La geografia astronomica che si impara a scuola

“Ventun marzo: equinozio ed inizio della primavera; il Sole entra in Ariete; San Benedetto, la rondine sotto il tetto”. Così è scritto, all’incirca, su molti calendari alla data indicata. Ebbene, se si esclude il nome del Santo, tutto il resto è sbagliato o quanto meno impreciso. Vediamo di spiegarne i motivi analizzando punto per punto la citazione riportata sopra, alla luce di un’attenta analisi scientifica.

 

LA DATA DELL’EQUINOZIO

Cominciamo dalla prima affermazione: “Ventun marzo, equinozio di primavera”. Se si consulta l’«Almanacco dell’U.A.I. 2001», l’opuscolo dell’Unione degli Astronomi Italiani che contiene i dati astronomici relativi all’anno corrente si legge che l’equinozio di primavera capita il 20 marzo alle ore 14 e 32 minuti. Ecco quindi subito una prima inesattezza: la primavera non inizia (almeno per quest’anno) il 21, ma il 20 di marzo. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che il 2000 è stato un anno bisestile (fatto raro, imposto dalla correzione al calendario giuliano da parte di papa Gregorio XIII), o forse da qualche altro motivo che per il momento ci sfugge.

Ora, però, se si va a sfogliare il “Calendario Atlante” De Agostini, ci si imbatte in un’altra sorpresa: vi si legge infatti, per l’inizio della primavera, la stessa data ma riferita ad un’ora diversa e precisamente le 13 e 32; come si spiega questa differenza di un’ora esatta che poi si ritrova anche per l’inizio delle altre stagioni? La risposta viene fornita dalla lettura attenta degli stessi opuscoli consultati. L’Almanacco riporta infatti il tempo con riferimento al fuso orario dell’Europa centrale, quello che comprende anche l’Italia, mentre l’Atlantino esprime gli orari in “Tempo Universale” (T.U.): si riferisce cioè al primo fuso orario, quello di Greenwich, che è in ritardo di un’ora rispetto al nostro.

Per capire il motivo delle variazioni di ora, e a volte anche di giorno, nella determinazione degli equinozi (e dei solstizi), sono necessarie alcune precisazioni. L’ora dell’equinozio, e con l’accumulo delle ore, eventualmente anche il giorno, varia da punto a punto, a seconda della longitudine, proprio perché ogni punto della Terra ha una sua propria ora locale, diversa da quella dei luoghi vicini e lontani. Quando a Gorizia, ad esempio, è mezzogiorno (ora locale), in un luogo posto più ad occidente, non è ancora mezzogiorno, mentre, in un luogo posto più ad oriente, mezzogiorno è già passato. Questo dipende dal fatto che il Sole, nel suo moto apparente, si sposta da oriente verso occidente e pertanto, quando culmina a Gorizia (raggiunge cioè la massima altezza sull’orizzonte, ed è quindi mezzogiorno) deve ancora culminare nei luoghi situati più ad occidente (per esempio a Genova), mentre lo ha già fatto nei luoghi situati più ad oriente (per esempio a Bari). In tempo reale, infatti, l’equinozio di primavera quest’anno capita a Gorizia alle 14 e 27 minuti, cioè qualche minuto prima dell’ora riportata dall’Almanacco dell’U.A.I. che, come abbiamo visto, si riferisce al tempo del fuso orario dell’Europa centrale. Ora è chiaro il motivo per il quale l’equinozio di primavera cade, normalmente, in luoghi diversi, a ore diverse: ciò è dovuto al fatto che l’equinozio si compie in realtà in un preciso istante su tutti i punti della Terra, ma quell’istante corrisponde ad ore diverse nei diversi punti della Terra.

Se non si pretende l’esattezza astronomica e ci si accontenta del tempo basato sul fuso orario l’ora di un punto qualsiasi posto all’interno di un determinato fuso è semplicemente quella che in quel momento assume il meridiano centrale del fuso a cui appartiene il punto considerato. La posizione di questo meridiano centrale del nostro fuso orario, come si deduce anche dai tempi riportati sopra, si trova spostata leggermente più a est di Gorizia. I fusi orari sono 24 spicchi di superficie terrestre nei quali l’orologio segna la stessa ora in tutte le località: l’Italia, ad esempio, è sistemata interamente all’interno del secondo fuso, il cui meridiano centrale passa per l’Etna. Ebbene, l’ora di una qualsiasi località italiana è semplicemente quella che in quel momento assume il meridiano che passa per l’Etna.

A questo punto, però, è necessaria un’ulteriore precisazione: l’equinozio capita, in un preciso istante, per quest’anno, ma non nello stesso istante tutti gli anni. Per esempio, nel 2000 l’equinozio di primavera capitò da noi il 20 marzo alle 8 e 31; nel 1999, il 21 di marzo, alle 2 e 43 minuti; nel 1998 di nuovo il 20 marzo, ma alle ore 20 e 54 minuti e nel 1997 ancora prima e precisamente il 20 marzo alle ore 14 e 56 minuti. E’ interessante notare che negli ultimi anni solo raramente l’equinozio di primavera è capitato il 21 marzo e nei prossimi cinquant’anni solo quattro volte non capiterà il 20: nel 2003 e nel 2007 cadrà il 21 e nel 2044 e 2048 si presenterà addirittura al 19. Sarà necessario pertanto che anche i testi scolastici (e gli insegnanti) si aggiornino su questo avvenimento astronomico.

Da un lato le oscillazioni dovute ai numerosi movimenti della Terra, dall’altro gli inserimenti degli anni bisestili, fanno mutare l’ora e talvolta anche la data da un anno all’altro. Dire quindi: “Ventun marzo, equinozio di primavera” è, o quanto meno potrebbe essere, un errore: bisogna accertarsi di volta in volta.

 

L’EQUINOZIO NON EQUINOZIALE

Punto secondo: “equinozio”. Etimologicamente la parola vuol dire “notte uguale”. Lo possiamo intendere o come notte uguale al giorno (o, per meglio dire, al dì, intendendo con questo termine solo le ore di luce di un’intera giornata), oppure durata della notte uguale in ogni luogo. Vanno bene tutte e due le interpretazioni in quanto in quel giorno, o più in generale, in quei giorni (cioè negli equinozi di primavera e di autunno), il circolo di illuminazione passa per i poli e coincide con i meridiani. Per questo motivo in quei due giorni dell’anno tutti i punti della Terra godono del privilegio che l’equatore ha sempre, vale a dire di avere il dì uguale alla notte.

Ma si tratta, anche in questo caso, di un errore. Se ci sono due giorni in cui sicuramente il dì non è uguale alla notte, questi sono proprio i giorni degli equinozi. Per convincersi basta consultare un programmino di astronomia al computer dove si trova che alla latitudine di Gorizia il 20 marzo 2001, data appunto dell’equinozio di primavera, il Sole sorge alle 6 e 9 minuti e tramonta alle 18 e 18 minuti, quindi il dì dura 9 minuti in più della notte. Più “equinoziale” sarebbe la data del 17 marzo (il Sole sorge alle 6 e 15 minuti e tramonta alle 18 e 14 minuti). Se si estendesse l’indagine a punti di diversa latitudine si troverebbero altri orari, ma mai capiterebbe di leggere che il dì è uguale alla notte alla data dell’equinozio.

La spiegazione va ricercata innanzitutto in una questione di precisione: le ore del sorgere e del tramontare del Sole si riferiscono infatti all’orlo superiore del disco, mentre, per una questione di simmetria, dovrebbero essere determinate in corrispondenza del centro dell’astro. In secondo luogo bisogna considerare il fatto che tali ore sono comprensive della rifrazione atmosferica. Ed è soprattutto qui che sta la chiave del mistero degli equinozi non equinoziali: la colpa è dell’atmosfera che, deviando i raggi del Sole, solleva il disco solare dalla sua posizione naturale e ce lo fa vedere al mattino com­pletamente sopra l’orizzonte quando in realtà è ancora tutto sotto e la stessa cosa si verifica la sera, quando in effetti l’astro è già tramontato.

La deviazione dei raggi luminosi che provengono dal Sole è funzione sia della distanza zenitale (cioè dalla posizione più o meno vicina all’orizzonte), sia della densità degli strati di atmosfera attraversati e quindi dipende dalla pressione, dalla temperatura, dall’umidità dell’aria, dal pulviscolo presente e da alcuni altri fattori fisici. Il fatto che il Sole a volte ci appaia all’orizzonte non perfettamente sferico come normalmente siamo abituati a vederlo (e come in effetti è), costituisce un indice empirico, ma eloquente, del fenomeno.

Proviamo quindi a ricorrere a delle misure più rigorose. La rifrazione astronomica normale, quella cioè riferita a 0 °C e a 760 mm Hg, è nulla per un astro allo zenit (cioè sulla verticale del luogo), ed è di 36′ e 36″ (poco più di mezzo grado) quando tale distanza è di 90°, cioè quando l’astro rasenta l’orizzonte. Questo è appunto il caso del Sole alla levata e al tramonto. Ora, siccome il diametro angolare apparente del Sole è anch’esso di poco più di mezzo grado (per la precisione 32′ e 30″ quando la Terra è in perielio e 31′ e 35″ quando la Terra è in afelio), ne consegue che noi vediamo il Sole al mattino rasente all’orizzonte quando in realtà non è ancora sorto, e lo continuiamo a vedere la sera, sempre rasente all’orizzonte, quando in effetti è già completamente tramontato. Ad esempio, alla latitudine di Gorizia, il Sole nel giorno dell’equinozio anticipa la levata e ritarda il tramonto di circa 5 minuti rispetto agli istanti effettivi in cui il suo centro si trova sulla linea dell’orizzonte.

Quindi, se si tiene conto della rifrazione atmosferica, come fa l’ “Almanacco dell’U.A.I.”, ma anche come fa la gente che sta sulla Terra e bada a ciò che vede, nel giorno dell’equinozio, la durata del dì è leggermente più lunga di quella della notte. Siccome questa piccola differenza si riscontra dappertutto, si può affermare senza tema di smentita che l’equinozio è sicuramente un momento dell’anno in cui in nessun punto della Terra il dì è uguale alla notte. Peraltro, in qualsiasi altro giorno dell’anno, esiste sicuramente un parallelo lungo il quale il dì è uguale alla notte: infatti mentre in un emisfero il dì supera la notte, nell’altro succede il contrario, ragione per cui vi sarà sempre una regione intermedia, vicino all’equatore (ma non sull’equatore stesso), dove notte e dì avranno la stessa durata. Ciò porta a concludere che anche l’equatore è in realtà un “inequatore”.

 

LE STAGIONI

Terzo punto: “inizio della primavera”. Ma anche questo non corrisponde alla realtà. Spesso, alla fine di febbraio, quando manca quasi un mese all’inizio ufficiale della primavera, capitano splendide giornate di sole dalla temperatura mite le quali ci danno la sensazione di essere già nella buona stagione. D’altra parte, solo pochi giorni prima, l’Italia si poteva trovare sotto la neve e quindi in pieno inverno. Si sa che le stagioni sono bizzarre e l’esperienza insegna che non ci si deve fare soverchie illusioni: ai primi tepori di fine inverno seguiranno certamente altre giornate fredde e di cattivo tempo, che poi magari si protrarranno per gran parte della primavera.

Ma c’è dell’altro. Ogni giorno il televisore ci mostra in diretta immagini provenienti da tutto il mondo e può capitare, ad esempio, di vedere, a febbraio, gente dell’Argentina che si aggira per le città in maniche di camicia, come se fosse piena estate. Ebbene da quelle parti, a febbraio, è proprio estate. Nell’altro emisfero infatti le stagioni risultano invertite rispetto alle nostre, e quando qui da noi comincia la primavera e si va verso la buona stagione, là inizia l’autunno che mette fine alla buona stagione. Come si fa quindi a dire che il 21 marzo comincia la primavera?

Tuttavia, fra le tante divergenze che si possono riscontrare sul tempo meteorologico vi sono anche alcuni elementi di convergenza, così ad esempio il concetto di stagione basato sul tempo che fa e sull’attività della natura: in particolare, per la primavera, sull’addolcimento della temperatura e sul risveglio della vegetazione. In secondo luogo, occorre che si tenga presente la variabilità locale e annuale di questi elementi, talora più precoci, talora più tardivi. Infine si deve anche valutare l’incongruenza della data del 21 marzo come giorno preciso dell’inizio della primavera.

Dire quindi che il 21 marzo è l’inizio della primavera è sbagliato, almeno se ci si riferisce al significato che normalmente si dà al termine “primavera”, che è quello meteorologico e non già astronomico. Alle stagioni sono infatti annesse le attività agricole e molte altre attività economiche e sociali legate soprattutto al clima e al tempo che fa. A questo significato risponderebbe quindi meglio, piuttosto che la stagione segnata dagli equinozi e dai solstizi, la cosiddetta stagione meteorologica, che viene fatta iniziare il primo del corrispondente mese, cioè con un anticipo di una ventina di giorni su quella astronomica. Naturalmente in questo caso si tratta di una convenzione perché, come abbiamo detto, le bizzarrie del tempo non permettono di stabilire oggettivamente date precise. Né meglio definibili sarebbero le cosiddette “stagioni ecologiche”, quelle indicate dai biologi in base allo studio del periodico ritorno di determinati fenomeni del ciclo vitale degli organismi.

Infine, per completare il quadro, si deve anche sottolineare il fatto che la ripartizione in quattro stagioni è rilevabile solo nelle zone temperate, mentre nelle zone intertropicali e in quelle polari le alternanze meteorologiche ed ecologiche sono diverse. Nelle zone tropicali, ad esempio, le stagioni sono solo due: quella delle piogge e quella della siccità.

Riepilogando possiamo affermare che le sole stagioni definite da fenomeni precisi e costanti, determinabili alla frazione di secondo e uguali su tutta la Terra, vale a dire le stagioni astronomiche, sono quelle che in definitiva alla gente comune interessano di meno.

 

I SEGNI ZOODIACALI

Il fenomeno astronomico di riferimento più importante per l’uomo è senza dubbio l’equinozio di primavera, anche perché storicamente questa stagione, in quanto indice di risveglio della natura e delle attività campestri, segnava presso gli antichi popoli mediterranei l’inizio dell’anno. Di questo fatto è traccia nei nomi che vennero assegnati ad alcuni mesi, e precisamente settembre, ottobre, novembre e dicembre che a quel tempo erano effettivamente il settimo, l’ottavo, il nono e il decimo mese di un anno che ne contava complessivamente solo 10.

L’equinozio di primavera coincide con uno dei due punti di incrocio, o nodi, dell’orbita terrestre con il piano dell’equatore. Questo è detto “punto vernale” cioè punto di primavera (dal latino ver che significa primavera), o punto di Ariete, o punto (gamma), dalla lettera greca che ricorda due corna stilizzate, simbolo della costellazione dell’Ariete. Il punto opposto è quello della Bilancia, anch’esso convenzionalmente indicato con un simbolo dell’alfabeto greco altrettanto espressivo: quello della lettera (omega).

Siamo così giunti al quarto punto: “Ventun marzo, il Sole entra in Ariete”, ma anche questo non corrisponde alla verità astronomica. Detto così, infatti, è sbagliato. Si dovrebbe dire: “il Sole entra nel segno dell’Ariete”, ma di solito i calendari non recano questa precisazione anzi ne riportano anzi ne riportano una decisamente errata, dettando contestualmente: “Il Sole entra nella costellazione dell’Ariete”.

La colpa del divario fra segno e costellazione, è da attribuirsi al fenomeno detto «precessione degli equinozi», che a sua volta è causato dal movimento conico dell’asse terrestre, il quale avviene in senso orario e si completa in circa 260 secoli. Il punto gamma arretra così di circa 50″ d’arco ogni anno fra le costellazioni, con la conseguenza, tra l’altro, di causare una differenza di 20 minuti e 24 secondi fra anno tropico ed anno sidereo. Esso fu scoperto nel 130 a.C. da Ipparco di Nicea, ai tempi del quale effettivamente si sarebbe potuto dire: “ventun marzo: il Sole entra in Ariete”, senz’altra specificazione. Ma dai tempi di Ipparco ad oggi il punto gamma è arretrato di 28° circa, in pratica di una costellazione intera, per cui l’inizio della primavera avviene in realtà poco dopo che il Sole è entrato nella costellazione dei Pesci. Ma, come tutti sanno, i segni dello zodiaco non sono stati cambiati.

La stessa origine hanno le diciture di Tropico del Cancro e di Tropico del Capricorno. Ai tempi di Ipparco, dopo che il Sole era appena entrato nelle costellazioni del Cancro e del Capricorno, a mezzogiorno, raggiungeva lo zenit cioè si posizionava sulla verticale dei luoghi posti su due particolari paralleli situati a circa 23° e 27′ a nord e, rispettivamente, a 23° e 27′ a sud dell’equatore. Oggi il Sole, quando si trova a perpendicolo sui Tropici, appare proiettato nelle costellazioni rispettivamente dei Gemelli e del Sagittario: quindi, se si dovesse assegnare oggi il nome a questi due particolari paralleli, essi verrebbero chiamati Tropico dei Gemelli e Tropico del Sagittario.

Ecco dove sta l’incongruenza: attualmente ogni segno è spostato in avanti di uno rispetto alla costellazione. Pertanto il segno dell’Ariete corrisponde alla costellazione dei Pesci, quello del Toro alla costellazione dell’Ariete, e così via. Perciò, sia detto per inciso, anche gli oroscopi sarebbero tutti da rifare, perché continuano a riferirsi al segno, mentre, per un minimo di credibilità (visto che nessuno di noi è nato 2000 anni fa), dovrebbero basarsi sulla costellazione.

A questo punto è forse opportuno chiarire che nella realtà le varie costellazioni zodiacali sono irregolari, cioè qualcuna è più estesa e qualche altra meno. Inoltre fra la costellazione dello Scorpione e quella del Sagittario si inserisce una costellazione estranea alle dodici dello zodiaco: la costellazione di Ofiuco (o del Serpente). Pertanto possiamo concludere affermando che mentre le costellazioni sono raggruppamenti di stelle di estensione variabile, i segni zodiacali, sfasati rispetto alle costellazioni, sono invece delle convenzioni a cui gli astronomi hanno attribuito la medesima estensione di un dodicesimo di circonferenza, ossia di 30°.

 

I DETTI POPOLARI E LA RIFORMA DEL CALENDARIO

Punto quinto: “San Benedetto”. Qui non dovrebbero esserci dubbi. I Santi del calendario sono stabiliti dalla Chiesa autorità indiscussa e indiscutibile. Essa, come sappiamo, dedica al Santo il giorno della sua morte e quando si tratta di Santi di molti secoli fa, come è appunto il caso di San Benedetto, le date sono malsicure sia per quanto attiene alla loro collocazione storica, sia per il trasferimento del calendario di allora a quello di oggi. Gli storici sostengono che S. Benedetto nacque a Norcia circa nel 480 e morì a Cassino circa nel 547. Gli anni della nascita e della morte non sono quindi precisi, ma il giorno della morte è dato invece per certo: 21 marzo. Alla stessa data del 21 marzo però si festeggiano anche altri Santi. Affermare pertanto che il 21 marzo è San Benedetto sarebbe tanto esatto quanto sostenere  che esso è il giorno di Santa Filomena o San Leucippo.

Le note cronologiche riguardanti San Benedetto sono state tratte dal libro “I Santi del giorno” di P. Bargellini (Vallecchi ed. 1959), dove alla fine, con riferimento al nostro personaggio, si trova scritto: “Spirò il 21 di marzo, quando la prima rondine tornava al suo nido a Montecassino, nido dell’ordine benedettino”. Ora, come tutti sanno, una rondine non fa primavera, ma è certo che ai tempi di San Benedetto la faceva più di quanto non lo faccia oggi.

Sesto ed ultimo punto: “San Benedetto / la rondine sotto il tetto”. Il proverbio indubbiamente fa rima, ma non corrisponde a verità. Salvo qualche annata particolarmente propizia, infatti, è raro che le rondini arrivino da noi prima della fine del mese o ai primi di aprile, con un ritardo cioè di una decina di giorni sul pronostico. Forse un po’ più precoci sono i balestrucci spesso confusi con le rondini, mentre decisamente più tardivi sono i rondoni, gli uccelli somiglianti alle rondini che popolano i cieli delle città.

Per trovare la spiegazione di questo ritardo dobbiamo rifarci alla riforma del calendario di papa Gregorio XIII, a cui abbiamo già fatto cenno. La riforma prevedeva un provvedimento continuativo ed uno “una tantum”. Il primo era quello di saltare ogni tanto un anno bisestile perché il calendario di Giulio Cesare ne aveva posti troppi, avendo calcolato l’eccesso dell’anno tropico in sei ore esatte; in questo modo veniva trascurato il difetto di 11 minuti e 14 secondi. Gli anni bisestili omessi furono i secolari, salvo quelli con il millennio divisibile per quattro (come fu appunto il 2000), in modo che ne restasse uno solo ogni quattrocento anni.

Invece il provvedimento da prendere una volta soltanto era quello di saltare a piè pari 10 giorni perché fosse fissato alla data del 21 marzo l’equinozio di primavera, che alla fine del secolo XVI era arretrato al giorno 11. Così con bolla papale del 15 febbraio 1582 fu ingiunto che il 5 ottobre venisse considerato 15 ottobre, permettendo in questo modo che si celebrasse la festività di S. Petronio (e non di S. Francesco, come è scritto su molti testi, un santo che tuttavia si festeggia alla stessa data del 4 ottobre). Papa Gregorio XIII (al secolo Ugo Boncompagni) era bolognese di nascita e a piazza Maggiore di Bologna è possibile osservare la sua statua benedicente sul palazzo municipale; egli pertanto era interessato al patrono della sua città, appunto S. Petronio, piuttosto che a S. Francesco che diventerà solo successivamente il patrono d’Italia.

Da quel tempo pertanto non più S. Benedetto, ma S. Beniamino, o S. Ugo (1 aprile), o qualche collega dei dintorni, ha la rondine sotto il tetto. E così non più S. Lucia, ma S. Tommaso o Santa Vittoria, è la giornata più corta che ci sia. Allo stesso modo si potrebbe continuare con altri proverbi meteorologici che hanno perso di validità dopo la riforma del calendario, con il cambiamento del quale tutti i detti popolari molto antichi dovrebbero essere infatti aggiornati. Sarebbe interessante fare una ricerca storico-folcloristica anche su questo argomento.

 

IL PIERINO DELLA SITUAZIONE

Mi capitò, anni addietro, che uno studente non si ritenesse affatto persuaso di ciò che gli avevo insegnato a proposito della riforma del calendario effettuata da papa Gregorio XIII. Avevo detto infatti che il papa fece controllare dagli astronomi di quel tempo la data effettiva dell’equinozio di primavera e che gli esperti trovarono che cadeva l’11 di marzo e non più il 21 come era molti secoli addietro. Preoccupato del fatto che continuando a spostarsi il 21 di marzo verso il periodo caldo dell’anno la Pasqua avrebbe finito per celebrarsi in estate, il pontefice ordinò di sopprimere 10 giorni dal calendario per riportare l’equinozio al 21, a compenso del ritardo accumulatosi dal 44 a.C., quando era andato in vigore il calendario di Giulio Cesare.

Lo studente pignolo si era messo a fare i conti ed aveva concluso che un errore di 11 primi e 14 secondi all’anno fanno un’ora circa in 5 anni e un giorno intero in 130 anni; quindi, in 1.600 anni o poco più, quanti ne erano passati, anche a fare i conti all’ingrosso, dalla metà del primo secolo avanti Cristo fino alla fine del XVI secolo, il ritardo avrebbe dovuto essere di 14 giorni e non di 10, quanti in effetti furono sottratti dal calendario.

Lo studente concluse che ai tempi di Giulio Cesare l’equinozio di primavera doveva capitare il 25 marzo e non il 21 e l’equinozio stesso avrebbe dovuto cadere invece alla data del 21 marzo intorno al VI secolo dopo Cristo, ai tempi cioè di Teodorico. Quindi, papa Gregorio, saltando 10 giorni, aveva riportato l’equinozio non ai tempi di Cesare, ma a quelli di Teodorico.

Ebbene lo studente meticoloso e saputello (in ogni classe ce n’è sempre uno!) aveva proprio ragione. Infatti, anche a tenere conto della scarsa precisione degli antichi calcoli, dell’incertezza delle cronologie, delle vicende del calendario dopo la riforma giuliana e delle reali oscillazioni di data degli equinozi, l’equinozio di primavera capitava effettivamente, ai tempi di Cesare, il 25 di marzo e la riforma lo riportò al 21, come era ai tempi di Teodorico. Quindi a S. Benedetto niente rondine sotto il tetto, e in più un errore di conteggio a cui nessuno bada, salvo il “Pierino” della situazione.

Ora, però, se ai tempi di Cristo l’equinozio di primavera cadeva il 25 marzo, il solstizio d’inverno doveva verificarsi il 25 dicembre e di ciò in effetti resta il segno nel calendario alla data di Natale. Sembra che il Natale sia stato fissato al 25 di dicembre verso la metà del IV secolo. Non essendo nota la data esatta della nascita di Cristo, pare che abbia influito nella sua scelta una festa pagana la quale salutava nel 25 dicembre la risalita del Sole sull’orizzonte dopo la sua massima discesa al solstizio invernale.

Vediamo ora di chiarire la faccenda del 21 marzo legata al nome di Teodorico o, per meglio dire, al papa del suo tempo. Della determinazione della data della Pasqua si occupò, in un primo momento, il concilio di Nicea (325 d.C.). In quell’occasione fu stabilito di celebrarla dopo l’equinozio di primavera che, in quel tempo, cadeva esattamente il 22 marzo. Due secoli più tardi, papa Giovanni I (525 d. C) fissò il ciclo pasquale in uso tuttora. A quel tempo l’equinozio di primavera capitava proprio il 21 marzo. La riforma gregoriana badò quindi soprattutto a necessità di carattere liturgico e in particolare alla Pasqua, che fu fissata alla domenica successiva al primo plenilunio seguente l’equinozio di primavera. Ecco il motivo per il quale l’equinozio di primavera venne riportato al 21 e non al 25 marzo.

 

CONCLUSIONI

Riassumendo, la nostra ricerca è servita a dimostrare che al 21 di marzo:

– non è vero che si verifichi sempre l’equinozio;
– non è vero che il dì sia uguale alla notte;
– non è vero che esso segni proprio l’inizio della primavera, almeno da un punto di vista meteorologico ed ecologico (che poi è quello che più interessa alla gente);
– non è vero che il Sole entri nella costellazione dell’Ariete;
– non è vero (o quasi) che ci sia la rondine sotto il tetto;
– non è vero che sia merito della riforma gregoriana il ritorno al giorno degli equinozi dei tempi della riforma giuliana;
– è vero soltanto che è S. Benedetto.

Cinque affermazioni all’inizio e sei negazioni alla fine: come incoraggiamento alla fiducia in quello che si legge e in quello che talvolta si insegna, non c’è male.

Qual è la morale che possiamo trarre da questa ricerca? Innanzitutto che nel nostro Paese (e forse non solo in esso, se questo può servire a consolarci) le scienze naturali si insegnano poco e male. La riprova si ha quando si sente confessare candidamente e perfino con una punta di compiacimento, anche da uomini di cultura, di non conoscere nemmeno le più elementari nozioni scientifiche.

Naturalmente l’auspicio è che con la nuova riforma della scuola si ponga mano anche al potenziamento dell’insegnamento delle scienze naturali. Non sarà facile perché contro questo progetto già si sono schierati alcuni intellettuali (con questo termine non si intendono quasi mai studiosi di materie scientifiche) i quali ritengono che la scuola, pur avendo bisogno di riforme, debba comunque custodire un insieme di valori che poco hanno a che vedere con la scienza e l’innovazione tecnologica, scavando, in questo modo, un solco ancora più profondo fra cultura “autentica” (cioè umanistica) e sapere scientifico.

La verità è un’altra. Con l’introduzione di un insegnamento scientifico più ricco di contenuti e meglio articolato nella presentazione degli argomenti di studio e nella loro comprensione c’è il rischio che si creino cittadini dotati di crescente spirito critico, che rappresentano, come si sa, la categoria di persone più difficile da governare. Detto in chiare lettere: si preferisce che il sistema educativo partorisca masse anonime e facilmente malleabili invece che cittadini responsabili e capaci.

  • Di recente sono venuto a sapere che nel 1970 la Chiesa ha riformato il calendario liturgico spostando la data della ricorrenza di S. Benedetto all’11 luglio. Quindi da quell’anno non è più neppure vero che il 21 marzo è S. Benedetto.
  • Prof. Antonio Vecchia

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