L’origine della Vita

LA GENERAZIONE SPONTANEA

Fino alla metà del XVII secolo era convincimento comune che Dio avesse creato l’uomo e gli altri organismi superiori, mentre gli anfibi, i vermi, gli insetti e in generale gli animali di più piccole dimensioni si sarebbero generati spontaneamente dal fango o da sostanze in decomposizione.

Questo convincimento ha origini molto lontane. Nella Cina antica, ad esempio, la gente pensava che dai bambù si generassero spontaneamente gli afidi, e documenti sacri dell’India testimoniano della nascita spontanea di mosche dal sudore e dalla sporcizia. Secondo i babilonesi, poi, il fango dei canali generava vermi.

Per i filosofi greci la vita era insita nella materia stessa e da essa emergeva spontaneamente quando le condizioni si facevano favorevoli: essi credevano, ad esempio, che pesci e rane si generassero dal putrido fango del Nilo.

Aristotele raccolse le idee relative alla generazione spontanea formulate dai filosofi che vissero prima di lui e le sintetizzò in una teoria i cui effetti si sono fatti sentire fino a tempi molto recenti. Secondo il grande pensatore dell’antichità gli organismi viventi nascono, in genere, da altri organismi a loro simili, però a volte possono anche scaturire dalla materia inerte. Esisterebbe infatti, in tutte le cose, un «principio passivo» rappresentato dalla materia e un «principio attivo» rappresentato dalla forma. Questa sarebbe una specie di forza interna che guida e indirizza la materia stessa dandole appunto la forma. Il fango, ad esempio, è materia inerte, ma contiene un principio attivo che non è nulla di materiale, ma semplicemente una inclinazione, una predisposizione a organizzare la materia in qualcosa di vivo come potrebbe essere un verme o una rana.

Dalle idee di Aristotele avrebbe preso spunto il racconto biblico della Genesi secondo il quale Dio in sei giorni creò il mondo dal caos primitivo: prima separando la terra dall’acqua e dal cielo quindi creando le erbe, i pesci, gli uccelli e il resto del bestiame e infine l’uomo, che foggiò dalla creta e gli infuse quindi il soffio della vita.

La teoria della generazione spontanea passò indenne attraverso il Medioevo e il Rinascimento e fu sostenuta da illustri pensatori come Newton, Cartesio e Bacone. Nel XVI secolo vi era ancora qualcuno disposto a credere che le oche nascessero da alcuni alberi che si trovavano a contatto con le acque dell’oceano o che gli agnelli si formassero all’interno di meloni, come andavano raccontando alcuni viaggiatori al ritorno da lunghi viaggi in Oriente.

Nel XVII secolo finì l’epoca delle leggende e iniziarono le prime sperimentazioni a sostegno della teoria della generazione spontanea. Il medico fiammingo Jean Baptiste Van Helmont, annunciò (seriamente) di avere condotto un esperimento mettendo a contatto chicchi di frumento e una camicia sporca, in seguito al quale sarebbero nati dei topi dopo 21 giorni. Secondo Van Helmont il sudore umano avrebbe rappresentato il principio attivo necessario per spingere la materia inerte a trasformarsi in materia vivente.

 

I PRIMI ESPERIMENTI

E’ evidente che quello di Van Helmont era un esperimento condotto male, tuttavia la strada giusta, quella della verifica sperimentale delle idee, era stata aperta. Nel 1668 il medico e poeta toscano Francesco Redi illustrò una serie di esperimenti i quali avrebbero dovuto dimostrare che la generazione spontanea non esiste. Egli mise della carne di vitello e del pesce in alcuni recipienti che sigillò ermeticamente, lasciandone aperti degli altri. Dopo un po’ di tempo poté notare la presenza di vermi (in realtà si trattava di larve di insetti) sulle carni in putrefazione all’interno dei recipienti aperti nei quali entravano e uscivano liberamente mosche e altri insetti, mentre non vi era traccia di organismi viventi all’interno dei recipienti chiusi.

Più o meno nello stesso tempo in cui Redi compiva i suoi esperimenti un naturalista olandese, di nome Anton Van Leeuwenhoek (1632–1723), osservò, per la prima volta, la presenza di microrganismi attraverso un rudimentale microscopio da lui stesso costruito. Le osservazioni al microscopio ben presto si moltiplicarono e la presenza di un numero tanto abbondante di microrganismi all’interno di tutte le sostanze esaminate fece risorgere l’idea della generazione spontanea, che gli esperimenti di Redi sembravano avere allontanato.

Le osservazioni di Leeuwenhoek stimolarono nuove ricerche in quella direzione e la disputa fra teoria della biogenesi (la vita deriva dalla vita) e teoria della abiogenesi (la vita si origina da sostanze non viventi) si spostò dal mondo macroscopico dei vermi e delle mosche a quello microscopico dei protozoi e dei batteri.

Nel 1745 il naturalista inglese John Needham condusse una serie di esperimenti che dettero nuovo vigore alla tesi dell’abiogenesi. Egli scaldò vari liquidi nutritivi come il  brodo di pollo o gli infusi d’erbe coi quali riempì alcune provette che poi tappò con della garza. Ebbene, nonostante tutti gli accorgimenti adottati affinché non entrasse nulla nelle provette che contenevano le soluzioni nutritive rese sterili dal calore, dopo alcuni giorni si poteva notare che queste pullulavano di organismi viventi. I risultati dei suoi esperimenti lo convinsero che la generazione spontanea era effettivamente possibile.

Gli stessi risultati non convinsero invece l’abate italiano Lazzaro Spallanzani il quale, alcuni anni più tardi, rifece gli stessi esperimenti di Needham ma riscaldando il liquido nutritivo molto più a lungo e a temperature molto più alte, fino a farlo bollire per alcuni minuti. Ebbene il risultato fu che anche dopo molti giorni i liquidi contenuti nelle provette, questa volta ermeticamente tappate, rimanevano limpidi e non mostravano la presenza di microrganismi al loro interno. Le critiche ora arrivarono dal ricercatore inglese il quale accusò lo Spallanzani di avere scaldato i liquidi nutritivi a temperature troppo elevate “torturando” inutilmente le sostanze presenti fino al punto di distruggere il principio attivo contenuto in esse; e di aver inoltre sigillato le provette al punto da impedire il passaggio dell’aria indispensabile per la vita.

La controversia continuò ancora per molti anni e si concluse definitivamente verso la metà del diciannovesimo secolo quando il biologo francese Louis Pasteur ideò un esperimento che avrebbe detto la parola fine a una questione che sembrava irrisolvibile. L’esperimento venne condotto all’interno di un apparato molto semplice, ma geniale, costruito in modo tale da non poter più dar adito a dubbi sulla possibilità che il principio attivo possa essere distrutto dal calore o soffocato per mancanza di aria.

Pasteur costruì personalmente dei contenitori di vetro con un lungo collo ricurvo (detti, per la loro forma, «palloni a collo di cigno»), all’interno dei quali veniva riposta la soluzione nutritiva che era fatta bollire per più di un’ora lasciando che il vapore uscisse liberamente dall’orifizio terminale del collo ricurvo. Spenta la fiamma, il liquido contenuto nel recipiente cominciava a raffreddarsi lentamente dopo aver richiamato dall’esterno, a causa della depressione conseguente al riscaldamento, aria contaminata da batteri e altri microrganismi. Questi, tuttavia, a contatto con il liquido ancora bollente che trovavano all’interno, venivano uccisi. Dopo alcuni mesi l’infuso si era conservato limpido a dimostrazione che non erano presenti germi di alcun genere, mentre sul tratto più esterno del collo si poteva notare la presenza di polveri e microrganismi evidentemente entrati dall’apertura terminale.

L’esperimento di Pasteur era semplice e completo proprio come dovrebbero essere gli esperimenti per apparire convincenti, e rispondeva in modo chiaro e inequivocabile alle obiezioni avanzate dai sostenitori dell’abiogenesi. Questi infatti sostenevano che qualora fosse condotto ad ebollizione per lungo tempo il liquido nutritivo, veniva distrutto il principio attivo e la vita non avrebbe più potuto svilupparsi. Pasteur dimostrò invece che un eventuale principio attivo presente nella materia non veniva danneggiato dal lungo e intenso riscaldamento. Infatti se si fosse rotto con un secco colpo di lima il collo ritorto ponendo il liquido nutritivo a diretto contatto con l’aria, dopo poche ore lo stesso si sarebbe intorbidito per la presenza di spore e germi che poi avrebbero continuato a svilupparsi. Inoltre Pasteur lasciando aperto il suo recipiente con il collo ricurvo e consentendo all’aria di entrare e uscire liberamente, seppure attraverso un lungo e tortuoso percorso, spense sul nascere le obiezioni di coloro i quali sostenevano che il principio attivo, senza aria, era impedito nella sua funzione di generatore della vita.

 

LA TEORIA DELLA BIOGENESI SOLLEVA NUOVI PROBLEMI

Con l’esperimento di Pasteur si chiuse per sempre la polemica fra i sostenitori dell’abiogenesi e quelli della biogenesi, a favore di questi ultimi, ma nello stesso tempo si aprì la porta a nuovi interrogativi. Innanzitutto ci si chiese: se per generare un essere vivente ci vuole un altro essere vivente, chi ha generato il primo essere vivente? In secondo luogo: se ogni individuo genera sempre individui simili a sé stesso, come si è formata l’enorme varietà di organismi che popola attualmente la Terra? E’ sempre esistita? Era presente fin dall’inizio?

A quest’ultima domanda, in termini scientifici, risponde il ritrovamento dei fossili che testimoniano di forme viventi del passato diverse da quelle del presente e la teoria evoluzionistica di Darwin la quale afferma che le nuove specie nascono da quelle già esistenti. Gli individui di una stessa popolazione, come è facile constatare, presentano caratteristiche leggermente diverse l’uno dall’altro, e quando l’ambiente si modifica per azione di forze che traggono origine dall’interno e dall’esterno della Terra e per l’attività degli stessi organismi viventi, quegli individui i cui caratteri consentono il migliore adattamento alle nuove condizioni di vita ottengono il massimo successo riproduttivo, mentre gli altri si estinguono prima di raggiungere la maturità sessuale. Quindi attraverso una selezione naturale delle forme più adatte, le generazioni successive si arricchiscono degli individui dotati dei caratteri più vantaggiosi.

La teoria di Darwin sottintende, in altre parole, che tutte le forme attualmente viventi possano aver tratto origine da pochi o forse addirittura da un unico progenitore comune. Secondo Darwin sarebbe stata quindi la selezione naturale a creare nuovi organismi, e lo avrebbe fatto per adeguare le forme viventi alle esigenze di un ambiente in continua trasformazione.

Per rispondere alla domanda relativa all’origine della vita gli scienziati hanno avanzato due diverse ipotesi. Secondo la prima di esse la vita sarebbe una componente fondamentale dell’Universo e sarebbe quindi sempre esistita così come sarebbe sempre esistito l’Universo. Questa idea, detta della «panspermia», fu avanzata per la prima volta dal chimico svedese Svante Arrhenius agli inizi di questo secolo e prevede che le forme viventi più semplici migrino, attraverso lo spazio, colonizzando continuamente nuovi pianeti. Secondo l’altra ipotesi la vita sarebbe comparsa direttamente qui sulla Terra in modo spontaneo, a partire dalla materia inerte dopo che la Terra, appena formata, ebbe perduto una quantità notevole del suo calore iniziale e fu possibile la formazione di una crosta stabile sopra la lava infuocata. Questa idea è detta, come quella più antica, della «generazione spontanea», ma rappresenterebbe, a differenza di quella antica, un fatto eccezionale, forse unico e irripetibile in tutto l’Universo.

Secondo Arrhenius la vita si sposterebbe quindi da un pianeta all’altro sotto forma di spore o germi che verrebbero sospinti dalla pressione di radiazione delle stelle fino ad incontrare un altro pianeta su cui planare e quindi evolvere verso forme di vita più complesse. I biologi, tuttavia, sanno bene che un viaggio nel mezzo interstellare, soprattutto se molto lungo, non è affatto privo di rischi: vi sono radiazioni di ogni tipo (raggi ultravioletti, raggi X, raggi gamma), temperature vicine allo zero assoluto, o viceversa temperature molto elevate in prossimità delle stelle, in grado di distruggere qualsiasi forma di vita, anche se sistemata all’interno di spessi involucri protettivi.

Per superare i rischi connessi al bombardamento di radiazioni cosmiche si è allora pensato che i semi della vita avrebbero potuto viaggiare all’interno delle meteoriti dove in effetti è stata riscontrata la presenza di qualche composto organico. In tal caso però le difficoltà sarebbero sopraggiunte al momento dell’ingresso nell’atmosfera, quando il riscaldamento per l’attrito e il successivo schianto al suolo avrebbero potuto provocare l’uccisione dei germi precedentemente protetti dalla crosta solida del veicolo. La polvere interplanetaria più fine avrebbe invece un impatto morbido con l’atmosfera e con il suolo e sembrerebbe quindi più adatta delle meteoriti al trasporto di germi di vita sui pianeti, ma in questo caso sarebbero le condizioni molto severe incontrate negli spazi cosmici a rendere estremamente pericoloso il viaggio.

C’è addirittura chi ha pensato, per superare le difficoltà connesse all’attraversamento degli spazi cosmici, ad una specie di panspermia artificiale, cioè a forme di vita seminate da mani di esseri intelligenti. L’idea (stravagante?) è venuta a Francis Crick, premio Nobel per la medicina nel 1962, il quale immagina che alcuni membri di una civiltà extraterrestre in visita ai pianeti della galassia siano sbarcati sul nostro e abbiano lasciato, magari accidentalmente, qualche residuo della loro escursione.

Il vero difetto della teoria della panspermia sta nella mancata spiegazione dell’origine vera e propria della vita: se gli esseri viventi derivano necessariamente da altri esseri viventi, allora la vita non sarebbe mai nata, ma sarebbe esistita da sempre.

Tuttavia l’idea che la vita sia eterna non piace alla maggior parte dei biologi così come non piace alla maggior parte degli astronomi l’idea di un Universo che esiste da sempre. Naturalmente entrambi hanno buone ragioni per opporsi a queste ipotesi. Se la vita e l’Universo che la contiene esistessero da sempre verrebbero violate alcune leggi fondamentali della fisica come ad esempio il secondo principio della termodinamica che prevede un aumento continuo e incessante dell’entropia, ossia del disordine generale. Ora, se l’Universo esistesse da sempre questo disordine generale sarebbe stato raggiunto da un tempo infinito e oggi non ci sarebbero le strutture ordinate che possiamo osservare in esso, a cominciare appunto dalla vita.

 

L’ORIGINE DELLA VITA SULLA TERRA

Se non si accetta l’ipotesi che la vita possa essere arrivata sulla Terra provenendo dallo spazio è gioco forza ammettere la possibilità della generazione spontanea, con una differenza, tuttavia, rispetto al passato. Prima di Pasteur si pensava infatti che il processo generativo avvenisse velocemente e continuamente, mentre la moderna teoria sull’origine spontanea della vita sostiene che il processo sia avvenuto lentamente e una volta sola.

Due sono le ipotesi sulla nuova generazione spontanea: quella autotrofa e quella eterotrofa. Secondo la prima di queste ipotesi il primo essere vivente sarebbe stato un autotrofo cioè un organismo simile alle attuali piante verdi, capace di sintetizzare sostanze organiche utilizzando sostanze inorganiche attraverso una complessa serie di reazioni chimiche, che prende il nome di «fotosintesi clorofilliana»; nella seconda ipotesi il primo essere vivente sarebbe stato un eterotrofo, cioè un organismo che non è in grado di fabbricarsi da solo gli alimenti, ma deve prenderli già belli e pronti da altri organismi viventi.

L’ipotesi autotrofa nasce dall’osservazione che gli animali (eterotrofi) per vivere hanno bisogno delle piante (autotrofe), mentre le piante per vivere non hanno bisogno di nessuno. A questa ipotesi tuttavia vengono mosse alcune critiche ineccepibili dal punto di vista logico che rendono difficoltosa l’impostazione di un programma sperimentale effettivamente praticabile. Come è possibile, ci si chiede, che gli autotrofi, che sono organismi costituiti di sostanza organica ben organizzata, siano comparsi prima delle sostanze che essi stessi producono? Inoltre gli autotrofi, per certi aspetti, sono più complessi degli eterotrofi e quindi supporre che siano comparsi per primi contraddirebbe la teoria evoluzionistica, secondo cui le forme di vita più semplici precedono quelle più complesse, e non le seguono.

Gli studiosi, ritenendo quindi molto improbabile la comparsa di organismi complessi in un ambiente fatto di forme molecolari semplici, si sono orientati verso l’altra ipotesi avviando ricerche volte a dimostrare la possibilità di una transizione spontanea dal semplice al complesso, cioè dal mondo inorganico delle piccole molecole a quello organico delle grandi molecole e poi ancora oltre fino alle strutture finemente coordinate presenti negli esseri viventi. Le prime idee al riguardo furono avanzate, alla fine degli anni Venti, dal biologo anglo-indiano John Burdon Sanderson Haldane (1892-1964). Egli partì dall’osservazione che la Terra primitiva doveva avere caratteristiche molto diverse da quelle attuali. In essa, tanto per cominciare, non c’era la vita, mentre in quella attuale la vita c’è. Se oggi si formasse spontaneamente del materiale organico – egli faceva notare – questo verrebbe immediatamente fagocitato da qualche organismo vivente, mentre sulla Terra primitiva, senza la presenza di organismi viventi, la materia organica che fosse comparsa spontaneamente non sarebbe stata decomposta dai batteri o da altri microrganismi e quindi non solo avrebbe potuto persistere, ma, lasciata tranquilla, avrebbe avuto tutto il tempo per svilupparsi ed eventualmente accrescere la sua complessità.

Lo stesso concetto era già stato formulato molto tempo prima da Darwin il quale in una lettera ad un amico così si esprimeva: “Si dice spesso che esistono oggi tutte le condizioni per la prima formazione di un organismo vivente, condizioni che potevano essere state presenti anche in passato. Se (ma quale grosso “se”!) si potesse immaginare che in qualche piccolo stagno caldo, con ogni sorta di sali ammoniacali e fosforici, luce, calore, elettricità, ecc., si fosse potuto formare chimicamente un composto proteico pronto a subire trasformazioni anche più complesse, oggi tale materia sarebbe subito divorata o assorbita, cosa che non sarebbe invece avvenuta prima della formazione degli esseri viventi”.

Le stesse idee di Haldane erano state avanzate, in precedenza, da un ricercatore sovietico di nome Aleksandr Ivanovic Oparin il quale le pubblicò nel 1924 in un libretto che venne però tradotto in inglese solo nel 1937. Oparin e Haldane erano entrambi di formazione atea e quindi, lontani da condizionamenti e pregiudizi di carattere religioso, hanno affrontato il problema relativo all’origine della vita da un punto di vista prettamente materialistico. Vi era un’unica differenza sostanziale fra l’ipotesi di Haldane e quella di Oparin e riguardava l’atmosfera primitiva che secondo lo scienziato russo doveva essere ricca di idrogeno mentre, per quello inglese, era ricca di anidride carbonica. E proprio da questo dato si partirà per avere conferma sperimentale delle nuove idee.

Le idee di Haldane e Oparin non vennero accettate di buon grado dai credenti i quali tentarono di dimostrare che la vita non poteva essere nata attraverso l’incontro fortuito di atomi, e per tale motivo non poteva che essere il frutto di un intervento divino. Ad esempio le proteine – essi dicevano – sono molecole molto complesse e pretendere che si possano formare attraverso l’incontro casuale degli atomi che le costituiscono è privo di logica. In effetti è estremamente improbabile che i composti fondamentali della materia vivente siano il risultato dello scontro casuale di atomi di idrogeno, ossigeno, carbonio e azoto, per citare solo quelli fondamentali. La cosa diventa poi assurda se si considera che le prime molecole complesse avrebbero avuto a disposizione meno di un miliardo di anni per organizzarsi a partire dagli elementi semplici, e un miliardo di anni rappresenta un tempo molto limitato per questo genere di operazione. Questo tipo di ragionamento però è sbagliato perché immagina che gli atomi debbano unirsi fra loro in modo del tutto casuale mentre è dimostrato che le combinazioni possibili dei costituenti più semplici della materia non sono infinite ma limitate, e guidate da leggi chimiche e fisiche restrittive. Tutti questi presupposti hanno avuto puntuale conferma in laboratorio.

 

L’ATMOSFERA PRIMORDIALE

Le condizioni ambientali presenti sulla Terra prima che comparissero gli esseri viventi dovevano essere, come abbiamo detto, molto diverse da quelle attuali e in particolare doveva essere diversa la composizione dell’atmosfera che avvolgeva il nostro pianeta. L’atmosfera primitiva era sicuramente priva di ossigeno, un gas molto reattivo che attualmente, a mano a mano che si consuma perché si combina con gli altri elementi, viene reintegrato dalle piante. Pertanto quando non esistevano ancora le piante, anche qualora l’ossigeno fosse stato presente in piccole tracce, proveniente, ad esempio, dalla scissione di molecole d’acqua a seguito di scariche elettriche, questo avrebbe immediatamente reagito con molti degli elementi esistenti, ossidandoli. Gli scienziati ritengono invece che l’atmosfera primitiva doveva essere ricca di idrogeno e dotata quindi di caratteristiche riducenti e non ossidanti.

Nel linguaggio della chimica i termini «ossidante» e «riducente» vogliono esprimere la capacità, da parte degli atomi, di attrarre a sé o allontanare da sé gli elettroni quando si legano ad altri atomi per formare composti. Questo fenomeno si realizza tutte le volte che gli atomi si combinano fra di loro e in particolar modo quando lo fanno con ossigeno e idrogeno, che sono due elementi molto diffusi in natura e che formano composti praticamente con tutti gli altri. Quando ad esempio un atomo qualsiasi si lega all’ossigeno per formare un composto questo atomo si ossida perché l’ossigeno attrae a sé i suoi elettroni. Se lo stesso atomo si lega invece all’idrogeno si riduce, perché in questo caso l’idrogeno sposta il suo elettrone su quell’atomo. Il carbonio, ad esempio, può legare a sé uno o due atomi di ossigeno: nel primo caso si forma un composto che si chiama ossido di carbonio (CO) e nel secondo caso si forma l’anidride carbonica (CO2) e si dice che il carbonio si trova nella forma più ossidata possibile. Lo stesso atomo di carbonio può legarsi anche all’idrogeno formando i cosiddetti idrocarburi (composti di solo idrogeno e carbonio) e se gli atomi di idrogeno che gli si legano attorno sono quattro, cioè il massimo consentito al singolo atomo, si dice che il carbonio si trova nella forma più ridotta possibile, corrispondente alla molecola di metano (CH4). Quando idrogeno e ossigeno si legano fra di loro si forma la molecola di acqua (H2O) nella quale le rispettive caratteristiche riducenti e ossidanti dei due elementi si annullano a vicenda formando un composto neutro dal punto di vista di queste proprietà.

Vediamo ora in che modo si è formata l’atmosfera sulla Terra primordiale. I geofisici hanno calcolato che il Sole e i pianeti che lo circondano si formarono all’incirca 5 miliardi di anni fa in seguito all’esplosione di una supernova, cioè di una stella molto grossa che, prima di disintegrarsi, aveva avuto modo di sintetizzare al suo interno molti elementi pesanti a partire da idrogeno e elio. In origine quindi la Terra era una sfera incandescente formata prevalentemente di idrogeno e elio, ma anche di elementi pesanti come carbonio, azoto, ossigeno, ferro e silicio che erano stati proiettati nello spazio dall’esplosione della supernova. Poi la Terra si raffreddò assumendo una conformazione abbastanza vicina all’attuale e i gas più leggeri in parte reagirono con gli elementi più pesanti e in parte si dispersero nello spazio. In particolare si allontanò quasi tutto l’elio, che è un gas leggero e niente affatto reattivo, mentre una parte dell’idrogeno, l’elemento più leggero di tutti, si combinò con altri elementi formando composti idrogenati semplici come il metano (CH4), l’ammoniaca (NH3), l’acido solfidrico (H2S) e l’acqua (H2O). Terminata la “scrematura cosmica” degli elementi più leggeri rimasero sul posto quelli più pesanti, che cominciarono a differenziarsi per azione della gravità in un «nucleo» centrale formato quasi esclusivamente di ferro e nichel, in un «mantello» sovrastante costituito di ossidi di elementi pesanti e in una «crosta» superficiale fatta di silicati di elementi leggeri come alluminio, potassio e sodio. Durante la formazione e il consolidamento della crosta si liberarono, attraverso le spaccature presenti in essa, molti gas e sostanze facilmente volatili provenienti dall’interno del pianeta che andarono a formare quella che viene considerata l’atmosfera primordiale della Terra.

Una prova indiretta della composizione di questa atmosfera primordiale è data dall’esame delle miscele gassose emesse ai nostri giorni dai vulcani e dalle solfatare, la cui composizione è molto prossima a quella ricavata per via teorica. Un’altra prova è stata fornita dalle sonde che hanno raggiunto i pianeti più esterni del sistema solare dove hanno riscontrato l’esistenza di un’atmosfera ricca di composti idrogenati. Alle stesse conclusioni si perviene infine con l’analisi delle meteoriti, nelle quali tutte le sostanze sono presenti in forma altamente ridotta.

Prove sicure sulla composizione dell’atmosfera primitiva non ce ne sono, ma di una cosa gli scienziati sono certi: in quell’atmosfera non esisteva ossigeno libero, O2, nemmeno in quantità modestissime. Ora, però, se in quei tempi lontani non c’era l’ossigeno, non doveva esserci nemmeno l’ozono (che è un composto formato da tre atomi di ossigeno, invece che da due) e quindi la luce ultravioletta del Sole, che attualmente è bloccata proprio dalla presenza di uno spesso strato di questo gas nell’alta atmosfera, poteva raggiungere la superficie della Terra in quantità molto superiore ad oggi e contribuire, con la sua energia, alla formazione dei composti chimici primitivi.

La radiazione ultravioletta del Sole sarà stata sicuramente una fonte di energia importante per la sintesi dei composti organici, ma non l’unica, anche perché quel tipo di radiazione oltre che formarle, decompone molte molecole organiche. Le altre radiazioni elettromagnetiche provenienti dal Sole e in particolare la componente visibile di esse, non ebbero alcuna efficacia per le sintesi primordiali dei composti organici, mentre saranno determinanti nei successivi stadi dello sviluppo della vita. Molto importante, invece, per le sintesi organiche primordiali, fu l’energia derivante dalle scariche elettriche.

 

L’ESPERIMENTO DI MILLER

Nel 1952 un giovane ricercatore americano, Stanley Lloyd Miller, fresco di laurea, fu incaricato dal suo professore, Harold Clayton Urey, premio Nobel per la chimica nel 1934, di eseguire un esperimento secondo le modalità da lui stesso indicate.

L’apparecchiatura necessaria, costruita appositamente, era abbastanza semplice e consisteva in due bocce di vetro riempite rispettivamente di acqua tenuta ad alta temperatura e di una miscela di idrogeno (H2), ammoniaca (NH3) e metano (CH4), cioè di quei gas che, insieme al vapore acqueo (H2O), si riteneva fossero i costituenti principali dell’involucro gassoso che più di quattro miliardi di anni fa circondava la Terra. L’acqua calda, che nelle intenzioni dei ricercatori avrebbe dovuto rappresentare l’oceano ancestrale, produceva vapore che attraverso un tubo veniva convogliato nel recipiente il quale conteneva i gas dell’atmosfera primitiva. All’interno di quel recipiente venivano generate scariche elettriche a 60.000 volt che avrebbero dovuto riprodurre i fenomeni temporaleschi presumibilmente frequenti e intensi all’inizio della storia del nostro pianeta.

Dopo una settimana di trattamento continuo venne analizzato il contenuto della boccia piena di acqua che nel frattempo aveva cambiato colore, divenendo rosso-arancio, e con sorpresa si scoprirono al suo interno, assieme a composti di ogni tipo, anche alcuni aminoacidi, cioè i precursori delle proteine le quali, come tutti sanno, sono i costituenti principali degli organismi viventi.

Miller non fu il primo chimico a sintetizzare gli aminoacidi che in realtà erano già stati ottenuti in laboratorio per altra via, ma fu il primo a dimostrare che da composti a struttura molto semplice, che si supponeva fossero presenti nell’atmosfera primitiva della Terra, si potevano ottenere molecole complesse particolari, cioè proprio quelle molecole che stanno alla base dei composti organici che caratterizzano gli esseri viventi. E tutto ciò senza fare ricorso ad artifizi particolari o a fonti di energia eccezionali.

All’esperimento di Miller ne seguirono altri dello stesso tipo con miscugli gassosi di partenza diversi, ma sempre contenenti gli elementi fondamentali degli organismi viventi e cioè carbonio (C), idrogeno (H), ossigeno (O), azoto (N), zolfo (S) e fosforo (P) e anche le fonti di energia erano di vario tipo. Vennero utilizzati i raggi ultravioletti, raggi X, flussi di elettroni o semplicemente temperature elevate, grazie al cui impiego si ottennero svariati composti tipici degli organismi viventi come glucidi, lipidi, aminoacidi e perfino i nucleotidi, cioè i costituenti del DNA e dell’RNA. Mai si trovarono molecole diverse da quelle tipiche dell’attuale materia vivente.

Tutti questi esperimenti hanno dimostrato, in modo inequivocabile, che i precursori biologici degli organismi viventi si sarebbero potuti formare nell’atmosfera primitiva, qualora questa fosse stata un’atmosfera riducente, attraverso normali processi chimici di sintesi. Questi semplici composti organici in un secondo tempo sarebbero caduti al suolo trasportati dalle piogge e quindi convogliati in mare dove, in un momento successivo, avrebbero potuto eventualmente arricchirsi e integrarsi. Certo, produrre in provetta gli amminoacidi non significa creare un essere vivente: una cellula infatti è tanto più complessa rispetto ad un amminoacido quanto un uomo rispetto ad una cellula, tuttavia è indubbio che con gli esperimenti di Miller un notevole passo avanti verso la formazione abiotica (cioè per via chimica) dell’essere vivente era stato compiuto.

In verità non tutto è chiaro: ad esempio gli esperimenti hanno mostrato che le complesse molecole prebiotiche si formano con maggior facilità a temperature alte che a temperature basse. Inoltre la composizione della materia vivente sembra essere più vicina a quella delle stelle che non a quella della Terra, dove predominano composti a base di silicio, ossigeno, calcio, sodio e ferro. Infine, a complicare ulteriormente le cose, vi è la scoperta recente di alcuni composti organici, anche abbastanza complessi, all’interno di nubi galattiche.

Ebbene proprio questo insieme di osservazioni ha fatto ritenere a Fred Hoyle e al suo collaboratore indiano C. Wickramasinge, che la vita si sia potuta formare fra le stelle invece che sulla Terra; è stata riesumata, in un certo senso, la vecchia teoria della panspermia.

Fred Hoyle è un astronomo di chiara fama, colui che propose il famoso «Modello di Universo stazionario», ossia quel modello secondo il quale l’Universo sarebbe infinito ed eterno e nel quale in continuazione verrebbe creata nuova materia allo stesso ritmo con il quale l’espansione in atto andrebbe rarefacendo quella esistente. La teoria della panspermia, avanzata da Hoyle sotto nuova luce, sarebbe quindi coerente con il suo modello di Universo. In un Universo che ha avuto una origine, come abbiamo già fatto notare, supporre che la vita sia giunta sulla Terra dagli spazi, non risolverebbe il problema della sua comparsa, ma semplicemente lo sposterebbe su di un altro pianeta. In un Universo eterno, invece, anche la vita potrebbe essere eterna.

In realtà nelle nubi interstellari e nelle code delle comete sono state scoperte molte molecole organiche, alcune delle quali anche del tipo di quelle che stanno alla base dei fenomeni vitali, ma non è ancora chiaro come tali molecole si siano formate. Tuttavia la scoperta di molecole organiche nelle nuvole galattiche non autorizza a dare per sicura la provenienza dei materiali essenziali per lo sviluppo della vita e della vita stessa dagli spazi. Per Hoyle, invece, le osservazioni delle nubi molecolari sono sufficienti per ritenere che i primi organismi viventi, quelli che presumibilmente erano in grado di vivere senza ossigeno e a temperature prossime allo zero assoluto, si siano formati nello spazio e non sulla Terra. Secondo l’astronomo inglese le comete non solo portarono sulla Terra i primi germi di vita, ma anche successivamente diffusero quei virus che scatenarono le peggiori epidemie che la storia umana ricordi e forse ancora oggi alcune malattie virali che affliggono l’uomo, come l’influenza, proverrebbero dallo spazio.

 

IL BRODO CALDO DILUITO

I risultati degli esperimenti simili a quello di Miller messi a punto da scienziati di tutto il mondo hanno definitivamente dimostrato che sulla Terra primordiale, in una situazione completamente diversa da quella attuale, sotto l’azione di fonti di energia quali il calore, le scariche elettriche e le radiazioni ultraviolette, molecole inorganiche a struttura molto semplice ebbero l’opportunità di formare composti a struttura un po’ più complessa che noi chiamiamo organici perché fanno parte degli organismi viventi. Questi composti sarebbero poi caduti in mare dove si sarebbe formato quello che Oparin chiamava il «brodo prebiotico», ossia una specie di brodo caldo diluito. Qui alcune molecole organiche avrebbero potuto trovare riparo dalle radiazioni ultraviolette che tendono a decomporle, mentre altre avrebbero incontrato le condizioni migliori per unirsi e organizzarsi in strutture più complesse, i cosiddetti «polimeri». In altre parole, nel mare primitivo, sarebbe continuata l’evoluzione dei composti chimici.

I composti più importanti, dal punto di vista biologico, sono le proteine e gli acidi nucleici: si tratta, in entrambi i casi, di polimeri di condensazione, cioè di strutture di grosse dimensioni che si formano per unione di piccole molecole con eliminazione di molecole d’acqua. E’ poco probabile quindi che i grossi polimeri si possano essere formati nel mare primitivo dove è più logico attendersi il processo contrario, cioè l’idrolisi, che è la rottura dei legami interni a grosse molecole per inserimento fra gli atomi stessi di molecole di acqua.

Dobbiamo quindi immaginare ambienti diversi da quello acquoso entro i quali fare avvenire la sintesi delle proteine e degli acidi nucleici e questi potrebbero essere delle pozze dalle quali l’acqua avrebbe potuto facilmente evaporare fino a consentire alle sostanze organiche di depositarsi sul fondo asciutto e caldo.

Nel 1957 il biochimico americano Sidney Walter Fox illustrò, in occasione di una conferenza sull’origine della vita, il lavoro da lui svolto per unire aminoacidi e formare proteine fuori dagli esseri viventi. L’esperienza di Fox consisteva semplicemente nel riscaldare una miscela di aminoacidi su una piastra metallica: quando la massa si raffreddava era possibile osservare al suo interno alcune molecole complesse, molto simili alle proteine che chiamò “proteinoidi” per distinguerle dalle molecole biologiche. Queste molecole, verosimilmente, si erano formate per unione di amminoacidi con conseguente liberazione di acqua che, sulla piastra calda, era immediatamente evaporata.

Le stesse reazioni che Fox ottenne sulla piastra metallica sarebbero state possibili sulle rocce ancora molto calde di una crosta terrestre che si era appena solidificata. Si può quindi immaginare le onde del mare ma soprattutto le maree, che a quel tempo per la maggiore vicinanza della Luna dovevano essere molto più rilevanti di quelle attuali, nell’atto di portare il brodo nutritivo ricco di sostanze organiche sulla terra ferma dove l’acqua sarebbe velocemente evaporata consentendo alle molecole di amminoacidi di unirsi. I nuovi composti sarebbero quindi stati portati nuovamente nel mare da piogge successive o dal riflusso di marea.

E’ stato proposto un altro meccanismo per ottenere la sintesi delle piccole molecole organiche. Si sa che le reazioni chimiche avvengono per collisione fra molecole e l’energia necessaria per produrre una collisione sufficientemente violenta per avviare la reazione, si chiama «energia di attivazione». Il calore è un mezzo per fornire energia di attivazione perché mette in agitazione le molecole consentendo loro di scontrarsi con forza tale da provocare la rottura degli edifici molecolari e la successiva ricomposizione sotto altra forma.

Tuttavia le molecole organiche, quando reagiscono, non lo fanno sbriciolandosi completamente e quindi ricostruendo le nuove strutture a partire dai singoli atomi ma avvicinando alcune parti più reattive, chiamate «gruppi funzionali», dove si forma il legame; il resto della molecola peraltro rimane intatto. Un eccesso di calore potrebbe allora danneggiare gravemente le molecole complesse facendo loro perdere individualità e specialità, e compromettendo irrimediabilmente la reazione di condensazione. Vi sono però alcune sostanze, chiamate catalizzatori, che con la loro presenza facilitano l’urto fra le molecole nel punto giusto evitando di alzare troppo la temperatura. Ebbene, esistono in natura alcuni metalli e minerali che agganciano piccole molecole alla loro superficie, creando le condizioni adatte alla formazione dei polimeri. Il fenomeno si chiama adsorbimento (da non confondere con assorbimento).

Di recente, alcuni scienziati del centro ricerche di forme di vita extraterrestre della NASA, l’ente spaziale americano, hanno dimostrato che l’argilla contenente nichel possiede la proprietà di attirare, come fosse una calamita, i 20 amminoacidi normalmente presenti nelle proteine biologiche catalizzandone la sintesi in una lunga catena polipeptidica.

Possiamo quindi immaginare, sul fondo di mari e laghi primordiali, fittissimi depositi di sabbie e argille (presenti, del resto, anche in quelli attuali) capaci di adsorbire ossia di legare a sé piccole molecole organiche fungendo da catalizzatori. Attaccate debolmente ma ordinatamente, e allineate come fossero birilli, ne verrebbero facilitati gli urti che diverrebbero più numerosi ed efficaci rispetto a quelli che potrebbero verificarsi fra le molecole disperse nel mezzo acquoso.

 

LA FORMAZIONE DEI COACERVATI

Le sostanze organiche complesse che si accumulano sul suolo e nei mari della Terra primitiva sembrano possedere proprietà che prefigurano quelle della vita e tuttavia siamo ancora ben lontani da ciò che potrebbe essere definito un organismo vivente. La vita attualmente non ci appare dispersa nell’ambiente, ma racchiusa all’interno di un involucro (la membrana cellulare) che la separa dal mondo esterno. Inoltre essa è rappresentata da un insieme di reazioni chimiche coordinate e sincronizzate mentre quelle che si svolgevano nel brodo primitivo erano reazioni disordinate e casuali.

Oparin, sulla base di queste considerazioni, ipotizzò la formazione, nei caldi mari primitivi, di aggregati di molecole organiche in goccioline simili, nell’aspetto, alle attuali cellule. Queste piccole gocce o sacche di composti organici avvolti da molecole d’acqua, sono chiamate «coacervati» (dal latino cum acervo = ammucchio insieme) ed erano conosciute già molto tempo prima che Oparin le proponesse come possibili precursori delle cellule.

Si era sperimentato che mescolando in acqua determinate proteine dotate di elevata affinità per l’acqua, in opportune condizioni di temperatura e acidità, si venivano a formare migliaia di goccioline al cui interno le molecole più grandi apparivano unite le une alle altre, mentre, nel resto della soluzione, le stesse molecole risultavano quasi assenti. Il fenomeno si spiega ammettendo l’esistenza di cariche elettriche di segno opposto sulle molecole proteiche le quali avrebbero l’effetto di consentire la loro reciproca attrazione e, nello stesso tempo, il richiamo sulla superficie esterna di molecole polari di acqua che formerebbero una specie di pellicola intorno al coacervato isolando, al suo interno, una piccola quantità della soluzione di partenza.

In realtà l’idea dei coacervati quali precursori degli organismi viventi non fu accettata a cuor leggero, anche perché questi aggregati di molecole organiche si formano solo se si fa uso di soluzioni di polimeri biologici convenientemente selezionati e nulla autorizza a ritenere che i polimeri dispersi nel brodo primordiale si sarebbero comportati allo stesso modo. La creazione spontanea di un involucro in grado di contenere molecole organiche complesse avrebbe rappresentato tuttavia un passaggio fondamentale dall’evoluzione chimica a quella biologica.

Dopo quello di Oparin, numerosi altri modelli di protocellule sono stati proposti. Fra questi merita una menzione particolare quello del già menzionato biochimico statunitense Sidney Walter Fox il quale, nel 1958, sciolse in acqua calda e leggermente salata alcuni proteinoidi, cioè quelle molecole da lui stesso sintetizzate senza far ricorso ad organismi viventi. Quando la soluzione si fu raffreddata, fu possibile notare il formarsi di numerosissimi piccoli globuli simili ai batteri, che egli chiamò «microsfere». L’osservazione al microscopio elettronico di questi piccolissimi globuli di sostanza organica metteva in evidenza l’esistenza di una doppia membrana di protezione. La struttura a doppio strato che delimita la superficie esterna delle microsfere non ha niente a che fare con le membrane cellulari, tuttavia si comporta per molti aspetti come quelle. Se ad esempio si pongono in soluzioni più concentrate o, rispettivamente, meno concentrate del loro liquido interno, le microsfere si raggrinziscono o si rigonfiano esattamente come fanno le cellule poste nelle stesse condizioni. Inoltre le microsfere sono in grado di trattenere al loro interno determinate molecole lasciandone fuoriuscire altre. Tali caratteristiche fanno di questi pseudo-microrganismi a base di proteinoidi dei sistemi estremamente somiglianti alle cellule.

All’interno dei coacervati o delle microsfere le molecole organiche primitive si sarebbero trovate a stretto contatto invece che sparse nell’acqua dell’oceano e quindi facilitate nelle combinazioni di strutture più complesse. Oltre a ciò, se fosse stata disponibile una qualche forma di energia utile per creare situazioni di maggiore stabilità questa si sarebbe realizzata facilmente. Non siamo ancora giunti ad un grado di organizzazione paragonabile a quello di una cellula e quindi, da questo punto di vista, non possiamo considerare il coacervato un organismo vivente: ma quanto lontano siamo da esso? Sarebbe immediata la risposta se conoscessimo una definizione precisa di vita, che purtroppo non possediamo.

Se si tratta di distinguere fra un topo e un sasso è facile dire chi è vivo e chi no, ma quando si tratta di decidere fra un virus (la forma vivente più semplice che esista attualmente) e un coacervato le cose si fanno più difficili. La stessa difficoltà si incontra quando si deve decidere se certi batteri che in determinate condizioni ambientali sono in grado di compiere la fotosintesi che invece non attuano quando hanno a disposizione cibo già pronto, siano piante o animali o, per meglio dire, autotrofi o eterotrofi.

Se per vita intendiamo una forma di materia e di energia altamente organizzata, il coacervato potrebbe già essere considerato un organismo vivente, forse addirittura più completo del virus. Se per vita intendiamo invece un organismo che sia in grado di riprodursi e di evolvere, il coacervato non è un organismo vivente mentre il virus lo è.

In realtà dato che i cambiamenti evolutivi avvengono con gradualità, nel periodo di transizione fra il mondo inanimato e la vita deve esserci necessariamente qualcosa che non siamo in grado di classificare in modo preciso. Tuttavia, vivente o non vivente che sia, il coacervato è un insieme di molecole organiche più o meno complesse con un grado di organizzazione sicuramente molto più elevato di quello presente fra le molecole disperse nell’oceano circostante. Per mantenere ed arricchire il grado di organizzazione sarebbe servita dell’energia e l’energia di cui poter disporre a quel tempo era molto abbondante e diversificata. C’era l’energia sotto forma di raggi ultravioletti, c’era energia elettrica trasportata dai fulmini e c’era infine il calore. Queste forme tuttavia non sarebbero state utili ai coacervati perché non controllabili e tali che avrebbero spezzato i legami esistenti distruggendo l’ordine raggiunto, anziché formarne di nuovi ed aumentare l’organizzazione.

 

L’ENERGIA PER LA VITA

I coacervati o altre strutture a loro simili che popolavano gli oceani primitivi, come abbiamo appena visto, disponevano di varie forme di energia che all’inizio della storia della Terra si erano rivelate determinanti per attivare le reazioni fra le semplici molecole che costituivano l’atmosfera di quel tempo; esse peraltro si sarebbero dimostrate pericolose e addirittura controproducenti, se avessero agito sulle strutture chimiche più complesse e delicate che nel frattempo si erano formate.

Il semplice fatto di stare all’interno di uno spazio limitato conferiva alle molecole organiche dei coacervati una maggiore organizzazione rispetto alle molecole isolate e disperse nell’oceano circostante. Naturalmente per mantenere questa organizzazione ed eventualmente migliorarla sarebbe stata necessaria una forma di energia costante e moderata e non quella mutevole e intensa dei fulmini e delle radiazioni ultraviolette. Quale avrebbe potuto essere la nuova forma di energia adatta alle delicate strutture contenute all’interno dei coacervati?

La grande quantità di molecole organiche che si erano accumulate nell’oceano primitivo avrebbe potuto rappresentare una fonte di energia chimica utile e molto abbondante, per utilizzare la quale tuttavia era indispensabile che queste molecole reagissero. Una reazione chimica, come è noto, consiste nella demolizione di un determinato edificio molecolare e nella costruzione di uno nuovo con gli atomi legati fra loro in modo diverso da prima. Ora, se dopo la reazione il contenuto energetico delle nuove molecole fosse minore di quello delle vecchie, vorrebbe dire che la riorganizzazione degli atomi ha messo a disposizione dell’energia per consentire l’avvio eventuale di nuove reazioni: se invece fosse maggiore evidentemente le nuove molecole avrebbero sottratto energia all’ambiente.

Ad esempio un fiammifero contiene energia potenziale che diviene attuale, cioè viene messa in libertà, quando il fiammifero si accende; tuttavia esso non si accende da solo ma serve una qualche forma di energia per innescare la reazione. Questa, come abbiamo visto, è detta energia di attivazione e nel caso del fiammifero potrebbe essere fornita da un semplice strofinio della capocchia su una superficie ruvida, oppure da una fonte di calore. In generale, affinché  una reazione esoergonica (cioè capace di mettere in libertà energia) possa avere luogo, questa reazione deve essere prima avviata da una opportuna spinta energetica.

Il sistema più semplice per fornire energia di attivazione è quello di scaldare i reagenti: quanto più la temperatura è elevata tanto più le molecole si agitano e si urtano, e tanto più diventa grande la probabilità di scontri efficaci. Nel caso del fiammifero, ad esempio, lo strofinio della sua capocchia su una superficie ruvida serve proprio a produrre calore. Tuttavia nel caso dei complessi composti organici precursori delle molecole specifiche degli organismi viventi, una temperatura troppo elevata avrebbe potuto disintegrare le molecole e gli stessi coacervati entro i quali queste molecole erano contenute, provocando un danno irreparabile invece che un miglioramento della situazione.

Col passare del tempo il brodo caldo e diluito che riempiva le depressioni le quali si erano venute a creare sulla superficie terrestre si faceva sempre più tiepido e in conseguenza di ciò le reazioni diventavano sempre più lente. In realtà, un abbassamento generale della temperatura da un lato poteva rappresentare un vantaggio perché evitava reazioni troppo violente che avrebbero comportato la demolizione delle molecole complesse messe insieme attraverso tante difficoltà, ma dall’altro avrebbe rappresentato un danno perché le reazioni non avrebbero più avuto a disposizione il calore necessario per il loro avvio. A questo punto della storia della Terra dovettero entrare in scena delle sostanze capaci di facilitare le reazioni chimiche riducendo l’energia di attivazione. Queste sostanze, che attualmente sono presenti in tutti gli organismi viventi, sono gli enzimi.

Sono questi i catalizzatori del mondo biologico così come minerali e metalli possono fungere da catalizzatori di reazioni non biologiche. Le reazioni chimiche tipiche degli organismi viventi si realizzano entro un intervallo di temperatura piuttosto ristretto e basso ma tali temperature non sono in grado di fornire l’energia di attivazione necessaria ad avviare questo tipo di reazioni, che invece vengono attivate dagli enzimi.

Gli enzimi più tipici sono formati da due parti: una proteica ed una non proteica. La parte proteica contiene il cosiddetto sito attivo cioè una zona che aderisce alle molecole sulle quali esplica l’azione. La parte non proteica è spesso una vitamina e coadiuva quella proteica nella sua funzione. Gli enzimi possono agire anche al di fuori degli organismi viventi e ciò facilita lo studio di reazioni specifiche che se esaminate all’interno della cellula insieme a tutte le altre renderebbero più problematica l’analisi delle stesse.

Gli organismi viventi attuali utilizzano soprattutto gli zuccheri come fonte di energia: gli zuccheri o carboidrati sono molecole formate di solo carbonio, ossigeno e idrogeno e attualmente sono sintetizzati dalle piante verdi. Questi composti erano presenti anche nell’oceano primitivo?

Per rispondere a questa domanda il chimico americano Melvin Calvin (1911-1997) bombardò con radiazioni ad alta energia composti chimici un po’ diversi da quelli scelti da Miller per il suo esperimento, ma tali che ugualmente avrebbero potuto essere presenti nell’atmosfera primitiva. In tal modo lo scienziato ottenne nuove molecole fra cui alcuni zuccheri semplici come il glucosio.

Il glucosio è uno zucchero formato da sei atomi di carbonio legati convenientemente a dodici di idrogeno e a sei di ossigeno la cui formula C6H12O6 fa pensare a sei atomi di carbonio uniti ad altrettante molecole di acqua. Per questo motivo il glucosio ed altri zuccheri di composizione analoga sono chiamati anche carboidrati. Con l’aiuto di specifici enzimi glucosio e zuccheri simili possono concatenarsi e formare strutture complesse, come amido e cellulosa.

Nei mari primitivi avrebbero potuto esserci molecole di glucosio utilizzabili come fonte di energia. Sennonché i legami fra gli atomi che costituiscono la molecola del glucosio sono molto forti, tanto che per scioglierli ed estrarne l’energia serve un notevole quantitativo di energia di attivazione. Dobbiamo quindi immaginare in azione un meccanismo simile a quello che oggi gli organismi viventi attuano per facilitare la rottura dei legami più resistenti. Il metodo consiste nel legare alla molecola da demolire alcuni atomi con la funzione di attirare su di sé gli elettroni che formano i legame in modo da indebolirli e facilitare la demolizione della struttura molecolare. Questa funzione nel caso del glucosio è assolta egregiamente dai cosiddetti gruppi fosforici che sono un insieme di atomi di fosforo ossigeno e idrogeno i quali, unendosi alla molecola dello zucchero, la trasformano in glucosio-fosfato: una molecola più debole di quella di partenza e che quindi necessita di minore energia di attivazione per rompersi.

 

ATP E FERMENTAZIONI

Ora il problema è che l’aggiunta dei gruppi fosforici alla molecole di glucosio richiede a sua volta energia la quale attualmente viene fornita da un composto chimico chiamato adenosintrifosfato ma che comunemente è noto con la sigla ATP. In realtà l’ATP non solo fornisce l’energia, ma anche il gruppo fosforico necessario per indebolire la molecola di glucosio.

Gli eterotrofi primitivi disponevano anch’essi di ATP? L’ATP è una molecola complessa formata da un composto azotato chiamato adenina, da uno zucchero a cinque atomi di carbonio chiamato ribosio e da tre gruppi fosforici. I gruppi fosforici erano presenti nella crosta terrestre sotto forma di fosfati, cioè di sali costituenti le rocce che le acque calde di quei tempi lontani avrebbero potuto sciogliere e portare a mare, mentre l’adenina e il ribosio si sarebbero formati spontaneamente attraverso un processo di cui si ha conferma sperimentale.

Chi produsse per primo l’adenina in laboratorio fu, nel lontano 1960, il biochimico americano di origine spagnola Juan Oro il quale lavorava nell’Università di Houston nel Texas. Egli fece reagire acido cianidrico (H-C=N), uno dei prodotti dell’esperimento di Miller e ammoniaca, ottenendo quantità molto importanti di un composto non volatile che si rivelerà essere proprio l’adenina la cui formula chimica C5H5N5 può essere considerata il pentamero dell’acido cianidrico (CHN). In un successivo esperimento lo stesso Oro aggiunse formaldeide (CH2O), un composto usato spesso come disinfettante in soluzione acquosa con il nome di formalina, ai composti dell’atmosfera primitiva, ottenendo fra l’altro il ribosio, ossia proprio lo zucchero a cinque atomi di carbonio presente nella molecola dell’ATP.

L’ATP è un composto unico nella sua funzione di trasferire gruppi fosforici su altre molecole e contemporaneamente di fornire energia. Esso porta attaccati a sé tre gruppi fosforici due dei quali ad alto contenuto energetico, cioè tali che quando si sciolgono liberano grandi quantità di energia. Per tale ragione i legami terminali dei gruppi fosforici sono detti legami ad “alta energia”. Quando si stacca un gruppo fosforico dall’ATP ciò che resta si chiama ADP, o adenosindifosfato, perché porta legati a sé solo due gruppi fosforici.

In presenza di uno specifico enzima un gruppo fosforico può essere trasferito da una molecola di ATP ad una di glucosio formando il glucosio-fosfato e ADP. Quest’ultimo composto non è più in grado di trasferire un secondo gruppo fosforico ad un’altra molecola di glucosio e quindi per tornare ad essere attivo deve ridiventare ATP.

Attualmente la formazione di nuove molecole di ATP a partire da ADP e datori di gruppi fosforici è portata avanti da una serie di reazioni che liberano energia. Queste reazioni possono avvenire in presenza o in assenza di ossigeno. Le reazioni che arricchiscono le molecole di ADP di nuovi gruppi fosforici in assenza di ossigeno si chiamano fermentazioni, mentre quelle che avvengono in presenza di ossigeno si chiamano respirazioni. Ora, poiché nell’atmosfera primitiva non c’era l’ossigeno è possibile che negli eterotrofi primitivi succedesse qualche cosa di simile a ciò che avviene attualmente nelle fermentazioni.

Oggi le fermentazioni (dal latino fervere = bollire) avvengono in molti organismi unicellulari ma anche in molti organismi superiori, compreso l’uomo e consentono praticamente a tutti gli attuali tipi di cellule di sopravvivere, anche se solo per breve tempo, in assenza di ossigeno.

Il più noto processo fermentativo è quello che trasforma il mosto in vino, cioè il succo d’uva, dolce per la presenza di glucosio, in una soluzione acquosa di alcol etilico. Questa trasformazione è dovuta a determinati organismi unicellulari chiamati saccaromiceti. In realtà l’opera di trasformazione dello zucchero del mosto in alcool del vino è compiuta dagli enzimi contenuti nei saccaromiceti, i quali possono agire anche al di fuori degli organismi viventi. L’energia prodotta durante la trasformazione viene immagazzinata in gran parte nei legami fosforici dell’ATP.

Oltre all’alcol etilico la trasformazione del glucosio comporta la formazione dell’anidride carbonica, che nell’atmosfera primitiva era del tutto assente o molto scarsa, mentre si rivelerà di importanza fondamentale per la successiva evoluzione del metabolismo. Gli organismi anaerobici primitivi utilizzavano per i loro processi vitali glucosio e altri substrati organici semplici, presenti in concentrazione abbastanza elevata nelle acque primordiali, immagazzinando l’energia prodotta in molecole di ATP.

 

PRIMA L’UOVO O LA GALLINA?

Un punto poco chiaro è il modo in cui hanno cominciato a formarsi le macromolecole tipiche della vita: fra polipeptidi e polinucleotidi, cioè fra proteine ed acidi nucleici, quali sono comparsi per primi? La domanda è legittimata dal fatto che attualmente le proteine vengono sintetizzate sulla base delle istruzioni fornite dal DNA il quale, a sua volta, viene sintetizzato da particolari enzimi che sono proteine. In altre parole, è nato prima l’uovo o la gallina?

Gli acidi nucleici sono formati da una sequenza ordinata di unità strutturali chiamati nucleotidi i quali, a loro volta, sono molecole formate dall’unione di tre diverse specie chimiche: uno zucchero a cinque atomi di carbonio, una molecola di acido fosforico e una base azotata.

Gli zuccheri a cinque atomi di carbonio sono il ribosio presente nell’RNA e il deossiribosio (molecola simile al ribosio, ma con un atomo di ossigeno in meno), presente nel DNA. Le basi azotate sono composti con proprietà basiche (cioè contrarie di quelle acide) che contengono atomi di azoto. Ne esistono di cinque tipi che prendono il nome di adenina, citosina, guanina, timina e uracile. Le prime quattro si trovano nel DNA, mentre nell’RNA, dove pure sono presenti quattro delle cinque basi, al posto della timina vi è l’uracile. Nel DNA è contenuta l’informazione genetica degli organismi e la specificità dell’informazione è data dalla particolare disposizione delle basi azotate lungo il polimero stesso.

Le proteine sono anch’esse molecole giganti costituite dalla connessione di tanti monomeri (dal greco monos = uno e meros = parte) rappresentati da venti piccole molecole chiamate amminoacidi. In tutti gli esseri viventi si trovano gli stessi venti amminoacidi, ma disposti in modo diverso da caso a caso: proprio questa disposizione diversa dei monomeri determina la specificità del polimero (dal greco polys = molto, numeroso) e quindi della sua funzione.

Tutte le funzioni vitali degli organismi sono esercitate dalle proteine ma la particolare disposizione degli amminoacidi in seno ad esse è determinata dalla specifica sequenza delle basi azotate nel DNA. L’RNA ha il compito di portare il messaggio contenuto nel DNA nella zona della cellula in cui avverrà la costruzione delle proteine e nello stesso tempo provvedere alla costruzione delle proteine stesse.

La vita è quindi oggi costituita da un sistema binario interagente in cui l’informazione è contenuta negli acidi nucleici che la trasmettono alle proteine le quali, a loro volta, esplicano tutte le funzioni in seno all’organismo compresa quella di ricostruire, al momento opportuno, gli acidi nucleici rispettando la loro struttura originaria.

Come si è arrivati a ciò? Mediante quale serie di reazioni chimiche è sorto questo sistema interdipendente di acidi nucleici e proteine? E’ molto improbabile che i due tipi di molecole fondamentali per la vita, che fra l’altro sono composti strutturalmente molto complessi, siano comparsi contemporaneamente e nello stesso luogo. Tuttavia sembra anche impossibile avere gli uni senza gli altri.

Per superare questa contraddizione alcuni biologi, fra cui Francis Crick e Leslie E. Orgel, indipendentemente gli uni dagli altri, ipotizzarono la comparsa di un composto con funzione duplice ossia con la capacità di duplicarsi senza l’intervento di proteine e contemporaneamente di catalizzare ogni fase della sintesi proteica. Questo composto avrebbe dovuto essere l’RNA, il quale si presentava favorito rispetto al DNA per alcuni validi motivi fra cui quello che fa di esso una molecola a struttura più semplice e più facilmente sintetizzabile rispetto al DNA. Successivamente una serie di osservazioni ha avvalorato quest’idea e fra queste la scoperta di enzimi costituiti da RNA: fatto questo che annullava il convincimento per cui tutte le reazioni catalitiche dovessero essere svolte da proteine. Inoltre si è riusciti a modificare alcune molecole di RNA con funzioni enzimatiche in modo da renderle capaci di unire alcuni nucleotidi dello stesso RNA. In quest’ambito molto resta ancora da scoprire ma non è escluso che in un futuro non molto lontano si possa dimostrare un qualche tipo di duplicazione dell’RNA catalizzato dallo stesso RNA.

Qualora fosse possibile dimostrare senza ombra di dubbio che l’antenato comune alle attuali cellule contenesse RNA in grado di sintetizzare le proteine, di duplicarsi ed eventualmente anche di evolversi, compito fondamentale della ricerca sull’origine della vita diventerebbe quello di spiegare come sia comparso questo RNA.

Abbiamo visto che nel 1961 Juan Oro, mescolando acido cianidrico e ammoniaca in soluzione acquosa, ottenne una molecola fondamentale degli acidi nucleici, l’adenina. Essa è una delle quattro basi azotate presenti nel DNA e nell’RNA, oltre che una componente dell’ATP, la principale molecola fornitrice di energia nelle reazioni biochimiche. Successivamente altre reazioni fra composti, che avrebbero potuto essere presenti in un’atmosfera prebiotica riducente, portarono alla creazione anche delle altre basi azotate presenti negli acidi nucleici.

Un fatto straordinario è la scoperta che gli amminoacidi e le basi azotate indispensabili per la vita potrebbero provenire dallo spazio, dove sono stati osservati gli stessi composti generati negli esperimenti condotti in laboratorio. Nel primo mezzo miliardo di anni della storia della Terra il bombardamento di meteoriti e comete deve essere stato intenso e non è da escludere che questi proiettili arrivati dallo spazio non abbiano portato sulla Terra materia organica sintetizzata in luoghi lontani.

 

LA FOTOSINTESI

Il brodo caldo e diluito, ricco di sostanze organiche, probabilmente andò diluendosi sempre più a mano a mano che gli eterotrofi primitivi in continua espansione utilizzavano le molecole in esso contenute per trarne l’energia e la materia necessarie affinché fosse arricchita ed organizzata meglio la loro struttura interna. Nell’oceano primitivo con l’andare del tempo non solo aumentò il consumo di materiale organico, ma contemporaneamente diminuì la produzione di nuove molecole per l’affievolirsi dell’intensità delle scariche elettriche e delle altre forme di energia: un fenomeno questo che mise a repentaglio la vita stessa la quale si era appena generata in forme stabili con tanta difficoltà.

La crisi divenne seria quando le radiazioni ultraviolette ruppero le molecole d’acqua liberando idrogeno e ossigeno, che con la loro presenza modificarono la composizione dell’atmosfera stessa. In realtà l’idrogeno allo stato molecolare appena uscito dall’acqua volò via perché il debole campo gravitazionale terrestre non fu in grado di trattenerlo, mentre l’ossigeno reagì con le sostanze presenti e trasformò ad esempio il metano in anidride carbonica ed acqua e l’ammoniaca in azoto ed acqua. Si modificò quindi la composizione dell’atmosfera che ora appariva costituita soprattutto da vapore acqueo, azoto ed anidride carbonica.

Parte dell’ossigeno che si era formato a seguito della fotolisi (dal greco “rottura per mezzo della luce”) dell’acqua si trasformò in ozono, una molecola costituita di tre atomi di ossigeno uniti insieme. Questo gas ha la caratteristica di assorbire le radiazioni ultraviolette e pertanto, una volta formato, impedì il proseguimento della fotolisi dell’acqua e nello stesso tempo l’uccisione delle prime forme di vita.

Lo strato di ozono quindi, arrestando le radiazioni ultraviolette, avrebbe fermato certe sintesi organiche determinando una carenza di alimenti, il che avrebbe prodotto una selezione sugli eterotrofi avvantaggiando quelli più adatti alle nuove condizioni ambientali.

Di questi organismi avrebbero potuto sopravvivere naturalmente quelli che avessero potuto disporre di un’altra sorgente di energia, diversa da tutte quelle utilizzate fino ad allora.

Questa nuova forma di energia era la luce del Sole che ora riusciva a filtrare facilmente attraverso l’atmosfera resa trasparente in seguito alle trasformazioni prodotte dall’ossigeno che si era liberato dalle molecole d’acqua. D’altra parte la presenza di anidride carbonica metteva a disposizione degli organismi viventi nuova materia per la formazione dei composti organici. Ora non serviva altro che una mutazione profonda la quale portasse alla comparsa di una molecola in grado di catturare l’energia luminosa inviata dal Sole e di trasferirla all’interno delle molecole.

Un momento decisivo per l’evoluzione fu dunque la comparsa della clorofilla (dal greco “foglia verde”) che permise di sfruttare l’energia solare per trasformare semplici sostanze inorganiche come l’anidride carbonica e l’acqua in sostanze organiche ricche di energia.

L’energia luminosa del Sole provoca la scissione delle molecole d’acqua negli elementi costituenti cioè in idrogeno e ossigeno e contemporaneamente, grazie all’azione catalitica della clorofilla, carica di energia chimica alcune molecole ad elevato contenuto energetico fra cui quelle di ATP. Con questa operazione si chiude il primo stadio della fotosintesi che viene detto “fase luminosa” ed inizia il secondo che consiste fondamentalmente in quello che viene detto “organicazione del carbonio”, ossia la sua trasformazione da componente di una molecola inorganica, l’anidride carbonica, a componente di una molecola organica, il glucosio. Per questa trasformazione necessitano idrogeno ed energia, due delle entità messe a disposizione della prima fase della fotosintesi. L’altra, l’ossigeno, non trova alcuna destinazione all’interno del processo fotosintetico e quindi viene allontanata come prodotto di rifiuto.

Un momento decisivo per l’evoluzione deve essere stato la comparsa della clorofilla: una molecola a struttura molto complessa la quale verosimilmente fu preceduta da qualche cosa di più semplice. Nel 1966 due biochimici canadesi, partendo da pirrolo e formaldeide, due composti ottenibili a loro volta da molecole più semplici, riuscirono ad ottenere la formazione di anelli porfirinici che sono strutture complesse le quali formano due edifici molecolari con funzioni diverse nelle piante e negli animali.

Sia l’emoglobina (la molecola del sangue che ha la funzione di trasportare l’ossigeno ai tessuti) sia la clorofilla, hanno struttura molto simile. Entrambe le molecole contengono atomi di carbonio, azoto, ossigeno e idrogeno legati ad anello con al centro, nel caso dell’emoglobina, un atomo di ferro e nel caso della clorofilla, un atomo di magnesio. Questi anelli che si chiamano porfirinici si ritrovano anche in altre molecole complesse di significato biologico come ad esempio nei citocromi.

Oggi esistono organismi che contengono composti simili alla clorofilla capaci di utilizzare l’energia della luce visibile e in alcuni casi anche di quella infrarossa (cosa che normalmente la clorofilla non è in grado di fare) per costruire composti a molecola complessa a partire da altri a molecola più semplice: essi sono i batteri fotosintetici e le alghe azzurre. Organismi simili a questi popolarono la Terra primitiva arricchendola sempre più di ossigeno e di materiale organico al quale potevano attingere gli eterotrofi che la crisi precedente aveva messo in difficoltà.

Questa modificazione dell’atmosfera favorì l’affermarsi degli organismi aerobi, capaci di procurarsi con la respirazione molta più energia di quella prodotta con la fermentazione.

 

CONCLUSIONI

I geofisici si trovano d’accordo nel ritenere che circa cinque miliardi di anni fa scoppiò la stella che fornì il materiale da cui trasse origine la nuvola di gas e polvere cosmica che avrebbe portato alla formazione del sistema solare. La Terra sarebbe quindi nata un po’ dopo di questa data e pertanto si ritiene di poter fissare la sua origine, come corpo isolato nello spazio, a 4,5 o 4,6 miliardi di anni fa.

Appena formato il nostro pianeta doveva essere di dimensioni molto maggiori di quelle attuali e costituito soprattutto di idrogeno ed elio con una piccola percentuale di elementi pesanti, ovvero costituito di materiale molto simile a quello dell’Universo nel suo complesso. In effetti sembra che i grandi pianeti come Giove e Saturno presentino anche attualmente la stessa composizione materiale della stella che generò l’intero sistema solare. Subito dopo il suo isolamento avvenne però un’abbondante scrematura che comportò l’allontanamento dei gas più leggeri che la forza di gravità non riusciva a trattenere e la formazione di alcuni composti che, nonostante le temperature piuttosto elevate, erano in grado di esistere in forma solida. Fra questi vi erano i silicati che attualmente formano le rocce più diffuse della crosta terrestre. Alcuni elementi pesanti, come ad esempio il ferro, che è il metallo più diffuso nell’Universo ma che non si unisce facilmente agli altri e per tal motivo si presenta spesso in forma isolata, insieme con suo omologo più raro, il nichel, lentamente si portò nella parte centrale del pianeta essendo sostanza più pesante dei silicati.

In questo modo si venne a differenziare gravitativamente un “nucleo” centrale più pesante formato di nichel e ferro. Sopra di esso si disposero gli ossidi di elementi pesanti che costituirono quello che i geofisici chiamano “mantello” sul quale, a sua volta, galleggiavano i materiali più leggeri che, solidificandosi, avrebbero dato origine alla “crosta” esterna.

Mentre i materiali più pesanti si andavano sistemando in funzione del loro peso, gli elementi più leggeri si disperdevano nello spazio non essendo la Terra in grado di trattenerli a sé per la sua insufficiente forza gravitazionale. Fra questi elementi leggeri vi erano innanzitutto idrogeno ed elio ma anche ossigeno, azoto, carbonio e tutti i gas nobili, che oltre all’elio comprendono neon e argo. Però mentre i gas nobili non sono in grado di combinarsi con altri elementi l’idrogeno è in grado di reagire praticamente con tutti, formando i cosiddetti composti idrogenati. Esso si combinò quindi con l’ossigeno e formò l’acqua (H2O), con l’azoto e formò l’ammoniaca (NH3), con il carbonio e formò il metano (CH4). Tutti questi composti alle temperature che vigevano sulla Terra a quel tempo erano allo stato gassoso o di vapore e si sarebbero dispersi nello spazio se non fossero rimasti intrappolati nel magma sottostante la crosta in formazione.

Quando la Terra si raffreddò e la crosta si ruppe in vari punti i gas disciolti nel magma si liberarono ed andarono a formare un’atmosfera velenosa che il pianeta a stento riusciva a trattenere. In realtà gran parte dell’idrogeno sfuggì mentre gran parte degli altri gas si sciolsero nell’acqua, che con l’abbassamento della temperatura si raccolse in forma liquida nelle depressioni del suolo. Nell’atmosfera rimasero tuttavia grandi quantità di vapore acqueo, ammoniaca e metano e forse anche una piccola quantità di idrogeno molecolare, oltre ad altri gas di secondaria importanza.

Possiamo fissare a quattro miliardi di anni fa la situazione che abbiamo or ora descritto e nella quale cominciavano a svolgersi le prime reazioni che avrebbero portato alla formazione dei precursori degli esseri viventi. Mentre le molecole idrogenate reagivano sotto l’azione dei fulmini e delle radiazioni ultraviolette provenienti dal Sole, piombavano sulla Terra meteoriti che contribuivano a rompere la fragile crosta e a liberare i gas sottostanti, e comete che trasferivano sul nostro pianeta le stesse molecole inorganiche e forse le più semplici molecole organiche che colà si formavano e che ancora oggi sono individuabili nelle loro code.

Le rocce sedimentarie più antiche risalgono a tre miliardi e mezzo di anni fa e forse contengono qualche flebile e molto problematica traccia di vita. Queste rocce si trovano in Canada, in Sud Africa e in Australia e sono state datate con molta accuratezza grazie al metodo dei radioisotopi. L’analisi chimica di queste rocce ha messo in evidenza la presenza di alcuni composti che potrebbero essere considerati “fossili chimici” perché, per quanto ne sappiamo, si tratta di composti che derivano soltanto dal metabolismo di esseri viventi. Tuttavia la certezza che si tratti di materiale molto antico non c’è, anche perché non è possibile escludere la contaminazione successiva di quelle rocce da parte di materiale organico prodotto in tempi più recenti.

In Groenlandia, in sedimenti che risalgono a 3,8 miliardi di anni fa, sono stati rinvenuti idrocarburi a struttura complessa che potrebbero essere le tracce lasciate da proto-organismi che, a loro volta, potrebbero essere stati preceduti dai coacervati.

I primi veri organismi viventi di cui si ha testimonianza diretta dai fossili raccolti in Australia hanno un’età di tre miliardi e mezzo di anni. Si tratta degli Stromatoliti, strutture costituite da numerosi strati sovrapposti come fossero pile di frittelle. Oggi è possibile osservare la formazione di strutture simili a questi antichi fossili in acque salate non molto profonde dell’Australia. Le Stromatoliti attuali sono prodotte dalla crescita di comunità di batteri e alghe azzurre (cianoficee) su cui si depositano granelli di sabbia. Batteri e cianoficee sono organismi procarioti, ossia cellule prive di nucleo differenziato e quindi poco evolute, ma le cianoficee sono capaci di fotosintesi e questa osservazione fa ritenere che le prime forme viventi dovessero essere presenti sulla Terra ancor prima di tre miliardi e mezzo di anni fa.

Ora, poiché non esiste una prova certa dell’esistenza di cellule eucariote, cioè con nucleo differenziato, di età superiore a un miliardo di anni, dobbiamo ritenere che l’evoluzione della vita nei primi due o tre miliardi di anni sia stata molto lenta e comunque riservata ad organismi unicellulari. Deve essere stato rapido invece il passaggio dagli organismi unicellulari ai pluricellulari se i primi fossili di organismi complessi erano già abbondanti 600 milioni di anni fa.

Seicento milioni di anni fa terminò la lunga era Precambriana ed iniziò quella che possiamo considerare la storia vera e propria del nostro pianeta ossia il periodo di tempo di cui abbiamo abbondante e sicura testimonianza fossile. Questa storia recente iniziò con l’era Paleozoica quando la vita era presente solo nel mare. Successivamente vennero effettuati i primi tentativi, da parte delle alghe, di invadere la terra ferma. A seguito delle piante arrivarono sulle terre emerse anche i primi animali erbivori, alcuni dei quali si differenziarono in carnivori.

Fa riflettere il fatto che l’evoluzione abbia prodotto, per tre miliardi di anni, solo esseri unicellulari mentre quelli pluricellulari siano comparsi molto tardi, diffondendosi e differenziandosi in forme sempre più complesse soltanto negli ultimi 5 o 600 milioni di anni. In realtà, durante la loro lunghissima storia, gli organismi unicellulari si sono arricchiti di “organuli” entro i quali avevano luogo reazioni e funzioni sempre più raffinate e complesse, tuttavia questi organismi, anche se sempre meglio organizzati, rimanevano ciò nondimeno strutturati in una sola cellula. Può darsi che la vita pluricellulare abbia tardato a svilupparsi per la mancanza di qualche particolare condizione ambientale ad essa necessaria che soltanto molto tardi ha potuto realizzarsi sul nostro pianeta, ma non abbiamo la più pallida idea di quale condizione possa trattarsi.

Più verosimilmente, la comparsa di forme viventi pluricellulari rappresentò un fatto probabilistico legato alla casualità degli eventi la cui frequenza, come è noto, è proporzionale alla probabilità che si realizzino (un batterio sarebbe quindi una forma vivente più probabile di un uomo e, fra gli uomini, uno con capacità intellettive mediocri sarebbe un essere intelligente più probabile di un “Einstein”). Quindi, se è vero come è vero che l’evoluzione procede per “balzi” casuali di cui poi l’ambiente si incarica di selezionare i più adatti alla sopravvivenza, dovremmo concludere che il balzo evolutivo più difficile della storia degli esseri viventi sarebbe stato non già la comparsa delle prime cellule presenti sulla Terra fin dal tempo della solidificazione della crosta, ma la transizione dagli esseri unicellulari ai pluricellulari, che ha richiesto tre miliardi di anni per realizzarsi.

Se la probabilità di esseri pluricellulari è tanto rara, la vita extraterrestre, qualora esistesse, dovrebbe essere rappresentata quasi esclusivamente dai batteri, mentre le forme pluricellulari dovrebbero essere piuttosto scarse e ancora più rare dovrebbero essere quelle intelligenti.

Prof. Antonio Vecchia

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