L’inno di Mameli

L’inno di Mameli forse non è di Mameli. Così esordisce Aldo Alessandro Mola, già docente di Scienze Politiche alla Statale di Milano e autore di biografie e numerosi saggi, nel tracciare il profilo di colui che è considerato l’autore di quello che diventerà l’inno nazionale della Repubblica Italiana. Goffredo Mameli, morto ventiduenne nel 1849, avrebbe scritto le parole dell’Inno d’Italia nel 1846 quando era studente presso i padri Scolopi a Carcere, cittadina dell’entroterra savonese.

In una biografia di Giosuè Carducci, il professore scrisse proprio che Goffredo Mameli non è l’autore di “Fratelli d’Italia” e ricorda che quell’inno fu scelto dall’Assemblea Costituente il 12 ottobre del 1946 in gran fretta perché bisognava trovare un inno che sostituisse la Marcia Sabauda da eseguire nell’imminente 4 novembre.

In quell’occasione furono proposti altri inni come quello di Garibaldi e la canzone del Piave, ma vennero scartati tutti. Fu scelto l’Inno di Mameli, ma come semplice “Inno Militare” e negli anni successivi, nonostante l’iniziativa di diversi parlamentari, non fu mai riconosciuto come inno ufficiale dello Stato Italiano.

Il professore Mola è giunto al convincimento che quell’inno non fosse “farina del sacco dl Mameli” per il fatto che il testo non esprime un linguaggio giovanile quale avrebbe dovuto essere quello di un ragazzo di diciannove anni, ma piuttosto il pensiero di un pedagogo colto, ossia quello del suo insegnante, padre Anastasio Canata. I dubbi sono aumentati quando vennero analizzati con l’occhio dello storico alcuni scritti del Mameli. Dal collegio di Carcere Goffredo scriveva alla madre che stava facendo proprio una bella vita mangiando fino a “strafogarsi”, dormendo molto e studiando poco. Nei suoi scritti non si individua alcun ideale patriottico, né il desiderio di scrivere poemetti. Da quel poco che si è riusciti a recuperare dei suoi lavori del periodo scolastico risultava che era anche sgrammaticato.

Aveva fama di essere un “signorino” discendente di una nobile famiglia genovese che annoverava fra i suoi antenati un nonno nominato cavaliere e nobile da Vittorio Amedeo III, re di Sardegna. Dopo aver frequentato per qualche tempo le scuole pie dei padri Scolopi di Genova, quel ragazzo fu trasferito a Carcere dopo essere venuto alle mani con un compagno.

Nel 1949 si trova a Roma dove combatte contro i Francesi che assediavano la città. Secondo il professore Mola, Mameli sarebbe morto dopo essere stato ferito ad una gamba da un proiettile esploso da un suo commilitone. Ricoverato all’ospedale militare, fu curato male tanto che la gamba andò in cancrena e gli fu amputata, ma l’operazione non fu sufficiente a salvargli la vita.

A proposito di padre Anastasio Canata, il professore Mola ricorda che, come d’altronde scrisse lo stesso sacerdote di sé stesso, egli era un prolifico autore di poesie e tragedie. Nato a Lerici, nel golfo della Spezia, Canata, intellettuale di notevole vaglia, all’epoca aveva 35 anni. Tutte le sue opere sono infuse del cristianesimo liberale di ispirazione giobertiana concetti che si ritrovano anche nell’inno dei “Fratelli d’Italia” dove si può leggere: “l’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore”.

 

LA BIOGRAFIA UFFICIALE

Del tutto diverso è il profilo che di questo ragazzo fa Carlo Alberto Barrili, amico e biografo di Mameli, alcuni anni dopo la sua morte. Siamo a Torino e – racconta il Barrili – una sera di settembre del 1847 a casa di Lorenzo Valerio, patriota e scrittore di buon nome si faceva musica e politica insieme, quando entrò in casa il pittore Ulisse Borzino il quale estrasse dalla tasca un foglietto che consegnò al maestro Michele Navarro dicendogli che gli era stato consegnato da Mameli in persona. Navarro legge il contenuto e si commuove fino alle lacrime. Alcuni anni più tardi, il maestro racconterà che immediatamente si mise al cembalo e buttò giù in fretta e furia alcune frasi melodiche che male si adattavano ai versi del Mameli. Rientrato a casa gli tornò alla memoria il motivo strimpellato poco tempo prima e con l’aiuto del pianoforte, ne scrisse le note su un foglio di carta. E così nacque l’inno “Fratelli d’Italia”.

Il Barrili racconta quindi che l’inno venne scritto da Mameli nel 1847 quando stava per laurearsi in filosofia all’Università di Genova e non un anno prima quando era ancora studente in collegio, come racconta il professor Mola. Mameli non terminò mai gli studi perché gli eventi della Patria (?) lo attirarono verso altre mete. Il suo biografo ufficiale racconta che, per il Mameli, l’amore per l’Italia e la passione per la poesia andavano di pari passo.

Oltre all’inno citato il Mameli compose altre liriche che, anche se non originali, sono apprezzate per la spontaneità e per i sentimenti romantici che esprimono.

Nel marzo del 1848 dopo aver radunato 300 giovani partì con loro alla volta della Lombardia dove prese parte alla prima guerra d’indipendenza, nel corso della quale conobbe Mazzini. Tornato a Genova, per ispirazione di lui compose l’inno militare che fu musicato da Verdi. Divenne poi un fervente ammiratore di Garibaldi che raggiunse a Ravenna, seguendolo poi a Roma, da dove poco prima era fuggito papa Pio IX.

Qui scrisse una serie di articoli che vennero pubblicati sul giornale locale e pronunciò ardenti discorsi durante una serie di comizi per dimostrare l’opportunità di creare una costituente italiana. Dopo un viaggio che lo portò per un breve periodo a Genova per aderire alla rivoluzione appena iniziata, ritornò a Roma in tempo per combattere contro i Francesi e al Gianicolo, alla difesa della villa del Vascello, fu ferito ad una gamba ma dopo un mese, a causa di mancanza di cure efficaci, morì da eroe.

È evidente che la cronistoria di Goffredo Mameli che ne fanno i due biografi non coincide. Qual è quella vera? Forse si può giungere ad un compromesso immaginando che l’inno sia stato scritto da Mameli con l’aiuto e i suggerimenti del suo professore in una data compresa fra il 1846 e il 1847, quando il ragazzo aveva appena abbandonato il collegio e si era iscritto all’Università di Genova.

L’inno è suonato soprattutto nelle caserme e in occasione di competizioni sportive dove però, qualora si escludano le gare di calcio, viene eseguito solo in caso di vittoria. I capi di Stato e una parte dell’opinione pubblica hanno molto insistito perché i giocatori di pallone cantassero durante l’esecuzione dell’inno e in parte ci sono riusciti. Viene tuttavia da chiedersi se tutti quei giovani ragazzi che in genere hanno una cultura piuttosto modesta conoscano realmente il significato di quelle parole. Cosa è “l’elmo di Scipio”? Sanno che si tratta dell’elmo dell’eroico generale romano Publio Cornelio Scipione detto l’Africano che nel 202 a .C. sconfisse il generale cartaginese Annibale nella famosa battaglia di Zama? Sanno i giovani sportivi qual è il significato di quel “stringiamci a coorte”? Sanno che la “coorte” era un’unità da combattimento dell’esercito romano e che ovviamente nulla ha a che vedere con la “corte”?

In molti ritengono che l’inno sia brutto, in realtà la musica allegra e fanciullesca mal si adatta ad un testo dalla retorica roboante e alle frasi sconclusionate che si riferiscono a personaggi e a fatti dell’antica Roma, che larga parte dei cittadini ignora. Lo scritto, più che l’unità della Repubblica, esalta le gesta della Roma imperiale. Si potrebbe rimediare riscrivendo le parole, come ha fatto la Russia con il proprio inno dopo la fine del comunismo, lasciando immutata la musica.

Prof. Antonio Vecchia

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