La Teoria

  “La scienza si costruisce con i fatti, come una casa con le pietre; ma una raccolta di fatti non è una scienza più di quanto un mucchio di sassi non sia una casa.”  Per approdare alla conoscenza scientifica servono anche le teorie, ovvero l’interpretazione dei dati raccolti.

    Attraverso una lunga serie di osservazioni e di analisi dei dati sperimentali si è giunti alla conclusione che l’Universo esiste da circa quindici miliardi di anni e la Terra da quasi cinque. Inoltre, alla luce delle attuali leggi della fisica, si è potuto anche stabilire che le forme di vita più semplici, sorte spontaneamente dalla materia inanimata, cominciarono ad esistere oltre tre miliardi di anni fa. Lenti processi evolutivi resero quindi queste prime forme di vita via via più complesse fino ad arrivare agli antenati del genere umano. Infine, l’Homo sapiens, l’attuale specie umana, popola la Terra da almeno cinquantamila anni.

Tutto chiaro? Nemmeno per sogno. Vi sono persone, in realtà non molto numerose, ma molto determinate, residenti soprattutto nelle regioni meridionali degli Stati Uniti, che non la pensano in questo modo: esse ritengono che il mondo sia stato creato da Dio non più di diecimila anni fa. C’è anche chi ha voluto fare i conti con maggiore precisione. Un vescovo anglicano, di nazionalità irlandese, prendendo alla lettera ciò che è scritto nella Bibbia, calcolò che Dio iniziò l’opera il 23 ottobre del 4004 a.C. alle 9 del mattino e la concluse in sei giorni, poi si prese 24 ore di riposo. Inoltre, costoro pensano che gli esseri umani e tutte le altre specie viventi siano stati generati così come oggi li vediamo e che non ci siano mai stati processi evolutivi di qualsiasi genere. Questi personaggi si dicono “creazionisti” o meglio, senza conoscere nulla della scienza, delle finalità e del metodo che essa adotta nella ricerca, si definiscono, con una buona dose di presunzione, creazionisti scientifici.

 

IL DISEGNO INTELLIGENTE

“Disegno intelligente” viene chiamata, in chiave moderna, la “verità” biblica. Alla ricerca di evidenze oggettive di questa idea si sono schierati anche alcuni scienziati proponendo la tesi della cosiddetta “complessità irriducibile”, secondo la quale certe strutture biologiche sarebbero così sofisticate da non poter essere spiegate attraverso un processo evolutivo. Per questo motivo, e in questi casi, si renderebbe indispensabile la mano di Dio. A differenza di una teoria che può solo essere confutata, ma mai dimostrata vera, il “disegno intelligente” (che di intelligente ha solo il nome) non può nemmeno essere confutato semplicemente perché non è una teoria scientifica, ma solo una credenza religiosa travestita da (pseudo)scienza.

Pochissimi in Europa ritengono che l’uomo sia nato da un pupazzo di creta a cui Dio avrebbe insufflato l’anima e che la donna sia stata generata da una sua costola. Tuttavia qualcuno che la pensa in questo modo c’è anche fra noi. Conosco un professore laureato in fisica che ha insegnato in un liceo, il quale, poiché dichiara esplicitamente di non credere che l’Universo sia iniziato con uno “scoppio” e soprattutto di non credere che l’uomo derivi dalla scimmia, è diventato fautore del creazionismo. Egli ritiene che l’origine dell’Universo e dell’uomo, come vengono spiegati dalla scienza ufficiale, non siano fatti reali, ma solo teorie. Dire che si tratta solo di teorie è senz’altro una verità, ma nello stesso tempo un’affermazione ingannevole. Infatti, se si tratta solo di teorie, ciò è esattamente quello che devono essere.

A questo punto è necessario spiegare cosa è una teoria e che la teoria scientifica è ben diversa da quella che si usa nel linguaggio comune, in cui la parola è spesso ritenuta sinonimo di opinione. Si sente dire ad esempio: “Ho una mia teoria su quella bambina che è scomparsa nel nulla mentre giocava davanti casa e la mamma non ha più notizie di lei da molti anni. “Oppure la stessa parola viene considerata come qualcosa di irrealizzabile quando, ad esempio, si afferma che “in teoria sarebbe possibile mettere piede su Marte anche se in pratica nessuno lo ha ancora fatto e forse mai lo farà”.

La teoria scientifica, a differenza del termine che normalmente utilizza la gente comune quando esprime il proprio pensiero, è proposta dagli scienziati e messa a disposizione della comunità scientifica affinché ne verifichi la validità. La scienza è un processo autocorrettivo e gli scienziati di fatto cambiano le loro idee: ma lo fanno solo sulla base di nuove prove o di una presentazione originale e convincente di un certo ragionamento. Un esempio calzante a questo proposito è la teoria di Alfred Wegener (1880-1930) sulla deriva dei continenti che non aveva retto alle critiche avanzate dal mondo accademico. Essa fu abbandonata mentre si faceva strada una nuova teoria che prendeva spunto da alcune misurazioni eseguite sul fondo degli oceani e che venne chiamata “tettonica a placche”.

Per una più corretta spiegazione del concetto, si dirà che la teoria scientifica è la spiegazione logica, non contraddittoria e provvisoria di una serie di osservazioni e, quando è possibile, di esperimenti di laboratorio. Si sottolinea il termine “provvisorio” per mettere in evidenza che una teoria scientifica non rappresenta la verità. Secondo il parere del filosofo della scienza, l’austriaco Karl Popper (1902-1994), non si può mai essere certi che una teoria scientifica sia giusta; la si può solo falsificare: ossia dimostrare, attraverso un esperimento o una serie di osservazioni, che essa è sbagliata.

Il creazionismo, d’altra parte, non è una teoria. Si tratta invece di un “credo” cui manca il sostegno della pur minima prova in senso scientifico. Esso è un mito, ovvero l’espressione di una antica leggenda. Potrebbe essere definito da chi lo volesse sminuire “solo un mito”. Eppure i creazionisti americani pretendono che il “disegno intelligente” in cui credono venga insegnato nelle scuole al pari della teoria evoluzionistica e venga proposto su una base di parità con il concetto di evoluzione quale spiegazione dell’origine dell’Universo, della vita, degli esseri umani. Sembrerebbe equo, invece non lo è affatto perché i concetti di evoluzionismo e di creazionismo non sono equivalenti.

La teoria evoluzionistica è stata proposta centocinquanta anni fa da Charles Darwin, il quale, dopo aver analizzato, per una ventina d’anni, il materiale che aveva raccolto in un lungo viaggio intorno al mondo, avanzò l’idea che fra le specie viventi vi fosse una lotta per l’esistenza che porterebbe ad una selezione delle forme più adatte all’ambiente. Questa tesi fu in seguito arricchita di nuove scoperte e corredata da ulteriori conoscenze e ragionamenti. Nonostante ciò, rimane in discussione l’esatto meccanismo del processo, i piccoli particolari, come è normale che sia per qualsiasi teoria scientifica che non giunge mai ad una conoscenza definitiva della materia su cui indaga. I creazionisti, invece, non presentano alcuna prova in favore della loro tesi: la loro argomentazione è completamente in negativo. Poiché la teoria evoluzionistica – essi asseriscono – è carente in alcuni dettagli, questo comproverebbe la validità dell’intervento di Dio nella creazione. Lo stesso ragionamento viene fatto dagli ufologi i quali affermano che, poiché sono stati osservati alcuni oggetti volanti inspiegabili alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, il fenomeno è da attribuirsi a navi spaziali con a bordo gli alieni che provengono da mondi lontani.

Per rendere il creazionismo un concetto razionale, i fautori di quella tesi devono addurre prove valide scientificamente e non solo limitarsi a elencare carenze e incertezze nelle opinioni altrui. I creazionisti, ad esempio, non devono semplicemente mettere in dubbio la validità dell’osservazione dell’espansione dell’Universo da cui si desume la sua lunga storia, devono invece presentare prove concrete che il mondo in cui viviamo ha in realtà diecimila anni o qualsiasi altra età. Anche qualora il concetto di evoluzione fosse effettivamente carente, questo non proverebbe, di per sé, la validità del concetto della generazione di ogni cosa ad opera di un Creatore.

Supponiamo che un giorno si decida di insegnare nelle scuole il creazionismo come costoro pretendono. Quale sarebbe l’argomento della lezione? Che Dio creò il mondo con tutte le specie animali e vegetali già belle e pronte? E nient’altro? Nessun dettaglio? E le persone che non considerano la Bibbia un libro sacro anch’esse dovrebbero accettare questa spiegazione o avrebbero diritto all’insegnamento di quell’argomento secondo il loro credo?

 

LA TEORIA DELL’UNIVERSO IN ESPANSIONE

Tentiamo ora di smontare i convincimenti e di fugare le perplessità del nostro professore di matematica e fisica, iniziando dallo “scoppio” che, secondo lui, non ci sarebbe mai stato. In realtà non vi sono che due possibilità: o l’Universo è sempre esistito o un giorno è nato. Come abbiamo già detto, nella scienza saranno le osservazioni, le misurazioni e, ove possibile, i fatti sperimentali, a decidere per una soluzione o per l’altra.

Una prima teoria cosmologica di sicuro valore scientifico prese forma dopo che Einstein formulò la sua Teoria della Relatività Generale, una teoria che descrive la gravità in modo radicalmente diverso rispetto a quello proposto da Newton. Fu proprio il grande fisico tedesco che applicò per primo all’Universo intero le stesse equazioni che prevedevano la curvatura dello spazio-tempo (spazio a quattro dimensioni) in prossimità dei corpi massicci. Questa teoria fu avvallata pochi anni dopo la sua formulazione da una storica osservazione effettuata da un fisico inglese il quale notò l’avvallamento dello spazio in vicinanza del Sole. Come la maggior parte dei fisici suoi contemporanei, Einstein riteneva che l’Universo fosse statico e quindi non soggetto a mutamenti. Egli partì da questo presupposto, ma alla fine si accorse che la soluzione delle proprie equazioni portava ad una conclusione apparentemente assurda e cioè che l’Universo implodeva. È facile comprenderne il motivo. Le galassie non possono stare ferme le une rispetto alle altre, perché in tal caso l’attrazione gravitazionale le farebbe avvicinare dando inizio a un gigantesco collasso. Per questa e altre ragioni Einstein decise di modificare le equazioni della propria teoria aggiungendovi un nuovo termine, la cosiddetta “costante cosmologica”, al fine di ottenere un Universo statico e immutabile nel tempo.

Alcuni anni più tardi, Alexander Friedman (1888-1925), meteorologo sovietico divenuto professore di matematica all’Università di Leningrado, scoprì che la soluzione delle equazioni di Einstein portava inevitabilmente al risultato di un Universo in equilibrio instabile: esso doveva quindi cambiare col tempo, o espandendosi o contraendosi. Stranamente però i risultati dei calcoli del Friedman furono ignorati finché non vennero riscoperti dal prete-scienziato di nazionalità belga Georges Lemaître (1894-1966).

A causa della forza di gravità, l’Universo dovrebbe quindi collassare su sé stesso ma potrebbe anche espandersi mentre di sicuro non potrebbe rimanere immobile. Esiste una semplice dimostrazione di tutto ciò. Immaginiamo pertanto di filmare una palla che rotola lungo un piano inclinato e di fermare l’immagine su un fotogramma nel quale la palla è a metà strada. A questo punto, se chiedessimo cosa farà la palla quando verrà fatto ripartire il film, alcuni diranno che rotolerà in su verso la cima (il che corrisponderebbe ad un Universo in espansione), altri che rotolerà giù (Universo in contrazione); ma certo, trovandosi su un piano inclinato, nessuno dirà che starà ferma. Naturalmente l’unico modo che la palla ha di rotolare in su è che qualcuno l’abbia spinta all’inizio in quella direzione. In tal caso il moto verso l’alto sarà progressivamente rallentato e alla fine la palla si fermerà e comincerà a rotolare verso il basso.

Lemaître per primo mise in rilievo il fatto che le equazioni di Einstein potevano implicare l’inizio dell’Universo da uno stato assai denso della materia, da un “atomo primevo”, come egli stesso lo chiamò. Aveva calcolato che raccogliendo e comprimendo tutta la materia e tutta l’energia che era distribuita nelle stelle e negli spazi interstellari, si sarebbe formato un corpo compatto grande quanto il Sistema Solare che poi sarebbe esploso come fosse un’enorme bomba lanciando nello spazio i frammenti. In realtà la teoria non fu per niente apprezzata dal grande fisico tedesco e quando l’abate Lemaître gliela presentò questi commentò dicendogli: “come si vede che siete un prete”.

Tuttavia, come abbiamo detto, una teoria scientifica non è solo una congettura, essa prevede anche e soprattutto l’esistenza di fatti, ovvero di osservazioni e misurazioni che la convalidi. La prima scoperta, che confermava l’esistenza di uno scoppio iniziale venne fornita dalle osservazioni effettuate al telescopio, nel 1929, da parte dell’astronomo americano Edwin Hubble (1889-1953), il quale, grazie a dettagliate misure condotte su galassie lontane, dimostrò che l’Universo era in espansione. Egli osservò il cosiddetto «red shift» (spostamento verso il rosso delle righe spettrali dei corpi celesti) un fenomeno che venne interpretato come allontanamento delle galassie le une dalle altre. In realtà le galassie stanno ferme: è lo spazio fra di esse che si espande dando la sensazione della loro fuga in avanti.

Recentemente si è osservato che la velocità di espansione sta aumentando nonostante che la gravità cerchi di rallentarla. Sembrerebbe quasi che qualche misteriosa forza chiamata banalmente “energia oscura”, sia al lavoro. Pare così che l’idea di Einstein di una forza di repulsione cosmica che si opponeva alla gravità non fosse poi così folle: però ora, invece che tenere l’Universo in equilibrio, la forza repulsiva finirà per provocare la disgregazione della totalità delle stelle, delle galassie e dei pianeti, e il nostro Universo, continuando ad espandersi, e di conseguenza a raffreddarsi, terminerà la sua esistenza nel cosiddetto “Grande Freddo” (Big Chill)

Un’altra colonna portante della teoria dell’Universo in espansione è la scoperta della debole eco dello scoppio iniziale. Nel 1965 due tecnici della società americana dei telefoni “Bell”, Arno Penzias e Robert Wilson, si imbatterono in un fastidioso sibilo che disturbava un nuovo tipo di telecomunicazione via satellite che essi stessi stavano sperimentando. Si trattava di un segnale radio di debole intensità proveniente da tutte le direzioni e captabile a qualunque ora del giorno e della notte. I due tecnici americani non si resero conto del significato della loro scoperta e tentarono di eliminare il segnale spurio ricorrendo ad una serie di perfezionamenti sulle apparecchiature riceventi. Il segnale in realtà non era altro che la radiazione residua dell’esplosione primordiale, quella che in seguito venne chiamata «radiazione cosmica di fondo». Essa ha le caratteristiche di una radiazione ad onde corte corrispondente a quella che produrrebbe un oggetto che si trovasse alla temperatura di 3 K (cioè a 270 °C sotto lo zero). Se si sintonizza il televisore su un canale che non riceve segnale, circa l’uno per cento del rumore statico fluttuante che si ode è dovuto a questo antico residuo dello scoppio iniziale. Pertanto, se capitasse di non vedere niente in tv, ci si potrebbe sempre consolare al pensiero che si sta assistendo alla nascita dell’Universo.

Questa radiazione era stata prevista dal grande fisico e cosmologo statunitense di origine ucraina George Gamow che insieme a Robert Alpher e Hans Bethe formulò la teoria dell’Universo in espansione detta anche, dai loro nomi, “teoria alfa, beta, gamma”. In realtà Alpher non aveva partecipato in alcun modo alla formulazione della teoria, ma gli fu chiesto lo stesso di firmare l’articolo al posto di Robert Hermann (che era il terzo componente degli scienziati che lavorarono intorno ad essa) al fine di darle un nome che riconducesse all’origine di ogni cosa. Come Lemaître, Gamow e i suoi assistenti compresero che, risalendo indietro nel tempo, l’Universo si sarebbe contratto e la materia sarebbe stata compressa, divenendo molto calda, e molto densa.

La teoria dell’Universo in espansione, come abbiamo detto, prevede la sua nascita nel corso di un’esplosione straordinaria che ha creato, a partire praticamente dal nulla, lo spazio, la materia e il tempo, cioè ogni cosa. Il termine di big bang (grande esplosione) con il quale è più nota questa teoria, in realtà fu coniato per ridicolizzarla dall’eminente astronomo britannico Fred Hoyle (1915-2001) e poi, poiché piaceva, fatto proprio dai suoi sostenitori. Questo scienziato, come il professore di matematica e fisica ricordato sopra, trovava assurda l’idea che tutto l’Universo si fosse sviluppato a partire da un’esplosione e preferiva credere ad una visione delle cose più plausibile. Essa prevedeva cioé un Universo eterno, “stazionario”, in cui spazio e materia venivano creati e distrutti in continuazione e quindi tali che sarebbero potuti esistere per un tempo infinito. L’idea fondamentale di Hoyle era che, a mano a mano che l’Universo si espandeva, nuova materia veniva creata in modo continuo e spontaneo nello spazio vuoto sempre più ampio fra le galassie ed essa finiva poi col formare nuove stelle e galassie.

In realtà le teorie relativistiche unite alla meccanica quantistica prevedono che al tempo t=0 il raggio dell’Universo doveva essere addirittura nullo: tutta la massa cosmica raccolta in un volume inesistente: densità infinita ed anche temperatura infinita. Tale stato è noto come singolarità, perché si tratta effettivamente di una situazione unica e anomala per spiegare la quale si rendeva necessario estrapolare le leggi fisiche note al di fuori del loro dominio di validità. Ma le proprietà matematiche della relatività generale e della meccanica quantistica, come si è detto, non sono adatte a descrivere adeguatamente lo spazio e il tempo in prossimità del punto zero. La natura ci fa intendere a chiare lettere che in condizioni estreme, come quelle che si producono in prossimità del big bang, è necessario unificare relatività generale e meccanica quantistica. In altre parole, per spiegare la singolarità si deve ricorrere ad una nuova teoria la quale ipotizza che i costituenti fondamentali della materia non siano particelle puntiformi zero-dimensionali, bensì minuscole cordicelle unidimensionali dette stringhe.

Poco dopo la nascita, nell’Universo vi dovevano essere solo i componenti di base della materia, cioè quark ed elettroni, oltre ai gluoni, le particelle mediatrici delle forze. Quando poi, in seguito all’espansione, l’Universo si diradò e si raffreddò, i quark si unirono a formare protoni e neutroni i quali attrassero a sé gli elettroni a formare gli atomi più semplici. È inutile cercare molto lontano per localizzare il punto in cui si verificò questo enorme scoppio: ebbe luogo là dove ci si trova in questo preciso momento e anche in qualsiasi altro posto perché all’inizio tutte le posizioni che ora ci appaiono distinte erano all’interno di quel “puntino” da cui iniziò ogni cosa.

A differenza di quello che pensava il filosofo francese Auguste Comte, padre del “positivismo”, l’uomo è stato in grado non solo di conoscere di quali elementi chimici è costituito il Cosmo, ma anche di valutarne le abbondanze relative scoprendo che in esso vi era praticamente solo idrogeno ed elio. Per la precisione, nell’Universo si trovano circa il 70% di idrogeno e il 27 o 28% di elio oltre a tracce di deuterio (idrogeno pesante), litio e berillio, mentre tutti gli altri elementi (sodio, silicio, carbonio, ferro, ossigeno, ecc.) rappresentano non più del 2 o 3 per cento del totale. Ebbene, poiché sappiamo che l’elio si forma all’interno delle stelle, a partire dall’idrogeno che si trasforma in quell’elemento con produzione di energia, siamo in grado di calcolare quanto tempo esse avrebbero impiegato per produrre tutto l’elio presente attualmente. Fatti i debiti calcoli, si desume che nemmeno ammettendo che le stelle siano entrate in attività fin dall’inizio dei tempi, esse avrebbero potuto produrre la grande quantità di elio che oggi si può osservare. Dove si è quindi formato l’elio eccedente? Evidentemente esso venne prodotto nell’Universo embrionale quando la temperatura e la densità erano simili a quelle che caratterizzano attualmente l’interno delle stelle.

 

IL PARADOSSO DI OLBERS

Il fatto che l’Universo abbia avuto un inizio ben preciso non è più in dubbio. Tre, come abbiamo visto, sono le prove cruciali di questo evento: l’espansione dello spazio, la radiazione di fondo e le proporzioni relative dei diversi elementi chimici. Ma vi è una prova ancora più fondamentale che va sotto il nome di “paradosso di Olbers”.

Vediamo di cosa si tratta. Il medico e astronomo dilettante Heinrich Wilhelm Olbers, vissuto a Brema, in Germania, nel XIX secolo, si chiese il motivo per il quale il cielo di notte ci appare buio e non splendente come lo è di giorno. A quel tempo si pensava che lo spazio infinito contenesse infinite stelle e pertanto, anche se quelle più lontane erano fioche, pur tuttavia erano in numero maggiore di quelle vicine. La fisica stabilisce che all’ aumentare della distanza dall’osservatore, il numero delle sorgenti luminose (oggi si parla di galassie invece che di stelle) cresce esattamente in proporzione inversa al diminuire del flusso luminoso che diffondono per cui la luce complessiva delle molte galassie lontane deve essere pari a quella prodotta dalle poche galassie vicine.

Anche se l’Universo non fosse infinito (ma potrebbe esserlo) è così grande che da un punto di vista pratico possiamo assumere che, in qualsiasi direzione si guardi, si dovrebbe vedere una galassia e il cielo dovrebbe essere più luminoso di notte di quanto il Sole lo renda di giorno; anzi, dovrebbe addirittura essere così luminoso, giorno e notte, da rendere irrilevante la presenza del Sole.

Il fatto che l’Universo sia in espansione è sufficiente a spiegare il paradosso di Olbers. Vediamo di comprendere il perché. La luce viaggia all’incredibile velocità di 300 mila kilometri al secondo: il che corrisponde ad arrivare sulla Luna in poco più di un secondo. A provenire dal Sole, la luce impiega 8 minuti, ma ci vogliono circa 4 anni perché arrivi sulla Terra dalla stella più vicina e più di due milioni di anni da Andromeda, la galassia lontana più di due milioni di anni luce. Pertanto, su scala cosmica, la velocità della luce non è poi così impressionante: avendo l’Universo circa 15 miliardi di anni, possiamo vedere solo le galassie abbastanza vicine. Ad esempio la luce di una galassia lontana dieci miliardi di anni luce ha viaggiato verso di noi per dieci miliardi di anni prima di raggiungerci. Ora però quella galassia è molto più lontana perché nel frattempo l’Universo si è espanso, pertanto, anche se fosse solo due volte più lontana di quanto era all’inizio, la sua luce non arriverebbe più fino a noi. Allo stesso modo non danno più alcun contributo alla luce otticamente visibile tutte quelle galassie che si trovano oltre l’orizzonte visibile ed è questa la ragione per cui il cielo di notte è buio.

Se l’Universo, finito o infinito, fosse statico (cioè non in espansione), e fosse nato all’ improvviso 15 miliardi di anni fa, certamente non riusciremmo a vedere niente che sia più distante di 15 miliardi di anni luce; quindi non è l’espansione in sé stessa che ci impedisce di vedere tutto fino all’infinito. Però, in un Universo statico, aspettando un tempo sufficiente la luce delle galassie più lontane arriverebbe fin qui, mentre in un Universo in espansione la luce delle galassie più lontane in nessun caso riuscirebbe ad arrivare fino a noi.

Quando agli scienziati viene chiesto quali siano le prove del fatto che il big bang è effettivamente avvenuto, normalmente essi si rifanno alle tre prove standard di cui abbiamo discusso. Sarebbe però molto più semplice far notare che il big bang è avvenuto semplicemente perché il cielo di notte è buio. Questo è il vero motivo che c’è stato un inizio esplosivo ed è a causa di ciò che tutta la luce generata dalle galassie non ha ancora avuto il tempo sufficiente per arrivare qui da noi e mai lo avrà.

Certamente la teoria del big bang non riesce a spiegare tutti i fenomeni osservabili, ma una teoria alternativa riuscirebbe a spiegarli tutti? Gli scienziati che criticano la teoria esistente dovrebbero essere in grado di formulare una teoria alternativa con le seguenti caratteristiche:

  • concordare con le leggi della fisica note;
  • spiegare da dove proviene lo spostamento verso il rosso delle righe spettrali delle galassie, se esso non ha origine dal movimento di espansione;
  • spiegare da dove viene la radiazione di fondo e perché in passato era più calda, così come vuole la teoria del big bang;
  • spiegare perché i corpi celesti non siano più vecchi di 13 o 14 miliardi di anni;
  • spiegare perché l’abbondanza relativa di idrogeno, deuterio ed elio nell’Universo è quella osservata.
  • Se una teoria alternativa spiegherà tutto ciò, allora sarà valida quanto lo è quella del big bang. Se poi sarà in grado di spiegare un numero maggiore di fenomeni, sarà migliore della teoria del big bang e gli astrofisici non esiteranno ad adottarla.

    Come abbiamo detto, nonostante le prove schiaccianti, vi è qualcuno che non crede nella bontà della teoria del big bang e fra questi vi è anche il nostro professore di matematica e fisica. Quando la ragione non trova risposte, l’uomo le cerca altrove, per esempio nella religione. Dopo essere venuti alla conoscenza della teoria dell’Universo in espansione molti si chiedono dove sia il posto di Dio nel Cosmo.

    La risposta è che nella scienza non vi è posto per le verità religiose così come nelle verità religiose non vi è posto per la scienza. Nessuno scienziato si sognerebbe di confutare la moltiplicazione miracolosa dei pani e dei pesci solo perché va contro il principio della conservazione della materia. Di contro non si capisce sulla base di cosa la religione (una qualsiasi religione), alla luce del proprio credo, dovrebbe confutare una teoria scientifica.

     

    LA TEORIA EVOLUZIONISTICA Di DARWIN

    Veniamo ora all’affermazione secondo cui l’uomo deriverebbe dalla scimmia. Ebbene, Darwin non ha mai detto una corbelleria simile, né avrebbe potuto dirla. L’uomo non può discendere dalla scimmia essendo egli stesso, in un certo senso, una scimmia. È assolutamente ovvio invece che, così come nessuno di noi discende dai propri cugini, nessuna scimmia vivente può essere l’antenato dell’uomo.

    Negli ultimi tempi gli scienziati e le persone intellettualmente illuminate hanno invece considerato incontestabile la tesi che gli esseri umani e le grandi scimmie antropomorfe siano discesi da un antenato comune vissuto 20 milioni di anni fa, mentre l’uomo e le scimmie antropomorfe si separarono dal gruppo 5 milioni di anni fa. Alcune fra le prove più vistose dello stretto rapporto di parentela esistente tra l’uomo e le scimmie antropomorfe provengono da vari sviluppi recenti realizzati dall’ingegneria genetica. Le tecniche di questa disciplina hanno permesso agli scienziati di sondare in profondità la struttura del DNA e dei geni e di ricostruire di fatto l’evoluzione di un organismo attraverso la delucidazione della storia biochimica delle molecole che lo compongono.

    Nell’Origine della specie del 1859, Darwin fece solo un breve cenno al posto dell’uomo nell’evoluzione, ma ai ben pensanti non sfuggì che anche l’uomo, come tutti gli animali più evoluti, sarebbe derivato da una forma inferiore di vita che nel suo caso non poteva che essere la scimmia. Solo dodici anni più tardi, nel 1871, Darwin scrisse l’Origine dell’uomo e la selezione sessuale (The Descent of Man and Selection in relation to Sex) in cui affrontava l’argomento specifico.

    Sul problema relativo all’origine dell’uomo, così come si è fatto per l’origine dell’Universo, si tratta di decidere tra due ipotesi: o l’uomo è il discendente modificato di qualche forma preesistente, o ha avuto origine con un atto di creazione. Nel primo caso le caratteristiche umane dovrebbero trovarsi, seppure in forma embrionale, negli animali. Se invece fosse vera la seconda ipotesi, l’uomo dovrebbe distinguersi dagli animali totalmente o quantomeno per alcuni caratteri peculiari.

    La paleontologia e l’insieme delle discipline in cui si divide la biologia ci insegnano come le scimmie antropomorfe odierne e gli uomini abbiano avuto antenati comuni. Infatti, lo studio dei caratteri ereditari ha messo in luce che il patrimonio genetico dell’uomo è per oltre il 99% identico a quello del gorilla e dello scimpanzé: ciò vorrebbe dire che noi siamo scimmie per il 99% e uomini solo per l’uno per cento. Dal punto di vista anatomico, come è facile constatare, esiste però una differenza notevole fra la scimmia e l’uomo. Infatti, i gorilla sono scimmie gigantesche, tutte pelose, che abitano nel profondo delle foreste e che pesano quasi cinque quintali e gli scimpanzé, per quanto più piccoli, sono altrettanto pelosi, mentre l’uomo tanto per cominciare cammina su due arti soltanto, è quasi glabro e ha un cervello molto più voluminoso di quello delle scimmie.

    Tuttavia, come al solito, nella scienza, a decidere per una soluzione o per l’altra saranno le osservazioni e soprattutto le misurazioni accurate e numerose. Seguendo il metodo scientifico, che ha caratterizzato tutta la sua opera, Darwin non si ferma all’aspetto esteriore, ma esamina innanzitutto la struttura fisica dell’uomo (organi interni: polmoni, cuore, fegato, ecc. e organi di senso) che trova perfettamente omologa a quella degli altri mammiferi. Analizza poi i caratteri non morfologici relativi a patologie, gusti e comportamenti sessuali che considera corrispondenti a quelli delle scimmie antropomorfe. Egli nota ad esempio che nelle società di scimpanzé si osservano molte somiglianze con il comportamento umano come ad esempio il tabù dell’incesto, l’organizzazione sociale molto sviluppata e l’affievolimento dell’intolleranza fra maschi. Uno studio recente di due ricercatrici italiane dell’Università di Pisa e di Parma hanno rilevato per alcuni mesi il comportamento di un gruppo di 12 bonobo (scimpanzé di piccola taglia) notando che in essi lo sbadiglio è contagioso: basta che un esemplare percepisca lo sbadiglio di un altro perché risponda con uno sbadiglio. Ciò potrebbe avere una funzione emozionale e comunicativa come avviene fra gli uomini. Anche l’embriologia fornisce prove inequivocabili dell’affinità dell’uomo con i primati. Nella “Storia naturale delle scimmie”, un libro scritto all’inizio del 1800, viene messo a confronto il feto di una scimmia e quello dell’uomo. In esso si dimostra che la scimmia ha lo stesso aspetto della specie umana e che “se si esclude l’anima, alla scimmia non manca nulla di quello che abbiamo noi”.

    Il naturalista inglese esamina poi gli organi rudimentali che considera come indizi importanti della origine animale dell’uomo. Egli nota ad esempio che la scarsa peluria che riveste il corpo umano può essere considerata come rudimento di una copertura uniforme. Difficile inoltre da considerare come facente parte di un piano di creazione speciale l’appendice cecale che viene invece ritenuta un rudimento dell’intestino conseguente al cambiamento di abitudini alimentari. Questi ed altri caratteri fisici e psichici convincono Darwin che la natura dell’uomo non è diversa da quella degli altri animali.

    Cinquant’anni fa, come abbiamo accennato, alcuni scienziati, impegnati nello studio delle modificazioni della struttura delle proteine del sangue dei primati calcolarono l’epoca in cui si divisero la progenie che culmina nelle scimmie antropomorfe (scimpanzé, gorilla, orango e gibbone) e quella che avrebbe condotto all’uomo. Questo “orologio proteico”, come è stato chiamato, si basa sul convincimento della costanza del tasso di evoluzione delle proteine nel corso della storia dei primati. Si tratta, in pratica, dello stesso meccanismo per cui si può valutare il trascorrere del tempo misurando il decadimento radioattivo ad esempio del carbonio 14, solo che invece che una diminuzione, in questo caso si misura un aumento. Più a lungo le specie si sono evolute separatamente tanto più sarà differente in loro una determinata struttura proteica.

    Darwin non è stato l’unico a proporre una visione compiutamente trasformista della natura. Prima di lui, il botanico e zoologo francese Jean Baptiste de Monnet, cavaliere di Lamarck (1744-1829) nel suo Philosophiae Zoologique, pubblicata nel 1809, l’anno della nascita di Darwin, parlava di evoluzione portando però a sostegno di essa osservazioni poco convincenti. Egli aveva notato che l’uso sviluppava gli organi mentre il disuso li atrofizzava e pertanto riteneva che la giraffa avesse il collo lungo per lo sforzo continuo che essa compiva per raggiungere le foglie più alte degli alberi, unico cibo disponibile nell’ambiente in cui vive quell’animale.

    Tuttavia, la teoria lamarckiana, ancorché priva di riscontri sperimentali, anche attualmente è preferita dai non addetti ai lavori. Poiché Lamarck vedeva nell’evoluzione un progresso, la cosa ha tratto in inganno le persone più semplici. Spesso si è visto che le mamme mandano i figli a giocare a pallacanestro nella convinzione che la pratica di quello sport li faccia crescere in altezza. Esse hanno questo convincimento poiché osservano che gli atleti che praticano questo sport sono tutti alti, senza rendersi conto che le società sportive scelgono i loro atleti fra i giovani di alta statura.

    La teoria di Lamarck infatti, a differenza di quella di Darwin che prevede una dura lotta per l’esistenza e la morte di un gran numero di individui, soprattutto di quelli più deboli e in giovane età, è più “umana” in quanto non comporta alcun prezzo da pagare e inoltre sembra garantire il progresso attraverso adattamenti determinati dalla ricerca continua di un miglioramento individuale.

    Il principale merito di Darwin è stato quello di avere introdotto nelle scienze naturali una interpretazione rigorosamente obiettiva dei fenomeni naturali e come tali sottoposti al controllo dell’osservazione, della misurazione e della sperimentazione. È evidente che una concezione simile, la quale eliminando ogni intervento soprannaturale, colpisce convinzioni acquisite e stabilite e suscita consensi e dissensi.

     

    CHI HA PAURA Di DARWIN?

    Nel 1857 veniva tradotto e stampato a Torino un saggio divulgativo in cui l’autore, un certo W.F.A. Zimmermann, ancora attestato su posizioni creazioniste, raccomandava di non credere a quelle storie di uomini antidiluviani che si stavano diffondendo, né di dare importanza alle ossa umane ritrovate nelle spelonche. “La geologia – avvertiva lo studioso – non può somministrare chiarimento alcuno sull’antichità del genere umano al di là di ciò che insegnano i documenti storici”: primo fra tutti, ovviamente, la Bibbia.

    Due anni più tardi, usciva a Londra il libro di Darwin Sull’origine delle specie le cui copie furono esaurite in un sol giorno. Benché nel saggio, come abbiamo detto, non si facesse cenno sulla questione più calda, quella dell’uomo, la polemica sulla nostra parentela con le scimmie divampò immediatamente. Pochi, ma fra questi vi erano soprattutto gli scienziati italiani, si resero conto della forza trainante delle nuove idee. Per ragioni poco chiare, gli ambienti intellettuali italiani reagirono tiepidamente a quella che è stata considerata la teoria scientifica più rivoluzionaria dopo l’eliocentrismo di Copernico. Né i professori delle regie Università, né il Vaticano, né l’Accademia pontificia delle scienze, che avrebbero dovuto occuparsi delle nuove idee, se non altro per contestarle, parvero accorgersi del terremoto che stava scuotendo la cultura europea.

    In Inghilterra invece immediatamente si era scatenata la bagarre e in molti considerarono sovversivo e pericoloso il darwinismo. Tra i più accanitamente ostili alle nuove idee vi furono i pastori anglicani con in testa l’arcivescovo di Oxford Samuel Wilberforce. Rimane famoso lo scontro che il biologo Thomas Henry Huxley (1825-1907), detto il cane da guardia di Darwin, ebbe con questo personaggio nel 1860, l’anno successivo alla pubblicazione dell’Origine della specie, in una affollata riunione per la presentazione del libro. In quella occasione il vescovo, dopo aver pronunciato un discorso ampolloso, ma vuoto di contenuti scientifici, dimostrando di non avere nemmeno letto il libro di Darwin, giunse alla conclusione del suo intervento con una battuta che intendeva essere spiritosa, ma che si dimostrò soltanto sciocca: rivolgendosi a Huxley, gli chiese se egli discendeva dalla scimmia da parte materna o paterna. Huxley non si scompose e rispose che preferiva avere fra i suoi antenati una brava scimmia piuttosto che un uomo turbolento e saccente che usava il singolare talento di cui era dotato e l’autorità di cui era investito per volgere in ridicolo una seria questione scientifica di cui fra l’altro non aveva capito nulla.

    Una discussione di vivacità paragonabile a quella che aveva visto lo scontro fra Thomas Huxley e il vescovo Samuel Wilberforce si ebbe nel nostro Paese nel 1864 in una lezione pubblica tenuta a Torino dal professore Filippo De Filippi, medico e zoologo, che aveva per titolo “L’uomo e le scimie” (allora il nome dei nostri cugini quadrumani si poteva scrivere anche con una sola “m”).

    Di fronte ad un uditorio che conosceva il pensiero di Darwin più che altro per sentito dire in quanto la prima edizione italiana dell’Origine è del 1865, De Filippi si schierava apertamente in favore della teoria dell’evoluzione. In quell’occasione, il professore torinese affrontava esplicitamente la questione dell’ascendenza animalesca dell’uomo scatenando la protesta vibrata dei naturalisti torinesi. In molti gridano allo scandalo accusando il professore De Filippi di farsi promotore del materialismo più bieco e definendo infame un Governo che lasci “un uomo siffatto stillar dalla cattedra le scellerate massime nell’animo degli studenti”. De Filippi morirà qualche anno più tardi a Hong Kong dove aveva fatto tappa durante un viaggio di esplorazione intorno al mondo e la sua scomparsa privò l’Italia di un genio nascente.

    L’insegnamento dell’evoluzionismo darwiniano nelle scuole è cosa relativamente recente mentre per secoli si è insegnato solo il creazionismo. Nel 1925, nel Tennessee (USA) venne varata una legge che vietava l’insegnamento in quello Stato della evoluzione delle attuali specie viventi compreso l’uomo da forme di vita inferiori. Ebbene, un giovane insegnante di biologia di nome John Thomas Scopes per aver parlato in classe dell’evoluzionismo, violando la legge, fu denunciato. Alla fine di un processo che vide opporsi in modo violento evoluzionisti e difensori della Creazione divina, il professore fu giudicato colpevole e condannato al pagamento di una multa di cento dollari – all’epoca una somma considerevole soprattutto per un professore – per aver insegnato “in modo criminale che l’uomo discende da un ordine inferiore di animali”. In secondo grado però venne assolto e la multa non fu pagata.

    Ancora oggi l’insegnamento dell’evoluzionismo nelle scuole non è molto radicato e si è pure tentato, in Italia, di toglierlo dai programmi scolastici. Nell’aprile del 2004 un professore di pedagogia dell’Università di Bergamo, consulente cattolico per la revisione dei programmi ministeriali sostenne la necessità di vietare l’insegnamento dell’evoluzione ai minori di 14 anni adducendo a pretesto l’esigenza didattica di far precedere i fatti sperimentali alle teorie che li interpretano. La proposta scatenò la protesta del mondo scientifico che costrinse il Ministro a nominare una commissione di scienziati con a capo la biologa premio Nobel Rita Levi Montalcini (morta all’età di 103 anni il 30 dicembre 2012) per studiare il problema. Alla conclusione dei lavori, la commissione inviò al Ministro un documento in cui si sosteneva non solo che andava ripristinato l’insegnamento dell’evoluzionismo nella scuola media, da dove era stato tolto, ma che lo stesso avrebbe dovuto essere esteso anche a quella elementare dove in precedenza non era previsto. E così fu fatto.

    Come il vescovo di Oxford, molte persone fra cui il nostro professore di matematica e fisica si sentono ancora profondamente umiliate all’idea di discendere da una scimmia. Darwin fu anche attaccato pesantemente da scienziati suoi contemporanei come il paleontologo Richard Owen e non fu difeso con convinzione nemmeno dall’amico e maestro Charles Lyell, il fautore della teoria dell’attualismo che ispirò con la sua opera il biologo inglese: questi dichiarò candidamente che preferiva considerare l’uomo come un arcangelo decaduto piuttosto che un essere derivato dalla scimmia.

    In un articolo apparso su un giornale locale, lo stesso vescovo di Oxford qualificava Darwin come “un superficiale che tenta invano di tenere su un’impalcatura di ipotesi disonorando le scienze naturali. È mai possibile – proseguiva – che qualche varietà di molluschi abbia la tendenza a diventare uomini?” Un pastore scriveva di avere invano cercato nel vocabolario parole sufficientemente volgari per consentirgli di esprimere il suo disprezzo per Darwin e i darwinisti. Per fortuna, anche dello scrivente, non le ha trovate.

    Per diversi anni il libro di Darwin non poté entrare nella biblioteca del Trinity College di Cambridge, e non c’è da meravigliarsene se si pensa che fino a poco tempo fa nelle scuole americane del Tennessee e del Mississippi era proibito l’insegnamento della teoria evoluzionistica.

    Ci sono pertanto prove inconfutabili che l’uomo è il risultato di un processo evolutivo e se qualcuno pensasse ancora che l’uomo è il prodotto della volontà di un Ente superiore dovrebbe almeno convenire sul fatto che il Creatore si è messo all’opera avendo per modello la scimmia.

    Prof. Antonio Vecchia

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