Galileo Galilei

Appeso alla parete di una delle numerose stanze vaticane vi è un quadro, sormontato dalle chiavi del paradiso e contornato da un ramo di alloro e da fiori, che rappresenta il volto di un uomo barbuto, riconoscibile grazie al nome in latino scritto in basso, Galileus: si tratta infatti di Galileo Galilei. A breve distanza vi è un altro quadro in cui è raffigurato un uomo, anch’esso barbuto, con in testa il tipico cappello a tre punte indossato dai Principi della Chiesa: è il ritratto del cardinale Roberto Bellarmino, capo dell’Inquisizione romana, il nemico dichiarato di Galileo.

Galileo e Bellarmino, avversari in vita, oggi sono ospitati entrambi in Vaticano ma continuano a guardare in direzione opposte: Galileo verso sinistra e Bellarmino verso destra. Appeso allo stesso muro vi è un terzo dipinto ugualmente ornato delle insegne e dei simboli del pontefice che rappresenta il cardinale Cesare Baronio del quale Galileo utilizzò in più occasioni, per difendersi dalle accuse di eresia, la famosa frase: “La Bibbia ci insegna come andare in cielo, non come va il cielo”.

 

DALLA NASCITA ALLA PRIMA CATTEDRA UNIVERSITARIA

Galileo nacque a Pisa il 15 febbraio 1564. La città, un tempo prospera repubblica marinara, faceva ora parte del Granducato di Toscana retto dalla potente famiglia dei Medici. La capitale del Granducato era Firenze e fiorentina era la famiglia di Galileo, il cui nome originale, Buonaiuti, fu cambiato agli inizi del secolo precedente in quello di Galilei. Un antenato, di nome Galileo Galilei era stato un medico affermato e forse proprio nella speranza che potesse seguire le orme dell’illustre progenitore il padre Vincenzio volle dare lo stesso nome al primogenito.

Vincenzio era musicista di professione e impegnato attivamente nel dibattito allora in corso sulla teoria musicale ma data la gravità della crisi economica, per vivere si era dovuto adattare ad un lavoro supplementare che consisteva nel commercio di lane. A Firenze però il mercato incontrava molte difficoltà e quindi Vincenzio pensò di cambiare piazza trasferendosi a Pisa dove nacquero alcuni dei suoi numerosi figli.

Le due attività di Vincenzio Galilei, quella di suonatore del liuto e musicologo stimato e quella di avveduto commerciante, non erano compatibili e infatti le entrate economiche erano sempre scarse e non valse a modificare la situazione nemmeno il matrimonio con la figlia di un ricco commerciante di sete, anzi quell’unione peggiorò la situazione sia finanziaria sia esistenziale della famiglia.

Dopo il lavoro, Vincenzio trovava in casa una donna, che gli aveva dato sette figli, ma che con il tempo era diventata insopportabile per le sue continue richieste di denaro al fine di soddisfare il suo ricercato abbigliamento. Nel contempo essa gli rinfacciava gli insuccessi finanziari che metteva continuamente a confronto con le fortune della sua famiglia di provenienza. Alla morte del marito, la sciagurata femmina scaricherà su Galileo la sua ira incolpandolo di essersi fatto seguace di quelli che si dilettano di matematica e di altre cose inutili.

Galileo, abbandonato il mestiere di venditore di stoffe al quale in un primo tempo era stato indirizzato dal padre, poiché crescendo aveva dato segni manifesti delle sue doti di ingegno, fu inviato agli studi. I primi maestri cui il giovane venne affidato gli insegnarono greco e latino, aritmetica e disegno: in quest’ultima disciplina e in una spiccata manualità che gli consentiva di fabbricare modellini di ogni genere, lasciò intravedere una intelligenza brillante e creativa.

Dopo un breve periodo di studi superiori passato nell’Abbazia di Vallombrosa dove entrò come “novizio”, venne richiamato a Firenze dal padre perché si sottoponesse ad una cura oftalmica: testimonianza di una vista debole da parte di colui che era destinato ad usare gli occhi come fondamentale “strumento” di ricerca. In realtà si trattò di un pretesto per toglierlo dal convento in cui era stato mandato non per scelta, ma unicamente per mancanza del denaro necessario per pagare la retta di una buona scuola. Dopo diversi tentativi, il padre riuscì infine ad iscriverlo alla facoltà di medicina e filosofia presso lo Studio (così si chiamavano a quel tempo le Università) di Pisa. Ma, con grande dispiacere del genitore, dopo tre anni e mezzo di frequenza saltuaria e ritardi negli esami, in cui conseguiva anche voti molto bassi, Galileo perse la borsa di studio che gli consentiva la frequenza e dovette tornare a Firenze in famiglia.

Sulla decisione di abbandonare gli studi di medicina dovette contribuire l’amico di famiglia Ostilio Ricci da Fermo, un matematico allora celebre, discepolo del famoso Niccolò Tartaglia (soprannome di Niccolò Fontana così chiamato per la balbuzie conseguente ad una ferita riportata in combattimento), che destò in lui l’interesse per la geometria di Euclide e la meccanica di Archimede. Gli studi di medicina, ancorché interrotti, non furono tuttavia tempo perso perché gli servirono per la sua educazione spirituale ed anche per fare, non ancora ventenne, la sua prima scoperta di fisica: l’isocronismo del pendolo. Osservando un lampadario oscillare nel duomo di Pisa, dove si recava per assistere alla Messa, valendosi dei battiti del polso per misurare il tempo, notò che le oscillazioni erano tutte di ugual durata quantunque di continuo diminuissero di ampiezza.

Gli studi di geometria vennero approfonditi dal giovane Galileo a tal punto che gli consentirono di trovare la dimostrazione di alcuni teoremi sul centro di gravità dei solidi, il che gli meritò la reputazione di esperto di quel ramo della matematica. Nel 1586 lo studio delle opere di Archimede lo condusse all’invenzione della “bilancetta”, una stadera idrostatica mediante la quale era possibile misurare i pesi specifici di alcune sostanze. Attraverso questo strumento scoprì, fra le altre cose, che la corona preparata per il re Gerone, il tiranno di Siracusa vissuto tre secoli prima di Cristo, da un artigiano insieme abile e disonesto, non era di oro massiccio come sarebbe dovuta essere, ma di una lega di metalli diversi.

I suoi studi non si limitavano al campo della fisica e della geometria, ma invadevano anche quello letterario. Nel 1588, all’età di 24 anni, all’Accademia fiorentina, Galileo tenne due lezioni Circa la figura, siti e grandezza dell’Inferno di Dante, in cui coglieva l’occasione per trattare alcuni precisi problemi geometrici dimostrando non solo una rigorosa perizia matematica, ma anche una perfetta padronanza del testo. Più tardi, stese le Considerazioni al Tasso e alcune composizioni poetiche fra cui rimase famoso il Contro il portar di toga del giovane professore: non solo una satira contro i costumi accademici tradizionali ma anche la manifestazione di una rivolta, che non verrà mai meno nel suo animo, contro la mentalità retrograda che si cela sotto quei paludamenti accademici.

In attesa di centrare il suo obiettivo principale, che era rappresentato dalla conquista di una cattedra universitaria, egli impartiva lezioni private ed entrava in contatto con i matematici più noti fra cui il gesuita tedesco Cristoforo Clavio del Collegio Romano (che aveva avuto una parte importante nella riforma gregoriana del calendario) e il Marchese Guidobaldo Del Monte il quale, compreso il valore del giovane studioso, si adoperò per fargli ottenere la cattedra di matematica presso lo Studio di Pisa. In effetti, grazie all’appoggio di Del Monte, nel luglio del 1589 gli fu assegnata la cattedra con uno stipendio però molto modesto che gli permetteva a mala pena di vivere in modo dignitoso.

Galileo rimase a Pisa solo tre anni insegnando la geometria euclidea e l’astronomia tolemaica. Nello stesso periodo si occupò del moto eseguendo esperimenti sulla caduta dei gravi dall’alto della torre pendente per dimostrare che l’accelerazione è uguale per tutti i corpi e non variabile col peso come aveva insegnato Aristotele.

Le difficoltà economiche del giovane professore si accrebbero nel 1591 dopo la morte del padre, che aveva lasciato a suo carico, in quanto primogenito, il sostentamento della madre, di due sorelle e del fratello. Ciò lo indusse a cercare un collocamento migliore al quale ora poteva aspirare per la fama accresciuta e la protezione di amici influenti.

 

I DICIOTTO ANNI PIÙ BELLI

Nel 1592 Galileo riuscì a farsi assegnare la cattedra di matematica allo Studio di Padova che tenne per diciotto anni: e furono, come egli stesso ebbe a dire più tardi, gli anni più sereni e felici della sua vita. L’Università di Padova è una delle più antiche, essendo nata nel 1222 con la secessione dell’Ateneo bolognese da parte di un gruppo di studenti padovani. La sede dell’Ateneo padovano è soprannominata Palazzo del Bo’ perché eretta sul luogo in cui la nobile famiglia padovana dei Carraresi aveva tenuto le stalle della vecchia casa e dove successivamente era sorto un albergo che portava l’insegna del bue. Pochi conoscono quell’edificio con il nome ufficiale di Palazzo della Sapienza.

Dopo alcuni mesi dal suo trasferimento a Padova, Galileo prese alloggio a Venezia presso l’abitazione dell’ambasciatore toscano Giovanni Uguccioni. La casa si trovava a pochi passi dai cantieri navali e non era infrequente vedere il professore passeggiare all’interno dell’Arsenale osservando gli operai al lavoro fra paranchi, argani e pulegge, ovvero mentre essi azionavano le macchine il cui principio di funzionamento faceva parte del suo insegnamento.

Ancora oggi è raro vedere un professore universitario sui luoghi di lavoro, ma a quel tempo ciò era del tutto sorprendente perché il lavoro dell’insegnante consisteva nel commento delle opere di autori antichi, segnatamente Aristotele, senza che venisse richiesto alcun riferimento all’esperienza diretta. Galileo però era uno scienziato sui generis il quale riteneva che le leggi fisiche dovessero essere stabilite con esperimenti e, qualora questi fossero in disaccordo con quanto proposto da Aristotele, non avrebbe esitato a dare torto a quest’ultimo.

In una serata di maggio del 1609 Galileo venne a conoscenza di un fatto che cambierà la sua vita. Si trattava di una notizia che apprese a palazzo Morosini, sul canal Grande, in cui trovava sede il circolo intellettuale più ambito della città. Intorno ad Andrea Morosini, storico della repubblica, si raccoglievano non solo il fior fiore dell’aristocrazia veneziana, ma anche alcuni dei personaggi più colti e illustri italiani e stranieri.

In quel luogo Galileo venne a sapere che un ottico olandese aveva costruito una specie di giocattolo che permetteva di vedere vicini e ingranditi gli oggetti lontani: si trattava del cannocchiale (= occhiale a canna), inventato cinque anni prima e già diffuso in alcune città europee fra cui Parigi, la capitale francese da cui arrivava la notizia. Il cannocchiale in realtà non aveva avuto successo nemmeno come giocattolo ma soprattutto non era stato apprezzato dagli scienziati, i quali non ne avevano compreso l’importanza convinti com’erano che gli strumenti ottici poiché distorcevano le immagini producessero solo illusioni.

Galileo, invece, capì immediatamente come si sarebbe potuto trasformare quell’oggetto di curiosità in uno strumento scientifico di precisione e, sulla base di una vaga descrizione dello stesso, si mise subito a costruirne uno nella sua officina di Padova dove aveva già progettato un certo numero di strumenti di fisica e matematica fra cui il famoso “compasso geometrico e militare”, una sorta di primitivo regolo calcolatore, che permetteva una serie di operazioni matematiche e costruzioni geometriche.

Il cannocchiale era formato, nelle sue parti fondamentali, da un tubo che portava alle estremità due lenti, l’una concava e l’altra convessa, ossia l’una tipica degli occhiali per miopi e l’altra degli occhiali per presbiti. Galileo si rese tuttavia immediatamente conto che le lenti da occhiali non garantivano un buon ingrandimento e una visione nitida degli oggetti e quindi si mise egli stesso a tagliarne e lavorarne di più adatte dopo essersi procurato il materiale occorrente presso i laboratori del vetro di cui Venezia era la capitale europea.

Nell’agosto di quell’anno era pronto un cannocchiale che garantiva un ingrandimento pari a quello dei binocoli moderni più diffusi ed inoltre produceva immagini nitide e prive di deformazioni. Portò quindi lo strumento a Venezia con l’intento di mostrarne il funzionamento ai dignitari della Repubblica. Lo scienziato pisano salì a tal fine, con una rappresentanza di senatori, sul campanile di quella città e, puntato lo strumento verso la chiesa di Padova, fece notare che quella costruzione, che si trovava a più di trenta kilometri di distanza, appariva come se fosse a soli tre kilometri. Anche Murano, lontana due kilometri e mezzo, veniva avvicinata ad una distanza tale che si scorgevano le persone “uscir di chiesa e montar e dismontar de gondola al tragheto”.

Molto impressionato per le applicazioni militari che il nuovo strumento avrebbe potuto avere sia in mare che in terra, il Senato tributò al Galileo un vero trionfo e votò a larga maggioranza la conferma a vita del suo posto all’Università, raddoppiandogli immediatamente lo stipendio che da 520 fiorini passò a mille.

Per Galileo, sempre assillato da problemi economici, il primo movente della costruzione del cannocchiale fu, molto probabilmente, quello di trarne un guadagno. Oltre al sostentamento della sua famiglia a Firenze, ora si aggiungeva anche quello della famiglia che si era costituita a Padova unendosi con una donna veneziana, Marina Gamba, da cui aveva avuto tre figli: Virginia, Livia e Vincenzio. Dato che non esisteva un vincolo matrimoniale fra i due, per salvare le apparenze, Galileo doveva provvedere anche all’abitazione separata di Marina e dei figli.

Ma andando oltre all’interesse commerciale per lo strumento, Galileo seppe individuare in esso un mezzo di eccezionale valore scientifico soprattutto per le osservazioni astronomiche da lui iniziate poco dopo. Le prime scoperte avvennero nell’autunno del 1609 e furono di tale interesse che lo indussero a costruire cannocchiali sempre più potenti e perfetti.

Il 1609 non fu solo l’inizio delle osservazioni di Galileo. Nello stesso anno l’astronomo tedesco Johannes Kepler (latinizzato in Giovanni Keplero) sulla base delle numerose e precise osservazioni del suo maestro, il danese Tycho Brahe (1546-1601), su Marte, era arrivato alla conclusione che l’orbita di quel pianeta non fosse circolare, ma ellittica e che il Sole si trovasse in uno dei fuochi di tale ellissi. Successivamente egli aveva esteso tale conclusione alle orbite degli altri pianeti.

Questa fu la prima di tre leggi che prendono il nome dallo scopritore. La seconda rendeva conto della variazione della velocità dei pianeti nel loro moto intorno al Sole. La terza legge che stabilisce che la velocità media di un pianeta è tanto minore quanto più esso è lontano dal Sole, verrà individuata un po’ più tardi. Eliminando il dogma della circolarità dei moti planetari, Keplero apportava un sostanziale perfezionamento al modello copernicano rendendo superflua l’introduzione degli epicicli e degli eccentrici indispensabili, nel modello tolemaico, per spiegare il moto retrogrado di Marte e la variazione di luminosità nel corso dell’anno di alcuni pianeti.

 

SIDEREUS NUNCIUS

Il primo oggetto celeste verso cui Galileo puntò un nuovo cannocchiale che ingrandiva 20 volte e non solo 6 come era quello che aveva presentato ai senatori veneziani, fu la Luna. Scoprì quindi, con grande stupore ed emozione, che la superficie di quel corpo celeste non si presentava affatto levigata e uniforme, come veniva descritta da un gran numero di filosofi, ma ineguale, scabra e piena di buchi e rilievi, non diversamente dalla faccia della Terra. Notò anche che quando il Sole saliva in cielo la parte illuminata delle montagne aumentava mentre diminuivano le macchie scure delle valli. Questa osservazione gli permise di determinare l’altezza di alcuni rilievi che in certi casi risultava superiore a quella delle montagne più alte della Terra conosciute a quel tempo. La Luna, più piccola della Terra, possedeva montagne più alte e questo faceva ritenere che il materiale di cui era fatto quel corpo fosse più leggero di quello terrestre. Egli aveva osservato inoltre che la luce grigiastra che copre il resto della Luna quando la parte illuminata è una falce sottile non è prodotta né dalla Luna stessa (altrimenti la si sarebbe vista durante le eclissi), né dalle stelle, né dai raggi del Sole che attraversavano quel corpo celeste, come era stato suggerito da alcuni scienziati, ma dalla Terra: si trattava infatti della cosiddetta “luce cinerea”, ovvero “il chiaro di Terra sulla Luna”.

Quando subito dopo rivolse il cannocchiale verso le stelle ne vide un numero enormemente maggiore di quello che era possibile distinguere ad occhio nudo. La costellazione di Orione, ad esempio, ne era talmente ricca, che Galileo decise di concentrare l’attenzione solo sulla cintura e sulla spada dove contò un’ottantina di stelle in più rispetto alle otto visibili ad occhio nudo. Anche le Pleiadi, che stazionano in vicinanza, erano molte di più delle sei stelle che tutti potevano osservare senza far uso dello strumento ottico. La sorpresa maggiore l’ebbe comunque quando puntò il cannocchiale verso la Via Lattea la quale gli rivelò la presenza di un numero di stelle enorme: ne conterà non più decine ma migliaia.

Ora Galileo osserva il cielo tutte le notti mentre durante il giorno lavora nel suo laboratorio alla costruzione di un cannocchiale ancora più potente. Nei primi giorni del 1610 il nuovo strumento era pronto: esso ingrandiva ben 30 volte. Era il quinto cannocchiale che realizzava ma poi ne costruirà tanti altri per regalarli ad amici e colleghi stranieri, ma molti anche per venderli.

Con questo nuovo cannocchiale dal quale non si separerà più compì la più bella e importante delle sue scoperte. La notte del 7 gennaio, mentre guardava Giove, notò in vicinanza di quell’astro tre stelline molto luminose che in un primo tempo scambiò effettivamente per stelle davanti alle quali il pianeta si sarebbe spostato, ma il giorno seguente ebbe la sorpresa di trovare le tre stelline sistemate in una disposizione diversa rispetto a quella del giorno precedente. Frattanto ne era comparsa una quarta e alla fine si convinse che quelle che pensava fossero stelline erano in realtà pianeti che ruotavano intorno a Giove seguendone il movimento.

L’osservazione non mostrava solo una novità astronomica ma anche la prova che Copernico aveva ragione: un movimento celeste si compiva intorno ad un astro che non era la Terra la quale evidentemente non era più l’unico centro di tutti i moti celesti. In verità quest’ultima scoperta era compatibile, oltre che con quello copernicano, anche con il sistema suggerito da Tycho Brahe il quale aveva elaborato un modello di Universo che stava a metà strada fra quello copernicano e quello tolemaico. Secondo Brahe, la Luna e il Sole ruotavano intorno alla Terra immobile al centro, mentre il Sole a sua volta era il centro dei movimenti rotatori degli altri cinque pianeti. Il modello poteva essere valido come ipotesi matematica ma non aveva alcun valore da un punto di vista fisico, e proprio perché impossibile da verificare nella realtà, per Galileo esso non costituiva una valida alternativa al modello copernicano.

In onore del Granduca di Toscana Galileo denominò “astri medicei” i quattro satelliti di Giove; in questo modo egli si cautelava da eventuali contestazioni rispetto alla sua osservazione perché ora, negare la scoperta, avrebbe voluto dire scontrarsi con la potentissima famiglia dei Medici.

L’importanza veramente rivoluzionaria delle ultime scoperte, soprattutto quella dei satelliti di Giove, indussero lo scienziato toscano a dare di ciò notizia agli uomini colti d’Europa. Nacque così il Sidereus Nuncius (Avviso astronomico), un libro di poche pagine scritto in latino in vista della sua diffusione europea. Il saggio uscì il 12 marzo 1610 e i 550 esemplari stampati si esaurirono in pochi giorni. Questo lavoro fu dedicato anch’esso a Cosimo de’ Medici il quale, dopo la morte del padre Ferdinando, era diventato Granduca di Toscana con il nome di Cosimo II.

Pur insegnando a Padova, lo scienziato non aveva certo dimenticato Firenze, dove si recava regolarmente durante le vacanze estive. Negli ultimi anni era stato ospite della Granduchessa Cristina di Lorena per insegnare matematica al figlio Cosimo con il quale si stabilì un rapporto di profonda stima e simpatia, che si rivelerà prezioso in futuro.

 

DA VENEZIA A FIRENZE

Galileo ora sperava che il Granduca Cosimo II, riconoscente dei “doni” che gli aveva fatto, gli avrebbe consentito di realizzare il suo vecchio sogno ossia quello di diventare matematico di Corte a Firenze. Il desiderio di lasciare l’Università di Padova, dove aveva insegnato per diciotto anni, era dettato soprattutto dalla necessità di liberarsi da qualsiasi costrizione di orario: la costruzione dei cannocchiali, le ore di osservazione notturna e le lezioni pubbliche e private (necessarie queste ultime per guadagnare il denaro che gli veniva richiesto insistentemente dalla sua famiglia) non gli consentivano di pubblicare i risultati delle nuove scoperte, che si facevano sempre più numerose. Naturalmente vi era anche la nostalgia per la sua terra di origine; Galileo era infatti toscano nato a Pisa, ma la sua famiglia era fiorentina e a Firenze egli stesso aveva passato la sua giovinezza. Sul frontespizio dei suoi libri farà seguire d’ora in poi al proprio nome la dicitura: “Nobile Fiorentino”.

Pertanto si stabilì a Firenze nel settembre del 1610, ma prima ancora di quella data si erano fatti sentire i suoi avversari che non riconoscevano le sue scoperte adducendo motivazioni in realtà molto deboli, se non assurde. Costoro sostenevano ad esempio che poiché gli astrologi, nei loro oroscopi avevano già inserito tutto ciò che si muoveva in cielo, i satelliti medicei non servivano: pertanto non esistevano. Gli avversari di Galileo evidentemente davano più importanza ai ragionamenti fondati sulla logica formale che alle osservazioni: due modi di pensare opposti. Ma c’è di peggio. Alcuni avevano portato come prova della falsità delle osservazioni di Galileo argomenti addirittura puerili. Poiché in cielo – essi asserivano – non ci possono essere più di sette oggetti mobili (Luna, Sole e i cinque pianeti visibili ad occhio nudo) altri non ce ne potevano stare. Ma perché proprio sette? Per la stessa ragione per cui sette sono i peccati capitali, sette sono i giorni della settimana, sette le meraviglie del mondo, e via elencando. Il cannocchiale inoltre ingannava perché, se così non fosse, gli antichi, molto sapienti, lo avrebbero dovuto già conoscere.

Galileo naturalmente non risponde a queste banalità. Egli invece si preoccupa di convincere gli uomini di scienza di cui aveva stima, della validità delle sue scoperte. Il primo che contattò fu Giovanni Keplero al quale inviò una copia fresca di stampa del Sidereus Nuncius invitandolo a formulare un parere. Keplero rispose congratulandosi per l’opera tuttavia si dichiarava non pienamente convinto delle osservazioni avanzate dallo scienziato toscano a causa della imperfezione del cannocchiale che possedeva. Galileo allora gli inviò un nuovo cannocchiale con il quale l’astronomo tedesco effettuerà numerose accurate osservazioni che alla fine lo convinceranno pienamente delle scoperte del collega italiano.

Altro personaggio importante da convincere era Cristoforo Clavio, il gesuita capo degli astronomi del papa, il quale non solo non credeva alle scoperte di Galileo, ma lo prendeva  anche in giro. Alla fine tuttavia anche Clavio osserverà la Luna e i satelliti di Giove e confermerà all’astronomo fiorentino l’avvenuta osservazione.

Frattanto Galileo, continuando le sue ricerche astronomiche, si accorse che Saturno presentava un aspetto strano e descrisse la sua osservazione con queste parole: “… la stella di Saturno non è sola, ma un composto di tre, le quali quasi si toccano, né mai fra loro si muovono o mutano, e sono poste in fila secondo la lunghezza dello zodiaco, essendo quella di mezzo circa tre volte maggiore delle altre due laterali”. Ecco come appare Saturno a Galileo:

In realtà il suo cannocchiale era troppo debole per dare l’esatta interpretazione di ciò che solo quarantacinque anni più tardi potrà essere realizzato dal fisico, matematico e astronomo olandese Christian Huyghens (1629-1695). Facendo uso di un telescopio (dal greco: tele = lontano e skopeo = io guardo), ossia di uno strumento ottico ben più potente del cannocchiale galileiano, egli poté osservare che il pianeta era circondato da un anello:

 

Il mancato successo delle osservazioni di Saturno fu ben presto compensato da quelle relative al pianeta Venere. Il suggerimento di osservare Venere gli venne da un suo vecchio discepolo di Padova, il monaco benedettino Benedetto Castelli che era allora professore di matematica a Pisa. Egli fece notare a Galileo che se Venere veramente ruotasse intorno al Sole, dovrebbe mostrare le fasi come si osserva per la Luna. Galileo rispose al vecchio alunno di aver già notato che Venere a volte appariva illuminata in pieno per poi ridurre la superficie rischiarata e quindi svanire del tutto secondo un ciclo che invece non era visibile, ad esempio, su Marte. Un’osservazione più attenta mostrò che effettivamente Venere presentava le fasi, ma lo scienziato non osò pubblicare la scoperta prima di esserne ben certo. Inviò quindi un messaggio anagrammato a Keplero il cui reale significato verrà in seguito chiarito quando non ci saranno più dubbi sulla effettiva scoperta.

Fra le tante scoperte fatte da Galileo, quest’ultima è quella che dà il maggiore appoggio al modello copernicano di Universo. Ed è proprio in questo momento che egli riceverà l’invito, da parte di Clavio, a far visita agli astronomi del Vaticano. Alla fine dell’inverno del 1610 Galileo partì per Roma dove giunse tre mesi dopo.

Vi fu accolto in modo trionfale da Clavio e dal suo gruppo di studiosi gesuiti ma proprio in questo momento cominciarono i suoi guai. Ad aprile il primo teologo della Chiesa, il gesuita cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), chiese ufficialmente a Clavio l’opinione del Collegio Romano riguardo alle osservazioni di Galileo e Clavio inviò un rapporto in cui, senza fare commenti di sorta, confermò tutte quelle osservazioni.

Il papa Pio V lo ricevette in udienza privata e l’intero Collegio Romano si riunì, insieme con Galileo, per celebrare ufficialmente le sue scoperte; gli verrà anche chiesto di diventare membro dell’Accademia dei Lincei una carica che il fisico fiorentino accetterà con entusiasmo e d’ora innanzi tutti i suoi libri porteranno in copertina, dopo il suo nome, anche il termine “Linceo“.

 

LA TRAPPOLA

Proprio nel momento in cui Galileo era convinto di essere uscito vincitore dal confronto con i suoi principali critici, stava maturando una situazione per lui drammatica. La battaglia con i suoi oppositori non si sarebbe tenuta sul terreno dell’astronomia dove la vittoria dell’astronomo fiorentino sarebbe stata scontata, ma su un argomento di secondaria importanza: il galleggiamento del ghiaccio sull’acqua. Per Aristotele ciò avviene perchè il ghiaccio ha una forma a lastra e allo stesso modo si comportano tanti altri corpi della stessa forma. Galileo che, come abbiamo visto, aveva realizzato una bilancia per misurare la densità dei corpi immergendoli nell’acqua, conosce bene l’argomento. Innanzitutto egli spiega che se la lastra di ghiaccio venisse spinta sott’acqua poi, una volta lasciata, riemergerebbe. Inoltre fa notare che, se sull’acqua venisse posto un cubetto di ghiaccio, questo galleggerebbe al pari della lastra. In definitiva il ghiaccio galleggia sull’acqua perché è più leggero del mezzo in cui è immerso. La definizione di corpo pesante e corpo leggero, al contrario di come pensava Aristotele, è un concetto relativo: non vi sono da un lato i corpi pesanti e dall’altro quelli leggeri.

Gli aristotelici non si dettero per vinti e chiesero ai cardinali presenti alla riunione di fare da testimoni. Non tutti però si schierarono dalla loro parte e ad esempio il cardinale Maffeo Barberini, colui che poi diventerà papa con il nome di Urbano VIII, sostenne la tesi di Galileo. Anche il Granduca Cosimo II prese le parti dello scienziato pisano ed anzi lo invitò a scrivere un libro sull’argomento. L’anno seguente infatti egli avrebbe pubblicato un’opera intitolata Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono.

Gli avversari di Galileo cercarono di ribattere, attraverso la pubblicazione di alcuni opuscoli pieni di argomentazioni deboli e poco convincenti, alle osservazioni numerose e puntuali contenute nel libro scritto in italiano e letto dai giovani di buona famiglia che con entusiasmo seguivano gli insegnamenti del grande fiorentino. Gli oppositori di Galileo sanno ora di aver perso non solo la battaglia astronomica ma anche quella sulle leggi fisiche.

Sconfitti sul piano scientifico i nemici di Galileo cercano allora la rivincita su quello religioso. Molti sacerdoti colti e profondi conoscitori dell’argomento si erano schierati dalla parte di Galileo, ma ora si schierano contro di lui altri religiosi, ignoranti, grossolani e aggressivi: i “cani da guardia della fede”, ovvero i frati predicatori dell’ordine dei Domenicani, rivali dei Gesuiti. Questi si dichiararono apertamente contro le nuove idee in astronomia perché contrarie alle Sacre Scritture dove è scritto che Giosuè fermò il Sole perché evidentemente l’astro si muoveva. Anche dal pulpito piovvero critiche sul lavoro di Galileo, il quale non rispose alle accuse di condanna delle idee di Copernico perché in quel momento impegnato in un argomento molto più interessante: le macchie solari.

Galileo non fu il primo a vedere le macchie sulla superficie del Sole che, in alcuni casi favorevoli, erano visibili ad occhio nudo e probabilmente furono scorte perfino dell’uomo primitivo. Ora, con l’uso del cannocchiale, apparvero evidenti anche quelle di dimensioni minori e il gesuita tedesco Cristoforo Scheiner (1573-1650), lettore di matematica e lingua ebraica a Ingolstadt (in Baviera, Germania), dichiarò ufficialmente, con una nota scritta, di aver osservato il fenomeno fra novembre e dicembre del 1611. Galileo, convito di avere egli osservato per primo le macchie del Sole, si sentì defraudato e replicò in modo assai risentito alle affermazioni del gesuita tedesco. In realtà avevano torto entrambi perché il primo ad osservare le macchie solari fu l’olandese David Fabricius (1564-1617) e Keplero, che ne venne a conoscenza prima di tutti, lo avrebbe confermato.

Altre volte è accaduto che più ricercatori all’insaputa l’uno dell’altro siano arrivati alle stesse conclusioni relativamente ad un determinato fenomeno naturale. Per fare un esempio ci limitiamo ad un caso famoso nel campo della biologia. Le cosiddette leggi di Mendel furono scoperte nel 1865 dal fraticello boemo Gregor Johann Mendel (1822-1884), ma nonostante fossero state pubblicate su una rivista scientifica, in verità di scarsa diffusione, vennero ignorate fino a quando tre biologi, separatamente, le riscoprirono nel 1900.

Nella scienza però non basta vedere un fenomeno, bisogna anche interpretarlo nel modo giusto. Padre Christoph Scheiner interpretò quelle macchie come l’ombra proiettata da piccoli pianeti che passavano davanti al Sole il quale, in accordo con la dottrina aristotelica dell’incorruttibilità dei corpi celesti, non poteva presentare imperfezioni.

Galileo interpretò invece (sbagliando) le macchie come nubi piatte incollate alla superficie del Sole ma dedusse (correttamente) dal loro spostamento, che l’astro ruota su sé stesso con velocità uniforme. Anche se oggi sappiamo che in realtà le macchie sono zone più fredde sulla sua superficie, Galileo in sostanza aveva ragione nel ritenere che il Sole non solo non fosse una sfera liscia e immacolata, ma fosse anche animato da movimento rotatorio e se ruota quell’astro – egli deduceva – perché non potrebbe farlo anche la Terra, come sostiene Copernico? All’inizio Galileo si dimostrerà prudente ma un anno più tardi si deciderà a dare alle stampe un libro che tratta l’argomento: pubblicato dall’Accademia dei Lincei esce quindi la Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari.

L’impronta della trattazione è nettamente copernicana ed inoltre è scritta in volgare invece che in latino. Il discorso scientifico poteva essere tollerato dagli uomini di Chiesa fin quando veniva formulato come semplice ipotesi ed esposto in un linguaggio per addetti ai lavori, mentre l’interesse evidente di Galileo era quello della divulgazione.

 

L’INIZIO DELLA GUERRA

In un primo tempo l’attacco al copernicanesimo venne sferrato non direttamente su Galileo, ma sui suoi amici ed estimatori. Uno dei suoi oppositori scriveva da Roma riferendo che il Cardinale Barberini, che aveva sempre ammirato il valore dello scienziato fiorentino, gradirebbe che relativamente agli argomenti di astronomia, egli mostrasse una maggiore prudenza e non andasse oltre i confini della fisica e della matematica in quanto l’organizzazione reale del mondo non è compito della scienza, ma è riportata nelle Sacre Scritture.

Il capo dei teologi, il Cardinale Bellarmino, colui che undici anni prima fu decisivo nel convincere l’Inquisizione di mandare al rogo Giordano Bruno (1548-1600), aveva chiesto che gli venisse presentato un rapporto segreto su Galileo, perché era preoccupato per le contraddizioni esistenti fra le Sacre Scritture e la teoria copernicana. Questa disputa in realtà durava da ottanta anni ma solo ora, dopo le scoperte dello scienziato pisano, era diventata pericolosa e, anche a causa della pubblicazione di libri che trattavano l’argomento in italiano e non nella lingua dei dotti, essa aveva raggiunto il vasto pubblico. Bellarmino era convinto che la teoria di Copernico era corretta e sarebbe stata accettabile solo se si fosse limitata ad una descrizione matematica dei fenomeni, laddove asserire che il Sole è veramente al centro dell’Universo avrebbe vistosamente contraddetto ciò che è riportato nei testi sacri. A riprova di ciò sta il fatto che fu Salomone a sostenere che la Terra è eternamente in quiete e che il Sole sorge e tramonta e poiché “questa sapienza l’ebbe direttamente da Dio” non è verosimile che l’illuminato sovrano d’Israele potesse affermare una cosa contraria alla verità.

Ora non si trattava più, come duemila anni fa, di separare semplicemente la Terra dal Cielo, poiché le “sensate esperienze”, come le chiamava Galileo, ottenute con il cannocchiale e difficilmente contestabili, avrebbero reso più chiara la situazione, tanto che la Chiesa stessa aveva dovuto riconoscere la validità di tali osservazioni. D’un tratto era diventato molto difficile obbligare gli astronomi a limitarsi ad una descrizione matematica ed evitare ogni discussione sulla natura reale del mondo.

Galileo non poteva ridursi a pensare che le idee di Copernico fossero una semplice ipotesi matematica priva di realtà: egli era cattolico e rispettava profondamente la Chiesa ma contemporaneamente era anche copernicano e riteneva che le due visioni del mondo non fossero incompatibili. Decise quindi di recarsi a Roma e di battersi per l’affermazione dei suoi convincimenti.

Dopo aver chiesto e ottenuto il permesso del Granduca (il quale gli assegnò anche un’abitazione di due stanze nell’ambasciata), nonostante le cattive condizioni di salute, Galileo, il 3 dicembre del 1615, partì per Roma. Giunto fiducioso nella città dei sette colli, il suo primo impegno fu quello di convincere gli Inquisitori che la teoria eliocentrica di Copernico non era incompatibile con quanto riportato nelle Sacre Scritture. Grazie alla sua passione e alla sua eloquenza, riuscì a farsi ascoltare da tutte le persone che incontrò, ma non da quelle che contavano: ad esempio non riuscì ad ottenere un colloquio con il Cardinale Bellarmino.

Le sedute del Sant’Uffizio si tenevano in luoghi e tempi diversi. In una di esse, avvenuta il 24 febbraio del 1616, venne dichiarato ufficialmente che considerare il Sole al centro del mondo e immobile era una proposizione assurda, falsa e formalmente eretica perché espressamente contraria alla Sacra Scrittura. Allo stesso modo era assurdo ritenere che la Terra si muovesse oltre che intorno al Sole, anche su sé stessa.

Senza citare brani dell’opera di Galileo o di Copernico, si ribadiva insomma l’incontrastabile autorità delle Sacre Scritture e della Chiesa a prescindere dal merito scientifico. Si trattò in sostanza di quello che alcuni chiamarono il primo processo a Galileo anche se il fisico fiorentino non fu condannato dall’autorità ecclesiastica soprattutto per riguardo all’alleato Granduca di Toscana.

Due giorni dopo la riunione del Sant’Uffizio, Galileo ottenne un colloquio a quattrocchi con il Cardinale Bellarmino il quale lo ammonì di lasciar perdere la teoria eliocentrica, lo informò altresì che la Congregazione dell’Indice si apprestava a sospendere l’opera di Copernico e tutti gli altri lavori che riguardavano lo stesso argomento perché quei libri, in alcune parti, erano contrari alla Sacra Scrittura. Alla fine Galileo venne invitato ad accettare il monito che gli era stato rivolto dalle gerarchie ecclesiastiche e a promettere obbedienza.

Prima di tornare a Firenze, Galileo ottenne dal Cardinale Bellarmino una dichiarazione scritta in cui si attestava che egli non aveva dovuto abiurare né che era stato torturato ma solo che gli era stato notificato che l’affermazione relativa al fatto che la Terra si muoveva intorno al Sole e che il Sole stesso era al centro del mondo senza muoversi, era contraria alle Sacre Scritture e che pertanto la stessa non poteva essere difesa né insegnata.

Con questa dichiarazione in mano, Galileo tornò a casa dove giunse il 4 giugno 1616. La faccia era salva ma in realtà si trattava di una sconfitta i cui esiti peggiori dovranno ancora realizzarsi.

 

DAL “SAGGIATORE” AL “DIALOGO”

Tornato a Firenze, Galileo non si lasciò abbattere dalla sconfitta nel convincimento che, con il passare del tempo e con la scoperta di prove ancora più convincenti a favore del sistema copernicano, l’atteggiamento della Chiesa sarebbe cambiato. Nei due anni successivi, a causa anche di una malattia che lo tenne a letto per lunghi periodi, si dedicò fondamentalmente ai suoi antichi studi sul moto dei corpi, sulla trasmissione del calore e sulla ricerca di soluzioni a problemi pratici come il sollevamento dell’acqua attraverso l’utilizzo di sifoni; si diede infine ad impiegare il cannocchiale con fini diversi da quelli astronomici.

Approfittò anche del tempo che aveva a disposizione per perfezionare il microscopio da lui stesso inventato nel 1610 quando si accorse che l’«occhiale» poteva venire adattato alla visione da vicino, rivelandosi in grado di farci scoprire minuzie altrimenti invisibili e infine per approfondire un problema che stava studiando da quando osservò per la prima volta i satelliti di Giove: la determinazione della longitudine a partire dalla posizione in cielo di quegli astri.

Come è noto, per determinare la longitudine di un punto sulla superficie terrestre, e in particolare in mare, era indispensabile conoscere l’ora precisa di un punto di riferimento e confrontarla con quella del luogo in cui ci si trovava. Disponendo quindi di un orologio che indicasse il tempo locale di un punto qualsiasi (per esempio quello del porto di partenza della nave) sapendo che alla differenza di un’ora fra due punti corrispondeva la differenza di 15 gradi, determinare la longitudine del luogo sarebbe stata un’operazione immediata. Ma a quel tempo gli orologi erano molto imprecisi soprattutto se fatti funzionare su di una nave che facesse rotta in mezzo al mare agitato. Galilei aveva pensato allora di sfruttare il moto dei satelliti di Giove che potevano essere osservati da luoghi posti anche a notevole distanza, in cui, ovviamente, gli stessi sarebbero apparsi sistemati in posizioni diverse. Se fosse stato quindi possibile prevedere con precisione istante per istante, e per molti mesi dell’anno, la posizione dei satelliti di Giove, i naviganti avrebbero avuto a disposizione un’effemeride dettagliata di quegli astri.

A rianimare gli interessi astronomici di Galileo fu l’apparizione, verso la fine del 1618, a breve distanza di tempo l’una dall’altra, di tre comete. Ne parlava la gente comune vedendo nel fenomeno segni premonitori di catastrofi e di guerre e in realtà, la coincidenza della loro apparizione con l’inizio della lunga guerra passata alla storia come la “Guerra dei Trent’anni”, sembrò una conferma di quelle credenze popolari. Naturalmente ne parlarono gli astronomi e i filosofi naturalisti i quali, come era da aspettarsi, si gettarono in vivacissime discussioni. Per Aristotele, e quindi per i suoi seguaci, le comete erano esalazioni terrestri che, dopo essersi elevate fino alla sfera del fuoco, venivano accese dalla frizione causata dalla sovrastante sfera della Luna. La loro scomparsa coincideva con la totale combustione del materiale di cui erano fatte.

Gli astronomi invece spiegavano il fenomeno attraverso la teoria di Tycho Brahe secondo la quale le comete si trovavano assai al di sopra della Luna e si muovevano girando intorno al Sole su una traiettoria fortemente ellittica, necessaria per spiegare il loro avvicinarsi e allontanarsi dalla Terra.

Galileo in un primo tempo si tenne in disparte dalle polemiche ma poi, in seguito all’uscita di un libro scritto in latino da Padre Orazio Grassi, professore di matematica al Collegio Romano, intitolato Libra astronomica ac philosophica (Bilancia astronomica e filosofica) decise di rispondere con un lavoro che venne completato in tre anni. Durante la preparazione dell’opera iniziata nel 1621 successero alcuni fatti molto importanti che segnarono il futuro di Galileo. A gennaio moriva Paolo V e nell’autunno dello stesso anno lo seguì nella tomba il cardinale Bellarmino. Ma, cosa più dolorosa per il fisico toscano, fu la morte del suo protettore ed estimatore fedele, il Granduca Cosimo II, che aveva lasciato un figlio, Ferdinando, appena undicenne. La reggenza del Granducato fu assunta allora dalla madre, Maria Maddalena d’Austria, e dalla nonna Maria Cristina di Lorena: due donne entrambe molto religiose e quindi accolte favorevolmente in quel ruolo dagli avversari di Galileo. Il manoscritto, con il titolo de Il Saggiatore, fu pubblicato nel 1623 ed è ritenuto uno dei grandi capolavori della letteratura polemica, un vero e proprio “pamphlet” a cui non mancano toni brillanti di ironia e sarcasmo.

Per Galileo lo studio delle comete era un argomento molto impegnativo che non poteva essere trattato facendo uso di una bilancia ordinaria, cioè la libra, ma serviva quella di precisione (saggiatore) usata dai ricercatori d’oro. In realtà il tema delle comete costituisce solo il punto di partenza di un’opera rivolta all’illustrazione del metodo che devono usare nella ricerca gli uomini di scienza.

Padre Grassi nel suo saggio difende la tesi più vicina alla realtà con argomenti però privi di esperienza diretta mentre Galileo assume la posizione dell’ormai declinante aristotelismo ma la sostiene con mente di scienziato che indaga dal vivo il “gran libro della natura” e non attraverso insufficienti e confuse argomentazioni. Sulla base del fatto che la precedente cometa apparsa nel 1577 presentava una parallasse assai più piccola di quella della Luna, Tycho Brahe aveva correttamente dedotto che essa si trovasse al di sopra del cielo della Luna. Galileo, pur riconoscendo la validità della misura delle distanze con il metodo della parallasse, riteneva che esso non potesse essere applicato alle comete in quanto esalazioni terrestri che riflettevano la luce solare e non corpi materiali.

Alla morte di papa Paolo V fu elevato al soglio pontificio Gregorio XV che improvvisamente si ammalò e morì dopo solo due anni di pontificato. Gli succedette il 6 agosto del 1623 Maffeo Barberini che assunse il nome di Urbano VIII. Questa elezione destò l’entusiasmo dei cattolici progressisti d’Europa e a Galileo parve presentarsi l’occasione per promuovere una nuova, energica azione in favore della sua battaglia copernicana. Fiorentino di nascita, accorto politico, uomo di indubbio ingegno, assai noto per la sua cultura umanistica ma anche per il suo interesse ai problemi tecnico-scientifici, il nuovo pontefice aveva sempre mostrato per Galileo simpatia e ammirazione e dallo scienziato toscano egli venne visto come colui che sarebbe stato in grado di sanare le ferite aperte nel 1616.

A Urbano VIII, una persona certamente vanagloriosa cui era gradito l’ossequio, venne subito dedicato il Saggiatore fresco di stampa. Il Pontefice accolse con piacere la dedica garantendo che avrebbe letto con la massima attenzione quel libro. Nel contempo lasciava intendere che, se fosse stato per lui, il decreto anticopernicano del 1616 non sarebbe uscito.

Il momento era favorevole e Galileo decise di recarsi nuovamente a Roma confidando di poter avere un colloquio diretto con il nuovo Pontefice. Il 24 aprile del 1624 partì quindi per Roma dove ottenne non uno bensì sei incontri con il Papa durante i quali allo scienziato vennero concessi onori formali, elargiti doni preziosi e soprattutto garantita una pensione ecclesiastica per il figlio Vincenzio (di cui aveva urgente bisogno). Però non riuscì ad ottenere la revoca della deliberazione del 1616.

Tornato a Firenze, nonostante non fosse in buone condizioni di salute, Galileo decise di scrivere un libro il cui contenuto era stato pensato fin dai tempi in cui insegnava a Padova. Nell’opera, ovvero il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano si immagina che il dibattito sul tema avvenga nel palazzo Sagredo di Venezia e duri quattro giorni. Gli interlocutori sono il nobile fiorentino Filippo Salviati, copernicano convinto (dietro il quale si nasconde lo stesso Galileo) l’antagonista Simplicio e il gentiluomo Giovanfrancesco Sagredo, che recita la parte dello spirito aperto e colto. Salviati e Sagredo, entrambi già defunti, erano stati grandi amici di Galileo; il terzo, un filosofo peripatetico, vissuto nel VI secolo, famoso commentatore di Aristotele, fu scelto forse per una certa consonanza del suo nome con la parola “semplicione”.

La prima giornata è dedicata ad una approfondita critica dei presupposti fondamentali della visione del mondo aristotelico-tolemaica. La seconda giornata ha come tema centrale quello del moto diurno dei corpi celesti il quale può essere spiegato o con il moto rotatorio della sola Terra (che corrisponde all’opinione copernicana) o con quello del resto del mondo, esclusa la Terra (che è l’opinione di Tolomeo). Salviati, con varie argomentazioni, mostra quanto sia più probabile l’opinione copernicana rispetto a quella tolemaica. Nella terza giornata la discussione si sposta sulla questione del moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole. L’ultima giornata infine, rappresenta il punto cruciale del Dialogo in quanto è dedicata interamente al fenomeno del flusso e riflusso del mare, un fenomeno che, secondo Galileo, rappresentava la prova basilare a favore del sistema copernicano. L’argomento relativo alle maree, come prova della rotazione terrestre, era già stato affrontato una ventina di anni prima in un lavoro specifico esposto in forma di lettera al sacerdote Francesco Ingoli (i578-1649) che lo scienziato toscano aveva probabilmente conosciuto a Padova e che ora era un influente membro della Congregazione dell’Indice, con il titolo: Discorso del flusso e del reflusso del mare.

Come hanno scritto molti critici il Dialogo non è un libro di astronomia o di fisica, ma piuttosto un libro di critica, un’opera di polemica e di battaglia. Al tempo stesso esso è un’opera pedagogica che racconta l’evoluzione del pensiero di Galileo.

 

IL PROCESSO, LA CONDANNA E L’ABIURA

Vicino al compimento dei settant’anni Galileo si compiace di aver finalmente realizzato il sogno della sua vita essendo riuscito a scrivere e pubblicare quella che considera l’opera fondamentale di una lunga attività scientifica. A rovinargli la festa ci penseranno però le notizie provenienti da Roma. Nel luglio del 1632 fu dato ordine all’Inquisitore di Firenze di bloccare la vendita del Dialogo e di confiscare tutte le copie esistenti. Quali furono le ragioni di un tale provvedimento?

In realtà queste furono costruite dopo l’analisi particolareggiata, da parte dei Gesuiti, del libro fresco di stampa. Essi fecero notare al Papa che i tre delfini collocati sul frontespizio del volume, che in realtà erano il logo della casa editrice, rappresentavano invece i suoi tre nipoti prediletti sui quali tanto mormorava il popolino. La seconda ragione che irritò il Papa, sempre su istigazione dei Gesuiti, fu la figura di Simplicio che venne accostata al Pontefice con lo scopo di farsi beffe di lui e screditarne il prestigio. Il terzo motivo di collera di Urbano VIII fu il constatare che l’opera era apertamente copernicana mentre le sue ragioni, cioè quelle relative all’incapacità dell’intelletto umano di decifrare i misteri dell’Universo, erano state poste in fondo al testo in posizione marginale.

Il fratello minore del Papa, il Cardinale Antonio Barberini, a fine settembre, dette ordine all’Inquisitore fiorentino di ingiungere a Galileo l’obbligo di recarsi entro trenta giorni a Roma per mettersi a disposizione del Commissario Generale del Sant’Uffizio. Galileo cercò di rimandare la partenza adducendo ogni tipo di giustificazione a cominciare da motivi di salute, l’età avanzata e la peste dilagante. Chiese infine che gli venisse concesso di subire il giudizio nella sua città. Il Papa e i Cardinali non si lasciarono impietosire e replicarono che, se si fosse ostinato a tentare di rimandare la partenza, lo avrebbero fatto prelevare e trasferire a Roma “legato anco con i ferri”.

Compreso che la Chiesa faceva sul serio, Galileo, il 20 di gennaio del 1633 partì per Roma dove giunse, dopo un viaggio rallentato dalle misure contro la peste, il 13 febbraio. Frattanto gli Inquisitori stavano ricostruendo l’accusa in riferimento a quanto era emerso dall’incontro del 1616 fra Galileo e il Cardinale Bellarmino. In quella occasione allo scienziato era stato ordinato di abbandonare assolutamente la dottrina copernicana: se non l’avesse fatto il Sant’Uffizio lo avrebbe punito.

L’editto anticopernicano del 1616 in realtà non aveva affatto proibito di discutere la mobilità della Terra in chiave puramente matematica ma Galileo, quando fu messo sotto interrogatorio due mesi dopo il suo arrivo a Roma, fisicamente e moralmente prostrato, non fu in grado di ricordare l’ingiunzione scritta su un documento che gli fu mostrato dall’accusa.

L’imputazione che gli si muoveva non era quella di aver fatto pubblicare il Dialogo ma di non aver fatto presente l’esistenza del precetto del 1616 che vietava di insegnare e difendere quovis modo(in qualsiasi modo, cioè a voce o per iscritto) la dottrina copernicana.

L’errore decisivo della sua debole difesa fu quello di affermare che il Dialogo aveva lo scopo di dimostrare la non validità e l’incongruenza delle ragioni di Copernico. Convinti che Galileo stesse tentando di prenderli in giro, i cardinali inquisitori lo accusarono non solo di proporre argomenti nuovi relativamente alle idee copernicane, ma di averlo fatto in italiano cioè nella lingua compresa dal volgo ignorante fra cui l’errore fa più facilmente presa.

Dopo un mese e dopo un nuovo interrogatorio in cui fu minacciato di tortura qualora non avesse detto la verità, il vecchio scienziato si arrese: “son qua nelle loro mani, faccino quello che gli piace”. Mercoledì 22 giugno 1633 Galileo, in abito di penitenza venne trasferito, a dorso di mulo, dal Sant’Uffizio al convento di Santa Maria sopra Minerva dove in ginocchio davanti ai cardinali della Congregazione, pronunciò la pubblica abiura che riportiamo solo nella parte centrale che costituisce un documento sul quale è opportuno meditare: “Con cuore sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie… e giuro che per l’avvenire non dirò mai più, né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa haver di me simil sospitione, ma se conoscerò alcun heretico o che sia sospetto d’heresia, lo denontiarò a questo S. Offitio.”

La situazione, a ben vedere, non si risolse a totale danno di Galileo, che sospettato di essere eretico, avrebbe potuto incorrere nelle peggiori censure canoniche mentre se la cavò con una pur umiliante abiura. Il Dialogo viene proibito e l’autore carcerato e obbligato alle preghiere penitenziali. La sentenza non viene controfirmata da tre giudici su dieci ed anche la supplica di potersene tornare a casa venne accolta. Non fu mandato tuttavia subito a Firenze per non dare la sensazione che si fosse trattato di una assoluzione. Dopo un giorno di carcere passò una settimana nei giardini dell’Ambasciata di Toscana quindi gli fu concesso di trasferirsi in domicilio coatto a Siena sotto la custodia dell’amico arcivescovo Ascanio Piccolomini. Dopo altri sei mesi gli sarà concesso di ritirarsi a vivere nella villa di Arcetri (presso Firenze) che, per stare vicino alle figlie monache, aveva preso in affitto qualche anno prima. Rimase l’obbligo dell’isolamento e la proibizione di comunicare con altri perché, “avendo egli ancora bisogno dell’intera grazia, è necessario di procurarsela con la pazienza e con lo starsene ritirato, piuttosto che con troppa libertà irritar il papa e la Congregazione ”. Fino alla morte Galileo sperimenterà quanto restasse severo il controllo del rispetto dei termini della punizione.

 

GLI ULTIMI ANNI DI VITA

Per i Cardinali del Sant’Uffizio, l’«affare Galilei» era ormai un capitolo chiuso e non sospettavano minimamente che il vero «affare Galilei» cominciava invece proprio quel mercoledì 22 giugno 1633. Essi in futuro sarebbero stati considerati non come giudici ma come imputati destinati ad essere chiamati innumerevoli volte, nel corso dei secoli, dinanzi ad un tribunale ben più severo di quello da loro presieduto: il tribunale della storia.

La proibizione del Dialogo, la sua condanna e la costrizione all’abiura erano stati senza dubbio un dolore grandissimo per Galileo, ma un dolore ancora maggiore, anche se di natura completamente diversa, lo attendeva. Pochi mesi dopo il suo ritorno ad Arcetri moriva infatti la figlia prediletta suor Maria Celeste la quale gli era stata vicina, in modo particolare durante il processo e il successivo soggiorno a Siena, con numerose lettere in cui traspariva tutta la ricchezza di cuore, la profonda intelligenza e sensibilità, unite ad una convinzione religiosa che non aveva niente di forzato.

Suor Maria Celeste era la primogenita delle due figlie, Virginia e Livia, che al Galilei erano nate in Padova “di fornicazione”, come dicono le fedi di battesimo, da Marina Gamba. Le due ragazze erano state accolte nel monastero di San Matteo in Arcetri un anno prima del tempo “ad effetto di monacarsi poi, quando fossero in età legittima”. Virginia, che prese il nome di Maria Celeste, visse molto cristianamente e conservò sempre un vivissimo affetto per il padre; la sorella, di un anno più giovane, che prese il nome di suor Arcangela, soccombette invece al peso del precetto paterno cui fu costretta e visse nevrastenica e malaticcia. Il figlio Vincenzio infine sarà sempre a carico del padre. Le lettere con cui Galileo dava notizia della sua morte a parenti e amici, sono la prova commovente della profondità del dolore e del vuoto lasciato nella sua vita dalla scomparsa della amata figlia.

Quanto alle sofferenze fisiche la più dura a sopportare fu certamente quella della perdita progressiva della vista. Ciò non gli impedì tuttavia di sistemare definitivamente i suoi studi di meccanica. Con l’aiuto di amici e discepoli vecchi e nuovi, riuscì a portare a termine il lavoro che costituirà il suo testamento scientifico e verrà pubblicato con il titolo di Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica et i movimenti locali.  Il libro dopo aver superato notevoli difficoltà venne pubblicato nel 1638 a Leida in Olanda dal celebre editore Lodewijk Elzevier. Questo editore rimase famoso per un particolare carattere da stampa chiamato elzeviro e, con lo stesso termine, vengono tuttora anche chiamati gli articoli di fondo della pagina letteraria di un giornale, generalmente di argomento culturale, di critica e di saggistica.

L’ultimo libro di Galileo, scritto in volgare, tratta temi tecnici e dell’esperienza quotidiana dell’uomo comune e si presenta in forma dialogica fra gli stessi interlocutori del Dialogo, ossia Salviati, Sagredo e Simplicio i quali si trovano a discutere nell’Arsenale veneziano, su temi tecnici che poco offrono sul piano della divulgazione. Nei Discorsi, anch’essi organizzati in quattro giornate Galileo affronta, con l’armamentario concettuale della geometria, una serie di problemi di fisica, sviluppando ragionamenti professionali e dimostrando teoremi.

Nella prima giornata si studiano la struttura della materia e le sue proprietà, la resistenza dei solidi, il moto, il peso dei gravi, il sincronismo, le vibrazioni e il suono. La seconda giornata si concentra sulle leve e i loro equilibri esaltando il ruolo sussidiario della geometria nell’analisi dei problemi scientifici. La terza e la quarta giornata sono dedicate all’esposizione dei principi della dinamica.

Da un punto di vista formale, il libro non tratta il sistema copernicano anche se in verità ne costituisce un’ulteriore validissima difesa in quanto elimina definitivamente le obiezioni di carattere meccanico che gli avversari elevarono contro di esso. Pertanto, a ben guardare, i Discorsi non erano meno copernicani del Dialogo dei massimi sistemi ma le autorità ecclesiastiche non li condannarono perché in essi non veniva trattata esplicitamente la questione copernicana ma, più probabilmente, perché non ne avevano capito il contenuto. Galileo ebbe fra le mani il libro stampato con notevole ritardo ma non poté vederlo perché nel frattempo era diventato completamente cieco. Successivamente, anche in seguito alle pressioni degli editori, Galileo porrà mano alla stesura di una quinta e una sesta giornata (che saranno pubblicate rispettivamente nel 1674 e nel 1718) completate dal Viviani e dal Torricelli.

Nonostante la grave infermità Galileo continuò a lavorare fin quasi alla vigilia della morte assistito da un padre scolopio che gli faceva da amanuense, dal giovane discepolo Vincenzio Viviani e, negli ultimi giorni, anche dal figlio Vincenzio e da Evangelista Torricelli i quali assistettero alla sua morte che avvenne “mercoledì 8 gennaio 1642 a hore quattro di notte [corrispondenti alle nostre dieci/undici di sera] in età di settatasette anni, mesi dieci e giorni venti”. Il 25 dicembre dello stesso anno nasceva in Inghilterra Isaac Newton un fisico al quale Galileo lasciò simbolicamente il testimone della ricerca delle leggi di natura. A proposito delle date è necessaria una precisazione perché a quel tempo in Inghilterra vigeva ancora il calendario giuliano quando in Italia era già in vigore quello gregoriano che sopravanzava quello giuliano di una decina di giorni. Quando nasceva Newton pertanto in Italia era il 5 gennaio del 1643.

Quattro giorni dopo il decesso, il Nunzio di Firenze ne dava notizia al cardinale Francesco Barberini, informandolo anche della proposta del Granduca di volergli fare nella chiesa di Santa Croce un “deposito sontuoso, in paragone e dirimpetto a quello di Michelangelo Buonarroti”. Il cardinale Barberini per conto dello zio papa si affrettava a rispondere che non era il caso di “fabbricare mausolei al cadavero di colui che con una dottrina tanto falsa e tanto erronea aveva dato uno scandalo tanto universale al Cristianesimo”.

Il consiglio del cardinale venne accolto dal Granduca e il corpo di Galileo chiuso in una normale cassa restò per il momento in una stanza dietro la sacrestia in Santa Croce. Quel momento durò quasi cento anni e infatti solo nel 1734 il S. Uffizio dette il permesso per l’erezione del mausoleo a condizione però che si comunicasse all’autorità ecclesiastica l’iscrizione che vi si voleva apporre.

A Galileo veniva contestato il fatto che non era riuscito a provare in maniera irrefutabile il duplice movimento della Terra per quanto il fisico toscano fosse convinto di averne trovato la prova nelle maree oceaniche, di cui solo Newton doveva dimostrare la vera origine. Le prove fisico-matematiche sia del movimento della Terra intorno al Sole, sia su sé stessa giungeranno molto più tardi. La prima venne fornita dall’astronomo inglese James Bradley, nel 1734, attraverso il fenomeno dell’aberrazione della luce di una stella. La seconda con l’osservazione di un fenomeno, già previsto da Galilei ed enunciato di Newton, da parte dell’abate bolognese Giovanni Battista Guglielmini nel 1791. Quest’ultimo esperimento consisteva nella misura dello spostamento, rispetto alla verticale, di un grave lasciato cadere dall’alto della Torre degli Asinelli in Bologna.

Ma le prove scientifiche e inconfutabili della validità del modello copernicano non furono sufficienti a riabilitare Galileo da parte del Vaticano. Nonostante le buone intenzioni espresse a parole, la riabilitazione venne esclusa dal papa in persona nel 1992 quando fu creata la Commissione per lo studio della questione galileiana. Quindi non solo non si è mai chiuso il “caso Galileo” ma il dialogo fra la Chiesa e la scienza si è fatto in questi ultimi tempi più complesso e difficile. Oggi la Chiesa non è più interessata ai problemi astronomici perché presa dai temi di bioetica e del controllo delle nascite che determinano un confronto scienza-fede in un certo senso ancora più drammatico di quello che si sviluppò ai tempi di Galileo. Certo, oggi nessuno scienziato potrà essere condannato all’abiura delle sue opinioni scientifiche dinanzi ad un tribunale ecclesiastico (il S. Uffizio non esiste più, sostituito dalla Congregazione per la dottrina della Fede) e tanto meno costretto agli arresti domiciliari ma la pressione sulle coscienze dei cattolici e non cattolici è ancora forte, molto forte.

Prof. Antonio Vecchia

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