Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia?

La tradizione popolare, in tempi passati, usava spesso associare i giorni dell’anno a fenomeni meteorologici o astronomici. Chi non ricorda, ad esempio, detti popolari come “San Benedetto, la rondine sotto il tetto” (21 marzo), “Estate di San Martino” (11 novembre), o “Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia” (13 dicembre), solo per citare i più noti? Sono tutti veri? Corrispondono, cioè, tutti esattamente ai fenomeni astronomici e climatici ai quali fanno riferimento?

In realtà ciò non avviene quasi mai: la cosa dipende principalmente dal fatto che i detti popolari in genere sono molto antichi mentre il calendario, nel corso del tempo, ha subito slittamenti e modifiche tali da produrre profondi sfasamenti tra i fenomeni naturali e i giorni dell’anno a cui tali fenomeni erano stati collegati.

 

LE MOLTEPLICI TRAVERSIE DEL CALENDARIO

Come molti sanno il calendario attualmente in uso trae origine da quello promulgato nel 44 a.C. da Giulio Cesare. Questi, su suggerimento dell’astronomo egiziano Sosigene, al fine di mantenere il computo del tempo in sincronia con gli eventi astronomici e meteorologici, aveva introdotto alcuni giorni extra da aggiungersi, uno ogni quattro anni, ai normali 365 di ciascun anno. In questo modo venivano recuperate quelle sei ore in più necessarie per completare la rivoluzione della Terra intorno al Sole la quale, com’è noto, non si compie in un numero intero di giorni.

Sennonché l’aggiunta di un giorno ogni 4 anni si dimostrò troppo abbondante e, come un orologio che va avanti nel tempo, il nuovo calendario accelerava troppo rispetto alle stagioni, le quali, dopo alcuni secoli, non coincidevano più con i giorni dell’anno ai quali erano state inizialmente collegate.

Il divario fra la data segnata sul calendario e il tempo meteorologico divenne evidente nel 325 quando si radunò il Concilio di Nicea che, fra le altre cose, decise di fissare definitivamente la data della Pasqua la quale, a quel tempo, non veniva celebrata ovunque nello stesso giorno. In quell’occasione, chiarite finalmente le discordi interpretazioni del racconto evangelico, si stabilì che la Pasqua dovesse essere celebrata un po’ dopo l’equinozio di primavera. In quegli anni, l’equinozio di primavera cadeva quando il calendario segnava la data del 22 marzo, mentre, quando lo stesso fu varato, cioè ai tempi di Giulio Cesare, il fenomeno astronomico della primavera cadeva più tardi e precisamente il 25 dello stesso mese.

Il termine equinozio deriva dal latino “aequa nox” che significa “notte uguale” e lo si può intendere in due modi diversi e cioè o come “notte uguale al giorno” o come “notte uguale in ogni luogo”; vanno bene entrambi i significati in quanto in quel giorno, o meglio, in quei giorni (equinozio di primavera ed equinozio d’autunno) il circolo di illuminazione (cioè la linea che separa, sulla superficie terrestre, la zona illuminata dal Sole da quella buia) coincide con i meridiani e quindi taglia in due parti uguali i paralleli i quali si vengono così a trovare per metà della loro lunghezza alla luce e per l’altra metà al buio. In conseguenza di ciò, in quei due giorni dell’anno, tutti i punti della Terra hanno il giorno, o, più esattamente, il dì (cioè le ore di luce) uguale alla notte.

Nel 525 papa Giovanni I si assunse l’onere di rendere operative le indicazioni che erano emerse in occasione del Concilio di Nicea, riguardo alla determinazione della data della Pasqua. Egli per fare in modo che quella ricorrenza negli anni futuri potesse venire celebrata sempre nelle identiche condizioni climatiche e astronomiche (cioè in pratica a primavera e con la notte illuminata dalla luna), decise di farla cadere la domenica seguente il primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera. A quel tempo l’equinozio di primavera cadeva quando sul calendario era il 21 marzo, quindi un giorno prima rispetto al tempo in cui fu deciso di scegliere quel fenomeno astronomico per fissare la Pasqua: ma negli anni successivi quell’evento sarebbe arretrato sempre di più fino a che, verso la fine del XVI secolo, sarebbe retrocesso addirittura all’11 di marzo.

La data della Pasqua, nei secoli successivi alla definizione che ne dette papa Giovanni I, continuò ad essere calcolata sempre in riferimento al 21 marzo come se in quel giorno continuasse a cadere l’equinozio di primavera. Questo invece, come abbiamo detto, arretrava lentamente ma inesorabilmente rispetto ai giorni del calendario, con la conseguenza che la Pasqua, anno dopo anno, veniva festeggiata a primavera sempre più inoltrata. Si giunse così ad un punto tale che, nel 1582, divenne concreta la preoccupazione, da parte dell’autorità ecclesiastica, che se fosse rimasto in uso il calendario di Giulio Cesare, la Pasqua avrebbe finito per essere celebrata in estate e quindi in condizioni climatiche e meteorologiche completamente diverse da quelle indicate nel Concilio di Nicea. Si trattava, allora, di por mano al calendario per riformarlo radicalmente al fine non solo di rimetterlo in sintonia con i fenomeni stagionali, ma anche di eliminare il difetto che lo faceva arretrare rispetto al tempo reale.

A modificare il calendario ci pensò papa Gregorio XIII il quale, come prima operazione, vi soppresse 10 giorni per fare in modo che l’equinozio di primavera tornasse a cadere alla data del 21 di marzo come era nel 525 quando papa Giovanni I fissò definitivamente la data della Pasqua tuttora in uso. In seguito a quella modifica, insieme con l’equinozio di primavera, si trovarono spostati all’indietro nel tempo tutti i fenomeni astronomici e stagionali che da allora tornarono a collimare con le date del calendario in uso nel VI secolo dopo Cristo. Ma i detti popolari, ideati su un calendario che, come abbiamo visto, non andava al passo con il tempo, non trovarono più esatto riscontro nei giorni dell’anno a cui gli stessi detti facevano riferimento. Per quanto riguarda il numero dei giorni di sfasamento fra fenomeno astronomico o climatico e data segnata sul calendario, questo risultava variabile da caso a caso e dipendeva, ovviamente, dall’epoca in cui il detto popolare, riferito a quel determinato fenomeno, fu ideato. In pratica quanto maggiore era il divario fra la data indicata dal detto popolare e quella segnata sul calendario tanto più lontano nel tempo si sistemava la data di origine del detto popolare.

Nel nostro caso, proprio le lunghe traversie cui è stato sottoposto il calendario spiegano il motivo per il quale il “giorno” più corto dell’anno si trova associato alla festa di S. Lucia (13 dicembre) invece che al solstizio d’inverno (21 o 22 dicembre a seconda degli anni) come logicamente dovrebbe essere. Il divario è di otto o nove giorni e corrisponde a uno o due in meno della correzione apportata al calendario da papa Gregorio XIII nel 1582 e questo fornisce un’indicazione abbastanza precisa del momento in cui il detto popolare fu varato.

Proviamo infatti a chiederci in quale momento storico il dì più corto dell’anno capitava il 13 di dicembre, data della festa di S. Lucia, e non il 21 come è oggi. Qual è stato, in altre parole, l’anno in cui il solstizio invernale cadeva quando sul calendario si leggeva la data del 13 dicembre? Se si fanno bene i conti, si scopre che ciò doveva verificarsi intorno al 1200 e quindi, se il nostro proverbio fosse nato all’incirca negli anni in cui visse Dante, quell’evento si accorderebbe perfettamente con il calendario del tempo e il divario fra il fenomeno astronomico e la data a cui tale fenomeno è associato troverebbe spiegazione chiara e coerente.

 

SANTA LUCIA : UN ESEMPIO DI VIRTU’

Forse però è possibile anche una diversa spiegazione della mancata corrispondenza fra l’affermazione contenuta nel detto popolare e l’autorità della scienza astronomica ma prima di esporla è opportuno conoscere chi fosse la Lucia a cui fa riferimento il detto popolare, e capire per quale motivo ad essa è legata la festa della luce e per quale ragione i fedeli la considerino protettrice della vista.

Lucia, una ragazza di nobile e ricca famiglia siracusana, all’epoca delle persecuzioni di Diocleziano (304 d.C.) era stata promessa in sposa ad un pagano, che ella rifiutò per mantenere fede ad un voto fatto a S. Agata. Il voto, per la guarigione della madre, consisteva nella promessa di rimanere vergine e di distribuire tutti i suoi beni ai poveri. Sennonché il fidanzato respinto l’accusò di essere cristiana e la denunciò al prefetto Pascasio, il quale avrebbe anche tentato di abusare di lei. Si racconta che la donna, per sottrarsi al suo pretendente, si sia strappata gli occhi e glieli abbia gettati ai piedi, ma questo episodio, quasi sicuramente, è una leggenda, mentre è certo che Lucia venne uccisa dopo essere stata sottoposta ad atroci tormenti.

Il suo culto, dapprima localizzato in Sicilia, si diffuse successivamente nel resto d’Italia e in Europa ed oggi è molto vivo soprattutto nei paesi del nord dove, per la tradizione popolare, Santa Lucia (il cui nome, forse non a caso, deriva dal latino “lux” che significa “luce”) è festeggiata come portatrice della luce che annuncia la fine delle tenebre invernali. Per quanto riguarda la festività è certo che il suo nome fu inserito nel calendario, alla data del 13 dicembre (che sembra coincidere con quella del suo martirio), nel V o VI secolo. Evidentemente il riferimento astronomico, come abbiamo visto, venne associato a quel nome (e a quel giorno) solo in epoca successiva.

 

L’ORA DEL SORGERE E DEL TRAMONTARE DEL SOLE

La spiegazione alternativa al divario fra detto popolare e realtà astronomica, a cui si è fatto cenno sopra, andrebbe ricercata da un lato nella convenzione di far uso, nella vita civile, del tempo solare medio invece che del tempo solare vero, e dall’altro in motivi di carattere psicologico.

Ora, come abbiamo appena detto, il dì, ossia l’intervallo di tempo che intercorre fra l’istante in cui al mattino il Sole compare all’orizzonte e quello in cui la sera scompare sotto l’orizzonte, si va sempre più accorciando nel corso dell’anno fino a che il 21 o il 22 dicembre, cioè nel giorno del solstizio invernale, diventa il più breve di tutto l’anno.

Se però prendiamo in considerazione solamente uno di questi due estremi e precisamente quello del tramonto, ci accorgiamo che il giorno in cui il Sole tramonta prima non coincide con il dì più corto dell’anno. Per la precisione il dì più corto dell’anno non è né quello in cui la sera il Sole tramonta più presto, né quello in cui al mattino sorge più tardi. Questo fenomeno, noto fin dall’antichità, diventa evidente solo nei luoghi posti a latitudine intermedia (fra i 40 e i 60 gradi), e quindi, per quanto ci riguarda, in gran parte dell’Europa.

Prima di dare una spiegazione della non perfetta simmetria temporale fra il sorgere e il tramontare del Sole vediamo di fissare con precisione alcuni valori sui quali impostare i nostri ragionamenti. A tale fine abbiamo consultato l’almanacco astronomico dell’Unione Astrofili Italiani del 1995, dove si può leggere che ad una latitudine corrispondente all’incirca a quella della città di Roma, il giorno in cui il Sole tramonta più presto (ore 16 e 40 minuti) è il 10 dicembre, quindi addirittura qualche giorno prima di quello a cui fa riferimento il detto popolare. Nello stesso giorno – si legge nell’opuscolo – il Sole sorge alle ore 7 e 28 minuti e pertanto le ore complessive di luce sono 9 e 12 minuti. Nel giorno del solstizio invernale (22 dicembre) il Sole sorge alle ore 7 e 36′ e tramonta alle ore 16 e 43′ e questo è, effettivamente, il giorno in cui è minore il numero delle ore di luce (9h e 7′).

Nei giorni successivi a quello del solstizio, la durata delle ore di luce ricomincia a crescere e il dì si allunga, ma stranamente l’ora del sorgere del Sole continua a farsi sempre più tarda raggiungendo il valore massimo alla data del 5 gennaio (ore 7 e 40′). La cosa interessante è che, in questo caso, non si ha la stessa impressione di “giorno più breve” quale si percepisce osservando il tramonto. Evidentemente la gente, al mattino, non ha tempo (né voglia, forse) di mettersi a controllare l’ora in cui sorge il Sole.

Come mai l’ora minima del tramonto si ha intorno al 10 di dicembre e quella massima del sorgere intorno al 5 di gennaio, mentre a rigore di logica, questa situazione dovrebbe verificarsi il 21 o 22 dicembre?

 

IL SOLE VERO E IL SOLE MEDIO

La risposta va ricercata nel fatto che l’illuminazione è prodotta dal Sole vero, mentre le ore riportate sugli almanacchi (e sugli orologi) si riferiscono al Sole medio. Per capire la differenza fra Sole vero e Sole medio dobbiamo partire un po’ da lontano e definire innanzitutto quell’unità fondamentale di misura del tempo che chiamiamo «giorno».

Con questo termine comunemente si intende il periodo di tempo che la Terra impiega per compiere una rotazione completa intorno al proprio asse, ma in realtà, a seconda di come viene misurato, si distinguono due tipi diversi di giorno che vengono detti, rispettivamente, «giorno sidereo» e «giorno solare».

Il giorno sidereo è l’intervallo di tempo che intercorre fra due passaggi successivi di una stella per un determinato punto del cielo, per esempio per il punto più alto dell’orizzonte; mentre il giorno solare è l’intervallo di tempo che intercorre fra due passaggi successivi del Sole per uno stesso punto. Ora poiché la Terra mentre ruota su sé stessa gira anche intorno al Sole, il giorno solare dura un po’ di più del giorno sidereo che viene misurato, come abbiamo detto, facendo riferimento ad una stella lontana rispetto alla quale la Terra praticamente non ha movimenti. Inoltre, mentre quest’ultimo può considerarsi un intervallo di tempo praticamente costante, la durata del giorno solare è variabile.

Il giorno sidereo, proprio perché costante, rappresenterebbe, pertanto, un’ottima unità di misura del tempo se non fosse che la nostra vita è regolata dalla presenza del Sole e non da quella delle stelle ed è necessario quindi che il computo del tempo faccia riferimento al movimento del Sole e non a quello degli altri astri. Ora, però, un orologio che seguisse i movimenti del Sole segnerebbe intervalli di tempo variabili nei diversi periodi dell’anno, mentre, per gli usi civili, serve un orologio che indichi un tempo regolare per tutto l’anno. Pertanto, proprio al fine di ovviare a questo inconveniente, si è convenuto di far riferimento a quello che viene chiamato «giorno solare medio» che è un intervallo di tempo rigorosamente costante in quanto risulta dalla media delle durate di tutti i giorni dell’anno e misura esattamente 24 ore.

Possiamo quindi immaginare in cielo due «Soli», uno vero ed uno fittizio, girare intorno alla Terra (apparentemente) a velocità diverse. Il Sole vero gira in modo irregolare e, a volte precede il Sole fittizio e a volte lo segue, impiegando quindi a volte un po’ più di 24 ore per ritornare al punto di partenza, a volte un po’ meno di 24 ore. Il Sole fittizio gira invece, per tutto l’anno, sempre alla stessa velocità ed impiega sempre 24 ore per tornare al punto di partenza. Naturalmente il Sole vero è quello che può essere osservato direttamente in cielo (se non vi sono nubi) in ogni momento del dì, mentre il Sole fittizio (e lo dice il nome stesso) non esiste, in quanto è un’astrazione che viene utilizzata per determinare la durata costante del giorno solare medio.

Come abbiamo visto, vi è una differenza che può anche annoverare alcuni minuti fra il tempo vero, segnato dal movimento del Sole vero, e quello medio, segnato dal movimento del Sole fittizio, mentre vi sono quattro giorni dell’anno in cui i due tempi coincidono. La differenza fra il tempo vero e il tempo medio si chiama «equazione del tempo».

Il tempo vero di un luogo si può determinare osservando semplicemente l’altezza del Sole sull’orizzonte: questa viene comunemente rilevata dalle meridiane (o orologi solari) le quali sono strumenti molto semplici, che mettono in relazione l’ora della giornata con la direzione dell’ombra proiettata da un’asta su di un piano. Il tempo medio, invece, è quello indicato dai nostri orologi. La differenza di ora, che come abbiamo detto si chiama equazione del tempo, normalmente si legge su di un diagramma a forma di otto detto «analemma», che spesso appare disegnato sugli orologi solari.

 

LA GIUSTIFICAZIONE ALTERNATIVA

Come possiamo quindi giustificare, alla luce di quanto abbiamo visto, la discrepanza che esiste, nel detto popolare, fra il “giorno” più corto dell’anno e la data in cui si festeggia S. Lucia? Innanzitutto attribuendo all’anonimo ideatore del detto una scarsa conoscenza dei fenomeni astronomici ma forse anche una certa superficialità, per non essersi preoccupato di andare a controllare, in quel giorno, insieme all’ora del tramonto anche quella del sorgere del Sole.

Il nostro personaggio, in altre parole, non avendo una profonda conoscenza dei fenomeni astronomici, si sarebbe lasciato ingannare dal fatto che, poiché nel giorno di S. Lucia il Sole effettivamente tramonta prima che in qualsiasi altro giorno dell’anno, in quello stesso giorno esso avrebbe dovuto anche sorgere più tardi e quindi sarebbe stato superfluo andare ad effettuare un controllo per vedere se effettivamente si fosse trattato del giorno più corto.

A meno che la mancata verifica della levata del Sole non sia dipesa dalla pigrizia: infatti se il nostro misterioso ideatore del detto fosse stata una di quelle persone abituate ad alzarsi la mattina quando il Sole è già alto nel cielo, il 13 dicembre avrebbe potuto benissimo rappresentare per lui il “giorno più corto” dell’anno.

Se fosse valida quest’ultima spiegazione, il nostro detto popolare che, con qualche scusa alla rima, dovrebbe venire modificato in: “Santa Lucia, il giorno in cui il Sole tramonta prima”, non dovrebbe essere molto antico e comunque non antecedente al 1582, in quanto, rispondendo ancora oggi al vero, dovrebbe essere stato ideato dopo la riforma di papa Gregorio XIII, quando il calendario cominciò a procedere in perfetta sintonia con i fenomeni astronomici. Papa Gregorio XIII, infatti, quando riformò il calendario, non solo eliminò da esso 10 giorni, ma allo scopo di non farlo più arretrare nel tempo stabilì che alcuni anni, che avrebbero dovuto essere bisestili, secondo il metodo di Giulio Cesare, non venissero più considerati tali. Più precisamente, egli impose che venissero saltati gli anni bisestili secolari eccetto quelli le cui due prime cifre risultassero divisibili per quattro, quindi il 1600, il 2000, ecc. In questo modo venivano eliminati tre giorni ogni 400 anni con la conseguenza che, per molti secoli, il calendario sarebbe andato al passo con i fenomeni astronomici senza la necessità di ulteriori ritocchi.

A questo punto però per completezza d’informazione, sarebbe ancora da spiegare il fatto che il giorno in cui il Sole tramonta prima alla sera in realtà non è il 13, ma il 10 di dicembre. Questa minima differenza, tuttavia, per un detto popolare, è senz’altro tollerabile, soprattutto se si tratta di far coincidere il giorno più buio dell’anno con quello nel quale si festeggia una Santa che si strappò gli occhi per sottrarsi ad un pretendente indesiderato.

Prof. Antonio Vecchia

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