad esempio media i processi con i quali i protoni si uniscono per formare i nuclei di elio (fusione nucleare) con sviluppo di energia. Si tratta di una reazione nucleare di enorme importanza perché è quella che, fra le altre cose, fa risplendere il Sole e di conseguenza rende possibile la vita sulla Terra. L’interazione debole, a differenza della forte, è quindi repulsiva.

Come per le altre interazioni anche questa doveva prevedere la presenza di particelle di scambio. Ora, poiché l’interazione debole, come abbiamo visto, si fa sentire solo a distanze molto piccole (la si definisce un’interazione a brevissima distanza) la sua particella di scambio avrebbe dovuto avere una massa piuttosto notevole e comunque maggiore di quella che trasmette la forza forte fra le particelle presenti nel nucleo atomico.

Secondo una teoria proposta per la prima volta nel 1967 l’interazione debole prevedeva la presenza di tre particelle di scambio dette “bosoni” (una con carica positiva, una con carica negativa e una neutra) che vennero chiamate particelle W+, W e Z0. (La lettera W è stata scelta proprio per ricordare che si tratta di interazione debole, in inglese weak interaction).

Si trattava ora di intercettare queste particelle, la qual cosa non sarebbe risultata per nulla semplice perché, per creare particelle molto pesanti, era necessario disporre di energie notevoli. Nel 1955 i tecnici riuscirono a costruire acceleratori in grado di produrre l’energia necessaria per la creazione dell’antiprotone, ma per fare altrettanto con le particelle W si sarebbero dovute produrre energie almeno cento volte maggiori di quelle che avevano consentito di generare il protone negativo.

Agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso un gruppo di scienziati americani operanti presso l’acceleratore Fermilab di Chicago e un gruppo di scienziati europei del CERN di Ginevra in Svizzera erano impegnati nella creazione delle particelle di scambio della forza debole. Il lavoro dei fisici americani si interruppe ben presto a causa della mancanza di fondi necessari per far funzionare le apparecchiature, mentre il gruppo degli scienziati europei, guidati dal fisico italiano Carlo Rubbia, ottenne un successo insperato grazie ad alcune modifiche apportate sull’acceleratore al fine di aumentarne la potenza.

A proposito del successo degli scienziati europei su quelli americani è interessante un articolo che il direttore del Fermilab scrisse su una rivista scientifica nel quale egli riconosceva che gli scienziati del CERN avevano avuto “l’audacia, l’intelligenza, la competenza, oltre che i finanziamenti necessari, per procedere nel modo più diretto al raggiungimento dell’obiettivo”. Di fronte ad una tale dimostrazione di bravura – proseguiva il fisico americano – brucia dover ammettere che virtù come dinamismo e abilità non siano più appannaggio esclusivo degli scienziati americani. Egli concludeva chiedendosi in toni allarmati se la superiorità che gli americani hanno avuto nel campo della ricerca avanzata in quasi mezzo secolo non stesse per finire.

Dei numerosi eventi che potevano adattarsi alle particelle ricercate, a Ginevra ne furono selezionati quattro o cinque relativi a corpuscoli la cui massa era corrispondente alla previsione della teoria. Un anno dopo che fu confermata l’individuazione delle particelle W fu osservata anche la particella Z0 che aveva una massa leggermente maggiore delle due precedenti.

Nel 1984 all’italiano Carlo Rubbia e al belga Simon Van der Meer fu assegnato il premio Nobel per la fisica. Il primo aveva avuto un ruolo determinante nella organizzazione del lavoro dei numerosi fisici che avevano partecipato alla ricerca; il secondo ebbe una parte decisiva nelle modifiche e nella tecnica del raffreddamento della macchina.

 

L’INTERAZIONE ELETTRODEBOLE

Abbiamo esaminato le quattro forze fondamentali della natura. Ve ne sono delle altre? Gli scienziati sono convinti che altre forze non ve ne siano, tuttavia la certezza assoluta non c’è. A tal proposito non dobbiamo dimenticare che agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso si conoscevano due sole forze (quella gravitazionale e quella elettromagnetica) ed Einstein impegnò gli ultimi anni della sua vita nel tentativo di estendere il lavoro di Maxwell alla forza di gravità. Come in precedenza il grande fisico inglese era riuscito ad unificare elettricità e magnetismo il fisico tedesco pensò che fosse possibile unire ad esse anche la forza di gravità. Il tentativo, come è noto, fallì e non poteva andare diversamente, anche perché nel frattempo erano state individuate le due interazioni nucleari.

In verità verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso i fisici pensavano che potesse esistere una quinta forza, più debole della gravitazionale, che avrebbe dovuto agire in modo diverso sulla materia a seconda della composizione della stessa ma le proprietà della supposta interazione si mostravano talmente complesse che l’idea fu abbandonata sul nascere. Certo, è possibile che venga scoperto qualche fenomeno inaspettato, come avvenne alla fine dell’Ottocento per quello della radioattività, a spiegare il quale si renda necessaria la presenza di altre interazioni ma, per il momento, fenomeni fisici per la cui spiegazione sia necessaria la presenza di altre interazioni non sono alle viste.

Tuttavia la domanda rimane la stessa: “Perché le forze di natura sono quattro? Di più no, ma perché non sono di meno?” Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso venne alla luce una nuova teoria unitaria che inseriva le interazioni deboli ed elettromagnetiche in un unico quadro concettuale così come Maxwell aveva unificato le forze elettrostatiche e magnetiche. Questa teoria, che prevedeva la fusione di due forze, venne chiamata all’inizio “teoria di Weinberg-Salam” dai nomi dell’americano Steven Weinberg (1933- ) dell’Imperial College di Londra e del pachistano Abdus Salam (1926-1996) del Centro Internazionale di Fisica teorica di Trieste; costoro pubblicarono, in modo indipendente, i fondamenti della teoria rispettivamente nel 1967 e nel 1968. Le basi di questa nuova teoria erano già state poste nel 1961 dal fisico statunitense Sheldon Glashow (1932- ) nella sua tesi di dottorato.

Sheldon Glashow, Abdus Salam e Steven Weinberg sono stati insigniti del premio Nobel per aver teorizzato che a temperature ed energie molto elevate – come quelle presenti una frazione di secondo dopo il Big Bang – le due forze, l’elettromagnetica e la nucleare debole, si dissolvono l’una nell’altra e assumono caratteristiche che le rendono indistinguibili, dando quindi origine ad un’unica forza. La teoria venne in seguito confermata sperimentalmente al CERN di Ginevra.

Per comprenderne il fenomeno forse è opportuno ricorrere ad una analogia. L’acqua, come è noto, si presenta in tre stati fisici: aeriforme, liquido e solido. Un alieno giunto qui da noi provenendo da altri mondi osservando gli stati fisici dell’acqua potrebbe pensare che si tratti di tre sostanze diverse senza alcun legame reciproco. Se però la temperatura del nostro pianeta fosse abbastanza alta, diciamo oltre 100 °C, tutta l’acqua esisterebbe sotto forma di vapore, ma se si abbassasse la temperatura parte del vapore acqueo si condenserebbe in liquido e liquido e vapore rimarrebbero in equilibrio come sarebbero in equilibrio elettromagnetismo e forza debole alla temperatura opportuna. Se si abbassasse ulteriormente la temperatura parte dell’acqua gelerebbe ed allora ghiaccio, acqua e vapore sarebbero, come sono, tutti e tre in equilibrio pur essendo le tre forme molto diverse per aspetto e proprietà, nonostante si tratti della stessa sostanza. Per le forze ciò equivarrebbe a tener separate interazione elettromagnetica, da quella debole e da quella forte.

I fisici ritengono che all’inizio dei tempi la temperatura doveva essere straordinariamente alta (molti miliardi di miliardi di gradi) e che a quel tempo e a quelle condizioni fisiche vi fosse una sola interazione. Il tentativo di unificare tutte e quattro le interazioni fondamentali è in atto da tempo ma per il momento i fisici teorici sono riusciti ad ottenere uno schema verosimile per solo tre di esse nella cosiddetta “grande teoria unificata” (GUT): ne rimane esclusa la gravità.

I fisici teorici vorrebbero includere la gravità in un’unica “teoria del tutto” (TOE). In tale teoria le quattro forze rappresenterebbero facce simmetriche di un’unica forza fondamentale. Soltanto nel calore estremo del Big Bang le energie sarebbero state sufficientemente elevate da fare apparire uniche le quattro forze. Mentre l’Universo si espandeva e raffreddava le forze si sarebbero separate: dapprima la gravità, poi la forza nucleare forte e infine (ad energie attualmente raggiunte negli acceleratori di particelle) le forze deboli ed elettromagnetiche.

La “grande teoria del tutto” è in circolazione da oltre vent’anni. Anche se per il momento i fisici non hanno centrato l’obiettivo, essi sono convinti che questa o quella teoria unificherà le forze, fornirà una spiegazione per la massa e le proprietà delle particelle elementari e porterà a termine la lunga guerra tra relatività e fisica quantistica. Attualmente la teoria delle stringhe è la migliore candidata possibile come teoria del tutto benché, fino a questo momento, non sia stata confermata da prove sperimentali: si tratta evidentemente di una teoria impossibile da verificare e ciò la rende fondamentalmente non scientifica. La ricerca tuttavia continua in quella direzione.

Prof. Antonio Vecchia

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