Le signore della scienza

Degli oltre 500 premi Nobel scientifici assegnati fino ad oggi solamente 11 sono stati attribuiti a donne, due dei quali alla stessa persona: Marie Curie. Questo dato è sufficiente per comprendere quanto sia problematico e complesso il rapporto fra le donne e la scienza. Dallo stesso dato, però, qualcuno potrebbe dedurre che le donne sono inferiori agli uomini almeno nel campo della ricerca scientifica.

Quantificare l’intelligenza di un individuo non è compito facile, ma sicuramente è molto più difficile cercare di capire se quello che noi chiamiamo intelligenza siia in qualche modo legato al sesso. E’ dimostrato che il peso del cervello femminile risulta mediamente di circa 100 grammi inferiore a quello maschile ma non è assolutamente chiaro se l’intelligenza dipenda dal peso del cervello, dal rapporto fra peso del cervello e peso corporeo (in tal caso i due sessi sarebbero alla pari) o non piuttosto dal numero di neuroni ammassati nella scatola cranica e dalla ricchezza e complessità delle loro connessioni.

Di recente perfino le teorie biologiche del XIX secolo vennero impiegate per ostacolare l’ ingresso femminile nel mondo della ricerca scientifica e più in generale della conoscenza. Sulla base di quelle teorie le donne erano considerate esseri emotivi e irrazionali e per ciò stesso negate per il lavoro scientifico; l’evoluzione – si affermava – aveva sviluppato in loro abilità e attitudini domestiche e pertanto troppa scienza avrebbe danneggiato la loro femminilità rendendole inadatte al ruolo di madri.

ESEMPI DEL PASSATO

L’emarginazione delle donne in tutti i campi della conoscenza ma soprattutto in quello scientifico e tecnologico risale a tempi molto antichi e poi è proseguita fino quasi ai giorni nostri. Fra le tante vicende di esclusione delle donne dall’area privilegiata del sapere scientifico è stata scelta, dal movimento femminista moderno, la vicenda di Ipazia quale esempio e simbolo della repressione violenta nei confronti delle donne impegnate nell’esercizio della scienza.

Ipazia di Alessandria, la donna più sapiente dell’antichità, ammirata e rispettata dai suoi discepoli, fu brutalmente uccisa da un gruppo di frati fanatici e violenti. Era nata nel 370 dopo Cristo ed era stata educata dal padre Teone, matematico e astronomo del celebre museo di Alessandria, centro della cultura del periodo ellenistico. Scrisse molti libri di matematica e astronomia e pubblicò studi anche di meccanica e tecnologia (inventò fra l’altro l’astrolabio, il planisfero e l’idroscopio): era insomma uno scienziato nel senso moderno del termine.

Mentre una sera tornava a casa, un manipolo di monaci cristiani la aggredirono e la trascinarono in una chiesa dove le strapparono le vesti di dosso e, dopo averle sfregiato il corpo con alcune conchiglie taglienti la fecero letteralmente a pezzi, finché ciò che restava di quel povero corpo martoriato fu dato alle fiamme. Ipazia era colpevole, agli occhi dei cristiani, che in quegli anni stavano assumendo il potere attraverso la repressione violenta, di essere neoplatonica, cioè seguace di quel movimento filosofico che rappresentò l’ultima espressione del pensiero pagano.

Eppure l’atteggiamento discriminatorio dell’uomo nei confronti delle donne non esiste da sempre. Quando la specie umana apparve sul pianeta armata solo della propria intelligenza che le consentiva di non rimanere succuba dell’ambiente (come capitava a tutti gli altri esseri viventi) i ruoli fra maschio e femmina erano ben distinti e non prevedevano il predominio dell’uno sull’altra. Mentre il maschio cacciava ed esplorava l’ambiente, la femmina provvedeva alla raccolta dei frutti e delle erbe, alla elaborazione del cibo, alla difesa dell’abitazione dalle intemperie e alla protezione dei piccoli.

Le prime presenze femminili in campo scientifico sono quindi individuabili già nelle società preistoriche dove la donna diventa per necessità botanica, chimica, architetto e medico. Attraverso queste mansioni elabora un sapere che non si contrappone violentemente alla natura per dominarla (come farà successivamente il maschio) ma che invece utilizza per il proprio vantaggio ciò che l’ambiente mette a sua disposizione. Così ad esempio la donna scopre e tramanda i nomi delle piante distinguendo quelle commestibili dalle medicamentose, dalle velenose e da quelle con poteri allucinogeni.

Con l’introduzione della scrittura (l’invenzione più importante dopo il fuoco e la ruota) il ruolo delle donne nello sviluppo della scienza e della tecnologia si avvia al suo declino. Nasce infatti con la scrittura un altro sapere, più analitico e incisivo con il quale l’uomo diventa padrone assoluto della natura fino a piegarla e asservirla ai propri bisogni mentre contemporaneamente alla donna viene proibito l’accesso al mondo della conoscenza, e non solo quello: persino certe aree del sacro le furono interdette. Fu in quella occasione probabilmente che il sapere femminile entrò nella clandestinità divenendo un sapere confinato nell’esoterico e nel magico e il ricco mondo primordiale delle conoscenze muliebri finì sul mercato subalterno (oggi per fortuna non più perseguitato) dell’astrologia, della chiromanzia e della scienza occulta.

Pertanto, poiché fino all’Ottocento era negata alle donne un’istruzione adeguata quelle poche di loro che si sono affermate lo hanno potuto fare solo nell’ambito della famiglia di solito in associazione con mariti, padri o fratelli disposti a fornire ad una ragazza particolarmente dotata l’istruzione negata dalle istituzioni. Questo è il caso oltre che di Ipazia e del padre Teone, anche dell’astronoma Caroline Herschel e del fratello William, di Sofie e Tycho Brahe e dei coniugi Lavoisier, i fondatori della chimica moderna. Anche più tardi, quando cominciarono a svilupparsi le strutture pubbliche per il progresso e la diffusione della scienza, alle donne fu concesso di iscriversi alle Università però senza poter conseguire la laurea mentre le istituzioni di maggior prestigio continuavano ad opporsi all’ammissione delle donne al loro interno: ad esempio la Royal Society di Londra e l’Académie des Sciences di Parigi non accettarono candidature femminili fino a pochi anni fa. Stranamente in Italia, nazione apparentemente conservatrice, si ebbero già nel XVIII secolo donne insegnanti nelle Università e donne elette membri d’accademia.

Attualmente le cose sono migliorate ma siamo ancora lontani da una effettiva parità di diritti fra maschi e femmine all’interno del mondo della ricerca scientifica ed anzi, da un certo punto di vista, le contraddizioni si sono acuite. Ad esempio in Italia le donne che si iscrivono ai corsi di laurea in materie scientifiche e si laureano sono quantitativamente e qualitativamente (cioè con punteggi) superiori agli uomini, ma in seguito solo ad una percentuale molto bassa di esse vengono affidati posti di maggiore prestigio e responsabilità (direttore di dipartimento, preside di facoltà, eccetera) e un numero ancora più esiguo arriva ai vertici dirigenziali degli Enti di ricerca pubblici e privati. Tale fenomeno peraltro non esiste solo in Italia ma si può riscontrare in tutti i Paesi in cui sono disponibili i dati al riguardo.

In tutti i settori tecnici e scientifici c’è poi un gap evidentissimo negli stipendi: negli Stati Uniti, ad esempio, agli inizi della carriera le donne guadagnano in media un 10 per cento in meno dei colleghi maschi e intorno ai quarant’anni di età lo scarto diventa del 20%. Poi c’è il problema degli impegni familiari e soprattutto dei figli che non si sa a chi lasciare quando sono piccoli, se non ci sono i nonni disposti ad accudirli: insufficienti sono infatti gli asili nido e poche le scuole che praticano il tempo pieno. Certo è che le gravidanze e la cura dei figli generano nelle femmine percorsi di accesso e di sviluppo di carriera più lunghi rispetto ai maschi. Naturalmente ci sono le eccezioni come il caso di Madame Curie o della matematica bolognese Laura Bassi (1711-1778) la cui carriera accademica non interferì con la sua vita familiare se ha trovato il modo di mettere al mondo ben 12 figli. Ma erano altri tempi.

E’ indubbio che fra i fattori i quali oggi maggiormente ostacolano il percorso professionale delle donne nel mondo della ricerca ci siano gli obblighi familiari. Non è un caso infatti che un buon numero di donne ricercatrici siano nubili e ancora più alto sia il numero di coloro che, pur essendo sposate, non hanno figli. Due esempi emblematici sotto questo aspetto sono rappresentati dalla astrofisica Margherita Hack, molto nota in Italia e all’estero, sposata e senza figli e Rita Levi-Montalcini, nubile. Forte è anche il disagio che le donne incontrano nel rapporto con i colleghi maschi.

Lo scarso contributo femminile nella organizzazione della ricerca scientifica non è privo di conseguenze: esso crea infatti un sistema che non sfrutta al meglio le risorse professionali e intellettuali di cui dispone il Paese. Una nuova consapevolezza delle donne che fanno ricerca insieme con un aumento della loro presenza non c’è dubbio che produrrebbe un risultato finale decisamente migliore.

I PREMI NOBEL

Le dieci donne che dal 1901 (anno della sua costituzione) ad oggi hanno vinto il premio Nobel nel campo della fisica, della medicina o fisiologia e della chimica sono le seguenti: Marie Curie-Sklodowska (nel 1903 per la fisica insieme con il marito Pierre e con Henry Becquerel e nel 1911 per la chimica), sua figlia Irene Joliot-Curie (nel 1935 per la chimica insieme con il marito Frédéric), Gerty Cori-Radnitz (nel 1947 per la medicina o fisiologia), Maria Goeppert-Mayer (nel 1963 per la fisica), Dorothy Crowfoot Hodgkin (nel 1964 per la chimica), Rosalyn Sussman Yalow (nel 1977 per la medicina o fisiologia), Barbara McClintock (nel 1983 per la medicina o fisiologia), Rita Levi-Montalcini (nel 1986 per la medicina o fisiologia), Gertrude Elion (nel 1988 per la medicina o fisiologia) e Cristiane Nüsselein-Volhard (nel 1995 per la medicina o fisiologia).

Nonostante i loro meriti siano stati legittimati ufficialmente con il massimo riconoscimento mondiale, per loro tuttavia la vita di ricercatrici in un contesto maschile e maschilista non è stata facile.

Chi ha dovuto patire ogni sorta di privazioni e di umiliazioni per realizzare il suo sogno fu proprio la più famosa di tutte: la polacca Marya Sklodowska. Essa nacque a Varsavia nel 1867, ultima di cinque figli. Suo padre era un insegnante la cui carriera fu ostacolata dalle autorità russe a causa dei suoi sentimenti intensamente patriottici. All’età di dieci anni Marya perse la madre malata di tubercolosi (una patologia che per lungo tempo impedì alla donna un contatto affettuoso con i figli); due anni prima le morì anche la sorella maggiore. In quell’occasione Marya perse la fede cattolica nella quale era stata allevata rimanendo miscredente per il resto della vita. A 15 anni terminò la scuola dell’obbligo ma non poté continuare gli studi perché in quel periodo in Polonia le donne non avevano accesso all’istruzione di livello superiore.

La sua massima aspirazione era quella di poter studiare matematica e fisica ma le ristrettezze economiche in cui si trovò la famiglia le impedivano la frequenza regolare anche delle cosiddette “Università volanti” (una specie di atenei popolari organizzati clandestinamente da gruppi di studenti che si riunivano in case private sempre diverse) e finì per fare la governante in una ricca famiglia di proprietari terrieri dove passò lunghi periodi di depressione che solo grazie alla sua forte tempra riuscì a superare. Frattanto tutto ciò che guadagnava lo spediva alla sorella Bronia che studiava medicina a Parigi, con la promessa che quando questa fosse stata in grado a sua volta di guadagnare l’avrebbe mantenuta agli studi. E così fu: nel 1891 Marya salì su una specie di carro merci con pochi soldi in tasca per recarsi a Parigi.

Qui la vita non fu per nulla facile, anzi forse peggiore di quella che aveva lasciato in Polonia ma la sua indole inflessibile le consentì di superare tutte le difficoltà e di laurearsi prima in fisica e poi in matematica. Frattanto aveva conosciuto Pierre Curie, un fisico già affermato di otto anni più vecchio di lei, che sposò nel 1895 (da quel giorno il suo nome divenne Marie) e da cui ebbe due figlie: Irene che continuerà la carriera della madre con brillanti risultati ed Ève che diventerà una pianista di buon livello e scriverà anche una biografia della madre che avrà enorme successo.

Dopo tanti sacrifici e tante amarezze finalmente arrivò qualche soddisfazione e il riconoscimento del faticoso lavoro che aveva svolto con il marito, il quale frattanto aveva ottenuto la cattedra di fisica alla Sorbona cui teneva tanto. Nel 1903 marito e moglie vinsero il premio Nobel che divisero con il fisico Henry Becquerel il quale scoprì quelli che lui aveva chiamato i “raggi uranici”: un fenomeno che venne approfondito dai coniugi Curie e che fu da essi ribattezzato “radioattività”.

La felicità dell’intrepida polacca durò poco perché il 19 aprile del 1906 una terribile disgrazia si abbatté su di lei: nel pomeriggio di quel giorno, mentre attraversava distrattamente una strada di Parigi, Pierre fu investito da un carro i cui cavalli si erano imbizzarriti e vi trovò la morte.

La tragedia sconvolse Marie che reagì chiudendosi vieppiù su sé stessa e acuendo la propria ruvidezza. Pochi mesi dopo la vedova fu nominata professore alla Sorbona succedendo alla cattedra che fu di suo marito e riprendendo le lezioni esattamente dal punto in cui le aveva lasciate Pierre. Nel 1911 ricevette un secondo premio Nobel, questa volta per la chimica. Più o meno nella stessa epoca fu coinvolta in uno scandalo che, alimentato dai giornali, assunse proporzioni esagerate. La stampa enfatizzò una sua relazione con il fisico Paul Langevin, un fatto privato che fu oggetto di commenti scandalistici. Lo scienziato, più giovane di Marie, era sposato con quattro figli; ex studente di suo marito e amico di famiglia da molti anni, egli aveva intensificato i contatti con Marie offrendo alla vedova compagnia e sostegno. Marie rimuoverà totalmente la storia con Langevin ma tra le carte trovate a casa del fisico è stata recuperata una lettera in cui la scienziata sollecitava l’amante a non farla attendere a lungo la “separazione dei letti”.

All’inizio della prima guerra mondiale organizzò una serie di ambulanze dotate di apparecchiature per i raggi X molto utili per individuare fratture ossee e localizzare pallottole e frammenti di granata nel corpo dei soldati. Come assistente prese la figlia Irene che a quel tempo non aveva ancora compiuto 18 anni. Essa stessa nei primi tempi si occupò dell’esecuzione delle radiografie senza prendere alcuna precauzione, come d’altra parte aveva fatto in precedenza, maneggiando tonnellate di materiale radioattivo. In realtà non erano ancora ben noti i pericoli insiti nell’eccessiva esposizione ai raggi X e più in generale alle radiazioni invisibili emesse dall’uranio e dai suoi derivati.

Quando si capì che quelle radiazioni erano pericolose i fisici provarono ad inserire tra le pagine dei libri consultati da Madame Curie pellicole fotografiche le quali, una volta sviluppate, rilevarono la presenza di numerose impronte lasciate evidentemente da sostanze radioattive di cui erano intrise le mani della scienziata e quando in tempi recenti venne riesumato il corpo per trasferirlo dal cimitero in cui era stato sepolto al Pantheon le ossa risultavano ancora fortemente radioattive.

Morì di leucemia (indubbiamente contratta a causa delle radiazioni accumulate durate il suo lungo lavoro di ricercatrice) nell’estate del 1934 in un sanatorio del sud della Francia dopo avere avuto però la soddisfazione di vedere la figlia realizzare con il marito Fréderic Joliot il sogno degli alchimisti, ossia la trasformazione artificiale di un elemento chimico in un altro; perse però la cerimonia dell’assegnazione del Nobel avvenuta l’anno seguente.

Fra i premi Nobel al femminile meritano ancora un cenno Rita Levi-Montalcini per le traversie che ne hanno ostacolato la carriera in quanto ebrea oltre che donna e l’americana Barbara McClintock per le geniali intuizioni che vennero riconosciute solo quarant’anni dopo le sue scoperte.

Rita Levi-Montalcini nacque a Torino il 22 aprile del 1909 quindi attualmente (novembre 2003) ha 94 anni compiuti; sua sorella gemella (pittrice e scultrice di successo) è morta invece nel settembre del 2000 all’età di 91 anni. Si laureò in medicina nel 1936 nella sua città natale discutendo la tesi con l’istologo triestino Giuseppe Levi (1872-1964). Sotto l’incalzare delle persecuzioni razziali fu costretta a lasciare l’Università e dopo un anno passato a Bruxelles tornò a Torino dove continuò la sua attività in un piccolo laboratorio di neuroembriologia sperimentale (faceva ricerca su embrioni di pollo) allestito in casa sua.

Terminata la guerra durante la quale essa visse clandestinamente a Firenze ritornò all’Università di Torino. Nel 1947 fu invitata a recarsi alla Washington University di St. Louis (Missouri) dove rimase fino al 1977 con la qualifica di full professor. A lei si unì nelle ricerche, agli inizi degli anni Cinquanta, un giovane biochimico newyorkese, Stanley Cohen (1922- ) con il quale individuò il primo fattore di crescita denominato Nerve growth factor (Ngf) o fattore di crescita nervosa e successivamente un secondo fattore denominato Epidermal growth factor (Egf).

Dal 1961 al 1969 diresse i programmi di ricerca in neurobiologia del CNR (Consiglio nazionale delle ricerche) di Roma realizzati in collaborazione con l’Istituto di Biologia della Washington University. Nel 1986, a trent’anni dalla scoperta del fattore di crescita nervoso, le fu assegnato il premio Nobel che condivise con il compagno di studi Cohen. Dal 1989 lavora presso l’Istituto di Neurobiologia del CNR in qualità di superesperto.

Un esempio che dimostra l’eterna incapacità del mondo accademico di accettare nuove idee ci viene offerto dalla vicenda che ebbe per protagonista Barbara McClintock una scienziata che nacque nel Connecticut (USA) il 16 giugno 1902 e morì a novant’anni dieci anni dopo il conferimento del Nobel. Essa ebbe una vita tutt’altro che facile ma proprio in seguito alle tante traversie che ne ostacolarono il lavoro e la carriera, sviluppò una forza e una tensione emotiva che le permisero di raggiungere traguardi molto elevati.

McClintock è stata definita la “mamma della genetica” in quanto agli inizi degli anni ’40 studiando il mais nel corso di più generazioni, scoprì i cosiddetti “geni mobili”, ossia quei tratti di DNA che si spostano da un cromosoma all’altro in maniera autonoma e imprevedibile. Per i genetisti di quei tempi il corredo cromosomico era invece qualche cosa di stabile e immutabile e quindi qualsiasi modificazione di esso sarebbe stata fatale per l’organismo. Anche in tempi più recenti molti pensano che l’introduzione di geni estranei all’interno del genoma di un essere vivente sarebbe fuori di ogni regola non solo etica, ma anche biologica.

In quegli anni la biologa, sprovvista di grandi titoli e con a disposizione mezzi molto limitati, lavorava al Carnegie Institution di Washington quando non era ancora nota la struttura a doppia elica del DNA e tanto meno il codice genetico. Essa però era una donna di grande intuito e capì subito che doveva esserci una relazione fra la pigmentazione per niente omogenea dei grani della pannocchia di mais e i cromosomi della pianta. I risultati dei suoi studi furono accettati solo dopo che venne sviluppata la biologia molecolare, attraverso la quale queste osservazioni acquisirono significato anche nei confronti della scienza tradizionale.

La scienziata dovette aspettare ben 42 anni per vedere riconosciuti i suoi meriti: vinse infatti il premio Nobel nel 1982. In realtà la colpa di questo ritardo fu in un certo senso anche sua perché l’acutezza mentale nel procedere con gli esperimenti non era accompagnata da una uguale accortezza nel diffonderli. Finì così per favorire involontariamente una sorta di disattenzione del mondo scientifico nei suoi confronti.

I NOBEL NEGATI

Molti sono i casi di mancato riconoscimento ufficiale del lavoro delle donne scienziate. Ci limiteremo a raccontare i quattro che vengono considerati i più clamorosi.

Quello di Jocelyn Bell è sicuramente l’esempio più emblematico del duro cammino delle donne in un mondo che fino a pochi anni fa era prevalentemente maschile. A questa giovane ricercatrice fu letteralmente scippato il premio Nobel dal suo capo, il professore Antony Hewish, direttore del dipartimento di astrofisica dell’Università di Cambridge in Inghilterra. Ecco come si svolsero i fatti.

Nell’estate del 1967 iniziò a funzionare un radiotelescopio di grandi dimensioni “costruito in casa” su progetto dello stesso Hewish ma alla cui realizzazione partecipò fattivamente fra gli altri anche la sua allieva Jocelyn. L’apparecchio doveva servire per individuare con precisione lontanissime quasar in base ai loro segnali molto variabili. Alla giovane studentessa che stava preparando la tesi di laurea era stato assegnato il compito di analizzare i tracciati (simili ad elettrocardiogrammi) che venivano registrati su fogli di carta collegati al radiotelescopio.

Il 28 novembre di quell’anno la Bell notò un particolare segnale radio, che sul momento sembrava privo di significato ma che lei non trascurò di analizzare a fondo. Essa osservò che quel segnale era composto da impulsi periodici della durata di circa un secondo. Della scoperta avvertì il suo professore il quale dapprima considerò che l’insolita interferenza potesse essere dovuta a segnali radio provenienti da una qualche sorgente locale poi però avendo verificato che l’impulso era troppo regolare per essere emesso da una stazione radio terrestre, decise che doveva provenire dallo spazio. Si pensò allora ad una lontana civiltà di esseri intelligenti che cercava di mettersi in contatto con altre dello stesso tipo presenti nella Galassia. A questa ipotetica civiltà fu assegnata la sigla LGM (little green men, cioè omini verdi), ma l’ipotesi fu scartata dopo che la Bell scoprì altre tre sorgenti radio dello stesso tipo provenienti da diverse zone del cielo; queste infatti dovevano trovarsi a distanze talmente remote che l’energia impiegata per trasmettere un segnale, fra l’altro incomprensibile, avrebbe dovuto essere così elevata che nessuna civiltà intelligente l’avrebbe utilizzata per quello scopo.

Si trattava invece di stelle di neutroni in rapida rotazione a cui fu assegnato in nome di pulsar dalla contrazione di pulsating star, cioè stelle pulsanti perché all’inizio si era ritenuto potesse trattarsi di qualche cosa che pulsava invece che ruotare. Attualmente si conoscono oltre 500 pulsar nella nostra Galassia.

Nel 1974 Hewish ebbe il premio Nobel per la fisica per i suoi meriti scientifici, ma soprattutto per avere scoperto le pulsar mentre la Bell in quell’occasione non fu nemmeno menzionata. È vero che Hewish progettò il radiotelescopio (insieme con il conterraneo Martin Ryle, con cui divise il premio) che consentì l’osservazione del fenomeno e successivamente fornì anche la corretta interpretazione dello stesso ma è altrettanto vero che la scoperta si doveva alla costanza della giovane ricercatrice nel voler continuare le osservazioni di un segnale all’apparenza insignificante.

L’ingiustizia subita dalla Bell fu grande ma in un certo senso ancora peggio andò alla studiosa inglese Rosalind Franklin. Questa è la storia raccontata in un libro da uno dei protagonisti, James Watson, che ricorda la vicenda con umorismo misto ad arroganza e ad un pizzico di cattiveria. Commenta Watson in un passo del suo racconto: “Rosy è proprio la classica femminista che uno vede molto bene nel laboratorio di un altro”.

Come molti sanno, mezzo secolo fa (aprile 1953) veniva scoperta la struttura a doppia elica del DNA per opera di due giovani scienziati pressoché sconosciuti, lo zoologo americano James Watson e il fisico inglese Francis Crick: ma l’avere svelato la forma della molecola che sta alla base della vita non è solo merito loro. E’ vero che i due vennero messi sulla strada giusta da alcune brillantissime loro intuizioni, ma anche dall’appropriazione non autorizzata dell’opera della Franklin.

Rosalind Franklin nacque nel 1920 e dopo essersi laureata a Cambridge in biochimica passò alcuni anni a Parigi dove ebbe modo di acquisire esperienza negli ottimi laboratori di quella Università. Si trasferì quindi al King’s College di Londra dove trovò un ambiente per nulla disponibile nei confronti del gentil sesso (fra le tante discriminazioni vi era ad esempio anche quella che proibiva l’accesso alle donne nella sala ristoro) soprattutto per lei che aveva un carattere forte e a volte brusco.

Nel suo lavoro Rosalind era abilissima tanto che riuscì ad ottenere ai raggi X immagini tecnicamente perfette di molecole di DNA che lei stessa aveva studiato con attenzione fino a pervenire al convincimento che quelle foto celassero la forma a spirale della molecola. Era sul punto di pubblicare la sua scoperta quando il responsabile del dipartimento di biofisica, Maurice Wilkins, con il quale i rapporti erano pessimi, dopo averle chiesto a più riprese di vedere il risultato delle sue ricerche e avere sempre ottenuto risposta negativa riuscì a sottrarre dal suo cassetto le foto incriminate e a mostrarle a Watson che lavorava a Cambridge ma che nel gennaio del 1953 si era recato a Londra per acquisire nuove conoscenze relative al lavoro che stava svolgendo con Crick.

Nove anni più tardi, nel 1962, Watson, Crick e Wilkins furono insigniti del premio Nobel. Rosalind Franklin non c’era più poiché morì di cancro alle ovaie nel 1958 all’età di 38 anni, avendo molto probabilmente contratto il male a causa delle radiazioni cui si era esposta nel suo lavoro.

Altra storia molto significativa dal nostro punto di vista riguarda il più grande scienziato del XX secolo: Albert Einstein, il quale sarebbe stato molto aiutato nella formulazione della teoria della Relatività dalla sua prima moglie, Mileva Marič, ma poi se ne sarebbe attribuiti per intero onore e gloria. Esistono documenti e lettere che comproverebbero questa tesi. In uno di questi scritti si legge che Mileva avrebbe rinunciato a citare il proprio cognome nelle pubblicazioni del marito affermando: “Siamo entrambi una sola pietra” (in tedesco “una pietra” si dice ein stein).

Mileva Marič era nata nel 1875 in Voivodina, provincia dell’Impero austroungarico, da una famiglia benestante. Era molto dotata e già da giovanissima mostrava un forte interesse per le scienze naturali. Suo padre ne incoraggiò le aspirazioni e le permise di frequentare prima il Liceo ginnasio di Zagabria e poi di recarsi in Svizzera per completare gli studi perché a quel tempo nell’Impero austroungarico le donne non potevano accedere alle scuole superiori. A diciotto anni Mileva si recò quindi da sola a Zurigo dove ottenne il diploma di scuola media superiore col quale si iscrisse all’Università. Dopo avere frequentato un semestre di medicina passò all’École Politecnique per studiare matematica e fisica e nelle aule austere di quella scuola conobbe Einstein, di quattro anni più giovane di lei. Studiarono insieme, diventarono amici e si innamorarono.

Mileva, a differenza di Albert, non riuscì a superare gli esami finali nemmeno al secondo tentativo e quindi si trovò inaspettatamente senza diploma e senza lavoro. Ad Einstein non andò meglio: aveva in tasca un diploma che lo abilitava all’insegnamento ma nessuna scuola lo voleva assumere. Alla fine trovò una sistemazione precaria insegnando da supplente in alcune scuole e dando lezioni private. Frattanto Mileva gli comunicò di aspettare un figlio per partorire il quale fu costretta a rientrare in famiglia, dove mise al mondo Lieserl, una bambina della quale si ignora il destino. Una delle ipotesi è che la piccola sia morta subito dopo la nascita; secondo altre fonti fu affidata ad una nutrice la quale a sua volta la dette in adozione. E’ probabile che fin da giovanissima questa creatura dovette essere ricoverata in un luogo di cura in quanto sofferente di un ritardo mentale. Tornati insieme i due pensarono di sposarsi, ma i genitori di lui non erano per nulla d’accordo che il loro figliolo prendesse per moglie una ragazza straniera, più grande di lui, claudicante e per di più non ebrea. Einstein sposerà Mileva nel gennaio del 1903, pochi mesi dopo la morte di suo padre. Dal matrimonio nacquero altri due figli: Hans Albert e Eduard. Quest’ultimo era un bimbo di salute assai cagionevole e secondo i medici del tempo egli era anche malato di schizofrenia.

Einstein divorzierà da Mileva nel 1919 e subito dopo sposerà la cugina Elsa con la quale aveva una relazione fino dal 1912. Alla ex moglie promise come “buonuscita” il denaro del premio Nobel che non aveva ancora ricevuto ma che era sicuro di vincere (il premio gli verrà assegnato nel 1922 per l’interpretazione dell’effetto fotoelettrico: un fenomeno importante ma non quanto la rivoluzionaria teoria della Relatività). Con quel denaro la Marič acquisterà un appartamento a Zurigo dove vivrà con i figli fino alla morte, avvenuta nel 1946.

Ritorniamo ora al contributo che la piccola serba avrebbe dato ad Einstein nella preparazione della teoria relativistica. In alcune lettere che il fisico tedesco invia alla fidanzata accenna al “nostro lavoro” cioè ad un lavoro svolto in comune fra lui e la Marič la quale, come abbiamo visto, non era riuscita a laurearsi in fisica ma era tuttavia competente della materia e soprattutto abile nei calcoli un requisito che invece difettava in Einstein; egli stesso d’altronde riconobbe nel 1903 di avere bisogno della moglie in quanto essa gli risolveva i problemi matematici. Dopo la separazione da Mileva, Einstein dovette infatti sempre farsi aiutare nel suo lavoro da esperti di matematica. Vi sono anche i manoscritti originali (purtroppo perduti) sui quali – garantisce il referente della rivista “Annalen der Physik” dove Einstein pubblicò i suoi fondamentali lavori – compariva la doppia firma Einstein-Marič. Anche questo deporrebbe a favore del sodalizio scientifico che si instaurò fra i due fisici all’ inizio della loro convivenza.

Qualsiasi sia la verità alla Marič non fu riconosciuto nulla del lavoro svolto a fianco del fidanzato e poi del marito il quale la lascerà nel 1914. Da quella data Mileva scomparirà nel nulla, per dedicarsi totalmente al ruolo di casalinga e di custode dei figli, verso i quali Albert non dimostrò mai interesse e affetto.

Vi è infine il caso della fisica austriaca Lise Meitner (1878-1968) che per prima interpretò correttamente il fenomeno della fissione nucleare. Si tratta probabilmente del caso più clamoroso di scienziato cui non sia stato assegnato il premio Nobel per la fisica.

Proseguendo gli esperimenti iniziati dal gruppo di Fermi sulla disintegrazione radioattiva, nel gennaio del 1939 il chimico tedesco Otto Hahn (1879-1968) dichiarò di avere bombardato l’Uranio con neutroni e di avere ottenuto Bario. Il Bario è un elemento che pesa circa la metà dell’Uranio e a quel tempo sembrava impossibile che un elemento pesante colpito da neutroni potesse trasformarsi in qualche cosa di molto più leggero. Si trattava in realtà della fissione, cioè della rottura in due frammenti leggeri del nucleo dell’atomo di Uranio. Lo stesso risultato era già stato ottenuto nel 1934 da Fermi il quale però, attraverso quell’ esperimento, pensò di aver prodotto due elementi più pesanti dell’Uranio, i cosiddetti transuranici, a cui attribuì i numeri 93 e 94 del sistema periodico (l’Uranio ha il numero 92).

In verità nemmeno Hahn aveva capito che cosa fosse effettivamente successo in seguito ai suoi esperimenti e pensava che la radioattività presente nel Bario, che alla fine del processo di disintegrazione radioattiva si trovava mescolato all’Uranio, dipendesse dalla presenza di Radio. Ma per quanti tentativi facesse, l’abile chimico non riuscì a separare dal resto questo elemento.

Hahn comunicò i risultati delle sue ricerche a Lise Meitner, sua collaboratrice al Kaiser Wilhelm Institut di Berlino, con la quale aveva lavorato a lungo ma che da alcuni anni, in quanto ebrea, si era dovuta rifugiare a Stoccolma per sfuggire alle persecuzioni razziali. In quella città la fisica austriaca che con Hahn aveva scoperto il Protoattinio, un nuovo elemento chimico, continuava le sue ricerche sugli elementi radioattivi presso l’Istituto Nobel di quella città.

Nel suo rifugio in Svezia la Meitner ripeté l’esperimento segnalatole da Hahn coadiuvata dal nipote, il fisico Robert Frisch, il quale da Copenhagen dove in quel periodo era rifugiato anch’egli per motivi razziali aveva raggiunto la zia per passare con lei le vacanza invernali. La Meitner scoprì la ragione per la quale nei laboratori di Berlino non si riusciva a separare il Radio dal Bario: quell’elemento semplicemente non c’era.

Inviò quindi una lettera alla rivista Nature nella quale esprimeva il convincimento che bombardando il nucleo dell’atomo di Uranio con neutroni lenti questo si dividesse in due altri nuclei atomici di peso pressoché uguale (il termine fissione fu usato per la prima volta proprio dalla stessa Meitner).

Il chimico tedesco Otto Hahn riceverà il Nobel nel 1944 per la scoperta della fissione nucleare ma lo potrà ritirare solo a guerra finita, mentre la Meitner, che aveva fornito la corretta interpretazione di quel fenomeno e recato altri numerosi contributi alla fisica nucleare, non ebbe mai alcun riconoscimento ufficiale. Morì nel 1968 pochi giorni prima del suo novantesimo compleanno.

Alla fisica austriaca, a parziale e tardivo risarcimento del torto subito, è stato riservato il nome di un elemento chimico sintetizzato nell’agosto del 1982. Si tratta dell’elemento 109 del sistema periodico a cui nel 1997 si è deciso di assegnare il nome di Meitnerio.

Prof. Antonio Vecchia

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