La terra è mobile

Lo storico statunitense Charles Hapgood (1904-1982) che era stato l’ideatore della co­siddetta teoria dello slittamento dei poli, non accettava però l’idea che i conti­nenti fossero in movimento. Fra i suoi estimatori annoverava Albert Einstein il quale scrisse anche la prefa­zione alla sua prima pubblicazione relativa all’argomento.

Si era notato da lungo tempo che il profilo orientale del continente sudamericano si in­seriva quasi perfettamente in quello occidentale africano e che anche le formazioni roccio­se sulle sponde opposte dell’Atlantico corrispondevano a questa concordanza strutturale. La stessa configurazione si notava in altri continenti: per esempio il Madagascar sembrava essersi staccato dalla sponda occidentale dell’Africa lasciando in quel posto una eviden­te cicatrice. Secondo Hapgood le somiglianze lito­grafiche e stratigrafiche non esistevano affatto e in questo suo convincimento era confor­tato anche da osservazioni (piutto­sto su­perficiali) di alcuni geologi. In realtà la somiglianza delle linee costiere opposte dell’A­frica e del Sud America era stata sostenuta da un geolo­go dilettante di nome Frank B. Tay­lor (1860-1938) agli inizi del Novecento, il quale ipotizzò anche che alcune catene montuo­se del pianeta fossero state sollevate dagli urti fra i conti­nenti. La teoria tuttavia fu considera­ta stravagante anche perché il giovane geologo non fu in grado di produrre prove con­crete di ciò che andava affermando.

 

LA DERIVA DEI CONTINENTI

In Germania, invece, un teorico di nome Alfred Wegener, meteorologo dell’Università di Magde­burgo, raccolse l’idea di Taylor e la fece sua. Wegener, minore di cinque figli di un Pastore protestante, nacque a Berlino nel 1880 e dopo aver frequentato il ginnasio risul­tando il migliore della classe, si iscrisse all’Università di Berlino dove studiò fisica, meteoro­logia e astronomia. Egli non si accontentò di osservare il profilo dei continenti ma raccolse numerose anomalie presenti nei fossili animali sulle due sponde opposte delle terre, che si affacciavano sull’oceano a distanze troppo grandi per essere state percorse a nuoto.

Come avevano fatto i marsupiali, si chiedeva Wegener, a spostarsi dal Sud America al­l’Australia? Come è possibile che in Scandinavia e nella regione nord orientale degli Stati Uniti si rinvengano gli stessi gasteropodi? E inoltre come si spiegano i giacimenti carboni­feri e altri resti di vita tropicale presenti in luoghi gelidi come Spitsbergen, un’isola che si trova centinaia di kilometri a nord della Norvegia, se non ammettendo che in qualche modo vi fossero migrati da climi più caldi? Piante fossili in entrambi i depositi di carbone del nord America ed Europa, potrebbero essere spiegate solo se i due continenti fosse­ro stati uniti in passato.

Non solo i due continenti, ma tutte le terre, secondo Wegener, milioni di anni fa erano esistiti sotto forma di un’unica massa da lui chiamata Pangea, dove flora e fauna erano messe in condizione di mescolarsi per poi dividersi ed andare alla deriva fino a raggiungere le attuali posizioni. Egli espose la sua idea in un libro intitolato Die Entstellung der Konti­nente und Ozeane (La formazione dei continenti e degli oceani) pubblicato in Germania nel 1912 poco prima che scoppiasse la Grande guerra. Proprio a causa del conflitto mondiale l’opera di Wegener non attirò molta attenzione. Nel dopoguerra però, quando ven­ne pub­blicata un’edizione dell’opera riveduta e ampliata, divenne subito oggetto di discus­sione.

A quel tempo si sapeva che le terre si potevano muovere in senso verticale alzandosi e abbassandosi ma non si ammetteva il movimento in senso laterale. Il movimento verticale si chiama “isostasia” ed era noto da lungo tempo senza però che nessuno avesse mai spiegato con precisione come si verificasse e perché. Quando da studente frequentavo il liceo era ancora riportata nei testi di scienze la teoria cosiddetta della “mela” proposta dal geologo austriaco Eduard Suess (1831-1914) secondo la quale la Terra, raffreddandosi, si sarebbe raggrinzita come una mela cotta al forno. La tesi era piuttosto ingenua e non teneva conto del fatto che il geologo scozzese James Hutton avesse dimostrato che un simile assetto statico avrebbe prodotto alla fine uno sferoide senza alcuna configurazione morfologica, poiché l’erosione avrebbe livellato i rilievi e riempito gli avvallamenti. Se l’idea di Suess fosse stata corretta le montagne si sarebbero dovute trovare uniformemente distribuite sulla superficie della Terra il che evidentemente non era e inoltre avrebbero dovuto avere più o meno tutte la stessa età. Invece già all’inizio del Ventesimo secolo era stato dimostrato che alcuni rilievi come gli Urali e gli Appalachi erano molto antichi mentre ad esempio le Alpi e l’Himalaya si erano formati in tempi geologici recenti.

I tempi erano quindi maturi per una nuova teoria ma non poteva essere certo Wegener, un meteorologo tedesco, a proporla. I geologi stimolati nell’orgoglio professionale si mise­ro subito all’opera per smantellare le sue prove e sminuire i suoi suggerimenti. Per supera­re la questione della distribuzione dei fossili ipotizzarono la presenza di antichi “ponti di terra” che avrebbero consentito il passaggio degli animali attraverso l’Oceano. Quando venne scoperto un antico equide a cui fu dato il nome di Hipparion ritrovato fossile sia in Francia che in Florida, fu subito disegnato un tratto di terra che attraversava l’Atlantico. E quando furono scoperti fossili di tapiri vissuti contemporaneamente sia in Sud America, sia nel Sudest Asiatico, ecco che anche quelle terre furono collegate dal loro bel ponte. Ben presto a forza di percorsi di terra i mari preistorici finirono per diventare solidi.

Queste propaggini di terra non si erano limitate ad apparire convenientemente ovunque fosse reso necessario spostare un essere vivente da un posto ad un altro, ma erano anche diligentemente scomparse senza lasciare traccia della loro precedente esistenza. Nulla di tutto questo ovviamente si fondava sulla benché minima prova, nulla di così assurdo pote­va essere vero eppure per i successivi cinquanta anni questa fu la ferrea osservanza alla scienza della Terra. E pensare che tutto era iniziato con una critica feroce verso chi, agli oc­chi dei geologi, non aveva titolo per fare ipotesi riguardanti un ambito in cui non era com­petente.

Nemmeno i ponti di terra riuscivano a spiegare alcuni fatti osservati. Si scoprì ad esem­pio che una specie di trilobite ben conosciuto in Europa, aveva vissuto anche a Terranova ma soltanto su un versante di quell’isola. Non si riusciva a capire come avrebbe potuto il piccolo animaletto dopo aver attraversato l’oceano a non riuscire a fare ancora pochi passi per sistemarsi sull’intera isola fra l’altro di non grandi dimensioni. Ancora più imbarazzante e anoma­la era un’altra specie di trilobite rinvenuta fossile sia in Europa sia sulla sponda nord occi­dentale del continente americano senza che se ne trovasse traccia in nessuna delle terre comprese fra queste due aree. La presenza del fossile in punti lontani fra loro avrebbe ri­chiesto non tanto un ponte quanto piuttosto una sopraelevata.

Quando mi stavo laureando in geologia, nel 1962, quella di Wegener era ancora la teoria più accreditata nonostante mostrasse numerose e gravi difficoltà teoriche e nono­stante contenesse qualche assurdità come quella di affermare che la Groenlandia si muo­veva verso ovest alla velocità di 1,6 ki­lometri all’anno quando la distanza coperta in un anno da quell’isola era al massimo di un centimetro. Il meteorologo tedesco, con l’ambizio­ne per la geologia, non riuscì mai a fornire una spiegazione convincente di come si muo­vessero le masse terrestri. Eppure quel modello veniva illustrato dai docenti e imparato dagli studenti. Fu Arthur Holmes (1890-1965) il geologo in­glese che durante gli studi universitari ideò un metodo basato sul decadimento dell’uranio in piombo per determinare l’età della Terra, a comprendere che il calore derivan­te dalla radioattività poteva produrre delle correnti convettive sotterranee tali da far scivo­lare i continenti sulla superficie. Nel 1944 uscì un autorevole manuale universitario dal tito­lo Principi di geologia fisica in cui Holmes esponeva una teoria della deriva dei continenti che era insegnata nelle maggiori università del mondo, ma anche molto criticata soprattutto negli Stati Uniti. La maggior parte degli accademici americani rimase quindi ancorata alla convinzione che i continenti occupassero da sempre la loro attuale posizione. Lo stesso Holmes nutriva qualche dubbio sulla propria teoria.

L’osservazione sollevava un altro problema fondamentale che non presentava soluzione. Si trattava del fatto che i fiumi riversavano in mare tonnellate di sedimenti, una quantità di materiale roccioso che nei secoli avrebbe formato un deposito tale da riempire i bacini oceanici. Così evidentemente non era. Dove finivano allora tutti quei sedimenti? In un pri­mo tempo gli scienziati ignorarono il problema ma in seguito furono costretti ad affrontare e tentare di risolvere anche questo dilemma. Proprio in quegli anni si stavano raccogliendo le osservazioni che avrebbero por­tato ad una nuova e più convincente teoria.

 

LA NUOVA TEORIA

Durante la Seconda guerra mondiale il geologo e capitano della marina statunitense Harry Ham­mond Hess (1906-1969) era al comando di una nave per il trasporto di truppe e riforni­menti. Quest’imbarcazione era dotata di sonar, uno strumento nuovo per l’epoca progetta­to per facilitare le manovre nei pressi della costa durante gli sbarchi. Hess si rese conto che l’apparecchiatura poteva essere utilizzata per studiare il fondale oceanico e per­tanto non la spense mai nemmeno quando la nave si trovava al largo. Così scoprì una cosa del tut­to ina­spettata: il fondo dell’oceano era solcato da burroni, trincee, fenditure e disse­minato di vul­cani sottomarini che denominò guyot in onore di Arnold Guyot uno dei primi geologi dell’U­niversità in cui insegnava. Tutto questo era un vero e proprio mistero, ma in quel mo­mento c’era una guerra da combattere e quindi alla nuova scoperta ci avrebbe pensato in un se­condo momento. Terminata la guerra Hess rimase nella Marina statuniten­se come uf­ficiale di riserva, ossia disponibile in caso di emergenza, raggiungendo il grado di ammira­glio.

Nel frattempo, per tutti gli anni Cinquanta, gli oceanografi effettuaro­no rilevamenti sem­pre più sofisticati dei fondali oceanici che riservarono una sorpresa an­cora più grande. Fu osservata la più imponente ed estesa catena montuosa del pianeta: essa si trovava in gran parte sott’acqua. Se si parte dall’Islanda e si prosegue verso sud si può continuare a segui­re questa se­quenza ininterrotta di monti fino al centro dell’Oceano Atlantico. Successiva­mente, i rilievi si sistemano intorno all’Africa e lun­go l’Oceano Indiano per arrivare nel Paci­fico appena sotto l’Australia. Qui la catena disegna un angolo per dirigersi verso la Califor­nia, e procedere quindi verso la costa occidentale de­gli Stati Uniti e in ultimo arrivare a contatto con l’Alaska. Di tanto in tanto le sue cime più alte affiorano sotto forma di isole o di arcipelaghi (per esempio le Azzorre e le Canarie nell’Atlantico e le Ha­waii nel Pacifico) ma, in massima parte questi rilievi se ne stanno sommersi sotto migliaia di metri di acqua sconosciuti e insospettabili. Una volta sommata la lunghezza di tutte le diramazioni l’intera rete risulta avere una dimensione to­tale di oltre 75.000 kilometri.

In precedenza vi era stata un’avvisaglia della presenza di qualche impedimento in fon­do al mare. Gli addetti alla posa dei cavi sul fondo dell’Oceano avevano notato dal modo in cui si comportavano i cavi stessi che al centro dell’Atlantico doveva esserci una qualche sporgenza montuosa. Ma le sorprese non erano finite. In mezzo alla cresta nel tratto della catena che percorreva l’Oceano Atlantico si notava un’ampia spaccatura che suggeriva che la Terra si stava rompendo. Era un’idea assurda, ma questo mostravano le ricerche. I campioni di carotaggio suggerivano inoltre che il fondo dell’Oceano era abbastanza recente in pros­simità della dorsale medio atlantica ma diventava progressivamente più antico allontanan­dosi da essa sia verso ovest sia verso est. L’osservazione poteva significare un’unica cosa: nuova crosta oceanica si stava formando su entrambi i lati della spaccatura centrale e veniva allontanata a mano a mano che la stessa si formava e avanzava. Il fondale atlantico appariva formato da due nastri trasportatori: uno che spingeva la crosta verso il Nord America e l’altro che la spingeva verso l’Europa. Il processo divenne noto come espansione dei fondi oceanici.

Quando la crosta oceanica arrivava al contatto con i continenti sprofondava in un pro­cesso noto come subduzione: ecco spiegato dove andavano a finire i sedimenti che i fiumi ri­versavano in mare: venivano restituiti alle viscere della Terra. L’osservazione spiegava an­che il motivo per il quale i fondi oceanici fossero dappertutto relativamente recenti. Le rocce dei fondali oceanici durano solo il tempo che occorre loro per arrivare alle coste. Na­sceva un’ottima teoria ma l’articolo di Hess nel quale lo scienziato militare la spiegava venne quasi completamente ignorato dalla comunità scientifica. Ciò dimostra una volta di più che le nuove idee in questo campo non sempre vengono accettate con entusia­smo e prontezza.

Le scoperte che sul momento non avevano incuriosito la comunità scientifica col tempo assunsero sempre maggior peso. All’inizio del Novecento alcuni geofisici avevano osservato che il campo magnetico terrestre di tanto in tanto si invertiva. Il fenomeno era stato scoperto grazie alle piccole quantità di materiale ferroso presente in rocce fuse il quale conservava la direzione che aveva assunto rispetto ai poli magnetici una volta che la roccia si era raffreddata e solidificata. In altre parole il materiale ferroso conservava la posizione assunta rispetto ai poli magnetici nel momento della formazione della roccia. Lo studio delle antiche configurazioni magnetiche bloccate nelle rocce indicava fra le altre cose che in un lontano passato la Gran Bretagna aveva ruotato sul suo asse e si era mossa un poco in direzione nord come se si trattasse di una nave che si era liberata degli ormeggi. Questo, insieme ad altri fenomeni analoghi, portarono a concludere che il fondale marino si espandeva esattamente come aveva ipotizzato Hess.

A questo punto, l’idea di una crosta mobile era ormai matura. L’espressione “deriva dei continenti” venne abbandonata perché ci si convinse che a muoversi era l’intera crosta e non solo i continenti. Restava da definire il nome da dare ai singoli segmenti di crosta che, scartata una serie di proposte, vennero definiti “placche” e al fenomeno complessivamente fu assegnato il nome di tettonica, dal greco tekt?n che significa “costruttore”. Nasceva una teoria che offriva una visione nuova, unitaria e completa della superficie del pianeta. Oggi la teoria è nota come “tettonica a placche” e prevede la presenza di una decina di grandi placche e di una ventina di piccole che si muovono tutte in direzioni diverse e a diversa ve­locità. Le placche di grandi dimensioni si muovono lentamente mentre le piccole sono più dinamiche. Alcune portano su di sé le masse di terraferma come la placca nordamericana che è molto più grande del continente al quale è associata. Il continente nordamericano non sta al centro della placca ma è spostato verso ovest in modo che il suo bordo coincida a grandi linee con quello della placca che si muove in direzione ovest e questo è il motivo per il quale sulla costa occidentale del continente è presente un’attività sismica molto intensa. La linea costiera orientale è invece del tutto tranquilla dal punto di vista sismico perché si trova al centro della placca. L’Islanda, per fare un altro esempio, è divisa a metà il che la rende, sotto il profilo tettonico, per metà americana e per metà euro­pea mentre la Nuova Zelanda è parte dell’immensa placca dell’Oceano Indiano sebbene non si trovi affatto vicino ad esso. Discorso analogo vale per la maggior parte delle placche.

 

IL FUTURO

I rapporti tra le masse continentali attuali e quelle del passato si sono rivelati molto più complessi del previsto. Il continuo muoversi e scontrarsi ha impedito alle placche di fondersi in un’unica struttura immobile. Supponendo che le cose continuino a funzionare più o meno come adesso, in futuro l’Oceano Atlantico si espanderà fino a diventare molto più grande del Pacifico. La penisola californiana si staccherà dal continente americano e formerà una sor­ta di Madagascar del Pacifico. L’Africa si spingerà verso nord comprimendo il Mediterraneo fino a farlo scomparire e dando luogo ad una formazione montuosa imponente quanto quella himalayana. Intrappolata nella morsa ben poco rimarrà dell’Italia. Tutti questi sono esiti futuri di eventi che tuttavia sono già in corso. Europa e Nord America si stanno separando alla velocità di due o tre centimetri all’anno. È solo la brevità della vita dell’uomo che impedisce di apprezzare i cambiamenti in atto.

La Terra è l’unico pianeta roccioso ad avere una tettonica a vedere cioè la sua superficie tormentata da ogni sorta di attività fisica e chimica. Il motivo per il quale ciò avvenga è veramente un mistero che non dipende esclusivamente dalle dimensioni o dalla consistenza dei materiali che formano il pianeta. Venere, ad esempio, che è quasi un gemello della Terra, non pre­senta tuttavia attività vulcanica, terremoti, formazioni di montagne o movimenti delle placche. Gli spostamenti di frammenti di crosta terrestre indubbiamente avranno prodotto modifiche climatiche e la distribuzione di flora e fauna sui continenti. La composizione chimica dei mari è cambiata molte volte nel tempo e con essa sono cambiati gli organismi marini che hanno affollato quell’ambiente.

I terremoti, la formazione di catene montuose, l’attività vulcanica, il ciclo del carbonio, l’avvento delle ere glaciali, l’origine stessa della vita sono state direttamente influenzate dalla tettonica a placche. La posizione dei continenti nelle epoche precedenti la nostra è una questione molto più complessa di come appare alle persone che non hanno una co­noscenza profonda della fisica terrestre. Per quanto i libri di testo forniscano rappresenta­zioni apparentemente sicure delle antiche masse terrestri indicate con i nomi di Pangea, Gondwana e Laurasia non si tratta affatto di posizioni chiare.

La divisione iniziale della Pangea in due grandi blocchi: Gondwana e Laurasia si basava in lar­ga misura sulla distribuzione di una felce fossile, la Glossopteris, che in un primo tempo si pensava fosse presente solo nei continenti che formavano il Gondwana: Australia, Africa, Antartide e Sud America. In seguito lo stesso fossile fu rinvenuto anche in luoghi che non avevano alcuna connessione con Gondwana. Un caso analogo è quello di un rettile del Triassico che era stato ritrovato in Antartide e Asia, confermando l’ipotesi di una precedente connessione fra questi due continenti; tuttavia lo stesso fossile non è mai stato ritrovato in Sud America e in Australia che, come abbiamo visto, facevano parte anch’esse del Gondwa­na.

Vi sono anche alcune caratteristiche della superficie terrestre che la tettonica non rie­sce a spiegare. Una di queste è quella di Denver la capitale dello stato del Colorado (USA). Il suo soprannome è Mile-High City (città alta un miglio), dato che la sua altezza è di un miglio sul livello del mare, una altezza media compresa fra i 1.560 e i 1.730 metri circa. Eppure le rocce su cui poggia la città non sono fratturate o deformate come ci si aspetterebbe se fossero state spinte verso l’alto dalla collisione delle placche. Quando i dinosauri erano presenti sulla Terra l’area di Denver faceva parte di un fondale oceanico molte centinaia di metri sotto il livello del mare. Cosa l’ha spinta tanto in alto? Fenomeni analoghi si sono riscontrati in Africa e in Australia.

Per concludere dobbiamo ricordare i protagonisti della teoria più rivoluzionaria della storia della Terra. Alfred Wegener non visse abbastanza a lungo per assistere all’evoluzione delle sue idee. Nel 1930, nel corso di una spedizione in Groenlandia, si allontanò da solo, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, alla ricerca di rifornimenti paracadutati e non fece più ritorno al campo base. Fu ritrovato, qualche giorno dopo, morto assiderato. Lo seppellirono sul posto e in quel luogo giace ancora, per quanto si sia avvicinato di circa un metro al Nord America rispetto al giorno in cui morì.

Anche Einstein non visse abbastanza a lungo per rendersi conto che la prefazione allo scritto di Hapgood era inopportuna. Morì nello stesso anno in cui con il suo scritto stroncava la teoria della deriva dei continenti.

Harry Hess il geologo che ebbe un ruolo da protagonista nella nascita della teo­ria della tettonica a placche concluse la sua carriera di insegnante a Princeton, la stessa cit­tà in cui morì Einstein. Fra i suoi studenti non si può fare a meno di ricordare Walter Alva­rez un geologo e archeologo americano nato nel 1940 che fu attivo anche in Ita­lia. Al­varez si laureò in geologia nel 1962 per poi ottenere il dottorato nell’Università di Princeton nel 1967. il suo nome è legato al nostro Paese per le ricerche che fece a Gubbio dove indi­viduò, in un livello stratigrafico nei pressi di quella città, una notevole concentra­zione di iridio un elemento raro sulla Terra ma molto comune nelle meteoriti.

Nel 1977 questo scienziato con la guida del padre Luis, premio Nobel per la fisica, cominciò a interessarsi degli impatti di meteoriti ipotizzando che a feno­meni di questo genere fossero legate le estinzioni di massa, in particolare quella verificatasi circa 65 milioni di anni fa. Queste osservazioni portarono inizialmente all’individuazione di iridio in un livello stratigrafico nei pressi di Gubbio e furono confermate in seguito nel Cratere di Chicxulub, una struttura circolare nella penisola dello Yucatan, sede di impatto di un me­teorite del diametro di almeno 10 km che si pensa abbia colpito la Terra con conseguente estinzione di circa il 76% delle specie viventi, compresi i dinosauri.

Prof. Antonio Vecchia

Reply