L’uomo su marte

Da un punto di vista tecnologico la possibilità di mettere piede su Marte e fare ritorno sani e salvi sulla Terra è fattibile anche con i mezzi e le conoscenze attualmente in nostro possesso, tuttavia molti dubbi esistono sulla realizzazione concreta di un’impresa del genere.

Prima di approfondire l’argomento esponiamo quelle che sono state le fantasie, che le prime osservazioni telescopiche del Pianeta Rosso unitamente al successo di alcuni libri di fantascienza, hanno suscitato in passato sull’uomo della strada e non solo su di lui.

 

SCIENZA E FANTASCIENZA

Per tutto il XIX secolo rimase in auge la teoria di Kant e Laplace sull’origine del sistema solare secondo la quale esso si sarebbe generato in seguito al distacco successivo di anelli di polvere e gas da una enorme nebulosa in lenta rotazione. I pianeti si sarebbero quindi formati in ordine dal più lontano al più vicino per la condensazione degli anelli espulsi dalla nebulosa primordiale la quale a mano a mano che perdeva materia si contraeva: da ciò che rimase alla fine derivò il Sole.

Secondo questo modello i pianeti sarebbero quindi tanto più vecchi quanto più lontani dall’astro centrale: la Terra ad esempio sarebbe più vecchia di Venere (più vicina al Sole) ma più giovane di Marte (più lontano). In seguito a questa ipotesi unita al fatto che essendo più piccolo della Terra Marte si sarebbe raffreddato prima di essa, in passato si diffuse l’idea che il Pianeta Rosso fosse più avanti nell’evoluzione rispetto al nostro e ciò non solo per quanto atteneva alle sue caratteristiche fisiche ma anche rispetto alle forme di vita in esso presenti.

Questa convinzione si rafforzò quando le prime osservazioni al telescopio mostrarono che Marte, sotto molti aspetti, sembrava simile alla Terra. Dallo spostamento delle macchie visibili sulla sua superficie si era ad esempio potuto determinare il tempo che impiegava a girare intorno al proprio asse: esso era di circa 24 ore a 37 minuti, quindi il giorno di Marte risultava solo un poco più lungo del nostro. L’asse di rotazione inoltre era inclinato pressappoco quanto quello terrestre e pertanto sul Pianeta Rosso si alternavano le stagioni come avviene qui da noi. Ma Marte richiede 687 giorni per compiere un giro completo intorno al Sole il che significa che il suo anno dura un po’ meno di due dei nostri e di conseguenza le sue stagioni hanno lunghezza quasi doppia di quelle terrestri. Il convincimento che su Marte vi fosse vita si rafforzò quando fu possibile osservare la sua superficie più da vicino e con mezzi più sofisticati rispetto a quelli del passato.

La posizione delle orbite della Terra e di Marte fa sì che il Pianeta Rosso possa avvicinarsi a noi fino alla distanza minima di 56 milioni di kilometri e allontanarsi fino alla distanza massima di 380 milioni di kilometri. Quando i due pianeti si trovano entrambi dalla stessa parte del Sole e in allineamento diretto sono alla distanza minima fra loro; questa è la posizione in cui Marte è in opposizione e si presta molto bene per essere osservato specialmente se in quel momento è anche alto sull’orizzonte in modo che i vapori terrestri non ne disturbino la visione. Quando le opposizioni avvengono in particolari circostanze cioè con la Terra in afelio (punto dell’orbita più lontano dal Sole) e Marte al perielio (punto dell’orbita più vicino al Sole) l’avvicinamento è massimo. Questa condizione, detta “grande opposizione”, si verifica solo ogni 15-17 anni (l’ultima si è realizzata il 13 giugno 2001) ed era attesa in passato con grande impazienza dagli astronomi per studiare, con mezzi che si andavano via via sempre più perfezionando, i suoi enigmatici fenomeni.

Nel 1877 si verificò per l’appunto una di queste circostanze particolarmente favorevoli e fra gli astronomi pronti a sfruttare la situazione c’era il direttore dell’Osservatorio milanese di Brera, Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910), il quale fra l’altro poteva anche disporre del più grande telescopio in funzione nella Penisola. Egli poté così osservare delle strane striature quasi rettilinee che attraversavano migliaia di kilometri di deserti marziani congiungendo fra loro aree scure ed aree chiare del pianeta. Per designare questi segni lineari usò il termine “canali”, che era stato già introdotto una decina d’anni prima da un altro astronomo italiano, il gesuita Pietro Angelo Secchi (1818-1878), il quale aveva osservato lo stesso fenomeno ma di minori proporzioni.

Con la parola canale l’astronomo italiano non intendeva in alcun modo stabilirne la natura, sennonché il termine fu tradotto in inglese con “canal” che vuol dire corso d’acqua artificiale invece che con “channel” che è una formazione geografica di origine naturale. Appena le persone di lingua anglosassone cominciarono a chiamare i canali “canals” invece che “channels” intesero automaticamente pensarli come artificiali e quindi costruiti da esseri intelligenti. Date le dimensioni ridotte del pianeta la forza di gravità che agisce su di esso è solo un terzo di quella terrestre e ciò fece ritenere che su Marte vi dovesse essere poca acqua (oltre che poca aria) e quella poca quasi tutta concentrata nelle zone chiare cioè nelle calotte polari sotto forma di ghiaccio e in poche altre aree limitrofe di minore estensione. Quanto alle zone scure si riteneva che esse potessero essere regioni coltivate le quali d’estate si estendevano per l’arrivo di acqua dalle zone polari dove i ghiacci in parte fondevano.

La bassa pressione (conseguenza di un’atmosfera molto rarefatta) consentiva all’acqua ghiacciata di passare direttamente dallo stato solido a quello di vapore le cui leggere molecole, che il debole campo gravitazionale non riusciva a trattenere, finivano per disperdersi negli spazi cosmici. A causa della carenza d’acqua, la popolazione marziana, a noi superiore per cultura e conoscenze tecniche, lottava nobilmente per la sopravvivenza su di un pianeta che stava diventando inabitabile. I canali (larghi da 10 ad oltre 100 kilometri e lunghi migliaia di kilometri) costruiti dagli ingegneri marziani dovevano servire per portare l’acqua dalle ultime riserve di ghiaccio polare verso le zone temperate, al fine di garantire l’irrigazione delle coltivazioni e il rifornimento idrico dei centri abitati. In realtà i corsi d’acqua veri e propri erano troppo stretti per essere visibili ma sulle loro sponde si estendevano campi coltivati, dove i contadini lavoravano la terra che l’acqua rendeva fertile.

 

I MARZIANI INVADONO LA TERRA

L’immagine del pianeta agonizzante che gli esseri intelligenti che lo abitavano tentavano di salvare dall’inaridimento per mezzo di opere gigantesche restò popolare per molti decenni e non solo fra la gente comune. Ad  esempio, l’astronomo francese Camille Flammarion (1842-1925), convinto assertore di forme di vita extraterrestre, scrisse un libro intitolato Il pianeta Marte in cui sosteneva l’ipotesi di una civiltà impegnata nella costruzione di canali di irrigazione. Ma l’astronomo che con maggiore convinzione e autorità assecondò l’idea di una civiltà marziana fu un ex diplomatico americano convertitosi all’astronomia, Percival Lowel (1855-1916). Di ricca famiglia, fin da bambino questo eclettico personaggio era stato attratto dall’astronomia, una disciplina che in seguito studiò nell’Università di Harvard dove pure si laureò nel 1876. Fino al 1893 impiegò però il suo tempo a gestire gli affari di famiglia e a viaggiare ma nell’autunno di quello stesso anno decise di investire tutto ciò che possedeva nella costruzione di un osservatorio privato in Arizona. Il sito più adatto fu individuato su di un’alta collina isolata nel mezzo di una zona desertica e lontana dalle luci delle città: l’aria secca e pulita del luogo rendevano il seeng eccellente. (Seeng è il termine con cui gli astronomi indicano un’atmosfera tranquilla attraverso cui è minimo il tremolio delle immagini nel telescopio.)

L’osservatorio entrò in funzione nel 1894 e per quindici anni Lowel tenne il suo telescopio costantemente puntato su Marte sulla cui superficie individuò centinaia di canali di cui fece anche disegni dettagliati. Era talmente sicuro di ciò che stava osservando che non aveva il minimo dubbio dell’esistenza su Marte di una civiltà avanzata né lo turbava il fatto che altri astronomi non riuscivano a vedere ciò che egli invece percepiva con tanta precisione. A questi astronomi scettici faceva notare che egli disponeva di un ottimo telescopio sistemato in una zona buia e priva di turbolenze atmosferiche dove pertanto la visibilità era perfetta, e altrettanto perfetti erano i suoi occhi.

Lowel era inoltre un ottimo divulgatore (scrisse alcuni libri e numerosi articoli sull’argomento) e un convincente e affascinante conferenziere. Le sue tesi indussero molti scrittori a trattare la stessa materia, ma il romanzo che indubbiamente ebbe maggior successo fu quello scritto dal britannico Herbert George Wells considerato il precursore della moderna letteratura fantascientifica: nel testo, dato alle stampe con il titolo di “La guerra dei mondi”, l’autore immagina che i marziani sbarchino sulla Terra con l’intento di impadronirsi del pianeta e fare di esso la loro nuova patria.

Gli ultimi anni dell’Ottocento erano quelli in cui molte potenze europee, a cominciare proprio dalla Gran Bretagna, stavano colonizzando vasti territori africani. Le popolazioni di pelle scura che abitavano quel continente erano considerate dagli europei di razza inferiore, quindi incivili e senza diritti sulle terre che abitavano. Wells pensò che se i marziani erano più progrediti dei terrestri almeno quanto gli europei lo erano degli africani, avrebbero potuto trattare i terrestri come gli europei trattavano gli africani. Quello di Wells era naturalmente un romanzo di fantascienza in cui però per la prima volta gli extraterrestri non venivano descritti come esseri pacifici, ma arrivavano sulla Terra con intenzioni bellicose a cui i terrestri non potevano opporsi perché in possesso di una tecnologia molto primitiva rispetto a quella dagli invasori. I terrestri non erano in grado di contrastare la forza bellica dei marziani così come gli africani non erano in grado di opporsi agli eserciti degli europei.

Nel 1938 l’allora giovane regista ed attore americano Orson Welles (1915-1985) realizzò una versione radiofonica del romanzo dello scrittore inglese trasferendo però la storia dall’Inghilterra al New Jersey. La trasmissione si rivelò talmente realistica che molti Americani si convinsero che era in atto l’invasione del loro Paese da parte dei marziani ostili e milioni di abitanti della costa orientale degli Stati Uniti furono presi dal panico e indotti ad abbandonare le proprie case per riversarsi nelle strade e quindi fuggire sulle colline circostanti.

Anche se le idee di Lowell e degli scrittori di fantascienza ebbero molta influenza sul pubblico, gli astronomi di professione rimasero molto dubbiosi sulla realtà delle tesi che si andavano affermando. Essi in quegli anni avevano osservato molti oggetti celesti, alcuni dei quali anche di dimensioni minime, ma nessuno di loro vide mai i canali di Marte. Alcune misure di precisione sulla superficie del pianeta realizzate con tecniche d’avanguardia avevano fra l’altro registrato temperature rigide che solo occasionalmente e solo sulla fascia equatoriale esposta ai raggi del Sole salivano di poco sopra lo zero, mentre di notte le temperature probabilmente scendevano fino a -100 °C. Si era anche osservata una tenue atmosfera contenente una piccola percentuale di vapore acqueo che dava luogo alla formazione di rade e sporadiche nubi, mentre imponenti tempeste di sabbia dimostravano la presenza di venti impetuosi. Non era quindi possibile praticare l’agricoltura né vivere in zone desertiche, con aria molto rarefatta e con temperature tanto variabili fra il giorno e la notte. La tenue atmosfera priva fra l’altro dello strato protettivo di ozono avrebbe inoltre lasciato filtrare radiazioni ultraviolette provenienti dal Sole e letali per qualsiasi forma vivente.

Per gli astronomi di professione i canali non potevano quindi che essere illusioni ottiche verosimilmente amplificate da effetti psicologici: essi facevano infatti notare che se il pianeta potesse essere visto più da vicino le macchie e i canali sarebbero spariti per lasciar posto alle vere caratteristiche della sua superficie. Lo stesso fenomeno si riscontra per la Luna dove ad occhio nudo si vede un insieme di macchie chiare e scure le quali però scompaiono nella visione al telescopio, che mostra solo crateri, montagne e pianure.

Anche Alfred Russel Wallace, il biologo che con Darwin aveva scoperto l’evoluzione mediante selezione naturale, e che da giovane era stato ingegnere, riteneva impossibile l’esistenza su Marte di canali che trasportavano acqua per migliaia di kilometri sotto quel cielo terso e sgombro di nubi descritto da Lowell. Al riguardo affermò che a lui quelle imprese gigantesche sembravano essere più opera di pazzi che di persone intelligenti.

Nonostante le osservazioni si facessero più attente e scrupolose i misteri che avvolgevano il Pianeta Rosso non si diradarono, semmai si infoltirono. Per conoscere la verità sulla presenza o meno di forme viventi su quel pianeta ci si doveva avvicinare maggiormente ad esso.

 

LE SONDE AUTOMATICHE DI RICOGNIZIONE

L’uomo, a partire dai primi anni Sessanta del secolo scorso, ha compiuto svariati tentativi di esplorazione del Pianeta Rosso per mezzo di sonde meccaniche. Fino ad oggi le navette teleguidate che hanno tentato di raggiungere Marte sono state ben 37, tuttavia solo 15 di esse hanno portato a termine la loro missione.

Ad avviare i primi tentativi di sorvolare Marte, in piena guerra fredda, fu l’Unione Sovietica la quale, fra il 1960 e il 1962, in gran segreto, lanciò verso il Pianeta Rosso alcune sonde spaziali, ma senza successo. Pochi anni più tardi anche gli Americani cercarono di raggiungere Marte per mezzo di razzi meno potenti di quelli russi ma dotati di una tecnologia più sofisticata. Dopo le prime prove andate a vuoto il 28 novembre 1964 fu lanciata la sonda Mariner 4 che il 14 luglio dell’anno seguente, quando era a soli 10.000 kilometri dalla superficie del pianeta, scattò una ventina di foto che, con la tecnologia di allora, ebbero bisogno di 10 giorni per essere trasformate in codice binario e quindi inviate a Terra. Le foto coprivano solo l’1% della superficie marziana e davano di essa un’immagine molto simile a quella lunare: niente canali e soprattutto nessuna traccia di vita, tanto meno di vita intelligente; le foto ritraevano invece un mondo morto pieno di crateri. La sonda dopo essere passata dietro al pianeta quando ricomparve sul bordo rivolto alla Terra lanciò dei segnali radio che permisero di valutare la densità della sua atmosfera. Essa risultò più rarefatta di quella prevista dalle stime più prudenti: la pressione atmosferica al suolo era meno di 1/100 di quella terrestre. Questa misura aggiunta al valore del vapore acqueo che risultava millecinquecento volte meno abbondante di quello presente sul nostro pianeta rappresentò un ulteriore colpo alla possibilità di vita su Marte. Trarre conclusioni dalla osservazione di alcune foto che ritraevano una parte molto limitata del pianeta e di alcune misure poco significative si dimostrò tuttavia un’estrapolazione azzardata almeno quanto fu quella del mondo abitato e canalizzato di Lowell.

Dopo un ulteriore fallimento dei Russi, gli Americani, il 24 febbraio 1969, lanciarono verso Marte il Mariner 6 seguito un mese più tardi dal gemello Mariner 7. Erano due sonde simili a Mariner 4, ma avevano a bordo apparecchiature molto più sofisticate per misurare la composizione dell’atmosfera e la temperatura del suolo, e due telecamere per scattare foto che risultarono copiose e molto più dettagliate delle precedenti. La missione dimostrò che Marte non era affatto come la Luna ma presentava regioni molto diversificate. L’atmosfera era costituita per il 95% di anidride carbonica, così come erano coperte soprattutto di CO2 solido le calotte polari. L’anidride carbonica solida è detta ghiaccio secco in quanto, nelle condizioni terrestri e a temperature superiori a –70 °C, sublima, ossia passa direttamente dallo stato solido a quello di vapore senza produrre liquido. La presenza di anidride carbonica su Marte non sorprese più di tanto gli addetti ai lavori, i quali fin dalla metà del Novecento avevano avanzato questa ipotesi sulla base di osservazioni spettroscopiche e del comportamento stagionale delle calotte polari. La scoperta indusse gli scienziati ad ipotizzare la presenza di vegetazione e gli scrittori di fantascienza a rappresentare gli abitanti di quel pianeta come “omini verdi” nella convinzione che anch’essi, al pari delle piante, dovessero ricavare energia attraverso la fotosintesi clorofilliana.

Il 30 maggio 1971 venne lanciato il Mariner 9, una sonda che fu la prima ad entrare in orbita intorno a Marte. Le prime fotografie inviate a Terra mostravano un paesaggio completamente coperto dalla polvere sollevata da una bufera di dimensioni planetarie. Quando dopo un mese la bufera si calmò cominciarono a giungere fotografie che lasciavano intravedere la superficie del pianeta, la quale appariva ben diversa da quella fotografata in precedenza. Non vi era traccia di canali i quali ormai era chiaro che si erano formati letteralmente nell’occhio dell’osservatore e le zone scure non erano né acqua, né vegetazione. Un emisfero di quel pianeta era effettivamente disseminato di crateri simili a quelli presenti sulla Luna ma l’altro era invece caratterizzato da vulcani e canyon giganteschi e sembrava geologicamente attivo. Fra le tante immagini analizzate dagli esperti vi furono alcune che suscitarono particolare interesse: si potevano osservare certi canali che sembravano letti di fiumi asciutti ma che avrebbero potuto in passato essere pieni d’acqua. Ciò fece ipotizzare che in tempi lontani il pianeta potesse avere avuto un clima più mite di quello attuale, con acqua allo stato liquido e quindi forse anche con alcune forme viventi.

Contemporaneamente ai successi americani i Russi dovettero registrare una serie ininterrotta di fallimenti con le sonde Mars due delle quali munite anche di lander ossia di moduli per la discesa sul suolo marziano, un’operazione che però si concluse con esito negativo: in un caso il lander si disintegrò nell’impatto con la tenue atmosfera del pianeta e in un altro giunse a terra ma trasmise solo per pochi secondi prima di essere spazzato via da una tempesta di sabbia. Sorprende il fatto che nello stesso periodo in cui gli sforzi dei tecnici sovietici di avvicinarsi a Marte fallivano tutti, ben cinque loro sonde raggiungevano il suolo di Venere trasmettendo, da un luogo con temperature infernali e avvolto da un’atmosfera densa e corrosiva, una messe enorme di dati.

Nonostante fossero piuttosto negativi gli elementi raccolti dagli ultimi veicoli spaziali, i quali avevano escluso dapprima la presenza di vita intelligente e successivamente anche di quella vegetale, si riaccesero tuttavia l’interesse e la curiosità degli studiosi. Per acquisire informazioni più precise e dettagliate del Pianeta Rosso era indispensabile passare dalla fase di ricognizione a quella di esplorazione.

 

L’ESPLORAZIONE DEL PIANETA

A partire dal 1971 sono state lanciate 15 sonde con l’obiettivo di atterrare sul Pianeta Rosso ma solo 5 di esse sono state in grado di “ammartare” ossia di toccare il suolo di Marte e di trasmettere a Terra immagini e dati tecnici.

I primi grandi successi legati all’esplorazione di Marte si ebbero nel 1975 con le missioni Viking 1 e Viking 2 entrambe composte da un modulo orbitale detto orbiter e da un modulo di atterraggio, il già nominato lander. Il 20 agosto 1975 decollava dalla Florida la prima delle due sonde mentre la gemella imboccava la rotta per Marte venti giorni più tardi.

Sugli orbiter erano montati un sistema per le osservazioni televisive, un rivelatore di vapore acqueo e un radiometro per misurare la temperatura superficiale del pianeta. La vera novità comunque era rappresentata dai lander muniti entrambi di due telecamere, di un sismometro per registrare eventuali movimenti del suolo, di un laboratorio biologico, di una stazione meteorologica, di un analizzatore di gas e di un apparecchio per lo studio di minerali a raggi X. Vi era inoltre un braccio meccanico allungabile per consentire la raccolta di campioni di suolo.

Dopo un viaggio interplanetario di quasi un anno coprendo oltre settecento milioni di kilometri i due Viking sono stati inseriti nelle loro orbite intorno a Marte. In realtà Marte, quando si trova nella posizione più favorevole, non è così lontano dalla Terra ma non lo si può raggiungere puntando direttamente su di esso. E’ necessario percorrere un tratto più lungo perché il pianeta si muove mentre il razzo si dirige in quella direzione. È un po’ come voler raggiungere a nuoto un punto sistemato sulla sponda opposta del fiume: bisogna partire molto più a monte perché mentre si nuota verso la riva opposta la corrente trasporta il corpo verso valle.

Il 20 luglio 1976 (esattamente sette anni dopo lo sbarco dei primi uomini sulla Luna avvenuto il 20 luglio 1969) il primo lander approdò dolcemente sul suolo marziano in una zona chiamata Chryse Planitia, sistemata a 22,5° di latitudine Nord. Il 7 agosto 1976 anche Viking 2 si inseriva in orbita intorno a Marte e il 3 settembre il modulo di discesa ammartò a 6.500 kilometri di distanza dal gemello nella pianura di Utopia Planitia, una zona di latitudine più elevata e che quindi avrebbe dovuto essere più fredda e forse anche più umida della prima.

Tutte le sonde operarono molto a lungo esplorando come meglio non avrebbero potuto l’ambiente marziano. L’orbiter di Viking 2 fu il primo ad interrompere le operazioni il 25 luglio 1978 quando si esaurì il gas sotto pressione necessario per le manovre di assetto del veicolo e il 12 aprile 1980 anche il lander di Viking 2 cessò la sua attività. Infine il 7 agosto 1982 e il 13 novembre dello stesso anno terminarono di trasmettere dati rispettivamente l’orbiter e il lander di Viking 1, il quale rimase quindi attivo per oltre sei anni.

Complessivamente i due lander inviarono a Terra 4.500 foto mentre gli orbiter raccolsero più di 50.000 immagini che ritraevano il 97% della superficie marziana. A ciò si deve aggiungere un ricco lavoro di analisi dell’atmosfera, della composizione del suolo e soprattutto di ricerca degli organismi viventi, che era il primo obiettivo della missione.

Entrambi i lander erano dotati di un sofisticatissimo apparato in grado di compiere un esperimento per identificare eventuali molecole organiche e tre per la ricerca di tracce di microrganismi. Ognuno dei tre esperimenti di microbiologia poneva un tipo diverso di domanda ma tutte quante riguardanti il metabolismo di esseri viventi. Si era partiti dal presupposto che se vi fossero stati microrganismi essi avrebbero dovuto assorbire il nutrimento che veniva loro offerto ed espellere gas di scarto, oppure assorbire gas, dall’atmosfera con cui venivano messi a contatto, e convertirli in composti organici come fanno le piante su questa Terra. Naturalmente si sapeva che gli stessi prodotti potevano essere generati anche da reazioni chimiche “non viventi” ma si pensava di riuscire a separare le due possibilità riscaldando parte del materiale di studio a temperature molto alte, al fine di renderlo sterile.

Al primo dei tre esperimenti fu dato il nome di “rilascio controllato” (LR, acronimo per Labeled Release) e consisteva nell’aggiungere ad un campione di suolo marziano alcuni composti organici in cui gli atomi di carbonio erano sostituiti con carbonio radioattivo (il famoso C-14) per permetterne la rilevazione. Come è noto, quando gli organismi elaborano elementi nutritivi per ottenere energia, liberano gas di scarto; se quindi eventuali microrganismi presenti nel terreno avessero “mangiato” e digerito i materiali organici messi a loro disposizione avrebbero dovuto produrre anidride carbonica e altri gas di rifiuto. La presenza di CO2 fu in effetti rilevata da un contatore Geiger grazie al carbonio radioattivo usato come “tracciante”. Quando però si aggiunse al campione in esame altro nutriente non si notò alcun incremento di anidride carbonica o di altri gas contenenti il carbonio radioattivo mentre, per il proliferare dei microrganismi, si sarebbe dovuto registrare un aumento di prodotti di rifiuto.

Un secondo esperimento, denominato a “rilascio pirolitico” (PR, da Pyrolytic Release), consisteva nell’aggiungere ad un campione di suolo marziano, prelevato mediante la solita paletta meccanica, dell’anidride carbonica radioattiva di provenienza terrestre. Si riteneva che se gli organismi marziani avessero sviluppato la capacità di assimilare questo gas di cui è ricca l’atmosfera di quel pianeta e di convertirlo in prodotti organici, come avviene negli organismi autotrofi terrestri, la successiva analisi del suolo avrebbe rilevato la presenza di questi composti. Dopo alcune ore di incubazione il materiale sottoposto al trattamento veniva riscaldato al fine di “pirolizzare” ossia trasformare il materiale organico complesso in un prodotto volatile di struttura più semplice nel quale il solito misuratore di radiazione avrebbe riconosciuto la presenza del C-14. Se l’esperimento si fosse concluso positivamente si sarebbe avuta la prova che i microrganismi marziani erano in grado di compiere una specie di fotosintesi senza l’acqua o con molto poca acqua. L’esperimento venne ripetuto parecchie volte in condizioni di temperatura e di illuminazione diverse sempre con risultati positivi ma le reazioni osservate anche in questo caso potevano essere attribuite a proprietà del suolo invece che a forme viventi. In realtà, il riscaldamento del materiale di studio a temperature superiori a 150 °C, interrompeva la serie di reazioni: un’osservazione quest’ultima che poteva anche deporre a favore della presenza di forme viventi.

Infine, nel terzo esperimento di biologia denominato a “scambio di gas” (GEX, acronimo per Gas Exchange Experiment), un ricco brodo di cultura comprendente aminoacidi, vitamine, sali minerali ed altre sostanze nutritive, venne mescolato ad una piccola porzione di suolo marziano. Se vi fossero stati organismi viventi sarebbe successo quello che succede su questa Terra quando si lascia all’aria un piatto di brodo di carne: dopo alcuni giorni puzza per il formarsi di gas di varia natura prodotti dai microrganismi che hanno utilizzato i composti del brodo per alimentarsi. Sui lander successe qualche cosa di simile: dopo alcuni giorni di attesa all’interno della camera entro la quale era stato riposto il materiale di studio si notò la presenza di gas fra i quali vi erano l’ossigeno, l’anidride carbonica e l’azoto. Quando il tutto venne sterilizzato al fine di eliminare qualsiasi forma vivente si notò una riduzione della produzione dei gas ma non la completa interruzione del processo: si trattava di un risultato ancora una volta piuttosto ambiguo.

In conclusione, i tre esperimenti di microbiologia produssero nel complesso esiti contraddittori che potevano essere interpretati in favore dello svolgersi di processi biologici ma anche come reazioni chimiche non biologiche. Se nel suolo marziano fossero presenti dei perossidi, ossia dei composti come l’acqua ossigenata che contengono l’atomo di ossigeno legato molto labilmente al resto della molecola, questi avrebbero potuto condurre a reazioni simili a quelle che si verificano negli organismi viventi. Si sa che i perossidi a contatto con l’acqua reagiscono violentemente ma nel suolo marziano non c’è acqua: nel brodo portato da casa però sì. Nel brodo vi era inoltre l’acido formico, una sostanza che a contatto con un perossido forma anidride carbonica: un gas il quale avrebbe dovuto indicare lo svolgersi di processi vitali ma che ora poteva ascriversi anche ad una reazione non biologica. Anche nell’esperimento in cui non c’era l’acqua a confondere le idee era stata però alzata notevolmente la temperatura: un’operazione che avrebbe dovuto interrompere l’attività di organismi viventi, i quali sono molto sensibili alle variazioni termiche mentre in genere i processi chimici non biologici non risentono in modo determinante di cambiamenti di temperatura. L’esperimento che comunque cancellò ogni dubbio fu quello chimico relativo alla ricerca di composti organici. L’analisi del suolo marziano sia da parte di Viking 1 sia da parte del gemello non mostrò la presenza di composti organici: un esito che chiaramente deponeva a sfavore dell’esistenza di organismi viventi, o quanto meno di organismi del tipo di quelli presenti su questa Terra.

 

I MARZIANI, ECCOLI DI NUOVO!

Mentre i moduli di atterraggio delle due sonde Viking si affannavano a cercare i marziani a casa loro forse questi erano già sbarcati da tempo sulla Terra, e questa volta sul serio. Il 6 agosto del 1996 apparve su tutti i giornali del mondo la notizia del rinvenimento di tracce fossili in un meteorite di origine marziana raccolto una dozzina d’anni prima nei ghiacci dell’Antartide da una spedizione americana organizzata appositamente per la ricerca di “messaggi cosmici”. Al meteorite era stato assegnato il nome di ALH84001, una sigla che richiama il luogo in cui fu ritrovato (Allan Hills) e l’anno del rinvenimento (1984).

Per nove anni questo frammento di roccia, non più grande di una patata, venne conservato in ambiente perfettamente sterile nei laboratori di ricerca della NASA (l’ente spaziale americano) e quindi analizzato nel suo contenuto da un gruppo di planetologi (studiosi dei pianeti del sistema solare) e di chimici americani. Lo studio, durato due anni, si concluse con il convincimento di aver trovato le prove dell’esistenza di vita nel passato di Marte.

L’ALH84001 non è l’unico meteorite di provenienza marziana. Negli anni successivi alle imprese dei Viking cominciò a prendere corpo l’idea che un gruppo di 12 meteoriti, simili fra loro, noti con la sigla SNC, provenisse dal Pianeta Rosso dove, in seguito ad un violento impatto meteorico, alcuni frammenti della crosta sarebbero stati proiettati nello spazio con forza sufficiente a svincolarli dall’attrazione del pianeta. Per milioni di anni questi “sassi” avrebbero vagato all’interno del sistema solare fino a che alcuni di essi non avessero incrociato l’orbita della Terra subendone l’attrazione gravitazionale e precipitando su di essa.

I dodici meteoriti marziani vengono indicati con la sigla SNC dalle iniziali dei nome dei tre più famosi di essi (Shergotty, Nakhla e Chassigny) rinvenuti rispettivamente in India, in Egitto e in Francia molti anni or sono. La prova che si trattava di frammenti di roccia che provenivano da Marte si ebbe però solamente nel 1980 quando i ricercatori riuscirono a confrontare i gas estratti da alcuni di essi con quelli dell’atmosfera marziana analizzata dai lander delle sonde Viking.

L’importanza che il mondo scientifico ha attribuito ad ALH84001 è dovuta alla scoperta in esso di alcune molecole organiche, di alcuni cristalli di magnetite e di solfato di ferro di probabile origine biologica e di un’impronta che sembra essere quella di un piccolo batterio fossile. Naturalmente su queste conclusioni si è subito innescata la polemica. Fra le obiezioni più importanti vi erano quelle di un gruppo di scienziati dell’Università del Tennessee i quali hanno fatto notare che i cristalli di magnetite e di solfato di ferro potrebbero non essere di origine biologica perché gli stessi minerali su questa Terra si formano anche in prossimità di sorgenti vulcaniche sottomarine senza l’intervento di alcuna forma vivente. Per quanto concerne i composti organici gli avversari dell’origine marziana degli stessi propendono per una contaminazione del contenuto originario del meteorite con materiale terrestre durante il lungo periodo in cui questo reperto è rimasto sepolto nel ghiaccio antartico. Infine, in relazione all’impronta fossile, anche a causa delle sue ridotte dimensioni (cento volte più piccola del più piccolo batterio presente su questa Terra), essi avanzarono molti dubbi che si potesse trattare di una forma organica. La conferma positiva potrebbe venire solo dalla scoperta in piccole sezioni di essa di tracce di DNA o di altre strutture attribuibili in modo inequivocabile alla vita.

 

I TENTATIVI PIÙ RECENTI

Dopo i successi dei Viking seguirono vent’anni di fallimenti interrotti il 4 luglio del 1997 dall’atterraggio morbido, in una zona del Pianeta Rosso denominata Ares Vallis, della Mars Pathfinder. Si trattava di una navicella che portava al suo interno il rover Sojourner, un piccolo robot che analizzò rocce e catturò numerose immagini in un luogo in cui i tecnici ritenevano che in tempi lontani potesse essere scorsa dell’acqua la quale in seguito sarebbe penetrata nel sottosuolo ed ora formerebbe quel terreno perennemente gelato che su questa Terra prende il nome di permafrost.

Mars Pathfinder è stata la prima navetta a sperimentare un nuovo sistema di atterraggio che definire morbido non è del tutto corretto. Il metodo infatti invece che far uso di retrorazzi per frenare il mezzo e quindi garantire un arrivo dolce sul terreno (come avvenne nel 1976 con i due Viking) prevedeva che venissero gonfiati, poco prima dell’urto finale, ventiquattro palloni simili agli air-bags delle auto, del diametro di un metro ciascuno, i quali avevano la funzione di avvolgere completamente la navicella. Questo grappolo di palloni raggiunse la superficie di Marte alla velocità di 65 kilometri all’ora rimbalzando per una dozzina di volte prima di arrestarsi. Quando la struttura con il suo prezioso carico si fermò si sgonfiarono gli air-bags e si aprirono, come petali di rosa, i tre pannelli solari che cominciarono ad accumulare l’energia necessaria per il funzionamento dei macchinari interni. La certezza che tutto si era svolto a dovere si ebbe solo 10 minuti dopo il termine delle operazioni: le onde radio ebbero infatti bisogno di tutto questo tempo per coprire i quasi 200 milioni di kilometri che separavano in quel momento Marte dalla Terra. Quello del tempo necessario per le comunicazioni è uno dei tanti problemi che incontreranno gli astronauti quando metteranno piede sul Pianeta Rosso: in caso di imprevisti che richiedano decisioni immediate, saranno completamente soli.

Concluse le operazioni preliminari, da uno dei petali aperti iniziò la discesa verso le sabbie marziane del piccolo rover Sojourner, un veicolo sperimentale non più grande di una vecchia stampante a getto di inchiostro (oggi le dimensioni delle stampanti si sono di molto ridotte mentre, come vedremo meglio, sono aumentate quelle dei rover) che doveva servire per mettere alla prova le tecnologie da utilizzare nelle future missioni. Per questa ragione buona parte degli obiettivi della spedizione erano mirati alla verifica dei meccanismi di movimento di questo piccolo laboratorio su ruote mentre per quanto riguardava le indagini prettamente scientifiche esse derivarono dal funzionamento di uno spettrometro in grado di determinare la composizione delle rocce e da una telecamera, che riprese immagini ad alto ingrandimento del suolo sul quale il mezzo si muoveva. La missione del Sojourner sarebbe dovuta durare sette giorni ma dopo settanta il robot era ancora in attività.

Attualmente (maggio 2004) sono in corso su Marte ben cinque missioni due delle quali al suolo. Le tre in orbita prendono il nome di Mars Global Surveyor, 2001 Mars Odyssey e Mars Express e stanno svolgendo un prezioso lavoro di approfondimento delle caratteristiche fisiche del pianeta in vista della sua futura esplorazione da parte dell’uomo.

Pochi mesi dopo l’atterraggio di Mars Pathfinder entrò in orbita marziana Mars Global Surveyor (MGS). Questa navetta in verità era partita prima del Mars Pathfinder ma, costretta a percorrere un tragitto più lungo, fu superata da quest’ultima il 14 marzo 1997. Mars Global Surveyor fu lanciata il 7 novembre 1996 da Cape Canaveral, in Florida e, dopo quasi 800 milioni di kilometri di viaggio interplanetario, raggiunse Marte il 12 settembre 1997, immettendosi intorno al pianeta su un’orbita fortemente ellittica. Dopo questa prima manovra che richiese il funzionamento del motore principale per frenarne la corsa e permettere alla sonda di essere catturata dal campo gravitazionale marziano, le successive manovre di avvicinamento al pianeta vennero effettuate senza più far ricorso al motore di bordo.

L’innovativa procedura di rallentamento, messa in atto da MGS, è detta “aerobraking” (aerofrenaggio) e consiste nello sfruttare la portanza aerodinamica dei due pannelli solari, che sono una specie di ampie ali adibite alla trasformazione dell’energia luminosa in energia elettrica per il funzionamento degli strumenti di bordo. Le manovre di avvicinamento della sonda al pianeta si rivelarono più complicate di quanto preventivato a causa della apertura incompleta di uno dei due pannelli, un inconveniente che comportò una manovra di aerobraking più graduale del previsto ritardando di alcuni mesi l’inizio del programma scientifico, il quale tuttavia si concluse nel migliore dei modi.

La telecamera di bordo ad alta risoluzione consentì di effettuare riprese giornaliere ad ampio campo del tutto simili a quelle prodotte dai satelliti meteorologici terrestri; un particolare apparecchio era inoltre in grado di misurare l’altezza delle montagne e la profondità delle valli in base ai tempi di percorrenza di segnali laser riflessi dalla superficie del pianeta. Altri strumenti hanno potuto disegnare una mappa mineralogica completa del terreno e, attraverso la rilevazione delle proprietà magnetiche del pianeta, determinare anche la sua struttura interna. Attualmente MGS, terminato il suo lavoro di ricerca, riveste il ruolo di ponte di comunicazione fra Marte e la Terra inviandoci una parte delle immagini e dei dati raccolti dai due rover statunitensi da poco approdati sul Pianeta Rosso: Spirit e Opportunity.

La 2001 Mars Odyssey è ciò che rimane di un progetto che originariamente prevedeva il lancio di due sonde, una delle quali comprendente un lander. La riorganizzazione del programma di esplorazione da parte della NASA cancellò però l’invio del veicolo da mandare a terra. La sonda attualmente in orbita intorno a Marte venne lanciata il 7 aprile 2001 da Cape Canaveral e raggiunse la meta il 24 ottobre dello stesso anno. L’ingresso in orbita avvenne ancora una volta sfruttando anziché i motori di bordo, l’atmosfera marziana.

La manovra ha consentito di risparmiare oltre 200 kilogrammi di carburante e quindi di eliminare dal mezzo un peso supplementare. Maggiore è il peso da trasportare, più potente deve essere il vettore di lancio e quindi maggiore il costo della operazione. La linea della NASA adottata negli ultimi anni è invece quella di organizzare missioni più piccole, più veloci e meno costose. La manovra di avvicinamento ha visto la fine nel gennaio del 2002 e un mese più tardi ha avuto inizio la mappatura della superficie del pianeta, un lavoro che ha compreso la ricerca di tracce di acqua e di eventuali ambienti idonei allo sviluppo della vita. I lavori di analisi del suolo proseguiranno fino ad agosto del 2004 e poi, come quella precedente, la sonda provvederà a comunicare a Terra le informazioni che i due rover statunitensi Spirit e Opportunity le faranno pervenire.

In orbita marziana vi è infine la Mars Express, una sonda che ha questo nome perché è stata progettata e realizzata in tutta fretta dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA = European Space Agency) grazie all’impiego di una tecnologia già sperimentata da altre sonde prodotte nel Vecchio Continente. All’inizio il programma prevedeva anche l’ammartaggio di un mini-lander, il Beagle 2 (così chiamato in onore della nave con cui il biologo inglese Charles Darwin partì per il viaggio intorno alla Terra) del quale purtroppo si sono persi i contatti subito dopo il distacco dalla sonda madre. La perdita del piccolo modulo di atterraggio realizzato dai ricercatori inglesi rappresenta naturalmente un parziale fallimento della missione, anche perché il robot era attrezzato per la rilevazione diretta di eventuali prodotti del metabolismo batterico. La missione della Mars Express tuttavia non è stata compromessa dalla perdita del piccolo lander in quanto il programma per il 90% era concentrato sul lavoro dell’orbiter. Il Beagle 2 – dicono i tecnici – rappresentava la ciliegina sulla torta, smarrita la quale rimane pur sempre la torta.

Mars Express sta svolgendo il suo lavoro in modo egregio. Ha fotografato l’intera superficie marziana in tre dimensioni con una risoluzione di pochi metri. Inoltre ha registrato la composizione chimica del suolo e dell’atmosfera definendo con maggiore precisione le percentuali dei gas presenti in quest’ultima. Esso è riuscito anche a determinare in modo dettagliato la morfologia e la geologia del terreno.

La missione firmata dall’Agenzia Spaziale Europea avrebbe dovuto collaborare con quella giapponese la quale le avrebbe messo a disposizione la propria sonda Nozomi per studiare le interazioni dell’atmosfera marziana con il vento solare da un’angolazione diversa da quella dalla quale opera la Mars Express, ma la collaborazione purtroppo venne meno quando nel dicembre del 2003 si dovette prendere atto della perdita anche della sonda giapponese.

 

SPIRIT E OPPORTUNITY

Nell’estate del 2003, approfittando di una di quelle finestre di lancio che si aprono ogni 26 mesi circa, la NASA ha fatto partire verso il Pianeta Rosso due MER (Mars Exploration Rover-A ribattezzato Spirit e Mars Exploration Rover-B cui fu dato il nome di Opportunity) i quali, grazie ad una traiettoria particolarmente favorevole, hanno raggiunto la meta percorrendo circa 460 milioni di kilometri in solo sette mesi di viaggio. L’ammartaggio è avvenuto con il sistema ormai collaudato del rimbalzo del veicolo protetto da 24 air-bags che, una volta al suolo, si sono sgonfiati per fare uscire i robot sistemati al loro interno. Tutte le operazioni si sono svolte nel migliore dei modi e la mattina del 4 gennaio 2004 veniva ricevuto a Terra il segnale radio che comunicava il perfetto ammartaggio del primo MER; venti giorni più tardi anche il secondo veicolo faceva udire il suo segnale di OK.

I due robot mobili attualmente operano sul suolo di Marte all’interno di un programma a lungo termine finalizzato a raccogliere le prove che in un passato più o meno remoto su quel pianeta vi fosse stata acqua allo stato liquido e con l’acqua eventualmente anche alcune forme viventi. I siti di atterraggio delle sonde, entrambi in prossimità dell’equatore, ma agli antipodi l’uno dall’altro, sono stati scelti proprio per questo fine.

Per l’atterraggio di Spirit è stata individuata un’ampia depressione denominata Gusev Crater che in passato potrebbe aver ospitato un lago o una palude. Opportunity invece è stato fatto scendere in una zona chiamata Meridiani Planum che, secondo le informazioni raccolte dalla navicella Mars Global Surveyor, avrebbe dovuto essere ricca di ematite, un minerale del ferro che su questa Terra si forma in presenza di acque calde ricche di quel metallo. L’ematite in verità è un ossido di ferro molto diffuso su tutta la superficie di Marte tanto da essere considerato il responsabile della sua tipica colorazione rossastra ma un accumulo molto circoscritto di questo minerale potrebbe essere il risultato della sua precipitazione da soluzioni acquose.

Sprint e Opportunity sono simili al Sojourner della missione Mars Pathfinder ma molto più grandi e sofisticati di esso. Per dare un’idea delle dimensioni e delle prestazioni degli ultimi due rover rispetto al loro predecessore si consideri che un singolo MER pesa 185 kg (mentre il piccolo robot semovente della missione precedente pesava solo 11 kg) ed è in grado di percorrere fino a 100 metri al giorno: una distanza equivalente al tragitto effettuato dal Sojourner durante l’intera missione. Ma è soprattutto l’equipaggiamento scientifico a fare la differenza: innanzitutto su entrambi i nuovi rover è montata una telecamera stereoscopica ad alta risoluzione che ha trasmesso le immagini spettacolari che tutto il mondo ha potuto vedere pochi giorni dopo il loro atterraggio su Marte, tuttavia l’apparecchio tecnico più importante è rappresentato da un braccio meccanico munito di microscopio in grado di scalfire la roccia per consentire l’analisi di minerali sottostanti la superficie del pianeta.

Per quanto riguarda le informazioni relative alla presenza di acqua Spirit ha fornito dati negativi che provengono dall’analisi del contenuto in ferro delle rocce circostanti il luogo in cui è atterrato. Il robot ha infatti rilevato la presenza di olivina, un minerale contenente ferro nella forma ridotta, ossia come ferro ferroso (o ferro bivalente) il che escluderebbe la presenza di acqua la quale se ci fosse stata, anche in un lontano passato, avrebbe ossidato il ferro ferroso a ferro ferrico (o ferro trivalente) ossia avrebbe trasformato il minerale del ferro in ematite, un composto che invece non è stato trovato. In realtà nei minerali esaminati vi è anche una certa quantità di ferro trivalente ma la preponderanza di quello bivalente sull’altro è tipica di alcune rocce vulcaniche terrestri. Inoltre in alcune immagini si potevano scorgere delle macchie che sembravano colate di zolfo tipiche di effusioni laviche. In conclusione, il suolo marziano analizzato da Spirit assomiglia più a quello formato da rocce piroclastiche che a quello caratterizzato da materiale sedimentario deposto in ambiente acquatico.

Mentre da un lato Spirit forniva informazioni deludenti per quanto riguarda la presenza di acqua dalla parte opposta del pianeta, Opportunity raccoglieva informazioni che deponevano a favore di un ambiente che in un lontano passato poteva essere stato ricco di acqua allo stato liquido. La presenza di piccoli granuli sferici di ematite dalla superficie estremamente liscia a cui i geologi hanno dato il nome di Blueberries (ossia “mirtilli”) potrebbero essere stati generati dall’azione levigatrice dell’acqua anche se non si può escludere una loro origine diversa, per esempio vulcanica o conseguente all’impatto di un meteorite. Anche alcune strutture tubolari di piccole dimensioni, dette “tane di vermi”, simili a formazioni che su questa Terra rappresentano l’antica sede di cristallizzazione di composti sciolti nell’acqua salmastra, fanno pensare alla presenza di questo prezioso liquido indispensabile per la vita quale noi la conosciamo. Inoltre gli strati esposti sulla parete dell’avvallamento in cui è atterrato Opportunity, hanno la tipica struttura stratificata delle rocce sedimentarie. Si tratta di indizi, non di prove, ma come per i bambini di altri tempi che giocavano a pallone su campetti improvvisati valeva la regola che ogni tre corner si tirasse un rigore, così nel nostro caso possiamo affermare che tre indizi equivalgono ad una prova.

 

LA MISSIONE UMANA VERSO MARTE

Nessuno è mai riuscito a spiegare le motivazioni profonde che spingono l’uomo alla ricerca, ma è certo che la curiosità e la sete di conoscenza sono state le molle che in passato hanno indotto il genere umano ad allontanarsi dai luoghi di residenza per andare ad esplorare terre sconosciute.

La ricerca però necessita di finanziamenti e non sempre questi sono stati elargiti esclusivamente per permettere all’uomo di soddisfare il suo bisogno di avventura o per motivi puramente scientifici: ad esempio il finanziamento dell’impresa di Colombo fu dettato da motivi di carattere politico e più di recente la necessità di mettere per primi piede sul suolo lunare era imposta dalla esigenza di consacrare la superiorità spaziale americana su quella sovietica. Sempre motivazioni di prestigio e di leadership spingono oggi gli Americani a chiedere la collaborazione di tutti i Paesi tecnicamente più progrediti al fine di mandare, sotto la loro direzione, un uomo su Marte. In molti tuttavia si chiedono se valga la pena di fare affrontare ad un equipaggio umano un viaggio così lungo e rischioso quando le sonde automatiche potrebbero svolgere egregiamente lo stesso lavoro. Uno dei risultati più evidenti del progresso tecnologico è stato infatti la riduzione progressiva del lavoro manuale e della presenza fisica dell’uomo sul posto di lavoro: dalla ruota, alla macchina a vapore, all’elettricità, all’informatica, a internet la strada seguita è stata sempre quella di tenere l’uomo al sicuro là dove si potevano mettere a frutto i doni della sua intelligenza e creatività.

Terra, mare e aria sono i tre ambienti che l’uomo è riuscito a dominare nel tempo superando difficoltà via via crescenti. In questi ultimi decenni egli sta cercando di esplorare anche il quarto ambiente che la natura gli ha messo a disposizione vale a dire lo spazio, il quale però si è subito dimostrato un luogo ostile e di gran lunga più pericoloso degli altri. Lo spazio, a differenza di terra, mare e aria, riserva ostacoli legati più che ai mezzi di trasporto all’ambiente stesso. L’assenza di peso, la mancanza assoluta di aria, le radiazioni letali e le distanze da coprire per raggiungere le mete rappresentano solo alcune delle incognite che l’uomo deve affrontare durante il volo interplanetario.

Il 4 ottobre 1957 con il lancio dello Sputnik (“Compagno di viaggio”) dal poligono di Bajkonur nella ex Unione Sovietica si inaugurò l’era spaziale e dodici anni più tardi l’uomo era già sulla Luna. Si trattò indubbiamente di un inizio promettente ma anche ingannevole in quanto fece sottovalutare il problema legato alle distanze tanto che si pensò subito di puntare su Marte. Per l’esattezza la NASA già agli inizi degli anni Sessanta aveva pianificato, con ingiustificato ottimismo, lo sbarco dei primi esseri umani sul Pianeta Rosso entro un ventennio. L’obiettivo più vicino dopo la Luna era in verità Venere ma questo si rivelò ben presto un ambiente inaccessibile perfino ai mezzi meccanici: la temperatura molto elevata della sua superficie e la spessa coltre di gas corrosivi che ristagnava su di essa riuscirono a mettere fuori uso in poche ore le capsule teleguidate che i Sovietici avevano fatto scendere su quel pianeta nei primi anni Settanta. Marte invece, un po’ più lontano di Venere, è un corpo celeste che potrebbe essere esplorato dall’uomo senza che questi corra particolari pericoli tranne quello relativo alla presenza dei raggi cosmici, un problema fra l’altro già incontrato e risolto (almeno in parte) nel viaggio sulla Luna. L’ostacolo più serio tuttavia non è rappresentato dalla sosta sul pianeta, bensì dalla distanza da coprire per raggiungerlo: Marte si trova 150 volte più lontano della Luna e se per andare e tornare dal nostro satellite naturale è sufficiente una settimana, per un viaggio di andata e ritorno da Marte potrebbe non bastare un anno e mezzo. Peraltro, inevitabilmente, le radiazioni cosmiche durante quel lungo percorso colpirebbero con tutta la loro energia i rivestimenti protettivi della navicella e riuscirebbero in parte a penetrarvi. Si è osservato in una delle tante missioni di permanenza nello spazio che in pochi mesi i componenti dell’equipaggio avevano assorbito una dose di radiazione più che doppia rispetto a quella calcolata come limite massimo di sicurezza per i lavoratori all’opera in ambienti radioattivi. Oltre certi valori si teme che possano diventare consistenti le probabilità che l’individuo si ammali di cancro o sviluppi alcune mutazioni del proprio patrimonio genetico, anche se in verità finora non si ha notizia di danni fisici sui cosmonauti imputabili all’effetto delle radiazioni.

Date le difficoltà, per rendere fattibile una spedizione umana su Marte si dovrebbero innanzitutto accorciare i tempi: le sonde automatiche, come abbiamo visto, hanno impiegato dai sette ai dieci mesi per arrivare in quel mondo congelato e ossidato ma si trattava di oggetti inanimati rispetto ai quali il tempo era poco rilevante; quando sarà necessario costringere esseri umani all’interno di spazi angusti e poco confortevoli il tempo assumerà un’importanza determinante.

Abbiamo già accennato al fatto che la traiettoria da seguire per raggiungere Marte non è diretta ma questa non è l’unica difficoltà da superare: vi è anche quella legata al movimento della Terra. Il razzo alla partenza deve infatti liberarsi della componente della velocità della Terra nel suo moto intorno al Sole: è questo un problema che assomiglia a quello che l’uomo deve affrontare quando scende dal tram in corsa. Inoltre, appena sfuggito alla gravità terrestre, il razzo si trova a lottare contro quella solare poiché la navetta, puntando verso Marte, si dirige in direzione opposta a quella del Sole: per allontanarsi da questo corpo massiccio essa dovrà produrre un ulteriore sforzo con conseguente consumo di carburante.

Per abbandonare la Terra il razzo dovrà quindi superare la cosiddetta velocità di fuga che è di oltre 40.000 km all’ora. Ciò si potrebbe ottenere in pochi secondi imprimendo al razzo una accelerazione iniziale molto forte con il rischio però di produrre danni gravi al corpo umano (frattura delle ossa e lesioni degli organi interni) e alle stesse strutture meccaniche del mezzo. Per ridurre i tempi del viaggio non rimarrebbe quindi che conferire al veicolo una spinta iniziale non superiore a quella richiesta per i voli verso la Luna e poi eventualmente aumentare la velocità lungo il tragitto. Arrivati a metà strada si dovrebbe però decelerare in modo graduale per ridurre la velocità fino ad annullarla del tutto nel momento dell’atterraggio. Naturalmente per accelerare e decelerare servirebbero tempo ma soprattutto energia e questa, per non accrescere in modo esagerato il peso del velivolo alla partenza non potrebbe che essere energia nucleare.

Si era studiato in passato il modo di produrre una serie di esplosioni di piccole bombe atomiche ad una certa distanza dal mezzo in movimento in modo da creare un’onda d’urto che uno schermo protettivo avrebbe poi trasmesso all’intera struttura. Il progetto però venne abbandonato quando ci si rese conto che esso prevedeva la costruzione di un veicolo di dimensioni tali da rendere troppo costosa (…e rischiosa) la sua effettiva realizzazione. In verità l’unica alternativa tecnicamente praticabile a breve termine rimane quella nucleare. Si tratterebbe di sistemare a bordo del razzo una piccola centrale nucleare in grado di fornire l’energia necessaria per portare ad altissima temperatura un propellente (ad esempio idrogeno liquido) il quale, espulso a grande velocità attraverso un ugello posto nella parte posteriore del mezzo, garantirebbe prestazioni doppie rispetto a quelle fornite dai razzi a propulsione chimica impiegati attualmente.

Vi è tuttavia un sistema per rendere un po’ più veloci i viaggi spaziali pur restando nell’ambito delle tecniche tradizionali. Il metodo è molto semplice ed è già stato sperimentato dalle sonde senza uomini a bordo. Si tratta di puntare verso un pianeta che non è quello che si desidera raggiungere al fine di sfruttare il suo campo gravitazionale. Una missione verso Marte con equipaggio a bordo, da realizzarsi esattamente fra dieci anni, nel gennaio del 2014, contempla, per il viaggio di ritorno, il sorvolo di Venere: un obiettivo che consentirebbe alla navetta di acquistare una velocità pari a quella orbitale di quel pianeta; arrivati ad una certa distanza da esso si dovrà ovviamente deviare per evitare di finirgli addosso. Questo viaggio si dovrebbe concludere entro un anno e mezzo ma consentirebbe una sosta sul pianeta di un solo mese: un tempo che viene giudicato insufficiente per consentire agli astronauti il recupero dei danni fisici accumulati in tanti mesi di inattività all’interno della navetta.

Oltre a quello molto breve di cui abbiamo fatto cenno esiste anche un progetto di andata e ritorno da Marte che contempla una durata complessiva di oltre quattro anni. Il programma prevede che lo sbarco umano su Marte sia preceduto da una spedizione sprovvista di presenza umana a bordo. Per i primi mesi del 2016 è prevista infatti la partenza con destinazione Marte di un razzo che avrà il compito di riportare a casa gli astronauti una volta che questi avranno ultimato la loro missione. Questo razzo la cui sigla è Erv (acronimo di Earth return vehicle che significa “veicolo per il ritorno a Terra”) invece che uomini porterà su Marte sei tonnellate di idrogeno liquido, che verrà fatto reagire con l’anidride carbonica presente in abbondanza sul Pianeta Rosso, affinché esso produca acqua e metano. L’acqua verrà a sua volta scissa per elettrolisi in idrogeno e ossigeno; altro ossigeno verrà ricavato direttamente dall’anidride carbonica. I gas prodotti in codesto modo serviranno per alimentare i motori delle navette adibite per il viaggio di ritorno. L’ossigeno servirà anche per permettere la respirazione degli astronauti che giungeranno sul pianeta a bordo di un altro Erv: con questo sistema i nostri “eroi” avranno a disposizione due moduli utili per il ritorno a casa.

 

MOLTE LE INSIDIE E LE INCOGNITE

Mentre sul fronte della ricerca meccanica ed elettronica delle apparecchiature di bordo sono stati fatti passi da gigante, sul fronte delle conoscenze fisiche e mentali dell’uomo obbligato ad una prolungata permanenza nello spazio rimane ancora molto da fare. È opportuno allora analizzare quali potrebbero essere questi pericoli.

La mancanza di peso rappresenta uno degli ostacoli più seri da affrontare. L’uomo, come tutti gli esseri terrestri, è strutturato dal punto di vista anatomico e funzionale per vivere ed operare in un ambiente dominato dalla forza di gravità, e se questa viene a mancare sorgono problemi di varia natura: decalcificazione delle ossa, diminuzione del volume muscolare, perdita del senso dell’equilibrio, cattivo funzionamento dell’apparato digerente e altri piccoli e noiosi inconvenienti come quello ad esempio di vedere volare all’interno dell’abitacolo in cui si è costretti tutti gli oggetti che non siano stati ancorati, di non poter portare il cibo alla bocca facendo uso delle posate o bere direttamente dal bicchiere.

La mancanza di gravità ha effetti anche sulla qualità dell’aria nella cabina. Il pulviscolo atmosferico, ad esempio, che in condizioni di gravità normali tende a depositarsi, in un veicolo spaziale resta sospeso nell’aria e quindi viene introdotto nei polmoni con la respirazione producendo danni ben più gravi di quelli causati dalle cosiddette polveri sottili. La mancanza di una adeguata ventilazione non solo renderebbe insopportabili gli odori che inevitabilmente si formano all’interno dell’abitacolo ma impedirebbe anche la termoregolazione corporea. L’aria che si riscalda a contatto con la pelle diviene più leggera e quindi in condizioni normali tende ad allontanarsi dal corpo mentre in assenza di gravità i moti convettivi non si realizzano e quindi l’aria calda ristagna sul corpo provocando un disagio simile a quello generato dall’afa. Un problema aggiuntivo è rappresentato dalla necessità di provvedere alla pulizia personale.

Per ovviare almeno in parte a questi inconvenienti è prevista una efficace ventilazione forzata e il controllo continuo della composizione dell’aria da cui deve essere sottratta l’anidride carbonica prodotta dalla respirazione e immesso nuovo ossigeno; si sta anche studiando il sistema di creare una gravità artificiale simile a quella di Marte sottoponendo il modulo abitativo a un lento moto rotatorio.

Un’altra incognita è rappresentata dall’adattamento dell’uomo alla totale assenza dei ritmi cronologici abituali. Vagando fra i pianeti le stagioni non esistono più e non esiste nemmeno l’alternanza di buio e luce. Ciò comporta la modifica dei ritmi circadiani (dal latino circa diem = intorno al giorno) ossia di quei ritmi periodici che regolano ad esempio l’avvicendarsi di sonno e veglia, ma compromette anche l’attività cerebrale e la stessa produzione di ormoni che come è noto segue scadenze giornaliere, mensili e annuali.

Ma i rischi più gravi, anche perché in gran parte ancora ignoti, saranno quelli relativi agli scompensi a livello nervoso e psicologico. Si tratta di un problema che non è stato ancora studiato a fondo e le ricerche in atto potrebbero dimostrare che un viaggio molto lungo e stressante fra persone costrette a vivere a contatto di gomito in ambiente isolato sia inattuabile.

Sulla navetta troveranno posto da sei a otto persone nelle quali lo stress dovuto alla condizione sociale forzata (mancanza di privacy, difficoltà relazionali fra colleghi) potrebbe generare incomprensioni e insopportabili tensioni psicologiche per cui diventerà indispensabile creare prima della partenza una equipe affiatata ma anche il più possibile eterogenea dal punto di vista culturale e delle esperienze personali, in modo che durante il viaggio non venga mai a mancare il dialogo fra i componenti dell’equipaggio. Per quanto riguarda il sesso gli psicologi pensano che sia meglio evitare la presenza della componente femminile: i coinvolgimenti amorosi potrebbero creare un problema aggiuntivo. In realtà gli ottimisti non credono che quello dell’isolamento e della tensione nervosa possa rappresentare un problema serio fino al punto di compromettere la missione: essi ricordano che le generazioni passate di esploratori, di prigionieri in campi di concentramento, di soldati costretti per lunghi periodi in trincea hanno sopportato angosce e privazioni ben più gravi di quelle che si prospettano agli equipaggi delle missioni dirette verso Marte.

L’alimentazione rappresenta un’altra grossa difficoltà che i componenti dell’equipaggio dovranno affrontare durante il viaggio: a questo proposito è bene chiarire subito che gli astronauti che si nutrono di pillole esistono solo nei libri di fantascienza. Verranno invece messi a disposizione cibi che occupino uno spazio minimo e che non esigano sistemi di refrigerazione per conservarsi a lungo. Molti cibi saranno inglobati in gelatina commestibile per evitare il rischio di produrre briciole che in assenza di peso continuerebbero a volare nell’abitacolo. Molti cibi verrebbero racchiusi in tubetti di alluminio simili a quelli usati per le paste dentifrice per poter essere assunti e deglutiti anche in mancanza di gravità. I cibi liofilizzati verrebbero idratati direttamente in bocca durante la masticazione. Per evitare sprechi e inutili sovraccarichi l’astronave dovrebbe essere trasformata in un sistema ecologico quanto più possibile chiuso grazie al quale troverebbe soluzione il trattamento dei rifiuti e soprattutto il riciclaggio dell’acqua al fine di risparmiare massa e volume sulle scorte alimentari. I cibi preconfezionati e liofilizzati che rappresenteranno la parte preponderante dell’alimentazione creeranno comunque un problema legato alla monotonia della dieta: un disagio già riscontrato in passato nei lunghi viaggi per mare e comunque da non sottovalutare.

Vi è poi il problema dei costi e degli obiettivi della missione. Una singola missione automatica su Marte è venuta a costare sempre meno (in alcuni casi molto meno) di un miliardo di dollari ma una spedizione umana costerebbe cento volte di più. Qualcuno però ha fatto notare che se almeno una parte delle ingenti somme di denaro che gli Stati Uniti hanno investito, dall’ultimo conflitto mondiale ad oggi, per la produzione di armamenti fosse stata dirottata verso i progetti di conquista dello spazio non una, ma dieci o venti spedizioni umane su Marte si sarebbero potute realizzare. Sembra dunque che non sia la disponibilità finanziaria a mancare ma la volontà di investire una parte (peraltro modesta) del bilancio di quel Paese per questo obiettivo piuttosto che per altri. Sarà necessario essere molto chiari anche sugli scopi della missione ed evitare ad esempio di far credere che si vada su Marte per sviluppare chissà quali nuove tecnologie o per sperimentare farmaci contro l’invecchiamento. Su Marte si va per soddisfare il bisogno di conoscenza e per dimostrare a sé stessi la capacità di affrontare sfide al limite dell’impossibile: due caratteristiche fondamentali della natura umana.

Nemmeno la ricerca di forme di vita fra qualche anno sarà più l’obiettivo principale della missione. La vita su Marte quasi sicuramente c’è: l’abbiamo portata noi facendo atterrare su quel pianeta i lander. Esclusi i due Viking che sono stati sterilizzati a dovere prima della partenza in modo da escludere qualunque contaminazione da parte di microrganismi terrestri, le ultime tre navette atterrate sul Pianeta Rosso avevano subìto una sterilizzazione piuttosto sommaria che la successiva esposizione agli alti livelli di radiazione incontrata durante il viaggio non è riuscita a perfezionare. Quando le condizioni di vita sono particolarmente sfavorevoli alcuni batteri si trasformano in spore ossia sviluppano intorno al proprio DNA una parete protettiva che li rende in grado di resistere in condizioni avverse anche per secoli. Sicuramente alcuni batteri potrebbero essere finiti in condizioni vitali sul Pianeta Rosso dove sono in attesa che qualcuno li vada a prelevare. Lo farà l’uomo con le sue mani o una capsula automatica predisposta per il ritorno a Terra? Conosceremo la risposta fra dieci o vent’anni.

Prima di chiudere non posso esimermi da una valutazione di carattere personale: non so se il tentativo di mandare un uomo su Marte si realizzerà fra dieci o vent’anni, ma so per certo che se l’impresa dovesse fallire tragicamente se ne riparlerebbe fra 200 anni.

Prof. Antonio Vecchia

Reply