Le grandezze fisiche fondamentali

Il punto di partenza di qualsiasi conoscenza scientifica è l’osservazione ma il contributo puro e semplice della medesima al progresso della scienza sarebbe tuttavia assai modesto se ci si affidasse esclusivamente ai nostri sensi. Il limite risiede innanzitutto nel fatto che i sensi possono trarci in inganno (sembra che sia il Sole a girare intorno alla Terra e non viceversa e che quest’ultima sia piatta e non sferica) ed inoltre perché, utilizzando solo i sensi, si rimarrebbe fermi agli aspetti qualitativi del fenomeno. Per esprimere i risultati delle osservazioni attraverso leggi ed equazioni si rende invece necessaria la valutazione numerica delle variabili significative dei fenomeni osservati, operazione quest’ultima che si realizza attraverso l’introduzione di alcune grandezze fisiche indipendenti dette “grandezze fondamentali”, dalle quali poi è possibile ricavare tutte le altre dette “grandezze derivate”.

La scelta delle grandezze fisiche fondamentali ha seguìto lo sviluppo stesso della scienza. Dalla geometria, la scienza più antica, emerse il concetto di lunghezza al quale l’astronomia associò quello di tempo (più esattamente “intervallo di tempo” o “durata”). Con la definizione di lunghezza e di tempo è stato possibile costruire quell’importante branca della fisica che si chiama cinematica (dal greco kínema = movimento). Quando in seguito si decise di indagare sulle cause legate al movimento dei corpi si presentò l’esigenza dell’impiego di una terza grandezza fisica, la massa.

All’inizio del 1800, lo studio dei fenomeni termodinamici impose l’introduzione di una quarta grandezza fondamentale, la temperatura, la quale, per la verità, più che una grandezza è un indice di stato fisico. Successivamente lo studio dei fenomeni elettrici rese necessaria l’adozione di una quinta grandezza fondamentale, che venne individuata nella intensità di corrente elettrica, alla quale si aggiunse l’intensità luminosa, quando prese avvio lo studio dei fenomeni di ottica. Il quadro si andò infine completando nel 1971 con l’adozione di una settima grandezza fondamentale che fu riconosciuta nella quantità di sostanza.

Da queste sette grandezze fondamentali fu possibile ricavare tutte le altre, necessarie per la descrizione dei diversi fenomeni naturali. La forza, ad esempio, è una grandezza che può essere espressa in funzione di massa, lunghezza e tempo. Con lo stesso criterio la differenza di potenziale può essere ottenuta in funzione di massa, lunghezza, tempo e intensità di corrente. L’energia, il lavoro, la pressione e la potenza possono a loro volta essere definite in funzione di massa, lunghezza e tempo, e così via per un altro centinaio di grandezze derivate.

Una volta fissate le grandezze fondamentali e quelle derivate, si rese necessario adottare, per tali grandezze, le opportune unità di misura. Ogni misura infatti è data da un numero accompagnato dall’unità di misura adeguata: esso esprime il rapporto fra il valore della grandezza in esame e quello di una grandezza ad essa omogenea scelta come unità di misura. Dire ad esempio che un oggetto è lungo sei metri significa dire che quell’oggetto è sei volte più lungo dell’unità di lunghezza adottata. E’ indispensabile includere l’unità di misura insieme con il valore numerico: dire ad esempio che un palo è lungo 6 senza altra specificazione è un’espressione priva di significato.

La necessità di scegliere opportune unità di misura e i relativi campioni era già sentita dai primi studiosi della geometria e dell’astronomia, ma l’esigenza di disporre di adeguate unità di misura universali si fece urgente con l’avvento del metodo sperimentale introdotto da Galilei. La diffusione dei dati sperimentali raccolti da ricercatori di diversa nazionalità evidenziava la necessità, per potersi intendere e confrontare, di sostituire l’enorme numero di unità di misura locali in uso a quel tempo, con unità di misura unificate. Il problema fu affrontato con serietà e rigore scientifico solo ai tempi della rivoluzione francese quando, nel 1790, l’Assemblea Nazionale incaricò una commissione di insigni scienziati, di cui facevano parte il matematico Joseph Louis de Lagrange e il fisico e astronomo Pierre Simon de Laplace, di fissare le unità di misura e i relativi campioni di lunghezza, tempo e massa. Coerentemente con lo spirito rivoluzionario di “egalité” si decise allora di adottare unità di misura che non fossero espresse da campioni garantiti e conservati da qualche autorità costituita, ma da campioni naturali che consentissero a chiunque ne avesse voglia e disponesse degli strumenti opportuni la riproduzione delle unità campione; e ciò al fine di controllare direttamente la taratura dei propri apparecchi scientifici o l’esattezza del campione di riferimento di cui lo sperimentatore faceva uso.

Le unità di misura sono alla base non solo degli scambi scientifici e tecnici ma anche di quelli commerciali. Nell’antichità, in mancanza di strumenti adeguati, le misure per gli scambi commerciali erano basate su confronti di grandezze unitarie per così dire “portate al seguito” come il piede e il cubito (misura dell’avambraccio) per le lunghezze, l’anfora per le misure di volume o la libbra per i pesi. Spesso queste unità di misura avevano lo stesso nome ma valori diversi in Paesi diversi. Lo “stadio”, ad esempio, che corrispondeva alla lunghezza della pista per la corsa degli atleti, aveva lunghezza diversa in Egitto e in Grecia. Lo stesso criterio valeva per il “piede”, che per Assiri e Babilonesi misurava 32 cm, mentre per gli Egizi era più lungo (34,9 cm).

Ma non occorre andare molto indietro nel tempo né molto lontano nello spazio per farsi un’idea della confusione che creavano le unità di misura diverse in luoghi diversi. Nell’Italia precedente l’unificazione le differenze delle unità di misura fra regione e regione erano notevoli: in Piemonte, ad esempio, per le misure itinerarie si usava il miglio che valeva 2467 metri mentre in Lombardia il miglio, corrispondente a 3000 braccia, valeva 1785 metri. Il caos aumentava passando in Veneto dove ad esempio, per misurare capacità e volumi di merce secca, si usava il moggio (333,3 litri), mentre i liquidi avevano come unità di misura il mastello (75,12 litri); in Piemonte invece i volumi di merce secca venivano espressi in sacchi (115,3 litri) e i liquidi in pinte. La cosa diventava addirittura ingovernabile scendendo lungo la Penisola: pertiche, tornature, carri, quartaroli, corbe da grano o da vino, boccali, imbuti, some e fiaschi erano solo alcune delle unità che si trovavano spostandosi dalla pianura Padana verso la Sicilia.

Le sette unità di misura fondamentali oggi costituiscono quello che viene detto il “Sistema Internazionale (SI) di unità di misura”. Esso deriva dal vecchio MKS (detto anche sistema Giorgi) dove M sta per metro, K per kilogrammo e S per secondo. Un altro sistema del passato, molto usato in campo scientifico, era il cosiddetto sistema assoluto o sistema cgs dove c sta per centimetro, g per grammo e s per secondo. Infine il sistema pratico o sistema degli ingegneri assumeva come grandezze fondamentali le lunghezze, i tempi e le forze e come unità fondamentali il metro, il secondo e il kilogrammo-peso (e non il kilogrammo-massa).

Oggi tutte le unità di misura del passato sono state sostituite da quelle ufficiali contenute nel SI al quale però non hanno aderito i Paesi anglosassoni (Stati Uniti compresi) le cui unità di misura rimangono legate alla civiltà contadina e artigianale del passato. Il pollice (2,53 cm), il piede (12 pollici) e la iarda (3 piedi), per le lunghezze; il grano (0,065 g) e l’oncia (28,35 g) per i pesi; il barile e la pinta per la capacità, sono grandezze nate per la verifica senza strumenti anche se oggi per forza di cose hanno assunto valori ben precisi. Anche alcune grandezze non comprese nel sistema internazionale vengono ancora usate in campo scientifico e tecnico come i nodi per esprimere le velocità delle imbarcazioni in mare, i cavalli vapore (HP) per la potenza e gli ångström per le dimensioni atomiche e subatomiche.

In conclusione il problema delle diverse unità di misura nei Paesi altamente industrializzati dovrebbe essere eliminato, perché impone molti inutili calcoli di conversione che non insegnano niente e creano invece molteplici occasioni di errori.

 

L’UNITA’ DI LUNGHEZZA

Vediamo ora in dettaglio come si sia giunti alla definizione delle tre grandezze fondamentali della meccanica: lunghezza, intervalli di tempo e massa.

La lunghezza unitaria, come è noto, è il metro. La storia che ha portato alla definizione di questa unità di misura è molto istruttiva e mette bene in luce quali siano le esigenze a cui debba rispondere la scelta di un campione e i criteri pratici da seguire in tale scelta.

Nel 1790 la Commissione di scienziati nominata a Parigi dall’Assemblea Costituente, decise di assumere come unità di lunghezza la quaranta milionesima parte del meridiano terrestre. Qualche anno più tardi, necessità pratiche più forti delle considerazioni ideali dettate dai precetti rivoluzionari, avevano imposto la costruzione di un manufatto corrispondente alla misura del campione naturale. Veniva quindi depositato negli archivi francesi un campione di metro costituito da una sbarra di platino puro, detto “metro legale” o “metro degli archivi”, che rappresentava esattamente quello che, in base alle misure eseguite, si riteneva fosse il valore della quaranta milionesima parte del meridiano terrestre. In seguito, però, rifacendo più volte la misura, si scoprirono molti difetti del campione adottato. Si notò ad esempio che non tutti i meridiani terrestri avevano la stessa lunghezza e quindi fu necessario definire uno particolare di essi e la scelta cadde su quello che passa alle porte di Parigi. In un secondo momento si notò che anche i cambiamenti di forma della superficie terrestre rendevano incostante l’unità di misura prescelta smentendo le garanzie di precisione, di invariabilità e di facile riproducibilità che dovevano rappresentare i requisiti fondamentali di un buon campione.

Nel 1875 una Convenzione internazionale ratificò l’adozione del metro legale come unità di lunghezza e istituì a Sèvres, un sobborgo di Parigi, il Bureau International des Poids et Mesures, che è ancora oggi la massima autorità nel campo della misura delle grandezze fisiche. Tuttavia, già prima di quella data, si era scoperto che il campione di platino era più corto di circa 0,17 millimetri rispetto a quello che avrebbe dovuto essere per rappresentare la quaranta milionesima parte del meridiano terrestre. Questa osservazione poneva due grossi problemi.

Il primo riguardava l’eventuale sostituzione del metro legale con un altro un po’ più lungo in modo che la definizione originaria di metro continuasse a valere, ma per tale via il problema della sostituzione del campione si sarebbe riproposto ad ogni nuova e più accurata misura delle dimensioni della Terra. Il secondo problema riguardava il campione stesso, che era stato realizzato in maniera tale da lasciare una incertezza residua non trascurabile e tutto ciò nonostante il vecchio modello fosse stato sostituito da uno nuovo, realizzato in una lega di platino con il 10% di iridio: un materiale virtualmente immune da alterazioni chimiche e insensibile a qualsiasi cambiamento della temperatura ambiente.

Con la creazione del metro legale in lega platino-iridio la definizione di metro veniva di fatto svincolata dal riferimento originario alle dimensioni della Terra, una scelta che, come abbiamo visto, si era rivelata fonte di innumerevoli difficoltà e complicazioni. Una serie di duplicati per quanto possibile identici al metro campione di Sèvres fu frattanto realizzata e distribuita ai principali Paesi industrializzati del mondo. All’Italia, nel 1889, venne assegnato il prototipo n. 1, che è attualmente custodito nell’Ufficio Metrico Centrale di Roma.

Ma la storia del campione di lunghezza non termina qui. Negli anni seguenti la seconda guerra mondiale, i progressi della tecnica e l’utilizzo di strumenti di osservazione estremamente sofisticati e precisi indussero gli esperti a porre rimedio alle irregolarità che, nonostante la cura posta nella sua realizzazione, presentava il metro campione. Le irregolarità erano tali da non dare quelle garanzie ritenute indispensabili per la costruzione e l’utilizzo di apparecchiature di alta precisione. Si decise quindi di ritornare all’orientamento già espresso dalla commissione nominata ai tempi della rivoluzione francese e cioè di definire l’unità di lunghezza in base ad un fenomeno naturale. A quel tempo fra l’altro la scoperta e la comprensione del mondo microscopico, rendeva disponibili, per il miglioramento delle tecniche di misurazione, anche molti fenomeni legati alla struttura atomica della materia.

Nel 1960 una Commissione internazionale, utilizzando la radiazione elettromagnetica, cambiava ancora una volta la definizione di metro. Si era venuti infatti a conoscenza che la luce emessa dai corpi incandescenti si propagava nello spazio in forma di onde elettromagnetiche delle quali era possibile misurare la lunghezza (ossia la distanza fra due “creste” consecutive). Il metro campione conservato a Sèvres fu quindi messo a confronto con la lunghezza dell’onda della radiazione luminosa monocromatica emessa dall’isotopo 86 del cripto, un elemento piuttosto raro e poco noto. Si trattava di un’onda molto corta tanto che ce ne volevano più di un milione e mezzo per fare un metro. Pertanto, il campione di lunghezza venne definito come la distanza pari esattamente a 1.650.763,73 lunghezze d’onda della radiazione elettromagnetica dell’isotopo 86 del cripto.

I vantaggi di questa nuova definizione di metro furono tanti, ad iniziare dalla precisione che prevedeva un errore di solo una parte su dieci milioni e dalla facilità con cui era possibile realizzare in laboratorio quella misura. E’ bene chiarire che la precisione assoluta in fisica non esiste: essa è un po’ come la verità scientifica, un ideale a cui si tende, ma che non si raggiunge mai. Ogni misurazione infatti non può essere considerata completa se non comprende l’indicazione della sua incertezza o del suo grado di affidabilità. Con la nuova definizione di metro l’incertezza diventava veramente minima, tuttavia i fisici non erano ancora soddisfatti dei risultati raggiunti.

Nel 1984 la definizione di metro è stata cambiata per la quarta volta: a quella data l’unità di misura di lunghezza è stata messa in relazione con la velocità della luce, di cui era possibile misurare il valore con grande precisione. Il metro diventava quindi lo spazio che la luce percorre nell’intervallo di tempo di 1/299.792.458 secondi.

 

L’UNITA’ DI TEMPO

Il concetto di tempo è quasi innato nell’uomo essendo legato a fenomeni ricorrenti molto semplici, quali ad esempio il senso periodico di fame o l’alternarsi del giorno e della notte; tuttavia la sua definizione scientifica non è intuitiva e richiede l’utilizzo di un adeguato strumento di misura. Prima di procedere è bene specificare che nella scienza il termine “tempo” è usato spesso con il significato di “istante”: si dice ad esempio che un certo evento è avvenuto al tempo t = t0, ma anche di “durata” che invece è l’intervallo di tempo delimitato da due istanti t1 e t2, ossia in pratica da due eventi indicati frequentemente col simbolo Δt oppure t2 – t1 con t2 > t1.

Vediamo ora in cosa consista lo strumento di misura del tempo. Tutti sappiamo cosa è un orologio, ma come possiamo definirlo in termini scientifici? Ogni orologio in senso generale è un dispositivo naturale o artificiale basato sulla realizzazione di una successione uniforme di eventi, per lo più rotazioni o oscillazioni e su un sistema di conteggio di questi eventi. Abbiamo in natura, in particolare in astronomia e nella fisica atomica, svariate successioni di eventi e anche la tecnologia ci fornisce un gran numero di apparecchi, come strumenti a pendolo, a bilanciere o a molla, che possono essere utilizzati per misurare il tempo. Diremo che un fenomeno è ricorrente tutte le volte che un oggetto o un sistema di oggetti, muovendosi, assume un insieme di configurazioni che continuano a ripetersi ciclicamente. Nel pendolo, ad esempio, il peso pendente in oscillazione assume successivamente tutta una serie di posizioni per ritornare infine a quella di partenza e ripercorrere quindi nuovamente tutte le posizioni nello stesso ordine in cui le aveva percorse la prima volta.

Pertanto avrebbe potuto essere adottato per la misura del tempo qualsiasi fenomeno periodico con frequenza costante, ma anche in questo caso, come già per l’unità di misura lineare, i tecnici si rivolsero alla Terra, nella convinzione che il moto di rotazione del nostro pianeta intorno al proprio asse fosse fra tutti il meno soggetto a perturbazioni. Il moto di rotazione della Terra, come si sa, determina quel lasso di tempo che viene chiamato “giorno”.

Si definisce, per la precisione, giorno solare il tempo che intercorre fra due passaggi consecutivi del Sole sullo stesso meridiano. Non avendo però, questo lasso di tempo, sempre la stessa durata nel corso dell’anno si rimediò scegliendo come campione il giorno solare medio definito come il tempo medio (calcolato sull’arco di un anno) che la Terra impiega per ruotare una volta su sé stessa. Il giorno solare medio è quindi l’intervallo di tempo tra due passaggi consecutivi del Sole medio per il meridiano del luogo di osservazione, dove con “Sole medio” si intende un Sole fittizio che si muove (apparentemente) sull’equatore con velocità angolare costante. Da questo movimento si è ricavata l’unità di misura dell’intervallo di tempo, cioè il secondo, definito come la 86.400ª parte del giorno solare medio (24 ore X 60 minuti X 60 secondi = 86.400 secondi). Il tempo così definito è stato chiamato “tempo universale” (T.U.).

Nonostante il successo generale del sistema adottato, la determinazione dell’unità di misura del tempo risultò inadeguata per lavori di alta precisione perché la Terra in realtà non gira su sé stessa in modo regolare e uniforme. Il moto di rotazione della Terra ha nel tempo una durata lievemente variabile e imprevedibile a causa delle maree, dei venti, dei terremoti e di altri fenomeni anche esterni al pianeta: per tutta questa serie di motivi il campione adottato risultava alquanto impreciso. Per porre rimedio a tale inconveniente si decise di scegliere un lasso di tempo riferito al moto orbitale della Terra intorno al Sole che si riteneva più regolare rispetto al moto di rotazione del pianeta intorno al proprio asse. Si decise quindi di definire “secondo” la frazione 1/31.556.925,97474 dell’anno tropico 1900 (anno tropico è l’intervallo di tempo fra due passaggi consecutivi del Sole all’equinozio primaverile). Questo intervallo di tempo è chiamato Tempo dell’effemeride (T.E.) ed è un tempo per definizione fisso e immutabile, ma non coincide con il secondo di oggi. Il tempo universale e il tempo dell’effemeride coincidevano ovviamente nel 1900, ma poi, a causa di effetti cumulativi di piccoli errori dovuti al lieve rallentamento del movimento di rotazione della Terra, fra i due si è andata accumulando negli anni una piccola differenza che di tanto in tanto viene corretta aggiungendo un secondo agli orologi segnatempo ufficiali.

Nel 1967, per migliorare la precisione delle misurazioni del tempo, si decise di adottare un nuovo secondo campione basato sulle caratteristiche vibrazioni di frequenza rigorosamente costante di tutti gli atomi. La scelta alla fine cadde però su di un atomo particolare, quello del cesio (per la precisione sull’isotopo 133 del cesio, il 133Cs) il quale, opportunamente eccitato, compie particolari oscillazioni, ciascuna delle quali ha sempre una durata rigorosamente costante. Oggi pertanto il secondo fisico è definito come il tempo che occorre perché si realizzino 9.192.631.770 periodi di oscillazioni dell’atomo di Cesio 133. Con questa definizione di unità di misura temporale si possono confrontare intervalli di tempo con una precisione di una parte su 1012 corrispondente a 1 secondo su 30.000 anni. In questi ultimi anni, con tecniche analoghe, si sono potuti costruire orologi che sgarrano di solo un secondo ogni 30 milioni di anni.

 

UNITA’ DI MASSA

A differenza di quanto si è visto per le altre grandezze fondamentali della meccanica non esiste per il concetto di massa un punto di partenza intuitivo. Si usa dire che la massa di un corpo è una misura della quantità di materia contenuta in quel corpo. Questa definizione tuttavia per essere significativa dovrebbe prima chiarire cosa si intenda per “quantità di materia” altrimenti si tratterebbe di una tautologia, cioè di una spiegazione che non dice niente: la massa di un corpo è ciò che il corpo contiene.

Per quanto riguarda la scelta del campione di massa, non essendo disponibile sulla Terra alcun oggetto che potesse costituire un riferimento comodo come quelli adottati per lunghezza e tempo, si ricorse ad un criterio completamente arbitrario.

La vicenda inizia nella seconda metà del XVIII secolo quando un gruppo di studiosi francesi appositamente nominati da Luigi XVI decise di adottare come campione di peso (e non di massa) il peso di un decimetro cubo di acqua distillata alla temperatura della sua massima densità, cioè a quattro gradi centigradi (per la precisione 3,98 °C) al livello del mare e alla latitudine di 45°. Di tale quantità venne prodotto un esemplare in platino e chiamato semplicemente “peso”. Successivamente, quando la commissione di scienziati istituita al tempo della rivoluzione francese ebbe l’incarico di definire l’unità di massa, essa decise di mantenere la scelta fatta in precedenza e definì quindi tale unità il grammo, equivalente al millesimo del “peso”. Nel 1875 il “peso”, che nel frattempo era stato costruito in lega di platino-iridio, fu nuovamente adottato come unità di misura però della massa e non del peso, con il nome di kilogrammo: anche se il prefisso “kilo” indica un multiplo di una grandezza elementare (kilometro ad esempio è mille volte l’unità di lunghezza). Da quel tempo l’unità di massa è custodita sotto forma di un cilindro di platino-iridio del diametro di 39 millimetri e alto altrettanto, presso gli archivi di Sèvres.

Massa e peso sono due grandezze completamente diverse sia dal punto di vista concettuale sia dal punto di vista operativo. Tuttavia su questo argomento nascono spesso equivoci e confusioni dovuti al fatto che intuitivamente si è portati ad attribuire ad un oggetto grosso e massiccio una grande massa e anche un grande peso così che i due concetti possono sembrare a prima vista equivalenti. Le cose si complicano ulteriormente per il fatto che il peso e la massa venivano misurati entrambi in kilogrammi, anche se in realtà l’uno era kilogrammo-peso e l’altro kilogrammo-massa. Oggi l’unità di peso nel Sistema Internazionale è il newton, una grandezza che vale circa un decimo di kilogrammo-peso.

Il peso in verità è una forza e c’entra solo marginalmente con la quantità di materia che costituisce un corpo pesante. Per la precisione, il peso è quella forza con cui un corpo viene attratto dalla Terra. Il valore di questa forza di chiama appunto peso del corpo e viene determinato in funzione dell’allungamento di una molla a cui si appende l’oggetto in esame. Una molla opportunamente tarata in modo che la quantità che deve misurare sia proporzionale al suo allungamento si chiama dinamometro. Appendendo un corpo al gancio inferiore di un dinamometro precedentemente fissato ad un sostegno rigido (per esempio al soffitto di una stanza), si nota l’allungamento della molla in misura proporzionale al peso del corpo: un corpo pesante il doppio di un altro produce un allungamento della molla doppio rispetto al primo.

Il peso di uno stesso corpo varia a seconda del luogo in cui viene misurato perché la forza con cui la Terra attira a sé i corpi dipende dalla latitudine e dall’altitudine: esso cresce spostandosi dall’equatore ai poli e decresce spostandosi dal livello del mare in alta montagna. Se poi quello stesso corpo venisse pesato sulla Luna, si noterebbe che il suo peso varrebbe circa un sesto di quello misurato sulla Terra e, se venisse pesato nello spazio, varrebbe addirittura zero mentre la sua massa è sempre la stessa. Per questo motivo il kilogrammo-peso fu definito come il peso che il campione aveva in un ben definito luogo: senza questa precisazione il prototipo avrebbe perso le sue caratteristiche di peso campione universale.

Sul piano pratico bisogna distinguere. Un tempo si pesava la merce con bilance a due piatti in cui si metteva a confronto l’oggetto da pesare con pesi campione. In questo modo si confrontavano in realtà due masse le quali venivano ugualmente attratte dalla Terra e non cambiavano con il luogo in cui veniva fatta la misura. Le moderne bilance invece registrano la maggiore o minore contrazione di una molla (che sta sotto il piatto della bilancia) sulla quale agisce la forza di gravità. A questo punto non è più la stessa cosa salire sulla medesima bilancia posta in pianura o in alta montagna. In montagna siamo attirati verso il centro della Terra con minor forza e quindi pesiamo di meno: quando però ritorniamo in pianura il nostro peso ritorna quello di prima. Gli astronauti sulla Luna pesavano molto di meno (come si poteva osservare anche dai loro movimenti) che sulla Terra, ma la loro massa durante il viaggio non era cambiata.

Le moderne bilance elettroniche di precisione funzionano con lo stesso criterio a molla che pesa le persone, cioè sono sensibili alla forza di gravità e quindi devono essere tarate in funzione del luogo nel quale agiscono. Le più recenti norme Cee prescrivono che le bilance elettroniche di precisione possano circolare solo nella zona geografica in cui sono state costruite e tarate.

Nel 1889, quando si andò a mettere a confronto il cilindro campione di platino-iridio con un decimetro cubo di acqua distillata alla temperatura di 4 °C, ci si accorse che il prototipo era troppo grande essendo equivalente ad un decimetro cubo di acqua più 27 mm³. A questo punto si presentava lo stesso dilemma che tormentò i tecnici quando verificarono che la quaranta milionesima parte del meridiano terrestre non corrispondeva al metro campione custodito a Sèvres, ovvero sostituire la massa campione con una più precisa o mutare la definizione di unità di massa, riferendola anziché all’acqua distillata direttamente al blocchetto campione.

Si preferì la seconda soluzione. La conseguenza di questa scelta fu che un kilogrammo di acqua non è più contenuto in un volume di un decimetro cubo. Il nuovo volume tuttavia rappresentava anch’esso un’unità di misura che non poteva essere trascurata e fu sostituita con il litro (simbolo L) definito come il volume di un kilogrammo di acqua distillata a 4 °C al livello del mare e a 45 gradi di latitudine. Un litro è quindi uguale a un decimetro cubo più ventisette millimetri cubi: 1 L = 1 dm³ + 27 mm³ o, se si preferisce, 1.000.027 mm³.

Ma i guai per la massa campione non finiscono qui. Dalle ultime verifiche, effettuate mettendo a confronto il prototipo internazionale con le copie custodite in una quarantina di Paesi, fra cui l’Italia, si è notato che non vi è accordo di valori. Ad esempio il campione italiano conservato presso l’Ufficio Centrale Metrico del Ministero dell’Industria Commercio e Artigianato di Roma, catalogato con il numero 5, è 64 milionesimi di grammo più pesante del campione internazionale e il secondo prototipo italiano, registrato con il numero 62, conservato presso l’Istituto di Metrologia Colonnetti di Torino, è addirittura quasi un millesimo di grammo più leggero del campione di Sèvres.

Questa constatazione ha evidenziato una volta di più la necessità di sostituire il manufatto con un campione naturale. Il kilogrammo è infatti l’unica fra le sette unità di misura del Sistema Internazionale la quale viene definita per mezzo di un artefatto e non in funzione di una costante fisica universale. Se si volesse quindi ricavare questa unità di misura per proprio conto non sarebbe possibile farlo: ci si dovrebbe necessariamente recare a Sèvres dove è custodito il cilindro campione oppure ci si dovrebbe rivolgere ad uno dei 40 Paesi che conservano le copie del modello universale e consultare un oggetto la cui precisione, come abbiamo visto, è molto dubbia.

Attualmente si sta studiando il sistema più conveniente per definire l’unità di massa in funzione del numero di Avogadro il cui valore è (6,02214199 ± 0,00000047)·1023. Il numero di Avogadro è una costante universale e rappresenta il numero di particelle contenute in una mole di sostanza. Se si riuscisse a ridurre l’incertezza relativa alla misura di tale numero, che attualmente è di una parte su 10 milioni, a quella del kilogrammo standard di Sèvres che è di una parte su 100 milioni, lo si potrebbe impiegare come fondamento per la determinazione dell’unità di massa. Ma per raggiungere l’obiettivo si dovrebbe riuscire a contare il numero di atomi contenuti in un campione di massa nota.

Uno dei progetti coinvolge l’Istituto di metrologia “Gustavo Colonnetti” del CNR di Torino. Il programma prevede la realizzazione di un cristallo di silicio purissimo, la determinazione, facendo uso dei raggi X, del numero di atomi che formano il reticolo cristallino e quindi la misura della massa di un cristallo di volume noto. I ricercatori di Torino sono impegnati nella verifica della purezza dei campioni di silicio e nella determinazione della struttura cristallina del loro reticolo. Un esperto tedesco, Achim Leistner, utilizzando tecniche acquisite nell’industria ottica, è stato invece incaricato della levigazione a mano di una sfera di silicio di circa 93 millimetri di diametro e del peso di circa 1 kg. Terminate queste operazioni si sarà in grado di stabilire il numero di atomi di silicio contenuti in quella sfera di volume noto e quindi l’unità di massa diventerà quella corrispondente ad un ben preciso e determinato numero di atomi di silicio.

 

CONCLUSIONI

La scelta delle grandezze fondamentali, come abbiamo visto, è un’operazione alquanto arbitraria. Ad esempio si potrebbe sostituire il campione di lunghezza con quello di velocità e questo potrebbe essere ricavato dalla velocità della luce, la quale viaggia a circa 300.000 km/s. Pertanto come il metro è stato definito la 40 milionesima parte del meridiano terrestre, l’unità di misura di velocità, che potremmo chiamare “lume”, potrebbe essere definita la 300 milionesima parte della velocità della luce nel vuoto. La lunghezza, di conseguenza, diverrebbe una unità derivata data dal prodotto dell’unità di velocità per l’unità di intervallo di tempo (lume x secondo).

Il Sistema Internazionale delle Unità di Misura oltre a definire le unità campione ha imposto anche una serie di regole generali riguardanti la scrittura dei simboli a cui devono attenersi i Paesi aderenti alla Convenzione. I simboli che accompagnano le misure, ad esempio, devono essere scritti dopo il valore numerico e non devono portare il puntino di abbreviazione: non si deve quindi scrivere m. come simbolo del metro.

Altra regola: le unità di misura che traggono il nome da quello di scienziati devono essere scritte con l’iniziale minuscola. Quindi si scriverà: newton, volt, ampère, ecc., mentre i simboli corrispondenti andranno scritti con lettere maiuscole: N, V, A, ecc. Le unità che non hanno nomi derivanti da quelli di persone, come metro, kilogrammo, secondo, ecc. hanno i simboli scritti con lettere minuscole: m, kg, s (e non sec o gr come erroneamente spesso si legge per secondo e grammo); fa eccezione il litro per il quale è consentito l’uso della maiuscola L per evitare di confondere la l minuscola con il numero 1 (*). L’unità di misura della temperatura assoluta, il kelvin, un tempo veniva scritta con un simbolo simile a quello usato per esprimere i “gradi Celsius” (°C) cioè °K, mentre oggi si scrive semplicemente K (maiuscolo perché k minuscolo è il simbolo del multiplo kilo).

Negli ultimi tempi è stato anche ampliato il numero di multipli e sottomultipli (e i relativi prefissi da anteporre alle unità di misura) al fine di esprimere valori numerici molto grandi per soddisfare le esigenze nel campo dell’astronomia e molto piccoli per analoghi motivi nel settore della fisica delle particelle. Ai tradizionali fattori positivi 101, 102, 103, 106, 109 e 1012 esprimibili rispettivamente con i prefissi (derivati quasi tutti dal greco) deca (simbolo da), hecto (simbolo h), kilo (simbolo k), mega (simbolo M), giga (simbolo G) e tera (simbolo T) di recente si sono aggiunti i prefissi peta (simbolo P) per 1015, exa (simbolo E) per 1018, zetta (simbolo Z) per 1021 e yotta (simbolo Y) per 1024. Per i fattori negativi corrispondenti esistono oggi i prefissi: deci (simbolo d) per esprimere il sottomultiplo 10-1, centi (simbolo c) per 10-2, milli (simbolo m) per 10-3, micro (simbolo µ) per 10-6, nano (simbolo n) per 10-9, pico (simbolo p) per 10-12, femto (simbolo f) per 10-15, atto (simbolo a) per 10-18, zepto (simbolo z) per 10-21 e yocto (simbolo y) per 10-24. I prefissi peta, exa, zetta (e zepto) e yotta (e yocto) evocano i numeri greci 5, 6, 7 e 8 che si riferiscono rispettivamente alla quinta, sesta, settima e ottava potenza di 103 (o 10-3). Femto e atto hanno invece un’etimologia per noi insolita: femto deriva da femten che significa quindici sia in norvegese che in danese e pure atto deriva dal danese atten, che in quella lingua vuol dire diciotto.

(*) La proposta di sostituire la “elle” minuscola (che poteva essere confusa con la cifra 1) con quella maiuscola, condusse alcuni bontemponi ad organizzare uno scherzo al quale molti scienziati, anche famosi, abboccarono.
La regola adottata dal Comitato Internazionale di Pesi e Misure prescriveva che le lettere maiuscole potessero essere utilizzate per indicare le unità di misura solo se prendevano il loro nome da quello di uno scienziato. Nacque così Claude Emile Jean-Baptiste Litre (1716-1778), un personaggio poco noto agli storici della scienza che però si diceva avesse collaborato con i maggiori chimici del suo tempo, ma stranamente non con Lavoisier.
L’opera di questo fantomatico scienziato venne presentata su una rivista internazionale di didattica della chimica alla fine degli anni Settanta del secolo scorso; subito dopo lo stesso autore dell’articolo si affrettò a rivelare lo scherzo, ma troppo tardi, perché la storia si era ormai diffusa nel mondo scientifico. Negli stessi anni si venne a scoprire che l’idea di uno scherzo simile era stata anticipata in un articolo comparso su una rivista tedesca che riportava la storia di un certo Giuseppe Litroni, un italiano che era emigrato in Francia perché minacciato dalla mafia.
La storia del falso Litre non finisce qui. In anni recenti si è potuto leggere su di una rivista di chimica che erano stati trovati dei documenti i quali comprovavano che il nostro personaggio abbandonati gli studi, si era recato negli Stati Uniti dove aveva messo in piedi una fabbrica per la produzione di oggetti di vetro, si era sposato ed aveva avuto una figlia alla quale era stato dato il nome (manco a dirlo) di Millicent in onore alla graduazione millesimale delle burette.

Prof. Antonio Vecchia

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