La fotosintesi

Molte sono le cose che diamo per scontate: ad esempio non riflettiamo mai sul fatto che con la respirazione introduciamo nei polmoni aria ricca di ossigeno e povera di anidride carbonica ed espelliamo aria ricca di anidride carbonica e povera di ossigeno, eppure la quantità di ossigeno presente nell’aria non diminuisce, né aumenta quella di anidride carbonica.

Anche il cibo di cui possiamo disporre non diminuisce mai nonostante ne consumiamo tutti i giorni in grande quantità. E questo non vale solo per gli oltre sei miliardi di uomini che abitano attualmente il pianeta ma per tutti gli animali (compresi quelli che vivono nell’acqua) e per i microrganismi (batteri, protozoi, ecc.) troppo piccoli per essere visti ad occhio nudo, ma presenti in ogni luogo e in numero sterminato.

È vero che non tutti gli uomini hanno cibo a sufficienza e che molti di loro purtroppo muoiono di fame ed è anche vero che può capitare come alcuni muoiano per avere respirato aria ricca di anidride carbonica (che è un gas tossico) invece che di ossigeno, ma nel complesso gli uomini e gli animali rimangono in vita e lo fanno da milioni di anni. Pertanto deve esserci qualche processo naturale che crei continuamente nuovo cibo e ricicli l’anidride carbonica producendo ossigeno. Questo processo di trasformazione della materia effettivamente esiste e si trova nelle piante.

I vegetali rappresentano infatti la soluzione del problema. Gli animali, compreso l’uomo, mangiano vegetali o animali che hanno mangiato vegetali o animali che hanno mangiato animali i quali però in precedenza avevano mangiato vegetali e così via. Alla base di tutto vi sono quindi i vegetali i quali direttamente o indirettamente forniscono gli alimenti per tutti gli esseri viventi e, come vedremo, convertono anche l’anidride carbonica in ossigeno.

 

LA SCOPERTA DELLA FOTOSINTESI

Ma le piante da dove attingono la materia necessaria per vivere? La risposta più semplice e immediata è che la traggano dal terreno nel quale crescono. Ciò è anche quello che pensava Aristotele il quale riteneva che le piante fossero un po’ il rovescio degli animali: esse, invece che tenere la testa in alto, affondano la loro bocca nel suolo da cui ricavano tutto il nutrimento. Qualche dubbio sul pensiero del grande filosofo e naturalista dell’antichità sorse quando si osservò che le piante per crescere, oltre che del terreno, hanno bisogno anche di acqua, che in verità potrebbe però servire esclusivamente per trasportare alla pianta le sostanze presenti nel terreno: in tal caso il suo ruolo sarebbe solo passivo. Per sciogliere il dubbio non rimaneva che controllare l’ipotesi attraverso l’esperimento.

Nei primi anni del 1600 Jan Baptiste van Helmont (1579-1644), alchimista e medico belga (noto soprattutto per un esperimento che avrebbe dovuto dimostrare come i topi nascano spontaneamente in 21 giorni da una camicia sporca e qualche chicco di frumento) tentò di dare una spiegazione scientifica della crescita delle piante. Egli piantò un ramo di salice del peso di 5 libre in un vaso contenente 200 libre di terra. Dopo cinque anni lungo i quali la terra era stata bagnata con regolarità la pianticella era diventata un alberello di 169 libre mentre il terreno aveva perso solo poche once di peso. Evidentemente la pianta era cresciuta a spese dell’acqua e non della terra.

Quella piccola riduzione di peso del terreno aveva però fatto riflettere van Helmont, in quanto egli sapeva che esistono terreni sterili nei quali non è sufficiente annaffiare le piante per vederle crescere. Forse qualche cosa i vegetali traevano anche dal terreno visto che crescono più rigogliosi quando questo viene concimato con i rifiuti organici. Lo scienziato fiammingo, pur conoscendo bene i gas sui quali sperimentava da tempo, non aveva invece pensato al fatto che la pianta si trovava a contatto con l’aria, la quale poteva essere anch’essa fonte di nutrimento.

Nel 1774 l’inglese Joseph Priestley (1733-1804), pastore della chiesa calvinista e appassionato di chimica, aveva osservato che un animale e una pianta sopravvivono se messi a coabitare in un ambiente chiuso. L’esperimento era stato condotto bene ma interpretato male dallo studioso, il quale affermò che la respirazione vegetale è un processo inverso alla respirazione animale (in realtà i processi inversi sono la fotosintesi e la respirazione la quale, come vedremo, è attuata anche dalle piante). Qualche anno più tardi il medico olandese Jan Ingenhousz (1730-1779) interpretò correttamente l’esperimento di Priestley osservando che solo le piante verdi e soltanto alla luce del Sole emettevano la cosiddetta “aria pura”, cioè quell’elemento che in seguito sarà chiamato ossigeno. Frattanto si era anche notato che una candela accesa in un recipiente chiuso pieno di aria dopo un certo tempo si spegneva e l’aria residua non era più in grado di alimentare una fiamma, né garantire la vita.

A quel tempo i fenomeni di combustione venivano interpretati con la teoria del flogisto (da un termine greco che significa “arso”). Essa era stata formulata intorno al 1700 dal chimico tedesco Georg Ernest Stahl (1660-1734) e prevedeva che tutti i corpi soggetti a mutare mediante ignizione fossero ricchi di flogisto, una sostanza misteriosa che conferiva loro vita ed energia ma che si allontanava quando bruciavano mentre ciò che rimaneva era privo di flogisto e quindi non bruciava più: il flogisto ad esempio era presente nel legno ma non nella cenere. Fu il chimico francese Antoine Laurent Lavoisier (1743-1794) a demolire la teoria flogistica dimostrando che la combustione di una sostanza non consiste nella perdita di qualche cosa ma al contrario nella combinazione di parte della sostanza che brucia con un gas presente nell’aria, ossia con l’ossigeno.

Lavoisier, intorno al 1775, era giunto alla conclusione che l’aria è costituita fondamentalmente di due gas: un quinto del suo volume era ossigeno (dal greco “generatore di acido”, perché si pensava che quell’elemento fosse presente in tutti gli acidi, ma ciò non è vero in quanto esistono anche acidi senza ossigeno, e tuttavia il nome rimase) e quattro quinti azoto (cioè sempre dal greco “privo di vita” perché un qualsiasi organismo, animale o vegetale, posto in un recipiente saturo di azoto, moriva). Il chimico francese aveva pertanto scoperto che l’ossigeno era necessario alle combustioni ma anche ai processi vitali di animali e piante.

Lavoisier pensava infatti che negli organismi viventi dovesse verificarsi una sorta di combustione, naturalmente piuttosto blanda, che forniva ad essi l’energia necessaria per vivere. Oggi la lenta combustione – interna agli organismi viventi – prevista da Lavoisier, si chiama respirazione: essa brucia gli alimenti con l’apporto di ossigeno, mentre l’azoto, se presente da solo, la impedisce.

La respirazione può essere sintetizzata dalla seguente equazione:

Alimenti + ossigeno  ⟶  anidride carbonica + acqua + energia

Agli inizi del 1800 lo studioso ginevrino Nicolas Theodore de Saussure (1767-1845) affrontò il problema della nutrizione delle piante da un punto di vista quantitativo misurando la quantità di anidride carbonica assunta dalla pianta e l’aumento di peso dei suoi tessuti. Con questo esperimento egli dimostrò che le foglie verdi alla luce del Sole decompongono l’anidride carbonica dell’aria ed emettono ossigeno: venivano così distinti nettamente i fenomeni della assimilazione (letteralmente: “rendere simile a sé stessi”) da quelli della respirazione.

La respirazione dei vegetali come quella degli animali consiste nella immissione di ossigeno e nella emissione di anidride carbonica, ma di giorno l’anidride carbonica emessa dalle piante non si aggiunge a quella presente nell’aria perché viene immediatamente utilizzata nell’assimilazione. In seguito agli esperimenti di Lavoisier e soprattutto di de Saussure si giunse ad una formulazione sommaria ma sostanziale di quella che verrà chiamata “fotosintesi” (dal greco photo = luce e synthesis = mettere insieme). Il processo può essere espresso con una equazione che è l’esatto contrario della respirazione:

Anidride carbonica + acqua + energia   ⟶  alimenti + ossigeno

Utilizzando la luce come sorgente di energia, le piante verdi trasformano composti inorganici (anidride carbonica e acqua) nei composti organici dei loro tessuti (che nella formula abbiamo chiamato “alimenti”) e liberano ossigeno come prodotto di rifiuto. Per questa loro attività esse vengono considerate organismi autotrofi (dal greco autòs = sé stesso e trophè = nutrimento) cioè organismi capaci di produrre da sé il proprio cibo.

Le due equazioni scritte sopra, quella relativa alla respirazione e l’altra, ad essa simmetrica, della fotosintesi, possono essere combinate insieme sotto forma di ciclo che prende il nome di “ciclo del carbonio” perchè prevede la circolazione e la riutilizzazione del carbonio dovute essenzialmente ad una serie di processi metabolici.

 

MATERIA ED ENERGIA PER VIVERE

Nell’ecosistema vi è quindi un processo ciclico, una circolazione di materia in cui alimenti, ossigeno, anidride carbonica e acqua vengono prodotti e consumati, prodotti e consumati senza interruzione. Quello che non circola (come vedremo meglio) è invece l’energia la quale viene fornita dal Sole, entra negli organismi viventi dove è in parte utilizzata per svolgere le funzioni vitali fondamentali, e quindi si disperde nell’ambiente in una forma non più utilizzabile che i fisici chiamano entropia.

Prima di procedere dobbiamo definire meglio gli “alimenti” perché il termine ci sembra un po’ vago in quanto esistono varie sostanze che potrebbero essere considerate alimenti, mentre in questa sede ci interessano solo quelli da cui sarebbe possibile ricavare energia. In pratica tutto ciò che l’uomo e gli animali mangiano, purché non sia veleno, può ritenersi un alimento ma la grande e complessa varietà di queste sostanze può essere classificata in poche categorie fondamentali: glucidi (o carboidrati, o zuccheri), lipidi (o grassi) e protidi (o proteine) a cui si devono aggiungere l’acqua, le vitamine e i sali minerali. Acqua e proteine sono considerati alimenti plastici in quanto “fanno corpo” mentre le vitamine e i sali minerali sono definiti alimenti di sostegno perché, pur non producendo energia né strutture permanenti, regolano tuttavia numerosi processi fisiologici. Esclusi i sali minerali, le vitamine e l’acqua, da tutte le altre sostanze che abbiamo elencato potrebbe essere ricavata energia ma se le proteine venissero utilizzate per questo scopo l’individuo si ridurrebbe a pelle e ossa, mentre i grassi sono da considerarsi una riserva concentrata di energia. Rimangono i glucidi che rappresentano infatti il normale combustibile dell’organismo.

I glucidi possono presentarsi in varie forme alcune delle quali complesse quanto i lipidi e quindi di non facile impiego. Ad esempio la cellulosa, di cui è fatto in gran parte il legno, è un glucide che non può essere utilizzato né dalle piante né dagli animali per ricavare energia. Tuttavia alcuni microrganismi che vivono nel tubo digerente di altri animali come ad esempio in quello delle termiti e dei bovini sono in grado di scindere la cellulosa in molecole semplici di glucosio, il composto che viene utilizzato normalmente per ottenere energia. Anche l’amido è una forma complessa di carboidrato simile alla cellulosa ma in questo caso gli animali e le piante sono in grado di scindere le sue molecole in strutture più semplici senza l’aiuto di organismi estranei e quindi estrarre da esse l’energia necessaria per le loro funzioni vitali.

In molti animali, oltre alle riserve di grasso, vi è anche una riserva di energia destinata a richieste immediate che prende il nome di glicogeno (dal greco “produttore di glucosio”). Il glicogeno è un composto che assomiglia molto all’amido ed infatti viene anche chiamato “amido animale” e nei mammiferi è contenuto nel fegato e nei muscoli dove viene facilmente trasformato in glucosio e quindi utilizzato per soddisfare le necessità energetiche dell’organismo. Come abbiamo visto in definitiva il glucosio è il composto chiave dal punto di vista della produzione di energia all’interno degli organismi viventi.

Possiamo ora scrivere in modo più preciso l’equazione della respirazione sostituendo al termine “alimenti” quello di “glucosio”:

Glucosio + Ossigeno   ⟶  Anidride carbonica + Acqua + Energia

È corretto parlare di glucosio anziché di alimenti anche per le piante? È facile dimostrare che le foglie delle piante contengono amido: basta esporle a vapori di iodio per vederle diventare nere perché lo iodio reagisce infatti con l’amido formando un composto di colore nero. La fotosintesi produce quindi amido il quale come abbiamo visto è una molecola complessa formata da molte unità semplici di glucosio unite insieme e si può supporre che nella pianta si formi prima il glucosio e poi l’amido. Possiamo quindi scrivere l’equazione che rappresenta la fotosintesi nel modo seguente:

Anidride carbonica + Acqua + Energia  ⟶  Glucosio + Ossigeno

A questo punto, per dare un taglio più scientifico all’argomento e soprattutto per comprendere meglio le reazioni chimiche e le trasformazioni della materia che riguardano l’accumulo di energia e il suo utilizzo all’interno degli organismi viventi è più conveniente l’impiego delle formule chimiche al posto dei nomi dei composti. Due secoli fa il chimico inglese John Dalton sviluppò la teoria atomica della materia grazie alla quale fu elaborata una serie di metodi per dare ai vari composti chimici una formula che rappresentasse l’insieme degli atomi che costituiva la particella più piccola di quella specifica sostanza: questa particella minima, come sappiamo, fu chiamata molecola.

Sostituendo ai nomi le formule chimiche dei composti che partecipano alla reazione della respirazione, questa diventa:

C6H12O6 + 6 O2  ⟶  6 CO2  + 6 H2O + Energia

In essa come si può vedere il numero degli atomi complessivi che reagiscono è uguale al numero degli atomi che si sono prodotti dalla reazione nel rispetto della legge di conservazione della materia la quale afferma che nei processi chimici gli atomi non scompaiono nel nulla, né compaiono dal nulla.

Si può anche notare che la formula chimica del glucosio contempla la presenza di sei atomi di carbonio legati a quelle che potrebbero essere ritenute sei molecole di acqua (H12O= 6 H2O). In realtà, quando venne definita la formula chimica del glucosio (e di altri zuccheri) sorse il dubbio che queste sostanze potessero essere effettivamente formate da atomi di carbonio ai quali erano legate molecole di acqua. Lo stesso termine di “carboidrati” riservato ai glucidi conserva la traccia di questo dubbio che a quel tempo veniva rafforzato dal fatto che scaldando a lungo il comune zucchero di casa si ottiene carbone, ossia ciò che rimane del composto privato dell’acqua che il calore fa evaporare.

L’individuazione della formula chimica del glucosio indusse inoltre gli scienziati a pensare che se venisse divisa per sei quella molecola l’equazione di reazione della respirazione e quella speculare della fotosintesi diverrebbe più semplice, perché in tal caso, affinché i conti tornino, non sarebbe più necessario moltiplicare per sei le molecole di ossigeno, anidride carbonica e acqua. Dividendo per sei la molecola del glucosio si ottiene CH2O una formula che corrisponde alla formaldeide un composto che potrebbe stare alla base del glucosio come il glucosio stesso sta alla base dell’amido.

Al chimico tedesco Adolf von Baeyer (1835-1917) venne per primo l’idea che la formaldeide potesse essere il precursore del glucosio. La sintesi del glucosio a partire dalla formaldeide fu effettivamente ottenuta in laboratorio attraverso un procedimento piuttosto lento che in verità poco si accordava con i ritmi vitali. La formaldeide fra l’altro è un prodotto tossico che all’interno della pianta avrebbe dovuto rapidamente polimerizzarsi in zucchero per non recarle danno. Si riteneva infatti che le piante potessero disporre di enzimi in grado di accelerare queste reazioni di addizione di molecole piccole anche perché quella specifica sostanza nelle piante non fu mai trovata. La teoria della formaldeide resistette per molti lustri fino a che non ne venne proposta una alternativa.

Altri decisivi progressi sono stati raggiunti nell’ultimo secolo. Nel 1905 il botanico americano F. Blackmann verificò che la fotosintesi è un processo che non si svolge interamente alla luce ma comprende una reazione che può avvenire anche al buio (la cosiddetta fase oscura). Nel 1937 il biochimico inglese Robert Hill scoprì anche che l’ossigeno che la pianta libera durante il processo fotosintetico non derivava da CO2, come si era sempre ritenuto, ma dall’acqua. Di tutto ciò si parlerà più diffusamente in seguito.

 

LA CLOROFILLA

Nel 1817 due francesi, il farmacologo Pierre-Joseph Pelletier (1788-1842) e il chimico Joseph Bienaimé Caventou (1785-1877), isolarono il composto che impartisce alle foglie il colore verde e lo chiamarono clorofilla (dal greco chloròs = verde e fýllon = foglia). Divenne subito chiaro che questa sostanza era il catalizzatore che consentiva di utilizzare l’energia della luce solare per produrre composti organici indispensabili alla vita della pianta, ma per quasi un secolo la molecola resistette a tutti i tentativi di individuarne la struttura.

Solo nel 1907 fu fatto il primo passo verso la comprensione della composizione chimica della clorofilla: ciò avvenne quando il chimico tedesco Richard Willstätter (1872-1942), riuscì ad ottenere la sostanza allo stato puro e a compiere numerose e importanti osservazioni su di essa. Innanzitutto scoprì che vi erano due forme diverse di clorofilla che chiamò “clorofilla a“ e “clorofilla b”. Identificò quindi il magnesio (simbolo Mg) quale componente fondamentale delle due molecole di cui definì anche la formula bruta (ossia il numero e il tipo di atomi presenti in esse). La formula chimica dei due composti risultò la seguente: C55H72N4O5Mg per la clorofilla a e C55H70N4O6Mg per la clorofilla b. Si tratta, come si può vedere, di formule molto simili fra loro formate, la prima, di ben 137 atomi e la seconda, di 136.

Willstätter tentò anche di scoprire la struttura interna di queste grosse molecole scindendole in frammenti più piccoli ed esaminando quindi separatamente le frazioni così ottenute. Con questa tecnica lo studioso riuscì a isolare il cosiddetto “anello pirrolico” ossia una molecola formata da quattro atomi di carbonio ed uno di azoto disposti a pentagono. Per queste sue scoperte il chimico tedesco ricevette il premio Nobel nel 1915.

Le ricerche sulla clorofilla proseguirono per opera di un altro chimico tedesco, Hans Fischer, il quale, nei primi anni Trenta del secolo scorso, riuscì finalmente a stabilire che questa fondamentale molecola delle piante comprendeva una struttura ad anello costituita a sua volta da quattro anelli pirrolici legati fra loro da ponti metinici (-CH=) e con al centro un atomo di magnesio. La scoperta venne fatta studiando la molecola dell’emoglobina, una sostanza presente nei globuli rossi del sangue che si rivelò essere molto simile alla clorofilla.

L’emoglobina è costituita da una parte proteica detta globina e da una parte non proteica chiamata eme (da un termine greco che significa sangue) grande all’incirca quanto la molecola di clorofilla e costituita anch’essa da quattro anelli pirrolici a loro volta compresi in un anello più grande con al centro un atomo di metallo che però non è il magnesio come nella clorofilla, ma il ferro. Fischer dette il nome di porfirine alle strutture costituite da anelli tetrapirrolici presenti nell’eme dell’emoglobina e nella parte non proteica della clorofilla.

La molecola della clorofilla ha la forma di un girino con una testa quadrata di colore verde detta “clorofillina” ed una lunga coda incolore formata da una ventina di atomi di carbonio che portano legati a sé atomi di idrogeno, detta “fitolo”. La testa è “polare”, cioè porta una carica positiva e una negativa come l’acqua che infatti può attrarre a sé e per questo motivo è detta idrofila. La coda invece non è polare e pertanto è detta idrofoba perché respinge le molecole d’acqua.

Se proviamo ad imitare la natura mescolando in una provetta acqua e anidride carbonica otteniamo acqua di selz che rimarrebbe tale anche se vi aggiungessimo la clorofilla e la esponessimo ai raggi del Sole. L’esperimento dimostra che il processo fotosintetico si realizza solo all’interno dei tessuti vegetali in cui la clorofilla evidentemente non è distribuita in modo uniforme ma localizzata in strutture entro le quali dovrebbe realizzarsi una successione complessa di molte reazioni spinte lungo un percorso prestabilito. Vi è un motivo logico di un simile meccanismo: come vedremo meglio, il processo fotosintetico produce infatti composti intermedi instabili ai quali non deve essere consentito di girare liberamente all’interno della cellula; essi rischierebbero di potersi ricombinare prima di trasformarsi in ossigeno molecolare, da un lato, e in composti organici, dall’altro.

Nel 1897 il biologo tedesco Carl Benda – utilizzando tecniche particolari di colorazione – riuscì ad osservare nel citoplasma delle cellule piccoli granuli di forma particolare che chiamò “mitocondri” (dal greco mitos = filo e chòndros = cartilagine, ma in seguito si scoprì che con la cartilagine questi corpiccioli non avevano nulla a che vedere: il nome tuttavia rimase). Successivamente si osservò che questi minuscoli oggetti di forma ovoidale erano presenti in tutte le cellule nelle quali si realizzavano processi di respirazione mentre non erano presenti nei microrganismi incapaci di manipolare l’ossigeno molecolare.

Quando agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso furono costruiti i primi microscopi elettronici (strumenti capaci di ingrandimenti centinaia di volte superiori a quelli realizzabili con i microscopi ottici) fu possibile osservare la struttura interna dei mitocondri. Si notò allora una fitta serie di membrane che ne aumentavano notevolmente la superficie e sulle quali verosimilmente avvenivano le reazioni che trasformavano glucosio e ossigeno in anidride carbonica e acqua, mentre l’energia prodotta veniva messa a disposizione dell’intera cellula.

I cloroplasti sono in genere più grandi dei mitocondri e di struttura più complessa. Sono peraltro di forma ovoidale come i mitocondri e presentano anch’essi all’interno una serie di sottili membrane disposte trasversalmente da una parete all’altra, dette “lamelle”. Queste lamelle si ispessiscono in alcuni punti formando degli agglomerati scuri detti “grani”. Questi a loro volta sono costituiti da venti o trenta dischi formati da strati di proteine tenute insieme da lipidi, come fossero due fette di pane unite da uno strato di burro. Ora, poiché le proteine sono idrofile e i lipidi idrofobi, si suppone che la clorofilla si accumuli all’interno dei grani sulla linea di separazione dei dischi di proteine e gli strati di lipidi con la testa immersa nelle proteine e la coda nei lipidi. Questa rappresentazione della disposizione della clorofilla all’interno dei cloroplasti è solo teorica ma perfettamente plausibile. Come vedremo meglio, l’assorbimento della luce da parte della clorofilla non dipende solo dalla struttura della molecola ma anche dalla presenza e dalla disposizione di proteine e lipidi cui è strettamente legata.

I cloroplasti, a differenza dei mitocondri sono difficili da ottenere integri e solo nel 1954 il biologo Daniel I. Arnon riuscì nell’impresa di far compiere all’interno di un cloroplasto perfettamente isolato l’intera sequenza delle reazioni di fotosintesi così come in precedenza erano state individuate tutte le tappe intermedie delle reazioni relative alla respirazione nei mitocondri. Da quel giorno non fu più necessario parlare di animali e di piante per riferirsi alla respirazione e alla fotosintesi poiché bastò fare riferimento ai due corpuscoli distinti presenti nella cellula: mitocondri e cloroplasti.

 

L’ ENERGIA CHE MUOVE IL CICLO

Abbiamo visto che l’energia solare è l’elemento propulsore della fotosintesi, mentre l’energia chimica è il prodotto della respirazione: si tratta quindi di due forme diverse di energia. In realtà esistono varie forme di energia tutte però interscambiabili e quindi in definitiva tutte quante riducibili ad un unico tipo. Il calore è la forma di energia più tipica ed è anche quella in cui è utile trasformare tutte le altre, perché risulta la più facile da misurare: proprio per questo motivo lo studio dell’energia è chiamato termodinamica (“dinamica del calore”).

Per misurare l’energia che si sprigiona da una reazione chimica è sufficiente far avvenire quella reazione in un recipiente immerso in una quantità prestabilita di acqua a temperatura nota e misurare quindi l’aumento di temperatura del liquido a reazione completata. Ora, se ad esempio la temperatura dell’acqua fosse aumentata di un grado (precisamente da 14,5 °C a 15,5 °C) si direbbe che un grammo di quell’acqua ha assorbito dalla reazione energia pari ad una caloria (o piccola caloria). Se invece che riferirsi ad un grammo d’acqua se ne prendesse in considerazione un kilogrammo l’innalzamento di un grado di temperatura di quella massa corrisponderebbe ad una kilocaloria (o grande caloria).

L’energia sviluppata da una reazione chimica dipende ovviamente dalla quantità della sostanza che si mette a reagire. I chimici hanno deciso che è più comodo riferirsi, invece che a un determinato peso di materia, ad un numero preciso di particelle. Questo è il “numero di Avogadro” pari a circa 600.000 miliardi di miliardi di particelle ed è detto “mole”. Naturalmente una mole di sostanze diverse pesa in misura diversa: una mole di acqua ad esempio pesa 18 grammi mentre una mole di glucosio pesa 180 grammi.

Se si fa reagire una mole di glucosio con ossigeno in quantità sufficiente si sviluppano 673 kilocalorie. Questa quantità di energia è la stessa, sia che la reazione si sviluppi all’esterno dei tessuti viventi sia all’interno degli stessi. Nei tessuti viventi, ovviamente, la reazione fra glucosio e ossigeno con formazione di acqua e anidride carbonica avviene lentamente e per gradi, attraverso numerose fasi che i biologi sono riusciti ad individuare.

Se ora analizziamo l’altra metà del ciclo, quella che si svolge nei cloroplasti, scopriremo che l’energia fornita dal Sole per sintetizzare anidride carbonica ed acqua al fine di formare glucosio e ossigeno è la stessa di quella che si sviluppa nei mitocondri. Verrebbe quindi da pensare che l’energia prodotta dalla respirazione potesse essere utilizzata dalla fotosintesi al posto della luce solare, in modo da chiudere il ciclo non solo della materia ma anche dell’energia. Questa idea è avvalorata anche dal fatto che nelle piante verdi mitocondri e cloroplasti stanno nella stessa cellula. Un percorso del genere non violerebbe la legge della conservazione dell’energia e tuttavia non è realizzabile, perché non tutta l’energia di cui in teoria il sistema potrebbe disporre è utilizzabile, ovvero non tutta è disponibile per compiere un lavoro. La parte di energia non utilizzabile è quella che si disperde nell’ambiente dove va ad aumentare il disordine di quella parte di universo: questa, come si ricorderà, si chiama entropia.

Una mole di glucosio che reagisce con l’ossigeno in teoria dovrebbe produrre 686 kilocalorie. Questa energia viene chiamata energia libera ed esprime la potenzialità di un sistema di compiere lavoro utile, ma come abbiamo appena detto una parte di questa energia si disperde in entropia e quindi non è buona per ’organismo. Possiamo pertanto scrivere l’equazione relativa alla respirazione nella forma seguente:

C6H12O6 + 6 O2  ⟶  6 CO2 + 6 H2O + 686 kcal/mol

La stessa equazione, letta al contrario, ossia da destra verso sinistra, rappresenta la reazione di fotosintesi.

 

GLI ERRORI DEL PASSATO

Prima di descrivere il processo fotosintetico nei particolari, forse è opportuno analizzare i motivi per i quali le interpretazioni del fenomeno nel passato furono avviate su binari sbagliati.

Il primo errore fu compiuto quando la comunità scientifica venne a conoscenza della formula chimica del glucosio. Come si ricorderà abbiamo fatto notare che in essa vi sono sei atomi di carbonio ad ognuno dei quali si può immaginare legata una molecola di acqua. Se quindi riscriviamo l’equazione di ossidazione del glucosio sotto questa forma:

C6(H2O)6 + 6 O2  ⟶  6 CO2 + 6 H2O

viene spontaneo ipotizzare che la reazione abbia prodotto il distacco delle molecole di acqua dagli atomi di carbonio e quindi l’unione di questi ultimi alle molecole di ossigeno.

Altro errore fu quello di considerare la fotosintesi come l’inverso della respirazione e quindi dedurre che come nella respirazione l’ossigeno si trasforma in anidride carbonica così nella fotosintesi l’anidride carbonica si ritrasforma in ossigeno. Per molti anni si è quindi ritenuto che la fotosintesi consistesse nella scissione della molecola di anidride carbonica (CO2), la quale consentirebbe all’ossigeno di sfuggire come gas biatomico (O2) e lascerebbe il carbonio libero di combinarsi con l’acqua per formare glucosio. Successivamente il glucosio potrebbe essere utilizzato come materiale di partenza e fonte di energia per sintetizzare proteine, grassi ed altri materiali necessari alla pianta per vivere e svilupparsi.

Nei primi anni del secolo scorso ai biologi venne il dubbio che la fotosintesi fosse sì l’inverso della respirazione nel complesso ma non nei particolari. Si era osservato al riguardo che in alcune cellule nelle quali non avveniva la fotosintesi ma si realizzava comunque una serie di reazioni che coinvolgeva l’anidride carbonica non veniva prodotto ossigeno. Ciò dimostrava che utilizzo di anidride carbonica e liberazione di ossigeno da parte della cellula non erano necessariamente parti di uno stesso processo.

Per fugare i dubbi sarebbe stato necessario marcare in qualche modo gli atomi di ossigeno per vedere se quelli che si liberavano in seguito alla fotosintesi provenissero dall’acqua o dall’anidride carbonica, ma a quel tempo si pensava che tutti gli atomi di una stessa specie chimica fossero identici e quindi fosse impossibile distinguere uno dall’altro.

Per fortuna dei ricercatori all’inizio del secolo scorso furono scoperti gli isotopi, ossia atomi della stessa specie chimica e quindi provvisti dello stesso numero di protoni nel nucleo ma di un numero di neutroni diverso e di conseguenza anche di peso diverso. Si scoprì in breve che quasi tutti gli elementi erano costituiti da due o più isotopi e fra questi elementi vi erano anche l’ossigeno, l’idrogeno e il carbonio. La varietà più comune di ossigeno è quella che pesa 16, ossia quella che presenta nel nucleo otto protoni ed otto neutroni. Vi è però anche una piccola percentuale di ossigeno 18, ovvero caratterizzata da otto protoni e dieci neutroni nel nucleo ed una ancora più piccola frazione di ossigeno 17 (otto protoni e nove neutroni).

Fu quindi prodotta acqua con un’alta percentuale di ossigeno 18 (cosa non facile da ottenere, ma possibile) e quindi annaffiata la pianta con questa acqua arricchita dell’isotopo pesante dell’ossigeno, il quale si ritrovava nell’ossigeno che la pianta liberava con la fotosintesi.

Stabilito che l’ossigeno derivava dall’acqua, si doveva scoprire dove si trovasse l’idrogeno che si era staccato da quella molecola. Era ovvio pensare che l’idrogeno si dovesse unire all’anidride carbonica per formare glucosio ma l’idrogeno è un atomo che si sposta repentinamente da un composto ad un altro e quindi era impossibile seguirne il percorso lungo le fasi intermedie. Anche il carbonio, come l’ossigeno, ha isotopi stabili e in particolare il carbonio 13 avrebbe potuto essere usato come indicatore al pari dell’ossigeno 18, ma anch’esso ha il difetto della difficoltà della sua preparazione oltre a quello della lentezza e della complessità del riconoscimento all’interno dei cloroplasti.

Negli anni Trenta del secolo scorso si realizzò un avvenimento che sarebbe stato di notevole aiuto nella ricerca biologica e medica: la scoperta di isotopi radioattivi. La storia inizia nel 1896 quando il fisico francese Henri-Antoine Becquerel osservò che alcuni minerali di uranio emettevano delle radiazioni in grado di impressionare una lastra fotografica avvolta in carta nera. Successivamente i coniugi Curie e il fisico neozelandese Ernest Rutherford accertarono che gli atomi di uranio emettevano spontaneamente elettroni e nuclei di elio oltre a radiazioni simili a raggi X. Era la scoperta della radioattività un fenomeno che si realizza spontaneamente in natura ma che può essere indotto anche artificialmente. La radioattività artificiale venne scoperta nel 1934 dai fisici francesi Frédéric e Irene Joliot-Curie (figlia di Pierre e Marie Curie) premi Nobel per la fisica nel 1935.

I due coniugi, bombardando l’alluminio con particelle (nuclei di atomi di elio) prodotte dal polonio riuscirono ad ottenere un isotopo radioattivo del fosforo inesistente in natura. Negli anni successivi la crescente disponibilità di macchine acceleratici di particelle nucleari consentì la preparazione sempre più grande di radioelementi artificiali. Fra questi vi erano il carbonio 11, il carbonio 14 e il trizio, l’atomo di massa 3 dell’idrogeno.

Le proprietà chimiche degli elementi radioattivi sono fondamentalmente identiche a quelle degli isotopi stabili dello stesso elemento. Gli isotopi radioattivi sono quindi usati non per la loro particolare reattività, ma per le loro radiazioni. La radiazione emessa da un radioelemento è usata per seguirne il movimento o per localizzarlo. È come mettere un campanaccio al collo di una vacca al pascolo: esso non cambia in alcun modo l’animale, ma segnala i suoi spostamenti. Per questo motivo gli isotopi radioattivi di uno stesso elemento sono detti “traccianti”, perché è possibile seguire le tracce del composto che contiene l’elemento marcato grazie all’utilizzo di uno strumento semplice e di facile impiego, chiamato contatore Geiger.

I primi tentativi di usare gli elementi radioattivi per seguire le varie fasi del processo fotosintetico vennero intrapresi con il carbonio 11 la cui vita però è molto breve (emette radiazioni e si trasforma in pochi minuti in un composto stabile) e i risultati infatti non furono interessanti. Nel 1940 fu preparato il carbonio 14 con un’emivita di oltre 5.700 anni (una certa quantità di quell’isotopo impiega ben 5.700 anni per ridursi alla metà) quindi adatto per essere seguito nei diversi prodotti successivi del ciclo.

 

FASE LUMINOSA E FASE OSCURA

La fotosintesi clorofilliana consiste fondamentalmente nella trasformazione di una piccola molecola inorganica, l’anidride carbonica, in una grossa molecola organica, il glucosio. Come tutte le costruzioni, anche questa non è spontanea e richiede pertanto energia per realizzarsi; inoltre, poiché comporta una riduzione, necessita anche di un agente riducente.

Gran parte delle reazioni chimiche sono reazioni di ossidoriduzione, esse cioè avvengono con lo spostamento di elettroni da una specie chimica ad un’altra. Si ricorda a questo proposito che cedere elettroni significa ossidarsi, mentre acquisirli significa ridursi. Molti sono gli atomi capaci di agire come accettori di elettroni ma quelli di ossigeno hanno una particolare predilezione per questa funzione.

Negli anni seguenti all’ultima guerra mondiale, il biochimico statunitense Melvin Calvin (1911-1997) servendosi dell’isotopo radioattivo del carbonio, il 14C, riuscì ad individuare e descrivere le singole tappe del processo fotosintetico e per questo suo lavoro ricevette il premio Nobel per la chimica nel 1961.

Utilizzando tecniche innovative egli scoprì che nella fotosintesi si possono distinguere due fasi. La prima è detta fase luminosa, perché può avvenire solo alla luce e comporta un flusso di elettroni dall’acqua ad una molecola speciale costituita, oltre che da carbonio, ossigeno, idrogeno e azoto, anche da fosforo dal nome impossibile: nicotinamideadenindinucleotidefosfato, più facile da ricordare con il simbolo NADP. Durante questo passaggio di elettroni da una specie chimica ad un’altra viene anche sintetizzata una molecola ricca di energia e sempre contenente fosforo: l’adenosintrifosfato (ATP).

La seconda fase è detta fase oscura, perché il processo può essere portato a termine anche in assenza di luce. In essa avviene il trasferimento di elettroni sul carbonio della molecola di anidride carbonica, operazione questa che lo rende idoneo a legare a sé atomi di idrogeno per formare composti organici ricchi di energia.

La reazione ha inizio quando la luce colpisce la clorofilla spostando alcuni suoi elettroni in posizione più periferica e incrementando in questo modo il livello energetico della molecola che in quella condizione si dice “eccitata”. Di solito gli elettroni che si vengono a trovare in posizione instabile rimangono in quello stato per una frazione esigua di secondo e quindi ricadono sul livello energetico fondamentale, emettendo parte dell’energia luminosa che avevano assorbito in precedenza. Ma nel cloroplasto, come abbiamo visto, la clorofilla non si trova semplicemente in soluzione bensì sistemata all’interno dei grani assieme a lipidi, protidi ed altri pigmenti (le foglie verdi per la presenza di clorofilla in autunno mostrano anche colorazioni diverse che vanno dal rosso, all’arancio, al giallo) in raggruppamenti detti “fotosistemi”. Questo insieme di molecole ha la funzione di trasferire la luce assorbita sulla clorofilla a dove va ad incrementare l’energia di due elettroni dell’atomo di magnesio che non ricadono nella posizione di partenza, ma “volano” su di un’altra molecola e quindi, passando da una all’altra, finiscono per sistemarsi su quella del NADP, la quale assume anche ioni H+ diventando NADPH2.

Il NADPH2 è un coenzima che funziona come agente riducente: esso cioè è in grado di donare elettroni e atomi di idrogeno ad altre molecole. Il viaggio degli elettroni dalla clorofilla fino al NADP comprende alcune reazioni che liberano energia la quale non si disperde ma viene intrappolata nelle molecole di ATP. Frattanto la molecola di clorofilla, avendo perso elettroni, si è ossidata e di conseguenza è diventata essa stessa accettore di elettroni. La clorofilla riacquista gli elettroni che le sono stati sottratti a spese delle molecole d’acqua le quali contemporaneamente mettono in libertà l’ossigeno che può quindi essere considerato un prodotto collaterale della fotosintesi.

La fotolisi dell’acqua, ossia la sua divisione in ioni per mezzo della luce, può essere rappresentata nel modo seguente:

2 H2O  ⟶  2 H+ + 2 OH     ⤇       2 OH  ⟶  2 OH + 2 e

Con il simbolo OH si è indicato il radicale ossidrile, ovvero il gruppo atomico ottenuto dallo ione OH che perde un elettrone. I due ioni H+ vengono agganciati dal NADP insieme agli elettroni formando il NADPH2 mentre i due radicali OH, unendosi fra loro, producono acqua e ossigeno molecolare nel modo seguente:

4 OH  ⟶  2 H2O + O2

Nella reazione abbiamo preso in considerazione quattro ossidrili anziché due per non dover porre il coefficiente ½ davanti alla molecola di ossigeno al fine di bilanciare la reazione, evitando in questo modo di dare l’impressione che a liberarsi siano atomi e non molecole di ossigeno.

Nella fase oscura avviene la cosiddetta organicazione del carbonio, ovvero l’incorporazione dell’atomo di carbonio presente nella molecola inorganica di anidride carbonica in quella organica di glucosio. Nella molecola di anidride carbonica l’atomo di carbonio è legato a due atomi di ossigeno, mentre nel glucosio è legato ad atomi di idrogeno e a gruppi ossidrilici OH. Ciò significa che l’atomo di carbonio si trova in uno stato di ossidazione più alto nella molecola di anidride carbonica, dove gli elettroni sono tutti spostati sugli atomi di ossigeno e più basso in quella di glucosio, dove gli elettroni sono in parte sistemati su di esso. Per garantire questa trasformazione sarà pertanto necessaria una reazione di riduzione, ovvero l’acquisto di elettroni da parte dell’atomo di carbonio.

La prima tappa di quello che viene chiamato “ciclo di Calvin” consiste nell’aggiunta di COe acqua ad uno zucchero a cinque atomi di carbonio chiamato ribulosio-difosfato: tale reazione dà vita ad un composto intermedio a sei atomi di carbonio. Questo poi si scinde in due molecole a tre atomi di carbonio chiamate acido fosfoglicerico (PGA) le quali vengono successivamente ridotte ad aldeide fosfoglicerica poiché utilizzano il NADPH2 prodotto nella fase luminosa. Una parte delle molecole di aldeide sarà impiegata per dare glucosio ed eventualmente amido, mentre altre andranno a ricostituire il ribulosio-difosfato il quale si incaricherà di far ripartire il ciclo assumendo nuova anidride carbonica e acqua.

Come abbiamo accennato in precedenza, con la fotosintesi non si produce solo glucosio. L’aldeide fosfoglicerica può essere infatti trasformata dalle piante oltre che in zuccheri anche in proteine, grassi e molti altri composti: non è quindi del tutto corretta l’affermazione che durante la fotosintesi l’anidride carbonica viene trasformata in glucidi. In realtà il vero prodotto della fotosintesi è la pianta stessa.

Per concludere facciamo notare che le piante, per costruire i composti organici, devono introdurre nel loro organismo del carbonio ed è paradossale il fatto che lo prendano da dove esso è più scarso. Generalmente la natura fra le varie opzioni possibili sceglie quella più semplice e comoda: gli elettroni dell’atomo, ad esempio, si dispongono naturalmente intorno al nucleo sul livello energetico più basso, che è anche quello più stabile. Nel caso della nutrizione delle piante si è notato invece che esse scelgono la soluzione più difficile e anziché procurarsi il carbonio dal terreno dove è presente in abbondanza sotto forma di carbonati e bicarbonati, lo assumono dall’atmosfera dove è presente in quantità minime: la concentrazione di anidride carbonica nell’aria è appena lo 0,03% del totale, ossia in ogni litro di aria (mille centimetri cubi) vi è solo un terzo di centimetro cubo di anidride carbonica. Al contrario le piante non potrebbero crescere in un terreno privo di composti azotati e sono pertanto costrette a succhiare con fatica i sali di azoto sciolti nell’acqua mentre si trovano immerse in un mare di azoto atmosferico che invece non riescono a sfruttare.

Prof. Antonio Vecchia

One Response

  1. Salvatore

Reply