Il calendario

L’uomo è l’unico, fra tutte le creature viventi, a non vivere interamente nel presente. Né gli animali, né tanto meno le piante, sono infatti in grado, come l’uomo, di ricordare il passato e di fare tesoro dell’esperienza vissuta per programmare ed organizzare il proprio futuro.

E’ immaginabile quindi che per l’uomo primitivo il concetto di tempo e la sua misura abbiano rappresentato una conquista molto importante per il miglioramento della sua esistenza. Ma attraverso quale esperienza questo nuovo eccezionale animale che, sceso dagli alberi, si era adattato a vivere nella savana, sarà pervenuto alla nozione di tempo e quale sistema avrà utilizzato, all’inizio, per misurarlo?

Ovviamente, le origini del concetto di tempo ci sfuggono completamente, tuttavia non vi è dubbio che debbano essere fatte risalire ad epoche molto remote, forse addirittura all’origine della nostra specie quando l’uomo si rese conto della limitatezza della sua esistenza. L’esigenza di misurarlo deve essere giunta invece più tardi, probabilmente dettata dalla necessità di scandire il ritmo delle attività quotidiane, quando i primi esseri intelligenti stavano organizzandosi in gruppi.

 

L’ALTERNARSI DEL GIORNO E DELLA NOTTE

Possiamo quindi ipotizzare che il genere umano, poco dopo essere apparso sulla faccia della Terra, quasi istintivamente si sia reso conto che ad un periodo di luce seguiva inevitabilmente un periodo di buio. Questo evidente e puntuale susseguirsi del giorno in cui si poteva operare alla notte in cui si era costretti al riposo deve aver rappresentato, per l’uomo primitivo, il primo indizio del passare del tempo.

Ben presto l’uomo deve anche essersi reso conto dell’importanza di sapere quanto è lunga la notte per conoscere, in anticipo, quanto tempo avrebbe dovuto ancora aspettare prima di riprendere l’attività alla luce del giorno. Ma la notte sembra non avere sempre la stessa durata. Ciascuno di noi ha avuto esperienza di notti che non terminano mai e di altre che passano in fretta. La stessa sensazione avrà avuto l’uomo primitivo il quale, quando la notte era fredda ed umida, e c’era anche la preoccupazione di un pericolo incombente, non riusciva a chiudere occhio e il tempo sembrava non passare mai, mentre se si trovava, lontano dai nemici, all’interno di un luogo asciutto e riscaldato dalle braci di un fuoco che lentamente si andava spegnendo, l’alba arrivava anche troppo in fretta. Ma queste percezioni dipendono da stati d’animo personali e quindi non rappresentano un dato oggettivo, utile per la misura del tempo.

L’esame attento della durata del giorno e della notte nelle varie stagioni avrà senz’altro consentito, all’uomo primitivo, di notare che esistono notti più lunghe e notti più corte, a seconda dei periodi dell’anno, e la stessa cosa valeva per i giorni. Tuttavia, non sarà stato difficile accorgersi che la somma della durata del giorno e della notte seguente, indipendentemente dalla loro lunghezza, è sempre la stessa, in tutte le stagioni. Questo periodo di tempo (giorno più notte immediatamente successiva), sempre costante, poteva quindi essere scelto come unità di misura del tempo che passa.

 

LA SFUGGENTE NATURA DEL TEMPO

Il tempo è il bene più prezioso che abbiamo, ma non sappiamo con esattezza cosa sia. E’ una “cosa” che non ha massa e non occupa spazio, che non possiamo né vedere né toccare. Il tempo non può essere nemmeno accelerato o rallentato e dobbiamo portarcelo dietro così com’è per tutta la vita eppure, nonostante tutti questi aspetti negativi, paradossalmente, è la grandezza fisica che l’uomo riesce a misurare con la maggiore precisione.

Sant’Agostino diceva che se nessuno glielo chiedeva, egli sapeva bene cosa fosse il tempo, ma se glielo chiedevano non lo sapeva più. Con ciò voleva intendere che il tempo è un qualche cosa che percepiamo intuitivamente, ma che non sappiamo spiegare. I filosofi hanno a lungo discusso sulla natura e sul significato profondo del tempo senza mai riuscire a dare di esso una definizione precisa e convincente. Alla fine il problema relativo a questo fondamentale concetto della fisica fu risolto da Einstein, lo scienziato che scoprì la relatività, il quale, prescindendo dalla sua essenza, si preoccupò di formulare di esso una definizione operativa, ossia una definizione che fosse utile per eseguire i calcoli e per essere inserita nelle relazioni matematiche.

Egli osservò che il tempo non è quella cosa assoluta e invariabile che il senso comune ci fa credere, ma un’entità che si restringe e si allunga a seconda della velocità dell’osservatore rispetto all’evento e dell’intensità del campo gravitazionale entro il quale si effettua la misura. La teoria della relatività ristretta lascia infatti prevedere che viaggiando a velocità sempre più elevate il tempo rallenta fino a fermarsi del tutto quando si eguaglia la velocità della luce. Lo stesso rallentamento si otterrebbe – secondo l’altra teoria della relatività, quella generale – spostandosi da un corpo più leggero su uno più pesante fino a che, giunti su di un buco nero dove i valori della gravità sono massimi il tempo, ancora una volta, si fermerebbe. Secondo Einstein correndo (il più velocemente possibile!) in riva al mare si invecchierebbe più lentamente che stando comodamente seduti su una sdraio in alta montagna dove si è più lontani dal centro di gravità terrestre e quindi l’attrazione gravitazionale è minore. Le teorie relativistiche hanno pertanto dimostrato che il tempo è semplicemente ciò che misura l’orologio il quale registrerà tempi diversi a seconda delle condizioni sperimentali entro le quali ci si viene a trovare. Noi accettiamo questa definizione di tempo e visto che l’orologio, almeno secondo Einstein, è il mezzo indispensabile per la sua valutazione, prima di proseguire cerchiamo di capire bene che cosa sia esattamente questo particolare strumento di misura e come funzioni.

L’orologio può essere costituito genericamente da un qualsiasi meccanismo fisico che segua con regolarità e precisione le leggi di natura. Orologio può essere quindi considerata la Terra che gira su sé stessa, oppure i battiti del cuore, oppure l’accumulo dei prodotti del decadimento radioattivo, oppure tante altre cose purché decorrano a ritmo costante. Naturalmente è un orologio anche quello che portiamo al polso composto da un meccanismo che segue le leggi del moto di Newton. Queste leggi affermano che la velocità di un corpo in movimento, non soggetto a forze esterne, rimane costante. Il risultato di questo moto costante, per l’orologio, è dato dalle lancette che percorrono spazi uguali in tempi uguali; nei comuni orologi il tempo viene quindi misurato attraverso lo spazio.

Se l’uomo fosse un individuo che conduce vita solitaria il tempo, come abbiamo detto, sarebbe un fatto personale e ciascuno di noi vivrebbe secondo una propria dimensione temporale, ma l’uomo è una creatura socievole che vive assieme agli altri, e con gli altri collabora e interagisce. E’ indispensabile quindi che il tempo sia qualche cosa che procede ugualmente per tutti e che la sua scansione guidi, nello stesso modo, l’attività di tutti.

 

LA SCOPERTA DELLE STAGIONI

     Quando l’uomo da cacciatore e raccoglitore divenne sedentario e cominciò a lavorare la terra circostante l’abitazione in cui viveva, dovette necessariamente rendersi conto dell’esistenza di ritmi della natura assai più lenti di quelli dell’avvicendarsi del giorno e della notte. Notò ad esempio che vi erano periodi di pioggia e di freddo che si alternavano a periodi di siccità e di caldo; notò che vi era il periodo in cui il fiume era in piena e il periodo di magra e questi fenomeni erano collegati all’abbondanza di raccolti e quindi alla disponibilità di cibo oppure a scarsità di raccolti e quindi a periodi di carestia e di fame.

Anche in questo caso, l’osservazione attenta dei fenomeni naturali portò alla individuazione di un’alternanza più o meno regolare dei periodi climatici e l’uomo capì che alla tranquillità della bella stagione sarebbe seguita, inevitabilmente, la stagione fredda e povera di risorse. Però a questa cattiva stagione sarebbe poi succeduta la primavera, che portava con sé il risveglio della natura e la fine della sofferenza. Ma quanto tempo mancava ancora al termine dell’inverno e all’arrivo della primavera? Certo, sarebbe stato possibile prevederlo tenendo il conto dei giorni, ma questi erano molti e c’era il pericolo di confondersi. Esisteva qualche sistema più sicuro e soprattutto più comodo per calcolare il tempo che intercorre fra una stagione e l’altra?

Osservando la Luna ci si accorse che le sue forme mutevoli scandivano il passare del tempo con altrettanta precisione e regolarità dell’alternarsi del periodo di luce e di buio. La Luna riappariva in cielo, dopo che alcuni giorni prima era svanita al mattino nei primi raggi di Sole, come una piccola falce luminosa, bassa sull’orizzonte, verso occidente. Questo sottile spicchio di Luna, appena percettibile, nei crepuscoli successivi si andava sempre più ingrandendo e contemporaneamente saliva sopra l’orizzonte dove lo si poteva osservare per un tempo sempre più lungo. Alla fine, diventata un disco completamente luminoso, sorgeva in posizione opposta al Sole che tramontava e permaneva in cielo ben visibile per tutta la notte fino all’alba successiva: era la Luna piena. Poi cominciava a rimpicciolirsi di nuovo per diventare, ancora una volta, una sottile falce luminosa che ora si poteva scorgere ad oriente, poco prima del sorgere del Sole; quindi spariva del tutto. Passati però un paio di giorni, una nuova Luna faceva capolino ad occidente immediatamente dopo il tramonto del Sole e il ciclo ricominciava.

La Luna nuova si ripresenta ogni 29 giorni e mezzo circa e da una primavera all’altra ricorrono circa dodici Lune nuove. Il numero dodici si rivela molto agevole all’impiego in quanto è divisibile, senza dare resto, per due, per tre, per quattro e per sei e nessun altro numero così piccolo ha queste caratteristiche. Viene quindi spontaneo pensare che gli antichi, non molto abili nel far di conto, abbiano trovato utile dividere l’anno in dodici mesi ed adottare quindi le fasi lunari per scandire ulteriormente il tempo. Ma forse, come vedremo, questa opportunità non venne colta da tutti.

La Luna probabilmente suggerì anche la divisione del mese in periodi più corti segnati dalle quattro fasi fondamentali di primo quarto, Luna piena, ultimo quarto e Luna nuova separati da un po’ più di sette giorni l’uno dall’altro. Probabilmente in questo modo si andò affermando la settimana di sette giorni e sembra che questa nuova unità di tempo abbia avuto origine in Babilonia circa 700 anni prima di Cristo. Gli astrologi che abitavano quelle terre chiamarono i giorni della settimana con i nomi dei pianeti, ognuno dei quali avrebbe avuto un particolare influsso su ciascuno di essi. A quel tempo erano noti sette pianeti che comprendevano anche Luna e Sole e il numero sette successivamente acquistò popolarità anche fra i Romani dove ben presto la divisione del mese in gruppi di sette giorni sostituì quello in uso basato su calende, none e idi. Secondo studi recenti, il ciclo di sette giorni (come pure quello del sonno basato sull’alternarsi del dì e della notte) potrebbe avere origini biologiche. Sembra infatti che alcuni bioritmi del corpo umano operino a cicli di sette giorni inclusa la necessità di un giorno di riposo dopo sei di fatica.

Come abbiamo accennato in precedenza, alcuni studiosi ritengono che in molti casi siano state le stelle, e non la Luna, a servire da base contabile. Ancora oggi, alcune popolazioni primitive si servono delle stelle per determinare i periodi più adatti a certe attività. Gli indicatori più utilizzati da queste popolazioni sono il succedersi delle cosiddette albe e tramonti eliaci (dal greco hélios che significa Sole), ossia l’apparizione o la scomparsa di certe stelle immediatamente prima del sorgere o immediatamente dopo il calare del Sole. La stessa cosa doveva essere avvenuta nell’antichità.

 

IL CALENDARIO DEGLI EGIZI

Gli Egizi furono sicuramente una di quelle popolazioni antiche che, per determinare le stagioni adatte alla semina, elaborò un sistema basato sulla comparsa di una determinata stella all’orizzonte. L’Egitto, come tutti sanno, è un paese arido ed assolato e, nei tempi passati, l’esistenza della sua popolazione dipendeva dalle benefiche inondazioni del Nilo che avvenivano, anno dopo anno, con incredibile puntualità.

Gli Egizi notarono che il Nilo straripava, arricchendo i campi di fertile humus, alcuni giorni dopo che la stella Sirio era apparsa all’orizzonte, poco prima del sorgere del Sole. Questo evento si verificava alla fine della primavera e con esso si faceva iniziare un nuovo anno.

Successivamente, non fu difficile accorgersi che le piene del Nilo giungevano regolarmente ad intervalli di 365 giorni, corrispondenti a poco più di 12 cicli lunari. Gli antichi Egizi per scandire il tempo divisero allora l’anno in dodici mesi, senza però tenere conto dei cicli lunari che pertanto non vennero a coincidere con l’inizio degli stessi. Stabilirono, quindi, in 30 giorni la durata del mese per un totale di 360 giorni. Infine, per fare in modo che la durata dell’anno corrispondesse al ritmo delle piene del Nilo, aggiunsero altri 5 giorni al fine di portare l’anno esattamente a 365 giorni. I cinque giorni complementari, che venivano aggiunti alla fine della stagione dei raccolti, erano giorni di festa e venivano considerati un piccolo mese a parte. Essi erano detti epagomeni da un termine greco che significa “portare sopra”, “aggiungere”.

Gli Egizi notarono anche un’altra coincidenza con i fenomeni naturali e cioè il fatto che il Sole, durante l’anno, descriveva in cielo un arco sempre più ampio alzandosi sull’orizzonte sempre di più con il passare dei giorni per poi calare nuovamente, dopo aver raggiunto la massima altezza all’inizio dell’estate. Con l’alzarsi del Sole sull’orizzonte le giornate si facevano sempre più lunghe per tornare ad accorciarsi all’inizio della cattiva stagione. Se si infilava a terra un’asta si poteva anche osservare che, durante la giornata, quest’asta produceva un’ombra sempre più corta fino a raggiungere il minimo quando il Sole era alto in cielo a mezzogiorno, per poi riprendere ad allungarsi nel pomeriggio.

Essi notarono infine che vi era un giorno in cui l’asta, a metà giornata, proiettava l’ombra più corta di tutto l’anno, e il fenomeno si ripeteva dopo 365 giorni, esattamente la scansione delle piene del Nilo. Vi era quindi una coincidenza fra le inondazioni del Nilo e l’altezza del Sole sull’orizzonte il quale, come abbiamo visto, raggiungeva un massimo all’inizio dell’estate per scendere ad un valore minimo all’inizio dell’inverno.

 

IL CALENDARIO DEGLI ANTICHI ROMANI

Gli antichi Romani, agli inizi della loro storia, adottarono il calendario che era in uso presso le popolazioni primitive che abitavano quelle terre. Si trattava di un calendario rustico, cioè di un calendario sul quale venivano regolati i lavori agricoli. Questi lavori iniziavano con la buona stagione, che veniva individuata con l’apparizione di alcune stelle prima del sorgere del Sole e terminavano con la raccolta dei prodotti della terra.

Il calendario degli antichi romani, che va sotto il nome di calendario di Romolo, già in uso settecento cinquanta anni prima di Cristo, contava solo 10 mesi, cioè i mesi in cui si svolgevano i lavori nei campi, mentre trascurava il resto dell’anno. Si trattava, fondamentalmente, di un calendario lunare che veniva raccordato con le stagioni in modo approssimativo. I nomi degli ultimi quattro mesi di questo antico calendario: settembre, ottobre, novembre e dicembre, che indicavano, rispettivamente, il settimo, l’ottavo, il nono e il decimo mese, sono rimasti gli stessi quando, all’inizio dell’ottavo secolo avanti Cristo, lo stesso venne modificato e integrato con l’aggiunta di altri due mesi.

Il vecchio calendario romano prevedeva che ogni mese iniziasse con la Luna nuova. Ora, poiché una Luna nuova si forma ogni 29 giorni e mezzo circa, i mesi lunari venivano considerati alternativamente di 29 giorni (“mesi cavi”) e di 30 (“mesi pieni”). In pratica, il mese veniva fatto iniziare con l’apparizione al tramonto del Sole della prima sottile falce di Luna la quale, però, a volte poteva apparire con un po’ di ritardo rispetto alla data prevista. Per evitare speculazioni e abusi, l’inizio del mese veniva stabilito dai sacerdoti i quali convocavano la plebe presso il Campidoglio, vicino alla casa di Romolo, per annunciare la data esatta di inizio del nuovo mese.

La parola “calendario” deriva da calendae, il primo giorno del mese, termine che a sua volta trae origine dal verbo latino calare che significa “convocare”, “chiamare a raccolta”. Nel giorno delle calendae si usava pagare i debiti che erano segnati su un registro chiamato calendarius. Siccome nel calendario greco le calende non esistevano, si diceva pagare alle calende greche per intendere che non si sarebbe pagato mai; oggi è rimasta l’espressione “rinviare alle calende greche” quando si allude a qualcosa che non si farà mai.

Un primo miglioramento al calendario di Romolo fu apportato da Numa Pompilio, il secondo re di Roma che regnò dal 715 al 672 a.C. il quale, come abbiamo accennato, lo allungò portandolo da 10 a 12 mesi lunari, per complessivi 354 giorni. I due mesi aggiuntivi furono chiamati januarius (da Giano, il dio a cui il mese era consacrato) e februarius (da februa, festa della purificazione che si teneva a metà di quel mese) e furono messi in coda all’elenco di quelli esistenti. Ora però, poiché l’anno solare dura 365 giorni e qualcosa, per uniformare questo corto calendario lunare con quello più lungo scandito dalle stagioni, venne introdotto un mese supplementare di 22 o 23 giorni da aggiungersi un anno sì e un anno no. Questo tredicesimo mese, più corto degli altri, fu chiamato Mercedonio (dal latino merces che significa “mercede”, “relativo alla paga”) e fu collocato dopo il giorno delle terminalia il giorno dedicato a Termine, il dio dei confini, che si festeggiava il 23 febbraio, cioè in pratica alla fine dell’anno che allora iniziava a marzo, con la prima lunazione di primavera. Il mese aggiuntivo doveva comprendere anche gli ultimi cinque giorni di febbraio, ma la regola non sempre veniva rispettata. Come abbiamo già detto, le decisioni circa il calendario venivano prese dai sacerdoti i quali, un po’ per ignoranza, un po’ per motivi politici e di interesse personale (essendo gli stessi anche dei funzionari pubblici), lo manomettevano spudoratamente al fine di prolungare il periodo del loro mandato o abbreviare quello degli avversari.

 

IL CALENDARIO GIULIANO

Nel 46 a.C. quando Giulio Cesare giunse al potere trovò il calendario in uso in una situazione di incredibile confusione: esso era sfasato rispetto alle stagioni di quasi tre mesi e, ad esempio, indicava l’autunno mentre il clima era di piena estate. Il calendario, in altre parole, era visibilmente in anticipo rispetto alle stagioni ed era necessario, prima di provvedere ad eventuali modifiche, riportarlo indietro di una ottantina di giorni per rimetterlo al passo con il tempo reale.

Due anni prima Cesare si trovava in Egitto sulle tracce del suo avversario politico Pompeo Magno, che si era rifugiato in quelle terre dopo essere stato da lui sconfitto in battaglia. Qui il condottiero romano che all’epoca aveva 52 anni, conobbe Cleopatra, una donna tanto bella e sensuale quanto ambiziosa e cinica. Essa era appena stata allontanata dal trono dal suo giovane fratello Tolomeo XIII, col quale aveva regnato per alcuni anni dopo la morte del loro padre. Decisa a ritornare al governo del suo popolo, la poco più che ventenne Cleopatra chiese aiuto a colui che in quel momento era l’uomo più potente del mondo. Giulio Cesare, vinto dal suo fascino irresistibile, si lasciò convincere a venirle in soccorso, obbligando il giovane Tolomeo a riconciliarsi con la sorella. Tornata sul trono del suo Paese, la giovane regina insistette (in verità nemmeno troppo) perché il condottiero romano partecipasse ai festeggiamenti organizzati in suo onore. Fu proprio durante quel ricco banchetto, a cui seguì un lungo viaggio in sua compagnia, che Cesare ebbe notizia per la prima volta del calendario in uso presso gli Egizi. Cesare, che era una persona molto curiosa e colta, giudicò il calendario degli Egizi più semplice di quello in uso a Roma e soprattutto meno suscettibile di manipolazioni a fini politici.

Quando il grande condottiero tornò in patria decise di riformare il calendario esistente, avvalendosi della consulenza dell’astronomo Sosigene, che si era portato con sé dall’Egitto. Come primo atto, per rimediare agli 80 giorni in più conteggiati dal calendario in uso, stabilì che l’anno 46 a.C. (708 dalla fondazione di Roma) durasse 445 giorni, cioè circa 15 mesi. Quell’anno fu chiamato «anno della confusione» per motivi facilmente intuibili.

Quindi elaborò un nuovo calendario che alla fine si rivelò migliore di quello egiziano al quale si era ispirato. Egli, innanzitutto, svincolò quello esistente dalle fasi lunari e quindi fissò la lunghezza dell’anno in 365,25 giorni, cioè 365 giorni e 1/4. Stabilì pertanto che l’anno durasse 365 giorni interi e, per recuperare il quarto di giorno che non veniva conteggiato, dispose che fosse aggiunto un giorno supplementare ogni quattro anni. Il giorno “extra” venne aggiunto all’ultimo mese dell’anno che a quel tempo era febbraio, un mese che normalmente contava 29 giorni, e che era dedicato a Plutone, il dio dell’oltretomba. In un momento successivo fu stabilito che gli anni con il giorno in più fossero quelli il cui numero era divisibile per quattro, quelli che oggi chiamiamo “anni bisestili”.

I cinque giorni epagomeni del calendario egiziano furono quindi distribuiti lungo l’arco dell’anno e pertanto, escludendo febbraio, i mesi risultarono alcuni di 30 e altri di 31 giorni. Cesare pretese inoltre che il quinto mese (quintilius), quello della sua nascita, avesse 31 giorni e che venisse ribattezzato luglio in suo onore. Infine decretò che il primo anno del nuovo calendario iniziasse al plenilunio che cadeva dopo il solstizio invernale e non più con l’inizio della primavera come avveniva in passato. Il primo mese dell’anno divenne pertanto Ianuarius (gennaio) il mese dedicato a Giano, il dio che veniva rappresentato bifronte in quanto presiedeva gli “ingressi” e quindi era il più adatto a chiudere la porta del vecchio e ad aprire quella del nuovo anno. L’ultimo mese dell’anno, il dodicesimo, finì quindi per essere quello che era il decimo: december (dicembre).

Il successore di Giulio Cesare, Augusto, apportò anch’egli alcune modifiche ma non sostanziali al nuovo calendario, togliendo ad esempio un giorno a febbraio, che fu ridotto a 28, per aggiungerlo al mese della sua nascita, sextilius, che fu ribattezzato agosto. Il mese di febbraio, che come abbiamo detto era considerato un mese sfortunato perché dedicato agli inferi (forse il nome deriva da Februo, il dio dei morti), diventò doppiamente malefico perché adesso contava anche un numero pari di giorni. Ora, poiché il giorno in più, previsto ogni quattro anni dalla riforma giuliana, veniva aggiunto proprio al mese di febbraio, per fare in modo che anche con un giorno in più il numero dei giorni rimanesse invariato, si stabilì di contare due volte il giorno 24 (un espediente piuttosto ingenuo, oltre che inutile).

Presso i latini si era soliti indicare i giorni del mese contandoli a ritroso a partire da alcune date fisse che erano le calende (il primo giorno del mese), le none (il quinto o il settimo giorno a seconda dei mesi) e le idi (il tredicesimo o il quindicesimo giorno). Per esempio, la data del 2 di marzo veniva così espressa: “sextus dies ante Nonas Martias” (le none, in marzo, capitavano il settimo giorno del mese, quindi sei giorni prima era il due). In modo analogo, il 24 febbraio che, come abbiamo detto, ogni quattro anni veniva conteggiato due volte, era chiamato rispettivamente: “sextus dies ante Kalendas Martias”, cioè sei giorni prima delle calende di marzo e “bis sextus dies ante Kalendas Martias” che vuol dire due volte il sesto giorno prima delle calende di marzo: da ciò deriva il termine “bisestile” attribuito all’anno con il giorno in più. Il sistema a ritroso della misurazione del tempo è rimasto nel modo di indicare le ore quando ad esempio diciamo “un quarto alle otto” oppure nel conteggio alla rovescia che usano gli studenti per numerare i giorni che mancano alla fine della scuola o i militari di leva per indicare quelli che mancano alla fine della ferma con espressioni del tipo: “quaranta giorni all’alba”.

Il calendario di Giulio Cesare è, salvo alcune modifiche, quello che ancora oggi usiamo. Curiosamente esso è dovuto anche al fascino che Cleopatra esercitò su Cesare il quale era arrivato in Egitto per una campagna di guerra che doveva risolversi in pochi giorni. In effetti appena sbarcato ad Alessandria gli fu consegnato un macabro dono: la testa di Pompeo avvolta in un telo di lino. Il suo rivale politico era stato infatti pugnalato alle spalle dai soldati di Tolomeo tre giorni prima dell’arrivo di Cesare. Con ciò la missione del condottiero romano in terra d’Africa poteva considerarsi conclusa, ma la bella Cleopatra modificò i suoi piani e con essi il computo del tempo.

 

LA DATA DELLA PASQUA

Il calendario di Giulio Cesare subì, nel tempo, modifiche e aggiustamenti più o meno rilevanti. Dopo quello di Cesare Augusto un ulteriore ritocco fu apportato da Costantino il Grande, l’imperatore romano convertitosi al cristianesimo, il quale nel 325, dopo avere sconfitto in battaglia il rivale Licinio ed essere stato proclamato, oltre che d’Occidente, anche imperatore d’Oriente convocò a Nicea il primo Concilio ecumenico (cioè universale) della storia della Chiesa con lo scopo dichiarato di dare unità e prestigio alla comunità cristiana lacerata da gravi divergenze dottrinali, determinate soprattutto dalla mancanza di un’autorità centrale, ma con l’intento larvato della intromissione dello Stato nella vita interna della Chiesa. La preoccupazione dell’astuto imperatore era che una possibile frattura della cristianità avrebbe potuto portare all’allontanamento e all’indipendenza politica di alcune aree del suo vasto impero, quindi era necessario stabilire un’unica religione di Stato e un unico insieme di regole.

In quell’occasione venne anche affrontata la questione della Pasqua che non veniva celebrata da tutti i cristiani nella stessa data. Il problema non era di facile soluzione in quanto, secondo i Vangeli, la resurrezione di Cristo avvenne durante la Pasqua ebraica che, per antico precetto, era celebrata il 14 di nisan, cioè a metà del primo mese del calendario ebraico. L’anno ebraico iniziava dopo l’equinozio di primavera ed essendo un calendario lunare, ogni mese durava una lunazione completa, da un novilunio all’altro. La Pasqua ebraica cadeva quindi ad una data fissa e precisamente al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera. Ma quando questa data fissa venne trasferita al calendario romano, che era un calendario solare, divenne mobile. In un primo tempo, le comunità cristiane celebravano la loro Pasqua nello stesso giorno in cui cadeva la Pasqua ebraica, ma successivamente fu stabilito che la Pasqua cristiana non dovesse mai coincidere con quella ebraica.

Pasqua deriva dall’ebraico pesah che significa “passaggio” e venne istituita per celebrare il passaggio del Mar Rosso dopo la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dei faraoni. Quando dall’ebraismo la Pasqua passò al cristianesimo cambiò completamente il suo significato: non più commemorazione della liberazione dalla schiavitù egiziana, bensì commemorazione della risurrezione di Cristo.

La Pasqua è la festa cristiana più antica, ma quando si decise di non farla più coincidere con la Pasqua ebraica, le varie comunità cristiane non riuscirono ad accordarsi su un giorno comune e perciò essa veniva celebrata in date diverse dalle chiese d’Oriente, che seguivano la guida di Alessandria e da quelle di Occidente, che guardavano a Roma. Il problema relativo alla determinazione del giorno in cui festeggiare la ricorrenza nasceva dalla difficoltà di armonizzare l’anno solare con le fasi lunari. Nel passaggio fra il calendario lunare ebraico e quello solare in adozione nell’impero romano la data della Pasqua ebraica, e naturalmente anche la data della Pasqua cristiana, non sarebbe più caduta in un giorno fisso, ma variante di anno in anno. E per i primi cristiani, poco esperti di astronomia, la questione relativa alla determinazione della data costituì un vero enigma.

La fissazione di una data certa in cui celebrare la Pasqua più che un problema tecnico per Costantino rappresentava un’ulteriore questione politica perché, imponendo un’unica data a tutti i cristiani di Oriente e di Occidente, avrebbe messo d’accordo le varie fazioni che una volta di più si sarebbero riconosciute in un’unica religione e quindi anche in un unico Stato.

Tutti erano concordi nell’affermare che Cristo risuscitò nel primo giorno della settimana ebraica, cioè di domenica, ma non era chiaro quale dovesse essere questa domenica. Sicuramente questo giorno doveva essere in rapporto con l’equinozio di primavera e con il plenilunio del mese ebraico di nisan: si trattava ora di legare questi avvenimenti astronomici e di inserirli nel calendario romano. Fu deciso quindi di utilizzare l’equinozio di primavera come data astronomica fissa e di correlare questa data con le fasi della Luna e con il ciclo settimanale delle domeniche.

Il Concilio di Nicea alla fine stabilì di rendere obbligatoria per tutti i cristiani la celebrazione della Pasqua nella prima domenica successiva al plenilunio che cade il 21 marzo, o che per primo lo segue. Secondo questa regola, tuttora in vigore, la Pasqua più anticipata possibile si ha quando la Luna piena cade il 21 marzo e questo è un sabato: il giorno successivo, il 22 marzo, è domenica ed è Pasqua. La Pasqua più tarda possibile si ha quando la Luna piena cade il 20 marzo, cioè il giorno prima della data fissata per l’equinozio di primavera: in tal caso bisogna aspettare il plenilunio successivo che si avrà il 18 aprile e, se quel giorno per caso fosse domenica, Pasqua sarebbe la domenica successiva, cioè il 25 aprile. Le Pasque possono quindi cadere in un qualsiasi giorno compreso fra il 22 marzo e il 25 aprile e se cadono presto (per convenzione entro la fine di marzo) si dicono “basse”, mentre se cadono tardi (diciamo dopo il 15 aprile) si dicono “alte”. Il Concilio di Nicea, dopo aver fissato il criterio per la determinazione della data della Pasqua, stabilì anche che le Chiese che avessero continuato a festeggiare la Pasqua nel giorno 14 del mese di nisan (ragione per la quale furono chiamate quartodecimane), sarebbero state dichiarate eretiche.

In quella occasione fu quindi fissato arbitrariamente al 21 marzo l’equinozio di primavera che al tempo di Giulio Cesare cadeva il 25 dello stesso mese e si stabilì anche che quella data da allora sarebbe stata fissa. In realtà lo spostamento effettivo dell’equinozio di primavera tra la riforma di Cesare del 45 a.C. e il Concilio di Nicea del 325 d.C. era più vicino a un valore di tre giorni che di quattro e quindi cadeva il 22 e non il 21 di marzo. Comunque, 21 o 22 marzo, con lo spostamento della data dell’equinozio si ammetteva implicitamente che il calendario di Cesare non andava al passo con le stagioni, ma si pensò che il divario dipendesse da un errore di Sosigene nella determinazione dell’equinozio stesso. In realtà l’errore era conseguente ad un’errata valutazione della lunghezza dell’anno che non durava 365,25 giorni, come si era stabilito, ma un po’ meno. Questa piccola differenza comportava un errore di oltre 11 minuti all’anno corrispondente ad un arretramento di un giorno intero ogni 128 anni circa.

Non avendo individuato la vera causa dell’errore, non ci si rese nemmeno conto che l’equinozio di primavera avrebbe continuato ad andare indietro nel tempo e con esso sarebbe andata indietro anche la data della Pasqua. E in realtà successe proprio questo: quando si decise di porre mano al calendario per correggere l’errore la data dell’equinozio era arretrata di altri 10 giorni e se non si fosse intervenuti con sollecitudine la Pasqua rischiava di diventare una festa estiva.

 

LE PRIME MODIFICHE AL CALENDARIO GIULIANO

Due secoli dopo il Concilio di Nicea, le Chiese d’Oriente e quelle d’Occidente, nonostante l’invito di Costantino, non si erano ancora messe d’accordo sulla data della Pasqua. Un primo motivo di contrasto riguardava la data dell’equinozio primaverile che per gli Egiziani cadeva il 21 di marzo, come era stato deciso durante il Concilio, ma per i Romani era il 25 marzo, come avveniva ai tempi di Cesare.

Un altro motivo di contrasto era quello relativo alla ricerca dei metodi utili per armonizzare l’anno solare con le fasi della Luna. La presa di contatto fra Sole e Luna, cioè in pratica la fusione di un anno lunare di 345 giorni con un anno solare di 365 giorni e un quarto rappresenta ancora oggi un complesso problema astronomico. Sotto questo aspetto gli orientali si erano dimostrati più abili degli occidentali ed avevano elaborato carte del tempo per predire la futura Pasqua molto più precise di quelle esistenti a Roma.

Nel 525 d.C., papa Giovanni I (470 ca – 526) chiese ad un monaco sciita di nome Dionysius Exiguus, Dionigi il Piccolo, abile matematico e astronomo, di fissare delle regole facili e comprensibili a tutti per calcolare la data della Pasqua senza dover ricorrere di volta in volta al calcolo astronomico.

Dionigi il Piccolo, il cui appellativo sembra non derivi dalla sua statura, ma da una scelta personale dettata da motivi di umiltà, si mise all’opera con impegno nella convinzione che per la definizione di una data che per i cristiani costituisce la massima solennità dell’anno liturgico non si dovesse far ricorso a personaggi come Aristarco di Samo o Tolomeo, ma allo Spirito Santo perché solo colui che era responsabile della incarnazione di Gesù poteva essere l’ispiratore di una scelta tanto fondamentale per la Chiesa. Detto questo, più che per reale convinzione, per tranquillizzare gli spiritualisti che non vedevano di buon occhio l’intrusione della scienza nel campo religioso, il dotto fraticello, come era ovvio, si rivolse per compiere i propri calcoli alle conoscenze matematiche e astronomiche.

Per fissare la data della Pasqua gli astronomi di quel tempo facevano riferimento al cosiddetto ciclo metonico, un periodo di tempo individuato da Metone, un astronomo greco vissuto nel V secolo a.C., il quale aveva notato che 235 mesi lunari corrispondevano quasi esattamente a 19 anni di tempo solare. Quindi, ogni 19 anni, il Sole e la Luna tornavano quasi in sincronia fra loro. In parole più semplici, Sole e Luna si comportano come due mezzi che corrono a velocità diverse su una pista. Il Sole è il mezzo più pesante che viaggia più lentamente, e compie un giro completo di pista nel tempo in cui il mezzo più leggero, la Luna, percorre 12,37 circuiti (i mesi lunari). Il mezzo più veloce, la Luna, sorpassa quindi più volte il Sole, ma quando quest’ultimo avrà percorso 19 circuiti, la Luna si troverà a superarlo quasi esattamente nel medesimo punto in cui si era verificata la partenza contemporanea dei due mezzi (o astri).

Oltre al ciclo metonico, Dionigi sapeva che ve ne era un altro di 28 anni in cui tornava a ripetersi la corrispondenza fra la data dell’anno e il giorno della settimana. Egli allora notò che i numeri 19 (ciclo di Metone) e 28 (ciclo solare) sono numeri primi fra loro e quindi in 19×28 = 532 anni, la Luna piena (e qualsiasi altra fase lunare) tornava a cadere nella stessa data e nello stesso giorno della settimana. Pertanto, nel calendario giuliano, ogni 532 anni la Pasqua si sarebbe ripetuta praticamente alla stessa data.

In realtà i cicli della Luna correvano più lentamente di circa un’ora e mezzo rispetto a quelli solari di 19 anni il che portava ad uno sfasamento di un giorno intero ogni 312,7 anni. Inoltre, dopo la riforma del calendario ad opera di papa Gregorio XIII nel 1582, che sottraeva alcuni anni bisestili dal computo totale, il periodo di 532 anni perse le sue caratteristiche di regolarità ciclica. Tuttavia alla fine si riuscì a rimediare anche a questi ulteriori difetti così che oggi la Pasqua può essere calcolata con largo anticipo e con precisione assoluta, anche se per farlo è necessario ricorrere a calcoli piuttosto laboriosi.

Ecco un esempio di calcolo della data della Pasqua proposto dal matematico e astronomo tedesco  Karl Friedrich Gauss valevole per gli anni compresi fra il 1900 e il 2099. Si divide l’anno di cui si vuole conoscere la data della Pasqua per 19, per 4 e per 7. Siano rispettivamente “a”, “b” e “c” i resti delle tre divisioni. Si consideri quindi il parametro fisso “m” = 24 al quale si aggiunga il prodotto 19xa e si divida il totale per 30; sia “d” il resto di tale divisione. Si prenda ora in considerazione un secondo parametro fisso: “n” = 5. Si calcoli quindi l’espressione 2b + 4c + 6d + n e la si divida per 7; sia “e” il resto di tale divisione. Infine, il giorno della Pasqua è dato da 22 + d + e. Se il risultato che si ottiene è inferiore a 31, esso rappresenta la data della Pasqua che cade in marzo, se supera 31 si toglie tale valore dal totale e si ottiene la data della Pasqua che cade nel mese di aprile.

Il metodo è molto macchinoso ma alla fine porta a un risultato preciso. Facciamo un esempio concreto calcolando la data della Pasqua del primo anno del nuovo millennio. Dividiamo quindi 2001 prima per 19 e otteniamo 105 con il resto di 6, poi per 4 e otteniamo 500 con il resto di 1 e infine per 7 e otteniamo 285 con il resto di 6. Avremo quindi, come primo risultato a = 6, b = 1 e c = 6. Risolviamo quindi l’espressione (24 + 19・6) : 30 che dà per risultato 4 con il resto di 18. Procediamo poi alla soluzione della seconda espressione prevista da Gauss: (2・1 + 4・6 + 6・18 + 5) : 7; si ottiene 19 con il resto di 6. Infine la somma (22 + 18 + 6) fissa la data della Pasqua la quale, essendo il risultato maggiore di 31, cadrà in aprile e precisamente il 15 del mese.

 

LA DATA DELLA NASCITA DI CRISTO

Dionigi il Piccolo aveva ricevuto dal Papa l’incarico di calcolare la data della Pasqua, ma, come vedremo, il pio studioso venuto dal Caucaso andò oltre i compiti che gli erano stati affidati fino a pervenire ad una vera e propria riforma del calendario. Mentre eseguiva i suoi calcoli, notò che le tavole allora in uso per la determinazione del giorno della Pasqua erano basate sul primo anno di regno dell’imperatore Diocleziano (fra l’altro un persecutore dei cristiani) mentre, per la definizione di una ricorrenza tanto importante per la cristianità sarebbe stato più logico e più giusto iniziare il computo dalla incarnazione del Signore. Questa data tuttavia non era nota. Egli però decise, non si sa bene servendosi di quali fonti, che Cristo era nato il 25 dicembre del 753 dalla fondazione di Roma (753 ab urbe condita, come di diceva a quel tempo).

In verità, né il giorno, né l’anno erano il risultato di un calcolo o di un riferimento sicuro e nemmeno i Vangeli suggerivano un anno preciso per la nascita del Messia. Secondo Matteo, Cristo sarebbe nato durante i giorni di Erode il Grande il quale, oggi lo sappiamo per certo, morì nel 4 a.C. e quindi se dovessimo dar credito a quanto è scritto sui libri sacri Cristo sarebbe venuto al mondo almeno tre anni prima della sua nascita (!). Secondo il parere di molti studiosi, Gesù Cristo nacque nel 7 a.C.

La data utilizzata da Dionigi per la nascita di Cristo è quindi sicuramente sbagliata, ma andare oggi alla ricerca di quella giusta sarebbe lavoro improbo oltre che inutile: anche se si dovesse trovare un documento indiscutibilmente certo, nessuno ormai si sognerebbe di mettere mano al calendario per cambiare date e ricorrenze. Stabilito il giorno della nascita di Cristo, Dionigi chiamò quindi anno Domini 1 l’anno seguente quella data, cioè il 754 dalla fondazione di Roma e stabilì che l’anno iniziasse con il 25 marzo, corrispondente alla data del concepimento, e non più con il 1° gennaio come aveva stabilito Giulio Cesare e come era stato fino ad allora.

E’ opportuno precisare che oggi noi avremmo definito quello della nascita di Cristo “anno zero”, ma a quel tempo lo zero era ancora sconosciuto in Occidente dove arriverà solo qualche secolo più tardi e pertanto quell’anno fu chiamato dagli storici “anno 1 avanti Cristo”.

Mancando l’anno zero si corre il rischio di commettere l’errore di un anno quando si calcola il tempo intercorso fra una data avanti Cristo ed una dopo Cristo. Per esempio, se Cristo fosse nato nel 7 a.C., come in molti ritengono, il vero 2000, cioè il bimillenario della sua nascita sarebbe stato il 1994 e non il 1993 come semplicisticamente si potrebbe pensare. E il terzo millennio dalla nascita di Cristo sarebbe iniziato il 1° gennaio 1995.

Per un calcolo corretto occorre fissare l’anno zero, come fanno gli astronomi, altrimenti non si possono applicare le regole dell’algebra. Gli astronomi chiamano “anno zero” l’1 a.C. e, per gli anni precedenti, usano numeri negativi quindi chiamano “anno –1” il 2 a.C., “anno –2” il 3 a.C. e così via a ritroso. Secondo gli astronomi Cristo sarebbe quindi nato nell’anno – 6. Ora, il calcolo relativo all’età di Cristo, applicando la regola algebrica, è semplice: 1994 – (– 6) = 2000.

Vediamo ora di capire perché il 25 marzo e il 25 dicembre furono scelti da Dionigi come momenti fondamentali del suo nuovo calendario. Il 25 marzo e il 25 dicembre sono le date in cui, ai tempi di Cesare, cadevano, rispettivamente, l’equinozio di primavera e il solstizio d’inverno. Nel VI secolo queste due ricorrenze furono spostate al giorno 21 dei rispettivi mesi, e così è ancora oggi. La modifica si rese necessaria, come abbiamo visto, perché il calendario in vigore a quel tempo non corrispondeva più al susseguirsi delle stagioni.

Per quanto riguarda il 25 dicembre sappiamo che in quella data si celebrava una festa pagana detta Dies Natalis Sol Invicti (cioè il giorno del Sole invincibile). Quella festa si svolgeva nel giorno in cui il Sole, sceso al punto più basso sull’orizzonte, non si lasciava sopraffare e “risorgeva” riprendendo la salita in cielo verso punti sempre più alti. Ciò significava che la brutta stagione era finita, la primavera sarebbe tornata e con essa sarebbe rinata la vita nei campi. La festa era detta “festa dei Saturnalia”, dal nome di Saturno, il dio dell’agricoltura, e si celebrava il 25 di dicembre perché allora, in quella data, cadeva il solstizio d’inverno. La Chiesa quindi trasformò una festa pagana allegra e molto amata dalla gente, in una festa sacra. Il nome venne mutato in Natale e da festa per la rinascita del Sole si trasformò in festa per la nascita del Figlio di Dio.

Il 754 dalla fondazione di Roma divenne quindi il primo anno dell’era cristiana (o volgare), ma questo nuovo modo di computare il tempo non fu adottato immediatamente: dovrà infatti passare l’anno 1000 perché esso sia utilizzato ufficialmente. L’era cristiana, seguendo il sistema introdotto da Dionigi il Piccolo, determina l’intervallo di tempo fra la nascita di Cristo e il presente: la dicitura A.D. (Anno Domini) o d.C. indica il periodo trascorso dalla nascita di Cristo, mentre con a.C. ci si riferisce agli anni precedenti l’era cristiana.

Quella dei Saturnali non è l’unica festa pagana di cui il Cristianesimo si è impossessato sovrapponendosi ad una cultura più antica. Il 15 agosto, ad esempio, si festeggiavano le ferie dell’Imperatore (“ferie di Augusto”: “Ferragosto”) ma poi quella data divenne per i cristiani il giorno in cui si ricorda l’Assunzione in cielo di Maria.

 

LA RIFORMA GREGORIANA

Durante il Medioevo l’interesse per il calendario, per i motivi più disparati, si diffuse fra tutti gli strati sociali. Ad esso si ricorreva, ad esempio, per la venerazione dei Santi, per le scadenze contrattuali, per la predisposizione del lavoro dei campi e della bottega e così via. Ora, poiché molte persone utilizzavano il calendario, fu molto facile accorgersi che, nonostante le correzioni apportate, questo non corrispondeva affatto al tempo reale. La durata dell’anno medio, stabilita da Giulio Cesare in 365 giorni e 6 ore, a far bene i conti, risultava ora, a seguito di misure più scrupolose, di oltre 11 minuti più lunga rispetto al ciclo solare. Si trattava di un errore apparentemente trascurabile ma, accumulandosi nei secoli, gli undici minuti all’anno, intorno al 1100, erano diventati 6 giorni e l’inizio della primavera astronomica non capitava più il 21 di marzo come era stato stabilito quando venne fissata la data della Pasqua, ma il 15 dello stesso mese. In altre parole il calendario ora andava un po’ indietro rispetto alle stagioni.

Vi era quindi bisogno di un ulteriore aggiustamento. Ma modificare un calendario, in qualsiasi tempo, non è cosa semplice e infatti si dovrà aspettare molti secoli prima che qualcuno si cimenti nell’impresa. Alla fine ebbe successo il tentativo di papa Gregorio XIII, al secolo Ugo Boncompagni, insigne rappresentate di una influente famiglia bolognese.

Abbiamo visto che Giulio Cesare aveva considerato l’anno della durata di 365,25 giorni, ma in realtà esso è leggermente più corto e dura, per la precisione, 365,24220 giorni quindi è più breve, rispetto a quello considerato da Giulio Cesare, di 0,0078 giorni, un tempo pari a 11 minuti e 14 secondi. Una differenza di 11′ e 14″ all’anno, in capo a 1000 anni, porta ad un eccesso di quasi 8 giorni, e, in 10.000 anni, questo sarebbe di 80 giorni. Dopo diecimila anni ci si troverebbe cioè nella stessa situazione in cui si trovò Giulio Cesare quando mise mano al suo calendario, ma in senso opposto. Giulio Cesare si trovò infatti alle prese con un calendario che andava avanti rispetto al tempo reale, mentre in questo caso si sarebbe dovuto porre rimedio ad un calendario che andava indietro rispetto al tempo reale. E quindi, mentre Giulio Cesare dovette aggiungere 80 giorni al suo calendario, creando un anno di 445 giorni, ora si sarebbero dovuti togliere altrettanti accorciando l’anno di quasi tre mesi. Prima di arrivare a questi eccessi si pensò bene di intervenire con degli opportuni aggiustamenti.

La preoccupazione massima del papa bolognese in realtà era di natura liturgica. Egli era angosciato dal fatto che, venendosi a trovare il giorno 21 di marzo sempre più verso la stagione calda, ed essendo questa data legata alla festività pasquale, la Pasqua cristiana, e conseguentemente tutto l’anno liturgico che da essa dipendeva, finisse per essere festeggiata in estate, quindi in una stagione tutta affatto diversa da quella stabilita dal Concilio di Nicea. Era necessario pertanto fare coincidere nuovamente l’equinozio di primavera con la data del 21 marzo perché, come abbiamo visto, questo momento astronomico era scivolato all’indietro di 10 giorni, cioè era finito alla data dell’11 marzo. Il calendario, in altri termini, era sfasato rispetto al tempo reale e di conseguenza la data del 21 di marzo si veniva a trovare, secolo dopo secolo, sempre più spostata in avanti verso la stagione estiva e quindi non trovava più corrispondenza con l’inizio della primavera.

Forse non a tutti è chiaro il motivo per il quale in un calendario che va indietro rispetto al tempo reale la data del 21 marzo si sposta sempre più in avanti, verso la stagione estiva. Proviamo allora a trasferire lo stesso ragionamento su di un orologio. Prendiamo un orologio che va regolarmente indietro di un quarto d’ora la settimana. Dopo una settimana quando l’orologio segna mezzogiorno in realtà è mezzogiorno meno un quarto e per rimetterlo a posto lo si dovrebbe portare indietro di un quarto d’ora. Dopo due settimane, nel momento in cui il nostro orologio difettoso segna mezzogiorno sono in realtà le undici e trenta. Procedendo di questo passo, dopo alcune settimane, mentre il nostro orologio segna mezzogiorno in realtà è sera. Quindi, quando un orologio va indietro e non viene mai regolato, ad una certa ora, per esempio le 12, corrisponde un tempo reale sempre più avanzato (verso sera). Allo stesso modo in un calendario che va indietro rispetto al tempo reale ad una certa data, ad esempio il 21 marzo, corrisponde ad un tempo reale sempre più avanzato (verso l’estate).

Tre furono i principali protagonisti della riforma del calendario. Oltre al papa vi era un calabrese di modeste origini che poi si rivelerà il vero artefice della innovazione e un astronomo gesuita noto per essere stato un accanito sostenitore del modello geocentrico di Universo.

Il nome del primo era Luigi Lilio Ghiraldi e di lui si sa poco. E’ certo solo che studiò medicina e astronomia all’Università di Napoli e quindi andò ad insegnare a Perugia. Egli elaborò una soluzione semplice e chiara per la sistemazione del calendario che alla fine ebbe l’approvazione di una commissione appositamente istituita per esaminare le varie proposte formulate da studiosi di diversa provenienza. Lilio, tuttavia, non vide realizzato il suo lavoro perché morì prima della sua accettazione. Dopo la sua morte fu il fratello Antonio anch’egli medico ed esperto di astronomia, a portare avanti il progetto fino alla sua definitiva approvazione nel 1576.

Il terzo protagonista fu il gesuita Cristopher Clavius (1538-1612) che ebbe l’incarico di guidare la riforma e di difendere e illustrare le idee di Lilio attraverso il campo minato delle controversie scientifiche ed ecclesiastiche. Clavius era uno studioso di astronomia e matematica e per quanto accanito sostenitore di teorie sbagliate, tuttavia si dimostrò sempre disponibile ad aggiornamenti e a revisioni delle proprie idee: così anche nel caso della riforma proposta da Lilio in un primo tempo si dichiarò contrario, ma poi l’accettò e la difese con convinzione.

I tempi ormai erano maturi e il Papa decise di promulgare il nuovo calendario. Quindi, con Bolla del 24 febbraio 1582, ingiunse di cancellare 10 giorni passando direttamente da giovedì 4 ottobre a venerdì 15 ottobre. In questo modo egli consentì che si celebrasse la festa di S. Petronio, patrono di Bologna, che cade il 4 ottobre e a cui, per ovvi motivi, era molto legato. Venivano invece soppressi, per quell’anno, alcuni Santi ritenuti di minore importanza. In questo modo l’equinozio di primavera che come abbiamo visto, alla fine del XVI secolo, era arretrato all’11 marzo, fu riportato al 21, come era nel VI secolo.

Si trattava ora di provvedere affinché il calendario, con il passare del tempo, non tornasse a regredire. Si decise allora che nell’arco di 400 anni ci sarebbero stati non più 100 ma 97 anni bisestili e pertanto gli ultimi anni di ogni secolo sarebbero stati comuni (cioè di 365 giorni) ad eccezione di quelli divisibili per 400. Rimase pertanto bisestile il 1600, ma non lo furono il 1700, il 1800 e il 1900. E’ stato invece regolarmente bisestile il 2000. Eliminando tre giorni ogni 400 anni si ottiene l’anno medio della durata di 365,2425 giorni, un tempo molto vicino a quello reale. Inoltre, in quella occasione, si stabilì che il giorno aggiuntivo degli anni bisestili sarebbe stato il 29 febbraio e non più il 24 bis, e che l’anno iniziasse il 1° gennaio, come era stato imposto, all’inizio, da Giulio Cesare.

Nonostante tutti gli aggiustamenti tuttavia nemmeno il calendario gregoriano è perfetto, perché considera l’anno ancora un po’ troppo lungo rispetto a quello reale: 365,2425 giorni, contro 365,2422. Ma l’imperfezione ora è veramente minima (un giorno ogni 3.323 anni) e diverrebbe del tutto trascurabile se si stabilisse che non debbano essere bisestili, oltre agli anni divisibili per 400, anche quelli divisibili per 4000, cioè l’anno 4000, l’8000, il 12000, ecc. Per questa ulteriore sistemazione non c’è fretta e se il calendario gregoriano sarà ancora in uso, essa potrebbe divenire ufficiale fra qualche secolo, o forse anche in tempi ancora più lontani.

Vi è un’altra imperfezione dovuta al fatto che togliendo i tre anni sovrabbondanti ogni 400 anni si viene a determinare un lungo periodo (dal 1900 al 2100) in cui si accumula il tempo eccedente. E proprio per il fatto che il 2000 è stato bisestile si è assistito, in questi ultimi anni, al frequente anticipo dell’equinozio di primavera al 20 di marzo. Dal 1980 al 2000 l’equinozio di primavera si è verificato solo cinque volte il 21, per il resto il 20 e nei prossimi cinquant’anni solo due volte cadrà il 21, negli altri il 20 e due volte addirittura il 19 marzo.

A questo punto non possiamo non far notare che l’origine e l’evoluzione del calendario con tutto il susseguirsi degli aggiustamenti finalizzati alla misura accurata dei fenomeni naturali, fino alla riforma di papa Gregorio XIII, che ha eliminato anche quel piccolo errore di pochi minuti fra il tempo reale e quello ideato dall’uomo ha rappresentato un’impresa scientifica di enorme valore, che diventa ancora più sorprendente se si considera che a quei tempi il moderno metodo scientifico suggerito da Galilei non aveva ancora visto la luce.

 

IL RIFIUTO DEI PAESI PROTESTANTI.

Il calendario di papa Gregorio XIII non fu accettato immediatamente in tutto il mondo e nemmeno ebbe l’approvazione incondizionata di tutta la comunità cristiana. Papa Gregorio XIII era un vigoroso e convinto sostenitore della controriforma e i protestanti rifiutarono il nuovo calendario ritenendolo un piano del Pontefice per riportare i cristiani ribelli sotto la giurisdizione di Roma. I Paesi cattolici si uniformarono invece entro pochi anni, mentre la chiesa di Costantinopoli l’accettò solo in tempi molto recenti.

Gli intellettuali protestanti sostenevano che il calendario del Papa fosse contro natura perché turbava perfino i comportamenti istintivi degli animali i quali non sapevano più quando era il momento di migrare e quando quello di accoppiarsi. I cattolici naturalmente sostenevano le ragioni opposte fino ad affermare – come riferisce Duncan nel suo libro “Il calendario” – che nella cattolicissima Gorizia un nocciolo, rispettoso dell’autorità papale, in quell’anno aveva germogliato con 10 giorni di anticipo.

L’Inghilterra si adeguò al nuovo calendario nel 1752. In quell’occasione fu necessario togliere 11 giorni, invece che 10, dal calendario in uso, il che scatenò le proteste di una larga parte della popolazione ribellatasi al grido: “Ridateci i nostri 11 giorni!” A Londra vi fu una vera e propria rivolta, perché i risparmiatori si videro sottrarre dalle banche il denaro corrispondente agli interessi di 11 giorni.

E’ interessante notare che in seguito all’adeguamento differenziato nel tempo del nuovo calendario nei diversi Paesi del mondo, si registrarono anche alcuni fatti paradossali. Ad esempio la data della nascita di Isaac Newton, 25 dicembre 1642 (stesso anno della morte di Galilei) su alcuni testi, è riportata al 5 gennaio del 1643; in entrambi i casi di lunedì. Ciò è dovuto al fatto che nell’anno della nascita di Newton l’Inghilterra seguiva ancora il vecchio calendario giuliano mentre da noi era già in uso quello gregoriano, in cui tuttavia i giorni della settimana erano gli stessi che nell’altro. Ora, poiché Newton nacque in Inghilterra e non in Italia, sarebbe più corretto citare per la sua nascita la data del 25 dicembre 1642, che paradossalmente non è però lo stesso anno della morte di Galilei.

Gli ultimi ad adeguarsi alla riforma gregoriana furono i paesi di religione ortodossa come la Russia e la Grecia. La Russia cambiò il suo calendario all’indomani della rivoluzione del 1917 che portò al potere il partito socialista bolscevico. Oggi la rivoluzione russa viene ricordata (e fino a poco tempo fa anche festeggiata) il 7 novembre, pur essendo scoppiata, come tutti sanno, il 26 ottobre 1917. La presa del potere è ricordata spesso come la “rivoluzione di ottobre” proprio perché, in quella data, nell’Impero russo era ancora in uso il calendario giuliano, mentre da noi, già da quattro secoli, vigeva quello gregoriano.

Un problema interessante si presentò quando l’America, nel 1867, acquistò dalla Russia la penisola dell’Alaska, una terra che non solo seguiva il calendario giuliano, come tutto l’Impero dello zar, ma si trovava anche nell’emisfero orientale. Pertanto quando l’Alaska divenne il 49° Stato degli USA, mentre fu necessario sopprimere 12 giorni per il passaggio dal calendario giuliano a quello gregoriano, contemporaneamente si dovette aggiungerne uno per il virtuale passaggio della linea di cambiamento di data. Il giorno della consegna in totale vennero quindi soppressi 11 giorni, perché si conteggiò due volte lo stesso giorno esattamente come avviene attualmente quando si passa la linea di cambiamento di data viaggiando verso est.

Oggi il calendario giuliano, ancora in uso presso gli Ortodossi solamente per le feste religiose, è in ritardo di 13 giorni rispetto al nostro: il Natale, ad esempio, viene festeggiato quando sul nostro calendario compare la data del 7 gennaio.

 

IL CALENDARIO PERPETUO

Nonostante i vari aggiustamenti il calendario gregoriano presenta numerosi punti deboli e per tale motivo sono state avanzate svariate proposte per un calendario più razionale e di più facile consultazione, lasciando però in tutti i casi intatto l’ottimo metodo dell’anno bisestile.

Fra gli inconvenienti del calendario gregoriano vi è l’irrazionalità delle suddivisioni dell’anno: il mese non è multiplo della settimana né è sottomultiplo dell’anno. Questo comporta la diversa durata dei mesi e l’inizio degli stessi in giorni diversi della settimana. Inoltre c’è il problema della mobilità della Pasqua e con essa di tutte le feste cristiane che le sono connesse come l’Ascensione, le Ceneri, la Pentecoste e altre ricorrenze religiose di rilevanza anche civile. Tutto questo comporta, fra l’altro, la necessità di cambiare calendario e agenda ogni anno.

In una economia globalizzata, in cui è necessaria la programmazione delle attività a lungo termine e a grandi distanze, fuori dai confini nazionali, diventa di fondamentale importanza disporre di un unico calendario mondiale, perpetuo e perfetto, che fissi la sequenza delle date settimanali e mensili in modo da renderle identiche ogni anno e in ogni luogo. Gli americani hanno calcolato, non è dato sapere su quale base e con quale criterio, che per valutare il tempo, solo gli abitanti di New York, spendono decine di milioni di dollari all’anno.

La proposta di un nuovo calendario che ha incontrato maggiori consensi è stata avanzata, nel 1930, da una certa Elizabeth Achelis e presentata all’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) che, nell’immediato dopoguerra, sembrava seriamente intenzionata ad adottarlo. Anche la Chiesa cattolica considerando ormai quella del tempo una questione di natura civile prima ancora che religiosa, non si era opposta al progetto. Sembrava quindi imminente la sua applicazione nel 1961 anche perché quell’anno iniziava di domenica, il giorno della settimana più adatto per il cambio, ma il calendario perpetuo fu invece abbandonato senza rimedio.

Il progetto del calendario perpetuo prevedeva l’eliminazione del 365° giorno in modo da ridurre l’anno a 364 giorni. Tale numero è divisibile in quattro parti uguali di 91 giorni ciascuna che a loro volta possono essere segmentate in sequenze mensili identiche di 31, 30 e 30 giorni. Secondo il progetto, il primo mese di ogni trimestre sarebbe il più lungo; gennaio avrebbe quindi 31 giorni, febbraio 30 e marzo 30. Il secondo trimestre inizierebbe con aprile di 31 giorni a cui seguirebbero due mesi di 30 giorni (maggio e giugno) e così di seguito per gli altri due trimestri.

Fra i vantaggi di questo calendario vi è anche quello che il numero 364 è divisibile esattamente per sette e per sette è divisibile pure il numero 91. Nell’anno vi sarebbero quindi complessivamente 52 settimane e ogni trimestre comprenderebbe 13 settimane. In conseguenza di ciò ogni trimestre inizierebbe di domenica e terminerebbe di sabato. Il primo giorno del primo mese del trimestre sarebbe sempre domenica, il primo giorno del secondo mese sempre mercoledì e il primo giorno del terzo mese sempre sabato. La Pasqua era stata fissata all’otto aprile che è una domenica a metà strada fra la Pasqua più bassa (22 marzo) e la Pasqua più alta (25 aprile) del calendario in uso.

Il giorno sottratto al calendario verrebbe aggiunto alla fine dell’anno e indicato, invece che con un numero, come tutti gli altri, con una lettera, la W, iniziale della parola inglese World. Quella giornata cadrebbe sempre dopo il sabato ultimo giorno dell’anno, ma non sarebbe chiamata domenica, bensì World Day (Giornata Mondiale), e sarebbe considerata una festività mondiale da dedicare all’armonia e alla unità universale dei popoli; in essa tutte le razze e le nazioni del mondo si sentirebbero unite in una sola fratellanza. In verità una delle caratteristiche del modello di calendario proposto era proprio quella di un sistema scientifico da utilizzare per la misurazione del tempo che fosse privo di influenze zonali, razziali o settarie. Negli anni bisestili vi sarebbe un ulteriore giorno extra-settimanale, da aggiungersi alla fine di giugno, denominato in inglese Leap-Year Day (bisestidì o giorno dell’anno bisestile) e da considerarsi, a sua volta, festivo.

Prof. Antonio Vecchia

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