La fusione fredda

UN FULMINE A CIEL SERENO

Il 23 marzo 1989 due chimici, l’inglese Martin Fleischmann e l’americano Stanley Pons, convocarono una conferenza stampa presso l’Università di Utah (USA) per comunicare al mondo intero di aver fatto una scoperta che avrebbe cambiato il destino dell’umanità affrancandola definitivamente dalla ricerca di fonti energetiche alternative. I due scienziati in quell’occasione sostennero di essere riusciti a ricavare energia attraverso le stesse reazioni che avvengono all’interno del Sole ma senza dover ricorrere alle alte temperature e pressioni colà esistenti: essi, in altre parole, dichiararono di essere riusciti ad ottenere quella che ormai tutti conoscono come “Fusione Fredda”.

Di cosa si trattava esattamente? La fusione nucleare è una reazione di tipo fisico, cioè una trasformazione profonda della materia che coinvolge i nuclei degli atomi, allo stesso modo della fissione nucleare, con la differenza che mentre con la fissione (dal latino findere = spaccare) si rompono nuclei di atomi pesanti, con la fusione (dal latino fundere = unire) si aggregano nuclei di atomi leggeri. In entrambi i casi dal processo si ottiene energia in grande quantità grazie al cosiddetto difetto di massa: dopo la reazione, la massa dei nuovi nuclei non è uguale a quella dei nuclei di partenza, ma un po’ inferiore. Quello che manca si è convertito in energia, come stabilisce la famosissima equazione di Einstein: E=mc², dove E è l’energia, m la massa e c² la velocità della luce al quadrato. La presenza nella formula di un numero grandissimo e fisso, qual è la velocità della luce al quadrato, suggerisce che è sufficiente che una piccolissima quantità di materia scompaia perché si ottenga al suo posto una grandissima quantità di energia. Vi è però una differenza di ordine pratico fra i due processi nucleari di cui si è detto: mentre si riesce a controllare il processo di fissione nei cosiddetti reattori nucleari delle numerose centrali, fra le quali è diventata tragicamente famosa quella di Chernobyl, non si riesce a controllare la fusione, di cui si conosce il processo solo in forma esplosiva: la temibilissima bomba H.

Ma perché non si riesce a controllare anche il processo di fusione?

Il motivo è semplice: per ottenere la fusione bisogna fare in modo che due nuclei, ad esempio quelli dell’atomo di idrogeno, si avvicinino fino a venire quasi a contatto: solo allora infatti la forza nucleare che è di tipo attrattivo avrebbe la meglio su quella elettrostatica che è di tipo repulsivo, perché generata da due corpuscoli entrambi con carica elettrica positiva. Avvicinare i due nuclei dell’idrogeno in modo che vengano a contatto non è comunque per niente facile. Un sistema potrebbe essere quello di fornire loro energia sotto forma di calore: si sa che la temperatura di un corpo è la misura dell’energia cinetica dei suoi costituenti e quindi più esso è caldo maggiore è l’agitazione delle sue particelle. Pertanto, per provocare lo scontro, si potrebbero scaldare i nuclei dell’idrogeno: l’energia che uscirebbe dalla fusione di alcuni di essi servirebbe ad alzare ulteriormente la temperatura e il processo non avrebbe più fine fino a quando non si fosse esaurito tutto l’idrogeno di partenza. Le temperature da raggiungere sarebbero però così elevate che nessun materiale sopporterebbe simili condizioni: il primo grosso problema sarebbe quindi quello di trovare il recipiente adatto entro il quale produrre la reazione.

L’esperimento condotto dai due chimici dell’Università dello Utah non faceva uso del calore per avvicinare i nuclei degli atomi di idrogeno ma di una semplice reazione di elettrolisi. Tale esperimento consisteva nel porre in un contenitore acqua pesante (acqua ricca di deuterio invece che di normale idrogeno), una piccola quantità di sali e due sbarrette metalliche, una delle quali era di palladio (un metallo nobile che sembra avesse la funzione di costringere i nuclei dell’idrogeno all’interno del suo reticolo cristallino) collegate ad un generatore di corrente continua. Nei processi di fusione nucleare si usa preferibilmente il deuterio (atomo di idrogeno caratterizzato dalla presenza nel nucleo di un neutrone oltre al protone) al posto dell’idrogeno normale, il cui nucleo è costituito dal solo protone: infatti la presenza di una particella neutra mitigherebbe in qualche misura la repulsione elettrostatica dei due protoni carichi di elettricità dello stesso segno. Facendo passare la corrente elettrica nella vaschetta appariva subito evidente un forte aumento della temperatura, corrispondente al 400 per cento dell’energia elettrica impiegata per scatenare la reazione. Si potrebbe dire: “Paghi uno e prendi quattro”, meglio che nei supermercati più generosi!

La notizia ebbe l’effetto di un fulmine a ciel sereno e in un battibaleno fece il giro del mondo. Essa fra l’altro rappresentava la rivalsa della chimica “puzzolente” e inquinante sulla fisica pulita e produttiva, ma la maggior parte degli scienziati si dimostrò subito piuttosto scettica di fronte a questo avvenimento anche perché, da molti anni, la comunità scientifica era impegnata nella ricerca della fusione calda, ossia verso un obiettivo diametralmente opposto a quello indicato dai due chimici.

Lo scetticismo diffuso nell’ambiente dei fisici in parte era dovuto ad un certo pregiudizio nei riguardi dei chimici che avevano invaso un campo non di loro pertinenza e in parte al modo in cui la notizia era stata data. I due scienziati, peraltro stimati ricercatori con un curriculum rispettabile tanto da apparire credibili, spiegarono però la loro scoperta in termini non troppo rigorosi così che i dubbi sulla effettiva riuscita dell’esperimento erano molti.

 

L’ENERGIA

L’uomo ha un enorme bisogno di energia: si calcola che negli ultimi trent’anni a livello mondiale i consumi siano cresciuti di oltre il cinquanta per cento arrivando, con il passaggio al nuovo millennio, a sfiorare gli 80 miliardi di megawatt-ora (mWh) all’anno corrispondenti all’utilizzo di 10 miliardi di TEP (tonnellata equivalente di petrolio, una unità di misura che assimila tutte le fonti di energia al petrolio). Da dove è tratta l’energia attualmente indispensabile per il progresso della umanità? Prima di rispondere a questa domanda occorre chiedersi che cosa sia l’energia e sotto quali forme si possa presentare.

Il concetto ci è familiare, tuttavia definire in modo rigoroso la natura di questo bene prezioso è impresa ardua, che normalmente viene lasciata ai filosofi i quali hanno il compito specifico di discutere sull’essenza delle cose. Agli scienziati è chiesto invece di dare di questa, come di altre grandezze fisiche, una definizione operativa, cioè una definizione tale da consentirne la misura e la valutazione quantitativa degli effetti.

I fisici definiscono pertanto l’energia (dal greco energés che significa “attivo”) come la capacità di compiere lavoro, dove per lavoro si intende la forza moltiplicata per lo spostamento (misurato in direzione della forza). Per la fisica, l’energia è quindi legata allo spostamento di un corpo: una persona ferma con una valigia in mano, oppure intenta a risolvere un problema, da un punto di vista fisico non compie un lavoro. Nel linguaggio quotidiano i concetti di energia e di lavoro hanno invece significati più ampi e in effetti anche contrarre un muscolo o pensare comporta un consumo di energia assunta sotto forma di cibo.

Comunemente la nozione di energia sottintende forza, vigore, salute: si tratta quindi di qualcosa di essenziale per lo svolgimento di attività naturali o artificiali. Lo sviluppo e il mantenimento della vita sulla Terra ad esempio sono resi possibili grazie al costante apporto di energia proveniente dal Sole e, per quanto riguarda l’uomo, la sua storia può essere vista come una continua ricerca e un graduale sfruttamento delle diverse fonti energetiche, a cominciare da quelle umane e del mondo animale, per finire con quelle nucleari. Con la rivoluzione industriale vi è stato un progressivo aumento del consumo di energia che ha prodotto, oltre a notevoli benefici all’umanità, anche effetti negativi sull’ambiente determinando diverse forme di inquinamento e di alterazione degli ecosistemi.

Due sono le caratteristiche fondamentali dell’energia: la limitatezza e la multiformità. Poiché essa non è un prodotto dell’attività umana ma una risorsa della natura, ovviamente ha una disponibilità limitata. In verità si è soliti distinguere le fonti di energia in rinnovabili e non rinnovabili. Le fonti non rinnovabili (carbone, petrolio, gas naturale e uranio) sono quelle destinate ad esaurirsi in tempi più o meno brevi, mentre quelle rinnovabili sono virtualmente inesauribili perché sfruttano, direttamente o indirettamente, l’irradiazione del Sole sulla Terra. Anche l’energia eventualmente prodotta dalle reazioni di fusione nucleare sarebbe praticamente inesauribile perché nel mare vi è tanto deuterio da garantire energia per miliardi di anni. Ogni cosa comunque avrà termine: il Sole si spegnerà e anche la Terra, ma ancor prima di essa la specie umana, vedrà la sua fine.

Per quanto riguarda i diversi aspetti con cui l’energia può manifestarsi, questi assumono nomi che ne sottolineano le caratteristiche fisiche: si parla allora di energia meccanica, chimica, elettrica e così via, ciascuna delle quali può presentarsi sotto forma potenziale (dal latino potens, “che ha potenza”) o cinetica (dal greco kinetikos , “che si muove”).

L’energia cinetica (o di movimento) è energia in atto, la quale si manifesta con tutta la sua efficacia e disponibilità, mentre in forma potenziale (o di posizione) è energia occulta, inattiva, che non dà manifestazioni. Un masso in cima alla montagna rappresenta una forma di energia potenziale che, ad esempio con riferimento alla nostra incolumità, dobbiamo temere ma che per il momento non sta agendo direttamente sulla nostra persona. Se il masso si dovesse muovere e precipitare a valle, l’energia immagazzinata verrebbe liberata in un processo di azione sulla materia fornendo lavoro (seppure di natura distruttiva) e, sempre in riferimento alla nostra sicurezza, ora dovremmo schivare per evitare che ci producesse dei danni.

L’energia meccanica, ad esempio, è una forma di energia legata alle caratteristiche fisiche (come la posizione, il movimento o la massa) di un corpo o di un insieme di corpi. L’acqua che ristagna nel bacino idrico è energia meccanica potenziale che diventa cinetica o attuale nel momento in cui viene fatta scendere a valle, dove metterà in azione le pale delle turbine che a loro volta faranno ruotare un grosso elettromagnete (un dispositivo simile, quanto a funzionamento, alla dinamo delle biciclette); esso a sua volta metterà in moto gli elettroni all’interno del filo metallico che avvolge il meccanismo convertendo l’energia meccanica della caduta dell’acqua in energia elettrica del flusso di elettroni.

 

L’ENERGIA SI CONSERVA, MA DEGRADA

Tutti i tipi di energia possono passare da una forma all’altra o da un corpo ad un altro senza però che venga variato il loro ammontare complessivo: l’energia, in altre parole, non può essere né creata né distrutta. Questo è quanto afferma il Primo Principio della Termodinamica (detto anche “Principio di conservazione dell’energia”) una legge di origine sperimentale di cui i fisici non hanno mai avuto motivo di dubitare, tanto è vero che da oltre un secolo non vengono più prese in considerazione le richieste di brevetto di macchine dal moto perpetuo, ossia di quegli ingegnosi dispositivi che dovrebbero essere in grado, a detta dei loro inventori, di fornire lavoro senza consumare niente.

La corrente elettrica prodotta nelle centrali viene successivamente portata nelle case tramite sistemi di cavi aerei e, una volta raggiunti gli utenti, essa viene utilizzata e trasformata: ad esempio la lavatrice la trasforma in energia meccanica, la lampadina in luce ovvero in energia elettromagnetica e così via.

Utilizzando l’energia elettrica, come qualsiasi altra forma di energia, si nota che una parte di essa, per gli attriti o per altre cause connesse con il funzionamento del dispositivo entro il quale viene impiegata, si trasforma in calore che si disperde nell’ambiente. Il calore può essere considerato anch’esso una specie di energia meccanica perché espressione del movimento delle molecole le quali, se si muovono tutte insieme e in modo ordinato, rappresentano energia utile, ma se si muovono in modo disordinato e casuale, ognuna per proprio conto, rappresentano energia di scarto, non più utilizzabile per produrre lavoro.

Anche il calore quindi, in opportune condizioni, può dare origine a lavoro, ovvero tramutarsi in altre forme di energia. È esperienza comune infatti quella per cui riscaldando un corpo, questo si dilati producendo uno spostamento e quindi in definitiva un lavoro. Nelle macchine a vapore, ad esempio, il calore prodotto dalla combustione del carbone surriscalda l’acqua che si trasforma in vapore il quale sposta un pistone il cui movimento può essere trasmesso alle ruote di una locomotiva o agli ingranaggi di un macchinario. È possibile quindi fare in modo che anche l’energia termica si trasformi in altre forme di energia, ma ciò non avviene sempre.

L’energia, come abbiamo visto, non si consuma, perché è indistruttibile, ma si dissipa divenendo inutilizzabile ed è impossibile bloccare questa sua naturale tendenza alla degradazione: in ogni conversione da una forma in un’altra vi è sempre una diminuzione più o meno consistente di energia utile. Un esempio valga a chiarire il concetto. In un ventilatore l’energia elettrica che lo aziona si trasforma in energia meccanica del movimento delle pale, ma una parte di essa si perde sotto forma di calore lungo il filo elettrico che conduce all’impianto e nel motorino che si riscalda mentre è in funzione. Anche l’energia meccanica delle pale che mettono a loro volta in movimento l’aria in parte diventa calore, in seguito agli attriti che non è possibile eliminare: il ventilatore non raffredda quindi l’ambiente, come ingenuamente qualcuno pensa, semmai lo riscalda.

Pertanto, durante l’utilizzo, inevitabilmente un po’ di energia si disperde nell’ambiente sotto forma di calore e non può più essere recuperata per produrre lavoro. Questo è esattamente quanto afferma il Secondo Principio della Termodinamica, altra legge fondamentale di natura, che potrebbe anche essere espressa nel modo seguente: “Il calore non può passare spontaneamente da un corpo freddo ad uno caldo”. Se si mettono a contatto due corpi a temperatura diversa, si nota che quello freddo si riscalda e quello caldo si raffredda per finire entrambi alla stessa temperatura; non può succedere invece (anche se ciò avverrebbe nel rispetto del principio di conservazione dell’energia) che quello freddo ceda calore a quello caldo, divenendo ancora più freddo e quello caldo lo acquisti, divenendo ancora più caldo.

Non tutte le forme di energia sono quindi uguali. Infatti non è la stessa cosa avere a disposizione un litro di gasolio o il calore prodotto dalla sua combustione (ad esempio sotto forma di acqua calda): con un litro di gasolio si può azionare un motore e produrre lavoro, con l’acqua calda si può fare ben poco. Il calore è una forma di energia piuttosto scadente mentre, ad esempio, l’elettricità è una fonte di energia preziosa e sarebbe un grave spreco usarla per riscaldare l’acqua o, peggio ancora, l’aria degli appartamenti.

Poiché ogni motore, lampadina, rasoio elettrico, frigorifero durante il funzionamento si riscaldano, a lungo andare tutta l’energia si tramuterà in calore – cioè in energia meccanica disordinata – che diffondendosi nell’ambiente porterà ogni cosa alla stessa temperatura e quindi nulla potrà più muoversi. Proprio in virtù di questa tendenza inarrestabile dell’energia a disperdersi sotto forma di calore i fisici ritengono che il Cosmo non possa esistere da sempre: la sua “morte termica” sarebbe già avvenuta da un tempo infinito. E poiché, come abbiamo visto, il calore è energia meccanica disordinata, con il trasferimento continuo di calore all’ambiente, in questo vi è una crescita continua di disordine, per esprimere il quale i fisici utilizzano una funzione matematica chiamata entropia: possiamo quindi anche affermare che nell’Universo l’entropia è destinata ad aumentare in continuazione.

La stessa luce è una forma di energia detta “radiante” (dal latino radiare = emettere raggi) che si propaga indifferentemente attraverso un flusso di fotoni o per onde, come affermano le teorie innovative della meccanica quantistica. In una lampadina l’energia elettrica si converte in energia termica che innalza gli elettroni presenti negli atomi del filamento di tungsteno i quali però, subito dopo, ricadono sui livelli energetici inferiori più stabili emettendo quanti di energia, cioè luce.

La materia contiene anche energia chimica. Le molecole che costituiscono i composti chimici sono formate da atomi tenuti insieme da forze di legame che in prima approssimazione possono essere considerate di natura elettrostatica. Per scindere una molecola nei suoi costituenti dobbiamo compiere su di essa un lavoro e quindi impiegare dell’energia. Ma una molecola si può anche rompere da sola dopo che le sia stata applicata una piccola “spinta” iniziale, detta energia di attivazione (per esempio nel caso di un fiammifero questa energia si ottiene strofinando la capocchia su di una superficie ruvida): in tal modo si ottengono molecole con energia di legame minore. Dove è andato a finire il surplus energetico? Esso si è trasformato in un’altra forma, ad esempio in energia elettrica, luminosa o calorifica. Ciò è esattamente quanto succede quando si brucia del petrolio, quando si metabolizza il cibo che abbiamo ingerito o quando si accende un fiammifero. Il petrolio, il cibo e il fiammifero contengono quindi energia chimica potenziale.

Può avvenire anche il processo contrario e cioè che altre forme di energia si tramutino in energia chimica. La fotosintesi ad esempio consiste nella trasformazione dell’energia elettromagnetica (cioè luce) in energia chimica dei prodotti organici delle piante verdi.

Vi è infine l’energia nucleare che ha sede nei nuclei degli atomi dove in un preciso rapporto numerico stanno, tenuti insieme da forze nucleari molto intense, protoni e neutroni. Qualora si rompa l’equilibrio fra questi due tipi di particelle, per esempio inserendo un neutrone, il nucleo diventa instabile e si spezza per andare alla ricerca di configurazioni più stabili. Questo è quanto succede nel processo di fissione nucleare dove da un atomo pesante, ad esempio di uranio, si ottengono due atomi più leggeri e più stabili (ad esempio bario e kripto). Maggiore stabilità vuol dire minore contenuto energetico: la fissione nucleare mette quindi a disposizione dell’ambiente l’energia che si libera dalla scissione dei nuclei atomici.

Anche gli atomi leggeri sono piuttosto instabili e ricchi di energia (gli atomi più stabili sono quelli di peso medio cioè quelli in cui la somma dei protoni e dei neutroni presenti nel nucleo è compresa fra le cinquanta e le cento unità) e vanno in cerca della stabilità unendosi attraverso il processo di fusione che, come abbiamo visto, ha bisogno di molta energia di attivazione per mettersi in moto. Anche in questo caso l’energia eccedente viene espulsa.

 

LE FONTI DI ENERGIA

L’economia del mondo industrializzato è basata sull’impiego di notevoli quantità di energia per la maggior parte ottenuta dai combustibili fossili (carbone, gas naturale e petrolio) originati dalla lenta decomposizione, ad opera di particolari batteri, di organismi vegetali ed animali, i cui resti sono rimasti sepolti per milioni di anni negli strati profondi della Terra da dove oggi vengono estratti.

Carbone, gas naturale e petrolio attualmente coprono più dell’ottanta per cento dei consumi mondiali di energia (pochi anni fa erano quasi il novanta per cento). Il carbone in particolare rappresenta il combustibile fossile più diffuso nel mondo ma è anche quello che fa registrare il maggiore impatto ambientale, sia a causa delle operazioni di estrazione e trasporto particolarmente difficili e costose, sia per l’inquinamento atmosferico conseguente al suo impiego. Ad esempio una centrale termoelettrica da un milione di kilowatt consuma ogni giorno dieci mila tonnellate di carbone, i cui residui vengono scaricati in gran parte nell’atmosfera sotto forma di anidride carbonica ma anche come ceneri di varia natura, ossidi di zolfo e altri prodotti inquinanti; si formano anche alcune tonnellate di materiali solidi radioattivi che spesso vengono utilizzati per produrre cemento e calcestruzzo.

Il gas naturale è costituito in gran parte da metano e, in percentuale minore, da altri idrocarburi. Esso era conosciuto già dai tempi di Alessandro Volta che lo aveva chiamato “gas di palude” ma solo di recente si è affiancato a carbone e petrolio come importante fonte energetica. Un pregio del metano rispetto agli altri combustibili fossili è la ridotta produzione di scorie che in pratica si limitano all’anidride carbonica, e nemmeno in quantità eccessiva.

Il petrolio è una miscela di idrocarburi che contiene piccole quantità di composti di azoto e zolfo. Esso offre molti vantaggi rispetto al carbone soprattutto per quello che attiene all’estrazione e al trasporto ma la sua combustione rappresenta un grosso problema conseguente alla dispersione di anidride carbonica e altri gas serra nell’atmosfera. Trent’anni fa le previsioni erano che questa fonte di energia dovesse esaurirsi entro pochi lustri tanto che a quest’ora non dovrebbe essercene più; oggi si calcola che vi siano scorte per altri cinquant’anni e se le tecniche di estrazione dovessero migliorare e nuovi giacimenti dovessero essere individuati sotto il mare, dove attualmente le operazioni di estrazione sono molto costose e difficoltose, ve ne sarebbero ancora per almeno duecento o trecento anni.

E veniamo alle cosiddette fonti energetiche alternative. Il termine di energia alternativa fu coniato all’indomani dell’aumento del prezzo del greggio da parte dell’OPEC (Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) nel 1973: un rincaro che determinò profonde ripercussioni sull’economia dei Paesi industrializzati importatori, a cominciare dall’Italia. Successivamente il termine assunse altri significati e da quello di fonte energetica in sostituzione del petrolio, troppo caro, divenne fonte alternativa al nucleare, troppo pericoloso, o al petrolio e al carbone, troppo inquinanti.

Attualmente la comunità scientifica per indicare le risorse energetiche quali il Sole, il vento, le biomasse, l’acqua e la geotermia preferisce impiegare anziché “energie alternative” i termini di energie “rinnovabili”, “integrative” o “pulite”. Rinnovabili perché praticamente inesauribili, integrative perché in grado di fornire solo piccole quantità di energia rispetto alle richieste e alle quantità fornite dalle fonti principali e pulite perché non inquinanti, ovvero apparentemente meno inquinanti rispetto alle fonti energetiche maggiori.

Questi erano gli aspetti positivi di quelle che venivano considerate le fonti energetiche del futuro ma quando entrarono in funzione i primi prototipi per il loro sfruttamento, essi mostrarono difetti molto vistosi: ci si rese subito conto che l’adozione delle nuove forme energetiche era molto costosa e incerta; si notò ad esempio che la materia prima, in particolare Sole e vento, ancorché gratuita, era molto discontinua e alcune fonti erano anche molto meno pulite di quanto ci si immaginasse. Ad esempio le macchine aerogeneratrici (i moderni mulini a vento) per lo sfruttamento dell’energia eolica sono molto rumorose (producono il cosiddetto inquinamento acustico) tanto da dover essere sistemate lontano dai centri abitati, quindi preferibilmente in montagna e in mare aperto. La conclusione è che dall’insieme delle fonti energetiche minori oggi si ricava una quantità irrisoria di energia (poco più dell’uno per cento del fabbisogno di un Paese altamente industrializzato come il nostro) mentre forse quelle stesse fonti recherebbero maggiori vantaggi a Paesi in via di sviluppo.

La fonte energetica ideale sarebbe il Sole. Esso è una potentissima centrale a fusione nucleare che non costituisce un pericolo perché posta a distanza di sicurezza (150 milioni di kilometri da noi). La nostra stella invia nello spazio circa 400 mila miliardi di miliardi di kilowatt (un 4 seguito da ventitrè zeri) una quantità difficilmente comprensibile se riferita alla scala umana: in un solo secondo il Sole produce più energia di quanta ne abbia consumata l’umanità in tutta la sua storia. Però la nostra Terra è investita soltanto da una piccola frazione di tutta questa enorme quantità di energia, ma non trascurabile per quanto concerne consumi e fabbisogni degli abitanti del pianeta.

Solo la metà della radiazione solare che si riversa sul nostro pianeta attraversa l’atmosfera per giungere a terra, del rimanente cinquanta per cento una parte viene riflessa dalle nubi e torna direttamente nello spazio e una parte viene assorbita dall’atmosfera che si riscalda in modo disuguale nelle varie stagioni e nelle diverse parti del pianeta, creando quegli sbalzi termici che determinano gli spostamenti delle masse d’aria sia in senso verticale che orizzontale (i venti). La parte che giunge a terra riscalda i mari generando le correnti marine e mantiene in funzione il ciclo idrico globale (evaporazione, condensazione del vapore acqueo e precipitazione sotto forma di pioggia e neve). Una piccola parte della radiazione che giunge a terra (solo lo 0,1% circa) viene utilizzata dagli organismi in grado di attuare la fotosintesi e si accumula quindi, sotto forma di energia chimica, nelle biomasse le quali, in ere geologiche lontane, hanno formato i combustibili fossili che oggi vengono estratti dal sottosuolo. Tutta l’energia assorbita dal nostro pianeta prima o poi ritornerà comunque nello spazio altrimenti la Terra si riscalderebbe indefinitamente e in breve su di essa sarebbe impossibile ogni forma di vita. Anche la parte assorbita dalle piante ritorna nello spazio quando muore e si decompone l’ultimo organismo della catena alimentare.

L’energia solare può quindi essere sfruttata in diversi modi:

  •      direttamente attraverso i pannelli solari o le più sofisticate celle fotovoltaiche che trasformano la luce direttamente in elettricità;
  • sotto forma di biomassa che può venire trasformata in combustibili (alcol etilico, biogas ecc.) o anche usata direttamente come tale (legna da ardere). In Brasile ad esempio si fa largo uso di alcol come carburante in aggiunta alla benzina o in sostituzione di essa;
  • come energia eolica dovuta ai moti convettivi che si creano nell’atmosfera in conseguenza dell’assorbimento disuguale della radiazione solare. I venti possono essere sfruttati per la produzione di energia meccanica (come succedeva nell’antichità con i mulini e le barche a vela) o di energia elettrica;
  • come energia idrica in seguito all’accumulo in bacini montani sbarrati da dighe di grosse quantità d’acqua che vengono fatte scendere a valle dove l’energia cinetica può essere utilizzata sotto forma meccanica o convertita in energia elettrica.
  • Vi è infine l’energia geotermica: una fonte di calore nota già agli antichi Etruschi e ai Romani che la sfruttavano attraverso le acque termali, molto apprezzate a quei tempi e ancora oggi utilizzate per cure e igiene preventiva. Questa forma di energia entra tuttavia nella dimensione tecnologica solo un secolo fa e proprio in Italia, paese che fino agli anni Cinquanta del secolo scorso rimase l’unico al mondo a studiare e installare impianti per lo sfruttamento dell’energia geotermica, una fonte di energia per la verità non troppo ricca. A Larderello in Toscana dal sottosuolo si ricava energia elettrica che rappresenta l’1,5 per cento della produzione italiana di quel tipo. Oggi l’Italia non è più la sola su questa strada: ad essa si sono aggiunti gli Stati Uniti, il Giappone, la Nuova Zelanda, il Messico e naturalmente l’Islanda, che con questa fonte di energia riscalda perfino le strade del centro della capitale. Anche alcuni edifici di Parigi sono riforniti di acqua calda ottenuta utilizzando l’energia geotermica.

    L’energia idroelettrica, molto usata in passato, oggi non gode più di buona fama. Frane e crolli di dighe, unite alle critiche molto severe dei movimenti ecologisti che vedono nella formazione di laghi artificiali lo sconvolgimento degli ecosistemi naturali, hanno deteriorato l’immagine di un sistema abbastanza antico da potersi ritenere sufficientemente consolidato per dare garanzie di sicurezza. Tuttavia, anche se discussa, nessuno oggi pensa di abbandonare l’acqua quale fonte di energia elettrica, soprattutto qui da noi.

     

    LA STORIA CONTINUA

    Nei primi mesi del 2002 la stampa quotidiana ha riportato la notizia che un gruppo di ricerca russo-americano era riuscito ad ottenere, all’interno di una soluzione di acetone, la formazione di microscopiche bollicine entro le quali si sarebbero sviluppate temperature prossime ai 10 milioni di gradi, sufficienti per fondere i nuclei degli atomi di idrogeno. La notizia ha risvegliato ricordi lontani mai sopiti.

    Prima di approfondire l’argomento vediamo come si è sviluppata, dal giorno della sua comunicazione alla stampa, la vicenda della “Fusione Fredda” la quale, a differenza di altre scoperte controverse, non si è affatto attenuata nel tempo. Le implicazioni seguenti all’esperimento di Fleischmann e Pons non sono state solo di natura scientifica ma hanno messo in atto anche tutta una serie di risvolti sociali e politici. Le ricerche dei due chimici della piccola Università dello Utah miravano esplicitamente e per loro stessa ammissione, a risolvere in modo definitivo il problema della cosiddetta energia pulita, inesauribile e a basso costo.

    Sull’argomento il mondo scientifico si è diviso in due: da una parte si sono schierati, numerosi, coloro che si sentono più vicini alla cosiddetta scienza ufficiale e dall’altra gli eretici, coloro che ritengono che qualche cosa di buono debba esserci in quella semplice cella elettrolitica. Diverse centinaia di scienziati, alcuni anche italiani, difendono a spada tratta la fusione fredda: possibile che siano tutti in errore? Certo, gli scienziati non sono la Scienza: essi sono uomini come tutti gli altri con pregi e difetti, ambizioni e debolezze, ma soprattutto persone che vorrebbero passare alla storia per una scoperta importante. Anche a costo di ingannare e imbrogliare? Difficile pensarlo perché chi opera nel campo della ricerca scientifica sa che attualmente le truffe hanno vita breve. Alcuni ricercatori che continuano a credere nella fusione fredda si sentono vittime di ostracismo da parte della comunità scientifica spesso condizionata da forti interessi che gravitano intorno alla ricerche indirizzate sulla fusione calda. Il loro atteggiamento è simile a quello degli ufologi i quali denunciano complotti e boicottaggi da parte di scienziati al servizio di governi che di UFO non vogliono sentir parlare.

    È dagli inizi degli anni Cinquanta che molti ricercatori di vari Paesi del mondo, in particolare della ex Unione Sovietica e degli Stati Uniti d’America, stanno tentando di realizzare la cosiddetta fusione calda, cioè di riprodurre le condizioni che si verificano nel Sole. L’impresa è ardua perché non si tratta solo di riscaldare la materia fino a temperature di decine o centinaia di milioni di gradi ma anche di individuare un recipiente adatto a contenere una sostanza tanto calda da fondere qualsiasi cosa. Il problema del contenitore fa tornare alla mente l’aneddoto di quello scienziato che raccontava di avere inventato il solvente universale, un liquido in grado di sciogliere tutte le sostanze conosciute; congratulandosi con lui, un amico non poté fare a meno di chiedergli: “Bravo davvero: ma in quale recipiente lo hai messo?”

    Le soluzioni fino ad oggi elaborate sono due: la prima si chiama “confinamento magnetico”, la seconda “confinamento inerziale”. Nel primo caso si tratta di una grande macchina in grado di creare un potente campo magnetico all’interno del quale viene isolato il plasma ossia l’insieme delle particelle (nuclei atomici ed elettroni liberi) ad altissima temperatura. La macchina fu inventata nel 1951 da un fisico russo che l’ha chiamata “Tokamak” dalle iniziali delle parole russe Toroidalny Kamera Makina che vuole dire “macchina a camera toroidale” (il “toro” è una figura geometrica generata dalla rotazione di un cerchio attorno ad una retta esterna ad esso: è l’equivalente di quello che in forma commestibile si chiama ciambella).

    La seconda soluzione, sostenuta in modo particolare dal fisico goriziano Carlo Rubbia, consiste nell’isolare il materiale reagente per mezzo di raggi laser diretti concentricamente su di esso. Le due macchine attualmente sono sperimentate nei laboratori di fisica dei principali paesi industrializzati del mondo ma la trasformazione dei prototipi in centrale nucleare operante sembra ancora molto improbabile e Rubbia teme che anche questa, una volta costruita, possa venire abbandonata al pari di altre realizzazioni troppo costose come avvenne con il Concorde, l’aereo supersonico di costruzione anglo-francese.

    Un altro problema dei reattori nucleari a fusione calda è quello della reperibilità del combustibile nucleare che non è l’idrogeno normale come quello che utilizza il Sole, ma i suoi due isotopi pesanti: il deuterio (un protone e un neutrone nel nucleo) e il trizio (un protone e due neutroni nel nucleo).

    In realtà di deuterio (da un termine greco che significa “secondo”; l’idrogeno normale si chiama anche prozio, cioè “primo”) ve ne è quanto si vuole nel mare, ma il trizio (termine che in greco significa “terzo”), elemento radioattivo, non è presente in natura se non in quantità insignificanti: bisogna quindi produrlo artificialmente. L’elemento determinante per la produzione del trizio è il litio, un metallo non molto abbondante nelle rocce, quindi è un errore sostenere che l’energia di fusione venga dal mare: essa viene dal litio le cui risorse, seppure notevoli, sono di gran lunga inferiori a quelle del deuterio.

    Dopo anni che l’uomo era impegnato a creare le condizioni presenti all’interno del Sole senza riuscirvi, tempo fa, prima dell’annuncio della fusione fredda da parte dei due chimici dell’Università americana, è stato sperimentato, senza successo, un altro tipo di fusione fredda utilizzando una particella chiamata muone e scoperta da un fisico italiano, Oreste Piccioni, deceduto nella primavera del 2002 a Jella in California; le sue vicende umane meritano di essere ricordate prima ancora dei successi in ambito scientifico.

    Nel 1972 Oreste Piccioni denunciò Emilio Segrè, premio Nobel per la scoperta dell’antiprotone, asserendo che l’apparecchio per la rilevazione di quella particella era di sua invenzione e quindi era stata un’ingiustizia l’averlo estromesso dal gruppo di ricerca: chiese perciò il risarcimento dei danni morali e materiali subiti. La causa fu persa ma probabilmente il fisico italiano trapiantato in America aveva ragione. Egli, come abbiamo detto, in seguito ad alcuni esperimenti condotti a Roma al tempo dell’occupazione tedesca, assieme ad altri, scoprì il muone: una particella con carica negativa simile all’elettrone ma 200 volte più pesante di esso.

    Si tratta di un corpuscolo che può sostituirsi all’elettrone nel girare intorno al nucleo atomico; essendo però molto pesante, lo fa sistemandosi molto vicino ad esso e in alcuni casi è in grado addirittura di girare contemporaneamente intorno a due nuclei costringendoli ad avvicinarsi parecchio l’uno all’altro fino a provocarne lo scontro. Il muone sarebbe quindi una specie di catalizzatore solo che, a differenza di quelli chimici che accelerano molte reazioni senza mai consumarsi, esso vive per tempi brevissimi (dell’ordine del milionesimo di secondo) e durante la sua breve esistenza catalizza solo pochi scontri di nuclei atomici. Per avere applicazioni industriali il muone dovrebbe catalizzare almeno un migliaio di reazioni prima di svanire nel nulla.

    La prima osservazione sperimentale del fenomeno venne fatta nel 1957 dal premio Nobel Luis Alvarez della Università della California, lo stesso ricercatore che assieme al figlio datò lo straterello di argilla ricco di iridio raccolto in vicinanza di Gubbio, una scoperta che fu alla base dell’idea della estinzione dei dinosauri a causa della caduta sul nostro pianeta di un meteorite. Gli esperimenti di reazioni nucleari catalizzate da muoni si susseguirono nel tempo ma a tutt’oggi non si è giunti ad una conclusione che ne consenta l’attuazione pratica.

    E veniamo alla descrizione del fenomeno di cui si è fatto cenno all’inizio del capitolo. Alla base della nuova scoperta c’è un fenomeno noto ai fisici da quasi settant’anni, chiamato “sonoluminescenza” e consiste nella formazione di piccole bolle di gas da parte di un’onda acustica all’interno di un recipiente contenente acetone, il comune solvente per smalti la cui molecola, oltre a carbonio e ossigeno, contiene anche idrogeno. Se gli atomi di idrogeno vengono sostituiti da atomi di deuterio questi, all’interno della bollicina creata dagli ultrasuoni sapientemente alternati a un fascio di neutroni, possono fondersi generando calore e ulteriori neutroni.

    Era proprio la mancata presenza dei neutroni che creava i dubbi maggiori nei critici dell’esperimento di Fleischmann e Pons. Quando due nuclei di deuterio si uniscono formano – dice la teoria – un nucleo di elio di massa quattro (4He) il quale, essendo carico di energia e quindi estremamente instabile, si spacca dando luogo a due reazioni ugualmente probabili: o si genera un nucleo di trizio (un protone più due neutroni) e un protone, oppure un nucleo dell’isotopo più leggero dell’elio (due protoni più un neutrone) e un neutrone. Ora, mentre i neutroni privi di carica elettrica escono dal contenitore e possono essere osservati facendo uso di opportuni rilevatori, i protoni, elettricamente carchi, reagiscono con i nuclei degli atomi presenti nel recipiente generando altri neutroni; nel frattempo la soluzione diventa radioattiva per la presenza del trizio.

    In definitiva, in seguito alla fusione dei nuclei del deuterio dovrebbe formarsi un numero elevatissimo di neutroni che i due chimici dell’Università dello Utah non videro. La cosa può essere considerata una fortuna perché, se fossero usciti dalla cella elettrolitica tutti i neutroni previsti dalla teoria, essi avrebbero creato una radiazione di tale intensità da uccidere all’istante i due ricercatori. La fusione fredda di Fleischmann e Pons sembra quindi che produca energia ma non neutroni. Perché? Forse che l’elio dopo che si è formato non si scinde? Il fenomeno a tutt’oggi rimane un mistero.

    Nella fusione, che potremmo definire per metà fredda e per metà calda, la quale sta alla base della sonoluminescenza, le bollicine microscopiche (del diametro di un millimetro) che si formano nel liquido a temperatura ambiente subito dopo si rimpiccioliscono cioè implodono in un istante, raggiungendo il diametro di pochi millesimi di millimetro, emettendo energia luminosa, e creando al loro interno temperature elevatissime sufficienti a fare fondere i nuclei del deuterio. Il fenomeno indubbiamente è molto limitato e in questo caso, come in quello della fusione fredda di Fleischmann e Pons, servirebbero cospicui finanziamenti per continuare gli esperimenti prima di dare una risposta definitiva sulla praticabilità della scoperta. I finanziamenti invece non arrivano perché sono tutti dirottati verso i costosissimi macchinari e gli enormi laboratori indispensabili per lo studio della fusione calda.

    I sostenitori della fusione fredda ritengono che l’ostilità di gran parte degli ambienti scientifici nei riguardi delle loro ricerche sia determinata non tanto da motivi legati a problemi tecnici o teorici quanto piuttosto al timore che lo sviluppo della fusione fredda possa determinare il crollo dei finanziamenti a favore di quella calda.

    Prof. Antonio Vecchia

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