Lo zero assoluto

Per effettuare una misura è indispensabile partire da un punto di riferimento, da un valore zero. Spesso questo punto di partenza viene scelto secondo alcune convenzioni che poi saranno accettate e rispettate da tutti. Il valore zero della longitudine, ad esempio, è stato fissato ad arbitrio sul meridiano che passa per Greenwich, il noto sobborgo di Londra. Per quanto riguarda la temperatura lo zero della scala Celsius è stato posto anch’esso ad arbitrio nel punto di fusione del ghiaccio. Una volta fissato il punto zero, nel caso della longitudine si forniscono i valori ad est o ad ovest di questo punto; nel caso della scala termometrica i valori sono invece sopra o sotto lo zero.

 

I TERMOMETRI E LA LORO GRADUAZIONE

Gli apparecchi misuratori della temperatura, come è ben noto, sono i termometri (dal greco thermos = calore e metron = misura) i quali in un primo tempo venivano graduati da ogni scienziato a proprio piacimento, il che rendeva impossibile qualsiasi correlazione fra due strumenti. Il commerciante tedesco di nome Gabriel Daniel Fahrenheit (1686-1736), dopo aver viaggiato a lungo visitando molti paesi d’Europa, si stabilì infine ad Amsterdam dove si dedicò al suo hobby preferito, che consisteva nella costruzione di apparecchi di precisione, in particolare termometri.

Egli fu il primo ad utilizzare, nei misuratori del calore, il mercurio al posto dell’alcol e dell’acqua che hanno il difetto di evaporare facilmente il primo e di gelare troppo presto la seconda. Riempì pertanto di mercurio un’ampolla collegata ad un sottile tubicino di vetro chiuso all’estremità e nel quale era stato fatto il vuoto. Pose quindi l’ampolla piena di mercurio in una miscela di sale da cucina e neve in parti uguali e segnò una tacca sul sottile tubicino di vetro in corrispondenza dell’altezza raggiunta dal mercurio al suo interno. Lasciò quindi che l’ampolla si scaldasse fino a raggiungere la temperatura del corpo umano e segnò in quel punto una seconda tacca cui assegnò il valore cento. L’uomo che si prestò a fare da campione per la temperatura forse era lo stesso Fahrenheit il quale, in quel momento, doveva essere leggermente febbricitante, perché la temperatura media del corpo umano è normalmente di 98,6 gradi Fahrenheit e non di 100.

Suddivise poi in cento parti uguali la lunghezza del tubo compreso fra la tacca dello zero e quella del cento e ottenne quella che oggi si chiama scala termometrica di Fahrenheit. In questa scala il ghiaccio fondente corrisponde a 32 gradi Fahrenheit (32 °F) e quella di ebollizione dell’acqua a 212 gradi Fahrenheit (212 °F). La differenza fra i due valori è 180, un numero legato all’uso dei gradi: vi sono infatti 180 gradi in una semicirconferenza.

Fra la scala Fahrenheit e quella Celsius, a tutti ben nota, si colloca nel tempo quella del naturalista francese René-Antoine Ferchault de Réaumur (1683-1757) che scelse per la sua scala il valore zero per la temperatura del ghiaccio fondente e il valore 80 per quella dell’acqua bollente: i gradi Réaumur (gradi °R) corrispondono all’ottantesima parte di questo intervallo. Questa scala è usata molto raramente, mentre nei Paesi anglosassoni è in uso, per le faccende di interesse quotidiano, come bollettini meteorologici o termometri clinici, la scala Fahrenheit; in tutti gli altri Paesi del mondo e soprattutto in campo scientifico si usa la scala Celsius.

Nel 1742 l’astronomo svedese Anders Celsius (1701-1744) propose la scala in cui al punto di fusione dell’acqua si assegnava il valore 100 e a quello di ebollizione il valore 0. Era quindi una scala nella quale alle temperature più alte corrispondevano valori numerici più bassi e alle temperature più basse valori numerici più alti. Dopo la sua morte, un altro scienziato svedese ribaltò i due valori base e ottenne la scala che tutti conosciamo, ossia quella che registra numeri crescenti all’aumentare della temperatura: 0 per il ghiaccio fondente e 100 per l’acqua bollente.

Poiché l’intervallo fra le temperature base era di cento gradi, ottenuti dividendo l’intervallo in parti uguali, la scala venne detta centigrada e quindi simboleggiata con la lettera C, posta dopo un piccolo zero sistemato in alto alla lettera. Però, una sessantina d’anni fa, in occasione di una conferenza internazionale, si decise di chiamarla scala Celsius, come si era fatto per la scala Fahrenheit, e non più centigrada. Quindi, volendo seguire la nomenclatura ufficiale, si dovrebbe parlare di gradi Celsius, ma il simbolo rimane lo stesso: °C.

 

LA SCALA KELVIN

Verso la metà del 1800 il fisico scozzese William Thomson (1824-1907), poi divenuto Lord Kelvin, propose una scala delle temperature che evitasse i numeri negativi come “2 sotto zero” o “–2 gradi”. Egli osservò che quando misuriamo una temperatura in realtà registriamo l’energia media delle particelle che costituiscono l’oggetto sul quale si opera. La temperatura indica infatti la rapidità con cui le particelle vibrano o si spostano. In un gas o in un liquido, le molecole o gli atomi sono liberi di muoversi in tutte le direzioni e spesso rimbalzano gli uni contro gli altri e di conseguenza la temperatura dipende dalla velocità media delle particelle. In un solido gli atomi (o meglio gli ioni) sono bloccati in una struttura cristallina e tenuti insieme da legami elettronici; in questo caso, quando si riscalda un solido, le particelle che formano il reticolo cristallino acquistano energia e oscillano in misura sempre maggiore, attorno alla loro posizione media, a mano a mano che aumenta la temperatura.

Nel 1785 il fisico francese Jacques-Alexandre César Charles (1746-1823) scoprì la relazione che lega le variazioni di temperatura con le variazioni di volume dei gas. Egli osservò infatti che, a pressione costante, il volume di una certa massa di gas aumenta (o diminuisce) di 1/273 (cioè di una piccola frazione) del volume che essa ha a 0 °C, per ogni grado di aumento (o diminuzione) della temperatura. Perciò se per esempio si partisse da un volume di 273 cm³ a 0 °C , esso diventerebbe di 272 cm³ a –1 °C e di 271 cm³ a –2 °C; continuando ad abbassare la temperatura il gas dovrebbe sparire a –273 °C.

Naturalmente un tale evento non può verificarsi perché a mano a mano che il gas viene raffreddato esso passerà per le fasi di liquido e di solido ma certamente non sparirà nel nulla. Resta il fatto che la temperatura di 273 gradi sotto lo zero della scala Celsius (per la precisione –273,15 °C) rappresenta un limite, un valore che non può essere superato, come non può essere superata la velocità della luce, che rappresenta anch’essa un limite invalicabile.

Ma è possibile raffreddare un corpo fino a portarlo alla temperatura di 273,15 gradi sotto lo zero e, soprattutto, è possibile misurare questa temperatura? Innanzitutto bisogna chiarire che per prendere una misura qualsiasi è indispensabile avvicinare all’oggetto su cui si intende operare un apparecchio adatto: nel caso specifico un termometro. Però, un termometro che toccasse l’oggetto che si trovasse alla temperatura dello zero assoluto trasferirebbe ad esso un po’ del proprio calore a meno che non fosse esso stesso allo zero assoluto, ma in tal caso non misurerebbe niente.

 

LE BASSE TEMPERATURE

In alcune regioni dell’America settentrionale o della Siberia, la temperatura in inverno può scendere anche a 20 o 30 gradi sotto lo zero mentre la temperatura naturale più fredda mai misurata sulla Terra è stata osservata in Antartide, in prossimità della base russa di Vostok, dove il termometro è sceso a –88,5 °C ovvero 184,5 K (si noti che i gradi kelvin vengono indicati con la semplice lettera K, omettendo il piccolo “zero” presente nei simboli delle altre scale termometriche). Ma questo non è un limite insuperabile.

La temperatura diminuisce anche quando saliamo in montagna o voliamo in aereo. Nell’alta atmosfera dove viaggiano gli aerei di linea il termometro segna temperature di –50 o –60 °C. Se si abbandona l’atmosfera e si entra in orbita a bordo dei satelliti, dove si incontrano le temperature più fredde in cui ci si può imbattere in natura. Nello spazio profondo la temperatura è di solo 2,7 kelvin: essa rappresenta il calore residuo del Big Bang che pervade tutto lo spazio, quindi è impossibile che vi possa essere un punto in cui la temperatura si trovi allo zero assoluto.

Però temperature più fredde di quelle che si registrano in natura si possono ottenere in laboratorio. Ad esempio è stato raffreddato l’azoto fino ad essere trasformato in un liquido alla temperatura di 77 K (–196 °C). Un esperimento molto suggestivo è quello di immergere nell’azoto liquido un garofano e osservare che diventa così fragile che, lasciato cadere a terra, finisce per ridursi in mille frammenti come fosse di vetro. L’elio liquido è ancora più freddo (solo 4 kelvin) e una miscela di due isotopi di questo gas può essere raffreddata fino a pochi millesimi di kelvin. Utilizzando il laser i fisici del Massachusetts Institut of Technology sono riusciti a raffreddare atomi di cesio finché questi hanno raggiunto 0,5 miliardesimi di kelvin, ma non zero, perché lo zero assoluto è un concetto astratto.

Bisogna infatti notare che un corpo che si trovasse alla temperatura dello zero assoluto dovrebbe presentare le particelle che lo costituiscono perfettamente ferme. Ma ferme non possono essere: lo impone il principio di indeterminazione di Heisenberg il quale afferma che è impossibile misurare con esattezza simultaneamente tutti i parametri fisici di un qualsiasi corpo. Se alla temperatura dello zero assoluto gli atomi avessero energia zero la loro quantità di moto (prodotto della massa per la velocità) e la loro posizione potrebbero essere esattamente determinate, ma come abbiamo detto, ciò non può essere. Vediamo di spiegare il motivo di questa limitazione con un facile esempio.

 

I VALORI TEORICI

Immaginiamo di voler determinare la traiettoria che un elettrone segue intorno al nucleo atomico: per ottenere il risultato dovremmo intercettare il nostro elettrone in almeno tre posizioni successive. Ora però, per “vedere” questo elettrone, è necessario lanciargli contro almeno un fotone (cioè il quanto di luce) che può essere considerato una particella grande quanto l’elettrone. Il fotone, nel momento in cui intercetta l’elettrone, lo sposta e quindi quest’ultimo non seguirà più la sua traiettoria naturale. È come se per vedere una biglia che viaggia al buio sul panno verde di un bigliardo le venisse lanciata contro un’altra biglia che la illumina nel momento in cui la colpisce. Naturalmente la posizione della biglia verrebbe perfettamente individuata in quel momento, ma poi essa seguirebbe un’altra traiettoria rispetto a quella che stava percorrendo prima di incontrare la biglia illuminante.

Ecco il motivo per cui non riusciremo mai a misurare la temperatura di un corpo allo zero assoluto: a quel valore infatti, tutte le particelle sono ferme e quindi di ciascuna di esse dovrebbe essere possibile misurare con estrema precisione la posizione e la traiettoria (che non esiste perché le particelle sono ferme); in tal modo viene contraddetto il principio di indeterminazione di Heisenberg. Pertanto, la temperatura di 273,15 gradi Celsius sotto lo zero è una temperatura teorica che mai potrà essere rilevata con precisione. Allo stesso modo la velocità della luce non può essere raggiunta da un corpo materiale perché in quel momento la sua massa diventerebbe infinita e le sue dimensioni lineari nulle. Una situazione assurda.

Quelli illustrati sopra sono due dei tanti principi di impotenza che fissano i limiti del possibile. Tali principi stabiliscono che nessuno al mondo, nemmeno l’uomo, è in grado di fare alcune cose come ad esempio quelle che abbiamo descritto. Il primo che si accorse dell’esistenza di questi limiti invalicabili fu il matematico greco Euclide nel III secolo avanti Cristo, quando notò che è impossibile esprimere la radice quadrata di due con un numero decimale finito: essa vale 1,4142… e avanti all’infinito. Nonostante tutte le prove a favore ancora oggi esistono alcune persone che non vogliono rassegnarsi a queste limitazioni alla conoscenza umana e pensano che siano possibili alcune cose impossibili come ad esempio ottenere la quadratura del cerchio o la duplicazione del cubo.

Prof. Antonio Vecchia

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