Le comete

Le comete, ossia le “stelle con la chioma”, come indica il nome, rappresentano una delle più spettacolari ed affascinanti immagini del cielo notturno. Questi astri dalla forma originale che periodicamente visitano il sistema solare sono sempre stati avvistati con terrore perché considerati presagio di sventure e apportatori di disastri. Ciò era tanto più vero quando, in un mondo antropocentrico, era naturale credere che i corpi celesti influenzassero le vicende umane. Poiché le comete si presentano mediamente ogni 5 o 6 anni e gli eventi della storia umana si susseguono con ritmo incalzante, non era difficile stabilire delle coincidenze a sostegno della tesi che vedeva gli astri chiomati come annunciatori di eventi straordinari, in genere nefasti. Il convincimento che le comete fossero sinistri presagi purtroppo dura ancora oggi (soprattutto nel popolino e fra gli sciocchi che credono nell’astrologia) nonostante siano passati molti secoli da quando si è imposto il metodo galileiano della ricerca.

 

LA NATURADELLE COMETE

Il filosofo greco Aristotele vissuto nel V secolo a.C. non credeva nella natura astrale delle comete, poiché riteneva che l’Universo fosse immutabile e incorruttibile quindi un luogo in cui i moti dei corpi celesti si ripetevano con perfetta regolarità. Le comete pertanto dovevano essere esalazioni terrestri che, ad alta quota, colpite dai raggi del Sole, si incendiavano. Il filosofo romano Seneca, vissuto quattro secoli più tardi, riteneva invece che le comete fossero corpi celesti.

Per stabilire chi avesse ragione bisognò aspettare la seconda metà del 1500 quando il grande astronomo danese Tycho Brahe, senza fare uso di strumenti ottici (che a quel tempo ancora non esistevano), misurò la distanza di una cometa apparsa a quel tempo valutandone la parallasse. Egli si avvalse del confronto fra un’osservazione molto precisa fatta dal suo osservatorio (il famoso Uranienborg – Castello del cielo) sistemato su un’isoletta nei pressi di Copenaghen con una contemporanea di un collega eseguita a Praga: ne dedusse che non vi era fra le due misure alcuna differenza della posizione della cometa rispetto alle stelle lontane, mentre la Luna presentava una parallasse sensibile. Da ciò concluse che la cometa doveva trovarsi più lontana del nostro satellite naturale, quindi nel cielo delle stelle fisse e non in quello sub-lunare come riteneva Aristotele e tutti coloro che credevano nelle “verità” riportate negli scritti del grande filosofo di Stagira.

Il metodo della parallasse è una tecnica per misurare le distanze, relativamente semplice da capire e da mettere in pratica. Se si tiene il dito pollice alzato a circa 5 centimetri dalla punta del naso e lo si osserva tenendo chiuso l’occhio destro e poi, senza spostare il dito con l’occhio destro, tenendo chiuso il sinistro, si può notare che la sua posizione, rispetto allo sfondo, è cambiata. Questo spostamento apparente, chiamato parallasse, si verifica perché cambia l’angolazione secondo la quale si osserva il dito. Se poi si allunga il braccio, il pollice viene a trovarsi a circa 30 centimetri dal naso per cui, se si ripete l’operazione di aprire e chiudere in successione i due occhi, si nota che lo spostamento dovuto alla parallasse è, questa volta, più piccolo. All’aumentare della distanza dell’oggetto che si osserva, lo spostamento dovuto alla parallasse diminuisce proporzionalmente.

Questo principio può essere utilizzato per determinare quanto un oggetto è lontano, ma per valutare le distanze di corpi celesti bisogna scegliere due punti di osservazione abbastanza lontani fra loro, in modo da creare in cielo un effetto di parallasse sufficiente per la misura delle distanze di astri relativamente vicini quali sono, nel nostro caso, la Luna e la cometa, rispetto allo sfondo delle stelle fisse.

Lontane dal Sole le comete sono praticamente invisibili anche ai telescopi più potenti perché ridotte al nucleo solido e oscuro non più grande di qualche kilometro. Quando però questi corpi si avvicinano all’astro centrale del sistema planetario, per effetto del calore, parte delle sostanze componenti vaporizzano e sublimano, formando intorno ad essi la chioma, trasparente e luminosa e una o più code che, sospinte dalla pressione della luce e dal vento solare, si estendono nello spazio per milioni di kilometri, sempre in direzione opposta al Sole. Il nucleo, definito a volte dagli astronomi una “palla di neve sporca”, è costituito, oltre che da ghiaccio, da particelle solide e da vari altri gas congelati (metano, ammoniaca, ossido e biossido di carbonio). La massa complessiva di una cometa è molto piccola (tanto da essere definita un niente visibile): di norma non supera un miliardesimo della massa terrestre; ancora più tenue e rarefatta, nonostante le apparenze, è la coda attraverso la quale la Terra è passata nel 1910 in occasione dell’incontro con la cometa di Halley, senza subire la pur minima conseguenza. Niente: come un moscerino contro un treno.

Tutte le comete attive perdono materiale ad ogni passaggio al perielio, ossia in prossimità dei pianeti interni del sistema solare. Col tempo le polveri e i detriti di maggiori dimensioni si disseminano lungo la loro orbita ellittica formando un anello di frammenti i quali, qualora dovessero investire la Terra, darebbero luogo a sciami meteorici i più famosi dei quali sono le “lacrime di San Lorenzo”, così chiamate in ricordo del Santo di cui ricorre il martirio, come vuole una delicata leggenda, il 10 agosto di ogni anno. Ma gli astronomi, più propriamente, chiamano Perseidi queste stelle cadenti di agosto, perché si irradiano attraverso il cielo dalla costellazione di Perseo.

Gli astronomi ritengono che le comete, poiché, come abbiamo detto, perdono materiale ad ogni passaggio vicino al Sole non possono avere una vita lunghissima. Essi hanno calcolato che dopo qualche centinaio di passaggi un nucleo cometario abbia esaurito quasi completamente la riserva di polveri ed elementi volatili e finisca o per disintegrarsi completamente o per ricoprirsi di uno spesso guscio di materiale roccioso isolante che blocca ogni ulteriore fuoriuscita di gas, riducendolo ad un piccolo asteroide.

In verità, come previsto dalla legge di Newton, oltre ad orbite ellittiche, le comete possono percorrere anche orbite paraboliche o iperboliche. In questi ultimi due casi l’orbita sarebbe aperta e la cometa farebbe una sola apparizione, quindi, dopo avere sfiorato il Sole, si allontanerebbe perdendosi negli spazi interstellari. Ma la stessa fine farebbe la cometa qualora l’ellisse da essa percorsa fosse molto allungata: in tal caso il suo ritorno in vicinanza del Sole e della Terra avverrebbe dopo migliaia o forse milioni di anni, un intervallo di tempo assolutamente incontrollabile. Per quanto riguarda la lunghezza dei tempi, si consideri anche il fatto che i corpi che descrivono orbite ellittiche, in ottemperanza con la seconda legge di Keplero, si muovono velocemente in prossimità del perielio ma molto lentamente in afelio, ossia quando si trovano nei pressi del punto più lontano del loro percorso.

 

DOVE NASCONO LE COMETE 

Nel 1950, l’astronomo olandese Jan Oort (1900-1992) analizzando le traiettorie seguite da alcune comete che erano state osservate in precedenza, ipotizzò l’esistenza di un enorme deposito di piccoli asteroidi, a noi invisibili, sistemati a metà strada fra Plutone (l’ultimo pianeta del sistema solare) e l’Alfa Centauri (la stella più vicina) quindi ad una distanza di circa 2 anni luce da noi.

Questi piccoli asteroidi non sono di natura rocciosa come quelli che si trovano fra Marte e Giove, ma blocchi di ghiaccio frammisto a polveri e granelli di roccia. In numero enorme (forse centinaia di miliardi), essi non sarebbero altro che nuclei di comete che di tanto in tanto, rallentati nella loro corsa dalla debole attrazione di una remota stella, cadrebbero verso il Sole e, dopo molte centinaia di migliaia di anni, entrerebbero nella regione planetaria. Quindi, dopo essere passati in vicinanza dell’astro centrale, riprenderebbero la loro lunghissima corsa che li porterebbe nuovamente oltre il limite del sistema solare.

Questa riserva di comete, oggi chiamata Nube di Oort, non è mai stata localizzata, ma molti astronomi ritengono che le osservazioni confermerebbero la sua esistenza. A distanze così grandi i piccoli corpi ghiacciati non risentono dell’azione gravitazionale del Sole, ma, come abbiamo detto, potrebbero essere fortemente deviati verso zone lontane della Via Lattea o all’interno verso il sistema solare, dalla gravità di stelle, vicino alle quali si trovassero a passare. Questi nuclei cometari hanno subito poche alterazioni e dovrebbero contenere pertanto la materia più antica del sistema solare.

Questa ipotesi troverebbe una giustificazione plausibile dalla moderna teoria sull’origine del sistema solare, secondo la quale il giovane Sole sarebbe stato circondato da una nebulosa di gas e polveri da cui si sarebbe formata dapprima una miriade di piccoli corpi solidi, grandi pochi kilometri (chiamati planetesimi) e poi, per successiva aggregazione, gli attuali pianeti. Nelle zone più lontane dal Sole e quindi più fredde, le basse temperature ivi esistenti, avrebbero favorito la formazione di planetesimi composti prevalentemente di ghiaccio e non di rocce come nelle zone più interne del sistema planetario. Questi corpi ghiacciati, prima di essere inglobati negli attuali pianeti, avrebbero subito brusche modificazioni orbitali in seguito ad incontri ravvicinati con i maggiori pianeti in via di formazione. Sarebbero quindi stati immessi in orbite fortemente ellittiche che li avrebbero portati, dopo viaggi durati miliardi di anni, nella nube di Oort. Se tale teoria fosse confermata le comete costituirebbero un campione inalterato dei “mattoni” che hanno formato i pianeti del sistema solare.

Negli stessi anni in cui Oort proponeva la sua teoria, il coetaneo astronomo americano Gerard Kuiper suggerì la presenza di una riserva di comete più vicina al Sole, situata poco al di là dell’orbita di Nettuno: dal 1992 in poi furono identificati molti membri della Cintura di Kuiper. Anche le comete di questa riserva possono avvicinarsi al Sole dopo essere state strappate dalle loro orbite.

Quasi tutte le comete che si avventurano verso il centro del sistema solare sono bruciate o catturate dai pianeti maggiori, Giove e Saturno. Fra il 16 e il 22 luglio del 1994 si è assistito alla caduta dei frammenti di una cometa sulla superficie di Giove. La cometa si chiamava Shoemaker-Levy 9 ed era stata scoperta nel marzo dell’anno precedente da Eugene e Carolyn Shoemaker e, subito dopo, da David Levy. Era formata da un gruppo di frammenti battezzato “stringa di perle” e si era posta in orbita intorno a Giove anziché direttamente intorno al Sole. I calcoli mostravano che era stata frantumata dalla forza gravitazionale di Giove e che sarebbe caduta su quel pianeta. E così avvenne. Questo fatto dimostra che le comete che si spingono nel sistema solare interno potrebbero collidere con uno dei pianeti che orbitano vicino al Sole, in particolare con la nostra Terra, anche se in qualche misura ci sentiamo protetti dal Sole e dai pianeti maggiori la cui notevole forza di gravità richiama su di sé i corpi vaganti evitando che arrivino in vicinanza della Terra.

Vi sono due classi di comete, distinte sulla base del periodo orbitale: quelle a lungo periodo che proverrebbero dalla nube di Oort ma che, deviate dai pianeti giganti su orbite meno ellittiche potrebbero diventare comete a periodo corto e quelle a breve periodo. Queste ultime normalmente traggono origine dalla Cintura di Kuiper, viaggiano a velocità più ridotta rispetto a quelle a periodo lungo, ed hanno maggiore probabilità di tuffarsi nell’atmosfera terrestre producendo gravi danni agli esseri viventi: il che è già avvenuto in passato quando causarono la scomparsa dei dinosauri e di tanti altri organismi.

 

LA COMETADI HALLEY

Ogni 76 anni circa, la cometa più rinomata, osservata e studiata da oltre due millenni (viene citata negli annali cinesi di 240 anni prima di Cristo), torna a farci visita. Fu l’astronomo inglese Edmond Halley, un brillante scienziato amico fraterno di Newton, agli inizi del Settecento, che per primo svelò i segreti di questi astri con la coda. Lo scienziato, utilizzando le leggi e i calcoli di Newton, il quale aveva scoperto che il percorso delle comete sottostava anch’esso alla legge di gravitazione universale, analizzò il percorso di ventiquattro comete già osservate. La sua attenzione fu attratta da tre di esse che si erano presentate nel 1531, 1607 e 1682 le cui traiettorie, molto simili, erano di forma ellittica molto allungata. Egli ipotizzò che potesse trattarsi della stessa cometa e quindi previde che il corpo avrebbe fatto ritorno dopo circa 76 anni dall’ultima apparizione, cioè fra il 1758 e il 1759.

L’astronomo inglese si rese conto che non sarebbe vissuto abbastanza per vedere avverata la sua previsione, ma dopo che l’evento si presentò puntuale nel giorno di Natale del 1758 e rimase visibile per tutta la primavera del 1759, alla cometa fu dato il nome di Halley anche se l’astronomo inglese non fu lo scopritore. Da allora in poi ogni nuovo astro chiomato prese il nome del suo scopritore o dei suoi scopritori (fino ad un massimo di tre). Halley morì nel 1742, ma un dipinto del periodo romantico francese mostra un angelo che alza Halley dalla tomba per fargli guardare la sua cometa.

In occasione della previsione del ritorno dell’astro nella primavera del 1910 la stampa quotidiana aveva diffuso la notizia di questo eccezionale evento suscitando nella gente grande curiosità ed attesa. In un articolo pubblicato su un giornale scientifico il notissimo astronomo francese Camille Flammarion, involontariamente, aveva fatto delle previsioni catastrofiche relative all’imminente arrivo della cometa di Halley.

I calcoli degli astronomi avevano previsto che nella notte tra il 18 e il 19 maggio la Terra avrebbe attraversato la coda dell’astro. La spettroscopia (la parte della fisica che si era affermata ormai da oltre un secolo) aveva mostrato che la chioma e la coda delle comete erano costituiti da gas che se non erano velenosi, come il cianogeno e l’ossido di carbonio, erano sicuramente irrespirabili come l’anidride carbonica, il solfuro di carbonio  e i radicali dell’azoto. Dopo aver descritto degli scenari tragici che il contatto con queste sostanze avrebbe potuto causare, l’astronomo francese tranquillizzava tutti affermando che i suoi pronostici in nessun caso si sarebbero realizzati. Concludeva spiegando che le code cometarie, ancorché immense, sono così leggere ed estremamente rarefatte che la nostra atmosfera in confronto è piombo.

Le considerazioni esposte da Flammarion su una rivista specializzata vennero riprese dalla stampa quotidiana travisandone il valore scientifico e dando invece risalto a ciò che lo scienziato aveva mostrato come semplici possibilità teoriche. L’effetto fu quello di creare panico fra la popolazione. Nonostante le smentite sulla pericolosità dell’evento anche grazie all’intervento tranquillizzante di altri scienziati, i quali informavano che la Terra era già passata attraverso la coda di almeno altre due comete, di cui solo gli astronomi avevano saputo e osservato, molte persone non si sentirono per nulla rassicurate dalle parole dei tecnici e le reazioni furono di natura diversa: alcune vollero ugualmente credere alle profezie dell’imminente sciagura e la sera dei 18 maggio dalle città si spostarono verso le colline e le campagne per aspettare in quei luoghi in allegria la “catastrofe finale”. All’alba tutti ripresero la via del ritorno stanchi e appesantiti dalle laute libagioni ma nello stesso tempo delusi per non aver potuto assistere all’evento devastante.

La cometa di Halley si presentò puntuale, l’ultima volta, nel 1986 e in quella occasione fu lanciata verso di essa la sonda spaziale Giotto (così chiamata in omaggio al pittore che la raffigurò in un affresco conservato a Padova nella Cappella degli Scrovegni) con il compito di raccogliere informazioni sulla chioma e sul suo nucleo. Da quella missione gli scienziati hanno ottenuto la conferma che la cometa di Halley è un relitto fossile della nascita del sistema solare. A questa conclusione si è giunti grazie ai risultati delle analisi compiute sulla materia che esce dalla cometa e sui gas rilasciati dai suoi ghiacci.

Quella cometa contiene carbonio, azoto e ossigeno, oltre a silicio, zolfo e magnesio in quantità relative prossime a quelle riscontrate nel sistema solare. È legittimo quindi supporre che essa si sia formata in qualche parte della grande nebulosa di polvere e di gas da cui ebbe origine il sistema solare. Le misure effettuate sugli isotopi di carbonio, azoto e zolfo indicano anche che la sua formazione è stata contemporanea a quella del Sole e dei pianeti. La cometa di Halley si ripresenterà nel 2062, ma quelli che non l’hanno vista nel 1910, non la vedranno nemmeno in occasione di quest’ultimo ritorno. Dovranno accontentarsi dello spettacolo piuttosto deludente del 1986.

Prof. Antonio Vecchia

Reply