L’energia nucleare

Nel 1896 il fisico francese Antoine Henri Becquerel (1852-1908) scoprì casualmente che un sale dell’uranio emetteva radiazioni assai penetranti capaci di impressionare una lastra fotografica avvolta in carta nera. Lo studio approfondito del fenomeno, a cui fu dato il nome di “radioattività” dalla scienziata polacca Marie Sklodowska Curie (1867-1934), fece pensare che l’atomo non fosse un oggetto semplice e indivisibile come l’avevano immaginato Democrito e Dalton, ma qualche cosa di più complesso. In realtà, già diciassette anni prima della scoperta della radioattività lo studio delle scariche elettriche attraverso i gas rarefatti aveva portato alla individuazione dei cosiddetti raggi catodici di cui il fisico britannico Joseph John Thomson (1856-1940) riconobbe la natura corpuscolare. I raggi catodici si rivelarono infatti flussi di particelle di piccole dimensioni con carica elettrica negativa che furono chiamate elettroni su suggerimento del fisico irlandese George Johnstone Stoney (1826-1911): questi, in verità, aveva proposto quel nome non per designare delle particelle ma per indicare cariche elementari il cui flusso lungo un filo metallico produceva la corrente elettrica.

Quando venne scoperta la radioattività si comprese che all’interno dell’atomo oltre agli elettroni vi dovessero essere altre particelle. Il fenomeno fu analizzato da molti fisici e chimici ma i risultati maggiori li ottennero Marie e il marito di lei Pierre Curie (1859-1906) in Francia e il neozelandese Ernest Rutherford (1871-1937) in Inghilterra. Quest’ultimo sottoponendo le radiazioni che uscivano dai composti dell’uranio ad un campo elettrico ne aveva identificata una poco penetrante a cui dette il nome di raggi alfa, e una seconda ben più intensa che chiamò raggi beta. Nello stesso periodo veniva scoperta una terza forma di emissione radioattiva che fu chiamata raggi gamma, simile ai raggi X, ma molto più penetrante di essi.

L’emissione di queste radiazioni risultava del tutto indipendente dalle condizioni esterne dato che non era possibile alterare l’emissione radioattiva della sostanza agendo sulla temperatura, sulla pressione o su qualsiasi altro fattore chimico o fisico. Lo studio approfondito del fenomeno portò alla scoperta che i raggi alfa erano particelle con doppia carica positiva e massa circa 7350 volte maggiore di quella degli elettroni, le quali uscivano dalla materia procedendo ad una velocità che era circa un decimo di quella della luce. I raggi beta erano invece elettroni che si sprigionavano dalla materia viaggiando ad una velocità che era di solo un decimo inferiore a quella della luce. Poi, come abbiamo visto, vi erano anche i raggi gamma che, al pari della luce, non erano nulla di materiale, ma energia pura di natura elettromagnetica, ovvero fotoni molto energetici ma privi di massa e di carica elettrica.

La radioattività venne scoperta quando non si sapeva ancora nulla della struttura interna dell’atomo e quindi non si riusciva a capire come si generasse l’energia necessaria per lanciare a grande velocità particelle che risiedevano all’interno degli atomi, oltre a quella contenuta nei raggi gamma. Lo studio del fenomeno convinse Rutherford che gli atomi racchiudessero in sé grandi quantità di energia che solo in minima parte emergeva spontaneamente attraverso i fenomeni radioattivi. Questa ipotesi fu sufficiente allo scrittore britannico Herbert George Wells per parlare nei suoi romanzi fantascientifici di “bombe atomiche” già quarant’anni prima che venissero prodotte realmente.

Un ulteriore passo in avanti nello studio del fenomeno fu fatto dai Curie con la scoperta di due nuovi elementi molto più attivi dell’uranio: prima il polonio, così chiamato in onore della Polonia, patria di Marie, e poi il radio, che prende il nome dalla radioattività. Frattanto Einstein, nel 1905, aveva chiarito il mistero dell’energia creata dal nulla dimostrando, attraverso la famosissima equazione E=m·c², che la massa è una forma concentrata di energia. La formula mette in evidenza che è sufficiente una piccolissima quantità di materia per ottenere un’enorme quantità di energia (E) perchè la velocità della luce (c) elevata al quadrato, che moltiplica la massa (m), è un numero grandissimo.

 

LA SCOPERTA DEL NUCLEO ATOMICO

J. Thomson, lo scopritore dell’elettrone, propose per primo una struttura atomica che tenesse conto della carica elettrica: egli sostenne che l’atomo doveva essere una minuscola pallina priva di caratteristiche e fornita di carica elettrica positiva nel cui interno si muovevano gli elettroni in numero tale da neutralizzare la carica positiva dispersa nell’intero volume.
Frattanto Rutherford aveva individuato, all’interno dell’atomo, un’altra particella positiva a cui fu dato il nome di protone, una parola che in greco significa “primo” perché si riteneva trattarsi della particella fondamentale della materia. In verità questa particella era stata già osservata in precedenza senza però che si capisse esattamente di cosa si trattava. Continuando gli esperimenti con i tubi catodici, ovvero recipienti di vetro con saldati all’interno due elettrodi metallici collegati ad un generatore di corrente continua ad alto potenziale (detti catodo, quello negativo ed anodo quello positivo), si era notata non solo la radiazione che usciva dall’elettrodo negativo, ossia gli elettroni, ma anche una seconda che procedeva in senso contrario. Perforando il catodo si era infatti osservata una radiazione che fu chiamata “raggi canale” e si capì subito che doveva trattarsi di particelle con carica positiva la cui grandezza dipendeva dal gas residuo presente nel tubo di vetro entro il quale era stato praticato il vuoto molto spinto. Quando il tubo conteneva residui di idrogeno si osservava la più piccola particella con carica positiva.

Protone ed elettrone erano corpuscoli con carica elettrica uguale – sebbene di segno opposto – ma con masse molto diverse, essendo quella del protone 1836 volte maggiore di quella dell’elettrone. A questo punto delle conoscenze fu spontaneo pensare che l’atomo, essendo un corpo neutro, fosse fatto di protoni ed elettroni in numero uguale in modo da bilanciare esattamente le cariche elettriche. Rimaneva ancora da scoprire quale fosse la sede dei protoni perché, mentre era relativamente facile estrarre dall’atomo gli elettroni, non si riusciva a staccare da esso con altrettanta facilità i corpuscoli positivi.

A risolvere il problema fu lo stesso Rutherford il quale, in seguito ad un raffinato lavoro sperimentale eseguito negli anni compresi fra il 1906 e il 1908, individuò un nucleo pesante nel centro dell’atomo. La scoperta venne fatta ponendo un sottilissimo foglio di oro in corrispondenza del fascio di particelle alfa che uscivano da una sostanza radioattiva sistemata all’interno di un blocco di piombo; in questo era stato praticato un foro dal quale uscivano tutte e tre le radiazioni che poi venivano opportunamente separate in modo che solo le alfa andassero a colpire il bersaglio. Poiché queste particelle passavano indisturbate attraverso la lamina di oro Rutherford dedusse che l’atomo doveva essere un edificio vuoto limitato da entità inconsistenti le quali non disturbavano il procedere delle pesanti particelle alfa.

Egli tuttavia notò che alcuni proiettili alfa attraversando la lamina di oro venivano deviati dalla loro traiettoria rettilinea e in rari casi tornavano addirittura indietro come se rimbalzassero su qualche cosa di solido. Il fisico neozelandese pensò allora che all’interno dell’atomo vi fosse un nucleo compatto che occupava una parte molto piccola di esso (mediamente un centomillesimo della grandezza complessiva dell’atomo). Per questa ricerca Rutherford ricevette nel 1908 il premio Nobel per la chimica, di cui ovviamente andò orgoglioso, ma che tuttavia gli lasciò un po’ di amaro in bocca perché egli si considerava un fisico e non un chimico come l’assegnazione del premio lasciava intendere. A questo punto era logico supporre che il piccolo nucleo centrale fosse composto di protoni con carica positiva, il quale a sua volta era contornato da una nube di elettroni.

Appena risolto il problema relativo alla struttura intima dell’atomo se ne affacciò subito un altro. Si era infatti osservato che la massa di un atomo era tutta concentrata nel suo nucleo come pure in esso era sistemata la carica positiva, ma non vi era accordo fra il numero delle cariche positive e il numero dei protoni. L’elio ad esempio aveva una massa corrispondente a quella di quattro protoni ma due sole cariche positive e quindi l’atomo, spoglio dei due elettroni periferici, si riduceva al semplice nucleo il quale, detto per inciso, coincideva con la particella alfa che usciva dalle sostanze radioattive. Massa quattro voleva dire quattro protoni ma poiché le cariche elettriche erano solo due dovevano essere presenti nel nucleo anche due elettroni, capaci di annullare due cariche positive senza alterare in modo apprezzabile la massa complessiva.

L’idea che nel nucleo atomico vi potessero stare elettroni e protoni non resse alla critica più attenta. Fra le altre cose l’ipotesi andava contro una legge fondamentale di natura detta “conservazione del momento angolare” che ora esporremo in termini semplici.

Iniziamo allora col dire che tutti i corpi in rotazione sono caratterizzati da una grandezza fisica detta spin, da un termine inglese che significa “ruotare”. Anche gli elettroni e i protoni posseggono un loro spin che viene misurato in unità scelte in modo tale che gli stessi possano avere spin uguale a + ½ o a – ½ a seconda che la rotazione avvenga in un senso o nel senso opposto. Il nucleo ha anch’esso un suo spin il cui valore è rappresentato dalla somma dello spin delle particelle che lo costituiscono. Pertanto, se nel nucleo è presente un numero pari di elettroni, di protoni o di entrambi lo spin totale sarà uguale a zero o a un numero intero: per esempio + 1, – 1, +2, – 2, e così via. Se invece nel nucleo sono contenuti protoni ed elettroni in numero totale dispari, lo spin complessivo sarà un numero semintero: per esempio più o meno un mezzo, oppure più o meno uno e mezzo o ancora più o meno due e mezzo e così via. Non è difficile verificare i valori riportati sopra sommando prima un numero pari e poi un numero dispari di particelle nucleari. Da quanto detto risulta chiaro che lo spin di un oggetto in rotazione si deve conservare, nel senso che non può essere creato dal nulla né sparire nel nulla: esso può solo trasferirsi da un corpo ad un altro.

Per fare un esempio concreto consideriamo il nucleo dell’azoto che ha carica positiva +7 e massa 14. Secondo la teoria protone/elettrone il nucleo avrebbe dovuto contenere 14 protoni con carica positiva di cui 7 con la carica annullata da quella negativa di 7 elettroni. Di conseguenza, il numero totale delle particelle subatomiche presenti nel nucleo dell’atomo di azoto avrebbe dovuto essere 21 e lo spin un numero semintero. Ma non è così: lo spin del nucleo dell’atomo di azoto è un numero intero.

Le stesse discrepanze furono riscontrate anche in altri nuclei cosicché la teoria protone/elettrone apparve decisamente inadeguata: era pertanto necessario proporne una sostitutiva.

 

LA SCOPERTA DEL NEUTRONE

A risolvere il problema della composizione nucleare venne la scoperta del neutrone, la quale tuttavia non arrivò inattesa. La presenza di elettroni nel nucleo, come abbiamo detto, portava ad una serie di difficoltà che non erano solo quelle legate al mancato rispetto della legge della conservazione del momento angolare ma coinvolgeva anche aspetti di ordine energetico: si era infatti calcolato che gli elettroni che emergevano dall’atomo se fossero partiti dai nuclei avrebbero dovuto portare con sé energie almeno mille volte superiori rispetto a quelle che venivano misurate. Quando Niels Bohr (il fisico danese padre del modello di atomo fondato su alcune idee della meccanica quantistica) e Rutherford parlarono di questi fatti vennero alla conclusione che per salvare la situazione si doveva ammettere l’esistenza nel nucleo non di elettroni, ma di protoni senza carica. La ricerca di queste particelle neutre fu effettuata in vari laboratori ma senza successo.

Nel 1932 i coniugi francesi Frédéric e Irène Juliot-Curie (la moglie era la figlia di Pierre e Marie Curie) rifecero un esperimento che era già stato tentato due anni prima da due fisici tedeschi senza risultati apprezzabili. Essi osservarono che quando atomi di berillio venivano colpiti da particelle alfa producevano una radiazione misteriosa elettricamente neutra che a sua volta provocava l’emissione di protoni dalla paraffina, una sostanza ricca di idrogeno. Venne ipotizzato che la radiazione che usciva dal berillio fosse costituita da raggi gamma, che sono per l’appunto radiazioni neutre.

Colui che capì cosa era effettivamente successo durante l’esperimento fu Ettore Majorana, lo sfortunato e irrequieto “ragazzo di via Panisperna” sparito nel nulla nel fior fiore della sua brillante carriera scientifica. Egli commentò il fallimento dei due scienziati francesi con un’affermazione che rimase famosa: “Che cretini, si sono visti passare sotto il naso il protone neutro e non se ne sono accorti!”. Il ragionamento che fece il fisico italiano è molto semplice. La radiazione gamma, costituita da fotoni (corpuscoli estremamente piccoli), non poteva espellere dalla paraffina i protoni (particelle di massa relativamente grande). Come se un’automobile parcheggiata venisse lanciata lontano perché colpita da una palla da tennis. In realtà l’effetto poteva essere provocato solo da una particella di massa pari a quella dei protoni quindi proprio da quella particella che i due fisici francesi non erano riusciti ad individuare. La conclusione di Majorana era corretta ma essendo egli un fisico teorico non ebbe la possibilità di provare la sua intuizione attraverso un esperimento. Ci pensò qualcun’altro.

Il fisico inglese James Chadwick (1891-1974) riuscì infatti a formulare una corretta interpretazione all’esperimento degli scienziati tedeschi e francesi. Egli ripeté la prova al Cavendish Laboratory dell’Università di Cambridge dove lavorava Rutherford (che fu suo insegnante) e, usando sempre polonio e berillio come sorgente, investì non solo atomi di idrogeno ma anche di elio e azoto. La scelta di atomi di varia natura come bersaglio delle radiazioni consentì al fisico inglese di osservare che la radiazione conteneva una componente neutra di massa circa uguale a quella del protone. L’interpretazione dell’esperimento si dimostrò corretta e alle particelle neutre che uscivano dal berillio fu dato il nome di neutroni. I Juliot avevano perso un’occasione importante che creò in loro un forte sconforto perché erano andati molto vicini a cogliere nel segno, ma d’altra parte bisogna anche osservare che in generale si vede solo quello che ci si aspetta di vedere; Chadwick era mentalmente preparato all’idea del neutrone, la stessa che da tempo assillava il suo maestro, ed ora collega, Rutherford.

Con questa scoperta l’atomo assunse finalmente l’aspetto definitivo, ovvero di un nucleo pieno di protoni e neutroni attorniato da uno sciame di elettroni ruotanti intorno ad esso. Il numero dei protoni e quindi degli elettroni di un elemento prende il nome di numero atomico mentre l’insieme dei protoni e dei neutroni viene detto numero di massa. L’identificazione dei neutroni spiegò anche la presenza degli isotopi ossia l’esistenza di atomi identici dal punto di vista chimico ma diversi per massa.

Per capire di cosa si tratta facciamo alcuni esempi. L’atomo di idrogeno, il più semplice che esista, è costituito da un protone sistemato nel nucleo attorno al quale ruota un unico elettrone: il numero atomico è 1 e il numero di massa è pure 1. L’idrogeno ha però due isotopi il cui nucleo, oltre al protone, contiene rispettivamente uno o due neutroni: il loro numero atomico rimane 1, ma il numero di massa è due nel primo caso e tre nel secondo. Questi due isotopi si chiamano infatti deuterio (termine che deriva dal greco deuteros che significa secondo) e trizio (dal greco tritos che significa terzo).

Ecco un altro esempio. Il più complesso elemento che esiste in natura è l’uranio: l’atomo è formato da un nucleo che contiene 92 protoni e 146 neutroni, attorno al quale girano 92 elettroni. Perciò il numero atomico dell’uranio è 92 mentre il numero di massa è 238. Di questo elemento esiste un isotopo con tre neutroni in meno il cui numero di massa è dunque 235. Questo isotopo, presente in natura in percentuale minima rispetto all’uranio 238, costituisce il materiale utilizzato per la preparazione della bomba atomica e per la produzione di energia elettrica nei reattori nucleari.

 

LO STUDIO DELLE TRASFORMAZIONI NUCLEARI

Quando Fermi venne a conoscenza della scoperta dei neutroni pensò che quelle particelle, essendo prive di carica, fossero più adatte delle alfa per colpire i nuclei atomici e modificarne la struttura. In quegli stessi anni, a Parigi, i coniugi Juliot-Curie avevano scoperto la radioattività artificiale: bombardando con particelle alfa emesse dal polonio un foglio di alluminio essi notavano che quel metallo restava radioattivo anche quando il bombardamento cessava. I due fisici francesi per quella scoperta ricevettero il premio Nobel nel 1935: un riconoscimento che li ripagò in parte della delusione per la mancata individuazione del neutrone.

Proseguendo le ricerche in quel campo si scoprì che le particelle alfa con carica positiva non riuscivano a colpire i nuclei degli atomi più pesanti proprio perché venivano respinte dai numerosi protoni nucleari anch’essi carichi positivamente mentre, bombardandoli con i neutroni, i ragazzi di via Panisperna riuscirono ad ottenere una quarantina di nuovi elementi radioattivi.

Grazie ad una intuizione geniale che poteva scaturire solo da una mente eccezionale quale era quella di Fermi, si comprese che i neutroni si dimostravano ancora più efficaci come proiettili nucleari se venivano rallentati facendoli passare attraverso l’acqua o la paraffina in quanto gli atomi di idrogeno presenti in quelle sostanze assorbivano un po’ della loro energia rallentandone la corsa. Non è difficile capire il motivo per il quale il neutrone lento si inserisce più facilmente nel nucleo se lo si paragona alla pallina del golf che finisce più facilmente in buca se arriva in prossimità del bersaglio lentamente invece che velocemente.

Nel 1934 Fermi aveva bombardato l’uranio con neutroni lenti ottenendo un miscuglio di atomi fra i quali pensava di avere individuato l’elemento numero 93. Mussolini che a quel tempo teneva in grande considerazione il fisico romano tanto da averlo nominato Accademico d’Italia, sperava che potesse essere chiamato “littorio” il primo elemento transuranico che dovesse venir scoperto dai ragazzi di via Panisperna, ma il fisico e uomo politico Orso Mario Corbino, direttore dell’Istituto di fisica in cui lavorava il gruppo di Fermi, dimostrando spiccato senso dell’umorismo, fece notare a coloro che facevano pressione per battezzare un nuovo elemento con un nome che desse prestigio e gloria al Regime fascista, che la vita media della sostanza radioattiva era molto breve: sarebbe stato di cattivo auspicio qualora la si associasse ad un regime che avrebbe dovuto invece durare a lungo! In realtà i risultati degli esperimenti non erano per nulla chiari ed essendo stati anche male interpretati facevano ritenere di aver prodotto elementi che nella tabella periodica di Mendeleev trovavano sistemazione al di là dell’uranio. In realtà, come si vedrà in seguito, i fisici italiani con i loro esperimenti avevano raggiunto un risultato ben più importante della produzione di elementi transuranici.

Tuttavia a Fermi, per il suo lavoro sperimentale con i neutroni lenti, fu assegnato il premio Nobel che nel 1938 andò a ritirare a Stoccolma con tutta la famiglia. Qui incidentalmente parlò di due nuovi elementi transuranici che sarebbero stati individuati in seguito ai suoi esperimenti a cui aveva dato i nomi provvisori di esperio e ausonio. Quindi, preoccupato per la sorte che avrebbe potuto toccare a sua moglie di religione ebraica in conseguenza delle leggi razziali che da poco erano state promulgate anche in Italia, salì sulla nave con la consorte ed i figli e si trasferì direttamente dalla Svezia in America, dove l’aspettava una cattedra di fisica presso la Columbia University di New York.

Le stesse ricerche che impegnavano Fermi e i suoi collaboratori si svolgevano anche a Berlino dove i fisici Otto Hahn (1879-1968) e Lise Meitner (1878-1968) tentavano di capire se il bombardamento dell’atomo di uranio con i neutroni potesse portare alla formazione di qualche elemento più pesante dell’ultimo esistente in natura. Mentre ferveva il lavoro sperimentale l’Austria veniva occupata dalla Germania di Hitler e la Meitner che, pur professando religione ebraica, fino a quel momento si era sentita al sicuro come cittadina austriaca, fu costretta a fuggire dal luogo in cui lavorava e a rifugiarsi a Stoccolma. Hahn continuò pertanto le proprie ricerche coadiuvato dal chimico Fritz Strassmann (1902-1980).

Il fisico tedesco aveva calcolato che il bombardamento neutronico dell’uranio avrebbe prodotto la fuoriuscita di due particelle alfa con formazione di radio che è un elemento radioattivo di numero atomico 88. Il radio tuttavia per quante ricerche fossero state effettuate non fu mai trovato fra i prodotti della reazione. Furono invece individuati gli isotopi radioattivi del bario di cui non si riusciva a dare giustificazione. Questo elemento pesa circa la metà dell’uranio e quindi avrebbe potuto formarsi o per la fuoriuscita di molte particelle alfa dal nucleo dell’uranio o per la rottura di quel nucleo in due parti. Nell’uno come nell’altro caso si trattava di ipotesi talmente improbabili che i due scienziati non osarono renderle pubbliche.

Hahn decise invece di trasmettere i dati dei suoi esperimenti alla Meitner a Stoccolma dove la scienziata in quel momento si trovava in compagnia del nipote Otto Robert Frisch (1904-1979) che era andato a trovarla per passare con lei le vacanze di Natale. Frisch era un fisico di religione ebraica costretto anch’egli a rifugiarsi all’estero per sfuggire alle leggi antisemitiche di Hitler. Zia e nipote analizzarono matematicamente i risultati sperimentali ottenuti nel laboratorio di Berlino e confermarono l’ipotesi che il nucleo dell’uranio colpito dai neutroni si doveva essere spezzato a metà. La Meitner suggerì di chiamare fissione (da un termine latino che significa “scindere, dividere”) il processo di rottura dell’atomo di uranio riscontrando anche che la somma delle masse atomiche dei prodotti della reazione era leggermente inferiore alla massa del materiale di partenza; evidentemente l’uranio, scindendosi sotto l’azione dei neutroni, si era in piccola parte trasformato in energia secondo la formula einsteiniana dell’equivalenza tra massa ed energia. La scienziata austriaca decise quindi di scrivere una lettera alla rivista scientifica “Nature” illustrando i risultati degli esperimenti e la loro interpretazione.

Quando Frisch ritornò a Copenhagen, dove risiedeva, informò Bohr, con il quale stava collaborando, del contenuto della lettera inviata dalla zia alla rivista inglese. Dopo pochi giorni Bohr si recò in America per partecipare ad un congresso di fisica e lì incontrò vari scienziati fra cui Fermi con il quale parlò della nuova scoperta, la stessa che si sarebbe potuta fare a Roma qualora fossero stati bene interpretati i lavori eseguiti dal gruppo di fisici che lavoravano nell’Istituto di via Panisperna.

 

LA FISSIONE NUCLEARE

La notizia dell’avvenuta disintegrazione del nucleo di uranio in breve si diffuse nell’ambiente dei fisici che si stavano interessando al fenomeno della radioattività. Fra questi vi era l’ungherese Leo Szilard (1898-1964) di religione ebraica che, abbandonato il suo Paese, in un primo tempo si era rifugiato in Gran Bretagna e successivamente si era trasferito negli Stati Uniti. Egli intravide nel fenomeno scoperto da Hahn quello che H. G. Wells molti anni prima aveva chiamato bomba atomica. Il fisico ungherese si era convinto di questa eventualità perché aveva pensato che rompendosi il nucleo dell’atomo di uranio potessero uscire da esso dei neutroni i quali sarebbero andati a colpire altri nuclei con liberazione di altri neutroni e così via fino a provocare una reazione a catena autosostenuta con sviluppo di grandi quantità di energia.

Egli temeva che Hitler potesse venire a conoscenza della possibilità di produrre in patria una bomba di grande potenza utilizzando la fissione nucleare dell’uranio e quindi, nel 1941, quando gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra, insieme con i connazionali Eugene Paul Wigner ed Edward Teller si recò da Einstein per cercare di convincerlo a scrivere una lettera al presidente Franklin Delano Roosevelt al fine di informarlo della opportunità di produrre una bomba molto potente prima che lo facesse l’odiato nemico, ma soprattutto per esporgli la necessità di investire molto denaro per finanziare la ricerca in quella direzione. Roosevelt si lasciò persuadere dalle parole del più autorevole scienziato esistente a quel tempo e di lì a poco prese l’avvio quello che verrà chiamato “Progetto Manhattan”.

Frattanto Fermi, approfittando di una parte del denaro stanziato a favore del progetto per la realizzazione della bomba atomica aveva deciso, insieme con un gruppo di colleghi, di tentare di produrre energia dalle reazioni nucleari messe sotto controllo; con questo esperimento in realtà egli si accingeva a lanciare una sfida alle conclusioni a cui era giunto Bohr, convinto che solo l’uranio di massa 235 potesse subire la fissione per azione dei neutroni lenti. Fermi era invece persuaso che sarebbe stato possibile innescare una reazione a catena anche senza disporre dell’uranio arricchito dell’isotopo più leggero purché si fosse usata una quantità di uranio naturale abbastanza grande.

Sotto le gradinate dello stadio che si trovava nel campus dell’Università di Chicago furono quindi ammassate sei tonnellate di uranio, oltre a grandi quantità di ossido dello stesso metallo e grafite purissima. Quando Fermi decise che il materiale raccolto era sufficiente, vennero sovrapposti strati alterni di uranio e grafite attraversati da fori in cui furono inseriti alcuni pali di legno avvolti in sottili fogli di cadmio che avrebbero avuto lo scopo di assorbire i neutroni eccedenti al fine di controllare la reazione. La grafite aveva invece lo scopo di rallentare i neutroni.

La mattina del 2 dicembre 1942 la pila era stata completata e Fermi in persona dette l’ordine di estrarre lentamente le barre di cadmio al fine di avviare la reazione nucleare all’interno della prima di quelle macchine che in seguito verranno chiamate “reattori nucleari”. Ad assistere all’evento vi era una quarantina di persone, in prevalenza scienziati.

L’annuncio del successo della prima reazione nucleare controllata venne fatto dal fisico Arthur Holly Compton (1892-1962) all’ufficio di Roosevelt con la seguente frase in codice: “Il navigatore italiano è arrivato nel nuovo mondo”. Noi aggiungiamo che nel 1492 un altro navigatore italiano, Cristoforo Colombo, scopriva quel continente nel quale Fermi, nel 1942 (si noti l’inversione delle due cifre centrali), apriva una nuova era nella storia dell’umanità.

Negli stessi anni veniva identificato il primo elemento transuranico a cui fu dato il nome di nettunio. Si era osservato che se l’uranio-238 veniva esposto ai neutroni lenti questi erano assorbiti dal nucleo che si trasformava in quello dell’uranio-239, un elemento radioattivo che nel volgere di pochi minuti subiva decadimento beta e si trasformava nell’elemento transuranico nettunio-239 a vita un po’ più lunga. Il 239Np era esso stesso radioattivo e per emissione beta si trasformava in plutonio-239 il quale, avendo vita media molto lunga, poteva essere separato dall’uranio. L’importanza di questo elemento stava nel fatto che esso era in grado di subire scissione per azione di neutroni lenti al pari dell’uranio-235. Era stato quindi scoperto un altro modo per ottenere una bomba atomica: oltre a quello di usare l’uranio naturale arricchito dell’isotopo 235 ora vi era anche la possibilità di partire dal plutonio-239. Tuttavia le operazioni di arricchimento dell’uranio come quelle della preparazione del plutonio-239 non erano per nulla semplici.

Dopo notevoli sforzi alla fine vennero costruite due bombe atomiche (sarebbe più corretto chiamarle “bombe nucleari”): una prima a fissione dell’uranio arricchito chiamata Little Boy (il ragazzino) che fu sganciata il 6 agosto del 1945 su Hiroshima ed una seconda al plutonio, due volte più potente, chiamata Fat Man (il grassone) sganciata tre giorni dopo su Nagasaki. I due ordigni rasero al suolo le due città giapponesi provocando complessivamente 120.000 morti oltre a 110.000 feriti, gran parte dei quali morirono entro poche settimane a causa delle radiazioni assorbite e delle ustioni che avevano martoriato il loro corpo.

 

LA FUSIONE NUCLEARE

Finora abbiamo visto che sia nei fenomeni radioattivi, sia in quelli di fissione, nuclei atomici con grandi numeri di massa si trasformano in nuclei più leggeri e più stabili, rilasciando contemporaneamente energia. Però già intorno al 1920 l’astronomo inglese Arthur Stanley Eddington (1882-1944) suggerì che l’energia del Sole potesse derivare dalla trasformazione di idrogeno in elio. L’idea che una reazione di sintesi nucleare potesse anch’essa produrre grandi quantità di energia apparve ancora più attendibile quando l’astronomo americano Henry Norris Russell (1877-1957) scoprì che il Sole era formato quasi interamente da idrogeno.

Facciamo un esempio di fusione nucleare prendendo in considerazione un nucleo del deuterio (un protone più un neutrone) che si fonde con un altro nucleo di deuterio per formare il nucleo di elio-4 (2 protoni più 2 neutroni). Il prodotto della reazione pesa un po’ di meno della somma dei pesi degli elementi di partenza e la differenza di massa anche in questo caso si è trasformata in energia, la quale, a parità di peso del materiale utilizzato, è più di dieci volte superiore a quella che si ottiene dalla fissione nucleare.

Una reazione del genere avviene nel Sole e nelle altre stelle, ma sarebbe estremamente interessante riuscire ad ottenere energia dalla fusione nucleare anche sulla Terra. In realtà per vincere la repulsione reciproca e quindi provocare lo scontro fra nuclei atomici carichi di elettricità dello stesso segno che garantisce la fusione è necessario l’impiego di enormi quantità di energia di attivazione. Le notevoli temperature presenti al centro delle stelle alle quali si devono aggiungere pressioni molto intense che liberano gli atomi dagli elettroni periferici, garantiscono un numero enorme di urti fra nuclei di idrogeno.

Un metodo per ottenere temperature dell’ordine di milioni di gradi anche su questa Terra è quello di far detonare un ordigno atomico di fissione. Nella breve frazione di secondo durante la quale avviene l’esplosione la temperatura è tanto alta e la pressione così intensa da innescare le reazioni fra i nuclei di idrogeno e queste, a loro volta, liberano altra energia in modo che tutto il materiale possa reagire. Con questo sistema i fisici sono riusciti infatti a costruire un nuovo tipo di bomba (di cui in verità non si sentiva la mancanza) inserendo in una bomba a fissione una certa quantità di idrogeno che, in seguito all’esplosione, veniva portato a temperature e pressioni tali da dare l’avvio ad un processo di fusione. Fu così realizzata la prima bomba nucleare a fusione, meglio nota come bomba all’idrogeno o bomba H: essa è chiamata anche bomba termonucleare in quanto viene attivata dal calore elevatissimo generato dalla bomba a fissione.

Sebbene si siano ottenuti processi incontrollati di reazioni termonucleari sotto forma di bombe H, non si è ancora riusciti a costruire un dispositivo in cui la liberazione controllata di energia di fusione possa essere mantenuta per un tempo maggiore di una piccola frazione di secondo. Sono ormai più di cinquanta anni che i fisici di tutto il mondo si prodigano per attuare la fusione controllata e il giorno in cui si riuscirà finalmente a produrre energia attraverso la fusione nucleare l’umanità potrà disporre di una quantità praticamente illimitata di energia; per crearla infatti serviranno piccole quantità di deuterio, l’isotopo di massa due dell’idrogeno, meno abbondate di quello di massa uno, ma comunque disponibile in quantità notevole nell’acqua degli oceani.

La difficoltà principale nell’ottenere la fusione deriva dalla forte repulsione elettrostatica fra protoni che si sviluppa quando questi si avvicinano. Per questo motivo, nelle reazioni di fusione nuclearesono utilizzati gli isotopi più pesanti dell’idrogeno (deuterio e trizio) i cui nuclei si fondono più facilmente, perché l’attrazione derivante dalla presenza in essi di neutroni aiuta a vincere la repulsione fra protoni nella fase di avvicinamento.

 

FISSIONE E FUSIONE NUCLEARE: ASPETTI TECNICI

Mediante speciali rilevatori di particelle è stato possibile misurare con grande precisione la massa degli atomi e delle particelle subatomiche. Come unità di misura, dopo vari tentativi, venne scelta quella equivalente al dodicesimo dell’isotopo 12 del carbonio: quindi attualmente l’unità di massa atomica (u.m.a.) vale 1/12 di 12C. Prima di procedere è bene precisare che il nucleo atomico contiene mediamente il 99,95 per cento della massa dell’atomo di cui fa parte: per questo motivo normalmente si fa coincidere il peso del nucleo con quello dell’atomo intero. Una misura più rigorosa dei pesi nucleari risulterebbe superflua, perché in molti casi le masse degli elettroni periferici sono del tutto trascurabili rispetto alle variazioni di massa associate alla trasformazione dei nuclei.

La conoscenza degli esatti valori di protone e neutrone e dei diversi nuclei degli atomi ha permesso di verificare che la reale massa di un nucleo atomico è sempre un po’ più piccola della somma delle masse a riposo dei suoi costituenti, cioè di protoni e neutroni (detti anche, con termine comprensivo, “nucleoni”). La differenza dei pesi si chiama “difetto di massa”.

Escluso il nucleo dell’atomo di idrogeno-1 che è formato da un unico protone, tutti gli altri contengono un numero più o meno elevato di protoni e neutroni. Dato che la forza elettrica repulsiva fra particelle cariche positivamente dovrebbe allontanare i protoni sistemati nel nucleo degli atomi più pesanti dell’idrogeno, ci si chiedeva quale fosse il motivo per il quale questi nuclei non si disgregavano. La risposta a questa domanda fu trovata nel 1935 dal fisico giapponese Hideki Yukawa (1907-1981) il quale, per il suo lavoro, si ispirò ad uno analogo condotto da Fermi. Due anni prima della teoria di Yukawa il fisico italiano aveva infatti individuato matematicamente la forza che governava l’emissione di elettroni e neutrini da parte dei neutroni. Questa forza all’inizio fu chiamata “interazione di Fermi” e poi assunse il nome di interazione debole (il termine interazione in tempi recenti ha sostituito quello di forza, in quanto, nella fisica moderna, tutte le forze vengono spiegate con scambi di particelle, cioè per l’appunto con interazioni).

In realtà l’interazione debole non tiene insieme nulla: essa semplicemente permette la conversione di certe particelle in altre particelle. La teoria spiega la provenienza dell’elettrone emesso nel decadimento beta come quella di una particella che non preesiste nel nucleo ma viene creata, insieme con il neutrino, nel momento stesso in cui il neutrone si trasforma in protone. Questo elettrone può essere paragonato al fotone, il quale a sua volta non è presente nella materia, ma viene prodotto quando un elettrone all’interno dell’atomo è costretto a spostarsi da un livello energetico ad un altro.

Yukawa per spiegare la stabilità dei nuclei atomici ipotizzò che tra i nucleoni si esercitasse una forza sempre attrattiva di straordinaria intensità, capace di soverchiare non solo la repulsione elettrostatica fra protoni ma in grado anche di confinare protoni e neutroni nel volume estremamente esiguo del nucleo. Questa forza nucleare è chiamata interazione forte ed è caratterizzata da un piccolissimo raggio d’azione che consente una forza attrattiva unicamente fra un dato nucleone e i suoi immediati vicini. Essa inoltre agisce non solo fra protone e protone ma anche fra protone e neutrone e fra neutrone e neutrone. Il fatto che questa interazione agisca anche fra neutroni giustificherebbe la presenza di un numero elevato di queste particelle per garantire la stabilità dei nuclei ricchi di protoni. Facciamo alcuni esempi.

Il nucleo dell’isotopo 12C è formato da 6 protoni e da 6 neutroni. Sappiamo che il protone pesa 1,007277 u.m.a. mentre il neutrone pesa 1,008665 u.m.a. (un po’ più del protone). Ora, se prendiamo sei protoni e sei neutroni separatamente notiamo che la loro massa complessiva è 12,0956 mentre il nucleo dell’isotopo 12 del carbonio pesa 12 u.m.a. Esso pesa pertanto 0,0956 u.m.a. di meno della somma delle masse delle singole particelle che lo compongono.

Applicando l’equazione di Einstein possiamo calcolare l’energia equivalente al difetto di massa del nucleo dell’atomo di carbonio: essa risulta di 90,8 MeV (megaelettronvolt, cioè milione di elettronvolt dove con elettronvolt si definisce l’energia acquistata o ceduta da un elettrone in corrispondenza di un salto di potenziale di un volt). Dividendo questo valore per il numero di massa del carbonio (ossia per 12) si ottiene 7,57 MeV, una quantità che è detta “energia di legame per nucleone” e corrisponde all’energia necessaria per separare i singoli costituenti del nucleo atomico del carbonio.

Il valore dell’energia di legame per nucleone è una caratteristica molto importante di ciascuna specie atomica poiché da essa dipende la stabilità del nucleo: quanto più elevata è tale energia tanto più stabile è il nucleo e non è difficile comprenderne il motivo. Riprendiamo allora in considerazione il nucleo del carbonio la cui energia di legame complessiva è 90,8 MeV: ciò significa che per scindere il nucleo nei suoi 12 nucleoni componenti occorre fornire dall’esterno una energia pari a 90,8 MeV. Questa si trasformerà in massa per cui i 12 nucleoni separati verranno a possedere una massa complessivamente maggiore di quella del nucleo del carbonio-12, mentre la loro energia di legame ovviamente sarà nulla.

Viceversa se sei protoni e sei neutroni separati (quindi con energia di legame nulla) si fondessero per costituire il nucleo del carbonio ora sarebbero le forze nucleari a compiere un lavoro pari a 90,8 MeV; questa energia viene estratta dalla massa dei nucleoni (che diminuisce) e irradiata all’esterno.

In sintesi possiamo quindi affermare che l’energia di legame di un nucleo rappresenta il lavoro necessario a scindere il nucleo stesso nei suoi nucleoni componenti. Analogamente l’energia di legame per nucleone rappresenta l’energia che occorre fornire al nucleone contenuto in un determinato nucleo affinché sia portato fuori da esso. È chiaro quindi che quanto maggiore è l’energia di legame per nucleone tanto più è difficile separare un nucleone dal nucleo e di conseguenza tanto più stabile è il nucleo stesso.

Da quanto detto appare chiaro che se una trasformazione avviene in direzione di un aumento di stabilità, essa sarà accompagnata da una perdita di massa e quindi da una emissione di energia, mentre una trasformazione in senso inverso sarà accompagnata da un aumento di massa e quindi da un assorbimento di energia.

L’esperienza mostra che per la maggior parte delle specie atomiche l’energia di legame per nucleone varia da circa 7,4 MeV a 8,8 MeV. I nuclei più stabili sono quelli sistemati in una posizione intermedia, all’interno del sistema periodico, con il picco nel ferro-56. L’osservazione giustificherebbe il motivo della notevole abbondanza di questo elemento nell’Universo. I nuclei più leggeri e quelli più pesanti del ferro hanno un’energia di legame per nucleone inferiore e quindi una inferiore stabilità.

L’interpretazione di questo fatto è relativamente agevole: nei nuclei più leggeri (formati da pochi protoni e pochi neutroni) ciascun nucleone non è completamente circondato da altri, ragione per cui le forze di attrazione nucleare sono relativamente modeste. Di contro, nei nuclei più pesanti la presenza di un gran numero di protoni fa sì che la repulsione elettrostatica, antagonista delle forze nucleari, assuma una incidenza notevole con conseguente diminuzione della stabilità dei nuclei stessi: questa va ulteriormente diminuendo se nel nucleo si riesce ad infilare un altro neutrone.

Poiché sia gli elementi più pesanti del ferro, sia quelli più leggeri tendono a raggiungere la stabilità o frammentandosi spontaneamente o fondendosi, con formazione di nuclei più leggeri nel primo caso e più pesanti nel secondo, ci si chiede come mai oggi non si trovino in natura solo nuclei di massa intermedia, cioè nuclei cui compete la massima energia di legame. In altre parole: perché non avviene che nuclei pesanti si scindano spontaneamente in nuclei intermedi attraverso il fenomeno della fissione e che altrettanto spontaneamente i nuclei leggeri si fondano l’uno con l’altro dando origine a nuclei di massa intermedia e quindi, ancora una volta, più stabili?

Il motivo per il quale i nuclei leggeri e quelli pesanti non si trasformano in nuclei di massa intermedia e a minore contenuto energetico è lo stesso per il quale il foglio di carta non brucia spontaneamente pur essendo disposto a farlo: anche in questo come nell’altro caso serve la cosiddetta energia di attivazione che inneschi la reazione.

Prof. Antonio Vecchia

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