Lo Tsunami

Esattamente alle ore 6 e 58 minuti primi (in Italia mancavano due minuti alle 2 di notte) del 26 dicembre 2004 si verificava un violento terremoto al largo dell’isola di Sumatra nell’Oceano Indiano. Il sisma del nono grado della scala Richter era stato causato dallo scivolamento della placca indiana sotto quella di Burma (o microplacca birmana). Come è noto la crosta terrestre è suddivisa in numerose placche o zolle tutte quante in reciproco lento movimento e nell’area della Sonda confluiscono tre di queste pacche maggiori (indiana, australiana e della Sonda) ed una minore detta appunto microplacca della Birmania. Normalmente lo spostamento di una placca rispetto ad un’altra è di pochi centimetri all’anno, ma a volte capita che una di esse accumuli energia per un lungo periodo di tempo senza spostarsi apprezzabilmente per poi farlo improvvisamente e in misura notevole.

Il terremoto della mattina di Santo Stefano dell’anno scorso è stato provocato dallo scivolamento della placca indiana sotto quella birmana per una ventina di metri lungo un fronte di oltre 400 kilometri. Il terremoto che ne seguì provocò a sua volta un maremoto ovvero un’onda gigantesca, che i giapponesi chiamano tsunami, il quale investì dopo pochi minuti le coste a nord-ovest di Sumatra penetrando per alcuni kilometri all’interno del territorio e mietendo 250 mila vittime. Dopo due ore e mezza l’onda anomala sconvolse anche i litorali della Thailandia da una parte e quelli dello Sri Lanka dalla parte opposta e successivamente tutte le rimanenti spiagge del Golfo del Bengala uccidendo altre decine di migliaia di persone (si calcola che le vittime complessive del maremoto siano state più di 300.000) e provocando danni ingenti.

 

TSUNAMI: L’ ONDA CHE UCCIDE

La comunità scientifica nel corso di un convegno internazionale tenutosi nel 1963 ha deciso di adottare il termine tsunami, dal giapponese “tsu” = porto e “nami” = onda, quindi “onda sul porto”, per indicare un evento tipico delle coste dell’Oceano Pacifico, ma particolarmente frequente in Giappone. L’espressione chiaramente si riferisce alla zona colpita e non alla sua origine in quanto si tratta di onde marine di eccezionali dimensioni che quando però si originano sembrano inoffensive nel loro tranquillo avvicinarsi alla costa. Nel mezzo dell’Oceano la distanza fra due creste successive può raggiungere anche i 160 kilometri mentre la loro altezza non supera mai il metro tanto da passare inosservate alle navi in mare aperto. La loro velocità (v) dipende dalla profondità del fondale ed è data dalla seguente formula:

.            _____
v =  √ g × d

in cui d è la profondità dell’acqua in quel punto e g è l’accelerazione di gravità (9,8 m/s2). Questa espressione ci permette di calcolare ad esempio che in pieno Oceano un’onda di tsunami può raggiungere i 700-800 Km/h: la velocità di un aereo di linea. L’anomalia di queste onde sta anche nel fatto che, a differenza di quelle provocate dal vento le quali non si estendono mai sotto i 150 metri di profondità, arrivano fino al fondale marino.

In modo diverso vanno le cose a mano a mano che il moto ondoso si avvicina alle zone costiere: la diminuzione di profondità del fondale marino ha un effetto frenante della parte inferiore della massa d’acqua rispetto a quella più superficiale la quale tende a rovesciarsi in avanti. In conseguenza della frenata la distanza fra le onde successive diminuisce e le stesse si accavallano fra loro crescendo a dismisura fino a generare frangenti che possono raggiungere i 30 metri di altezza. Sulle coste l’arrivo delle onde di un maremoto è spesso preceduto da un temporaneo ritiro delle acque che può durare diversi minuti lasciando all’asciutto i pesci, ma un pericolo mortale correrebbe colui il quale si precipitasse a raccogliere i frutti di una pesca facile e insperata: non sopravvivrebbe per godersela. L’oceano infatti non si ritira, ma raduna le forze per abbattersi sulla spiaggia con tutta la sua furia distruttiva.

Per meglio comprendere l’estrema pericolosità di questo fenomeno si deve fare riferimento all’energia trasportata dal moto ondoso che nel momento in cui si forma assorbe quella sprigionata dal sobbalzo del fondo marino. Questa energia è funzione della velocità e dell’ampiezza delle onde le quali, come abbiamo detto, sono basse e viaggiano a velocità elevata quando sono in pieno oceano ma quando si avvicinano alla costa la lunghezza diminuisce e, dovendo per necessità fisica rimanere costante l’energia, aumenta la loro altezza e quindi le stesse si abbattono con violenza devastatrice sulle coste provocando gigantesche calamità naturali.

Lo tsunami, fatte le debite proporzioni, assomiglia alle increspature concentriche che, in uno stagno, si irradiano dal punto in cui si lascia cadere un sasso solo che in questo caso il sasso cade, per così dire, “dal basso” e lo stagno è l’oceano. Normalmente lo tsunami è provocato infatti da un terremoto di forte intensità con epicentro vicino alle coste ma possono generare onde dello stesso tipo anche eruzioni, frane sottomarine e, piuttosto raramente, impatti di meteoriti di notevoli dimensioni che vanno ad urtare il fondo marino. Qualunque sia la causa, il movimento dell’onda inizia con un colpo inferto dal basso alla colonna d’acqua sovrastante e quanto più grande è il movimento del fondo sottomarino tanto più violenta è la forza devastatrice dell’onda che in questo modo viene prodotta. A volte per descrivere il fenomeno si usa il termine italiano di “maremoto” ma esso non è del tutto corretto da un punto di vista scientifico in quanto, come abbiamo appena detto, lo tsunami non è necessariamente legato ad un terremoto come lascerebbe inten­dere l’etimologia della parola italiana.

Gli tsunami, soprattutto quelli molto violenti, sono piuttosto rari e si generano preferibilmente nell’Oceano Pacifico ma non solo. Fra i più distruttivi e terrificanti si ricorda infatti quello che colpì Lisbona nel 1755, il quale fu causato da un terremoto con epicentro nell’ Oceano Atlantico. I cittadini della capitale del Portogallo convinti che la costa fosse il luogo più sicuro per sfuggire agli incendi scoppiati in città in seguito alla scossa tellurica, perirono invece annegati sotto le onde dello tsunami. Fra i maremoti che in tempi recenti produssero più vittime si ricordano i due della fine del Diciannovesimo secolo: il primo nel 1883 avvenne in seguito all’eruzione del vulcano Krakatoa che generò un’onda di intensità devastante la quale si abbatté sulle coste di Giava e Sumatra producendo danni ingenti e la morte di 36.000 persone; il secondo si ebbe nel 1896 in Giappone dove un terremoto con epicentro in mare generò onde alte più di 30 metri che rasero al suolo 100.000 case e procurarono la morte per annegamento di 26.000 persone. I Giapponesi hanno sofferto assai per questo fenomeno nel corso dei secoli e non è un caso infatti se esso viene chiamato con un termine che trae origine proprio dalla loro lingua.

Ma il maremoto che indusse le autorità a prendere dei provvedimenti per la previsione e la prevenzione di questo tipo di catastrofi fu determinato da un terremoto che si verificò nel 1946 presso l’isola di Unimak in Alaska il quale produsse un maremoto abbastanza imponente tanto che le onde viaggiarono per 3.700 km e dopo quattro ore e mezzo raggiunsero le isole Hawaii dove fecero 159 vittime e danni per milioni di dollari. In seguito a quell’evento fu creato lo Tsunami Warning System, un sistema di allarme il cui centro nevralgico si trova a Honolulu.

 

PREVISIONE E PREVENZIONE DEGLI TSUNAMI

Affinché un sistema di allarme anti-tsunami funzioni a dovere è necessario innanzitutto individuare le aree costiere che potrebbero eventualmente essere interessate da questo genere di fenomeno. Per far ciò si elaborano al computer alcuni modelli matematici che, tenuto conto dell’altezza delle coste e della morfologia del suolo, sono in grado di stabilire fino a quale distanza dalla riva un’onda di tsunami potrebbe penetrare nell’entroterra. La disponibilità di una mappa delle zone a rischio è uno strumento essenziale sia per definire le aree sorgenti di maremoti sia per determinare gli effetti prodotti da onde anomale sulle coste.

In secondo luogo, è necessario installare una serie di sismografi sulle coste dell’oceano in grado di localizzare istantaneamente l’epicentro del sisma e la sua magnitudo. I dati così raccolti e la loro analisi puntuale dovrebbero consentire di prevedere il momento in cui l’onda di tsunami giungerà con tutta la sua forza distruttiva presso una determinata zona a rischio. In verità l’elaborazione dei dati non è semplice anche perché non tutti i terremoti in mare determinano ondate pericolose di tsunami. Per essere certi della presenza di onde di questo tipo è infatti indispensabile sistemare oltre ai sismografi anche una serie di boe in alto mare in grado di rilevare la presenza di onde sottomarine. In fondo al mare, sulla verticale della boa, viene situato infatti un misuratore di pressione con il compito di individuare onde sicuramente di tsunami in quanto quelle prodotte dagli uragani e dalle navi in transito non si spingono mai fino al fondo degli oceani. Quando il registratore sistemato sul fondo registra variazioni di pressione invia dei segnali sonori alla boa galleggiante la quale a sua volta li trasmette, via satellite, ad una stazione a terra. Una volta ricevuti i dati, i tecnici addetti alla sorveglianza devono decidere se è opportuno diffondere l’allarme a tutte le località che si affacciano sul mare eventualmente interessate da onde anomale (a questo proposito bisogna infatti tener presente che spesso le onde di tsunami si esauriscono prima di arrivare lungo la linea di costa) perché possano comunicare alla popolazione il pericolo imminente affinché questa si rechi con sollecitudine verso le vicine zone sopraelevate e ordinare alle imbarcazioni di prendere il largo dove, come abbiamo visto, il pericolo è assai minore o del tutto inesistente. Spesso è capitato in passato di lanciare falsi allarmi anche perché le boe (fra l’altro presenti solo nell’Oceano Pacifico) sono in numero insufficiente per monitorare l’intero fondo oceanico.

Nell’ultimo maremoto che ha colpito l’estremo oriente la prevenzione però non ha funzionato che parzialmente e soprattutto non ha funzionato in Indonesia dove, per mancanza di organizzazione, per le infrastrutture inadeguate e per una burocrazia farraginosa che ha impedito che la notizia venisse valutata nella sua reale gravità, si è avuto il maggior numero di vittime e di danni materiali. In alcune località dei quel Paese mancava perfino il telefono attraverso il quale comunicare il pericolo incombente.

In alcuni casi tuttavia non basta che la sirena suoni, bisogna anche che la gente sappia come comportarsi. Bisogna infatti tener conto del fatto che una evacuazione su larga scala soprattutto nelle zone turistiche costa milioni di dollari e che basta lanciare un paio di falsi allarmi perché il terzo non venga ascoltato dalla maggior parte dei residenti. Alcuni ritengono che la creazione di un sistema di allarme globale costerebbe un sacco di soldi e non darebbe quelle garanzie assolute che ci si attende. I medici che lavorano nei paesi del Terzo Mondo reputano ad esempio che sarebbe molto più utile investire le risorse disponibili per debellare la malaria che tormenta vaste zone dell’Asia e dell’Africa e che in un anno fa molte più vittime di uno tsunami.

Vi è poi un altro problema, per quanto riguarda la previsione e la prevenzione di eventi catastrofici, di non secondaria importanza. Per quanto riguarda il sisma che genera lo tsunami, ad esempio, è necessario che esso si verifichi vicino alla costa, che sia di forte intensità e con ipocentro non molto profondo. La costa inoltre su cui andrà ad infrangersi l’onda deve avere una particolare conformazione perché non è nemmeno l’onda in sé a produrre i danni maggiori, ma l’inondazione che segue.

Ad esempio, il terremoto che interessò il Cile il 22 maggio del 1960, di magnitudo 9,5, fu seguito da onde di tsunami di oltre 10 metri di altezza che tuttavia non fecero grandi danni in quanto andarono ad infrangersi su coste con alti contrafforti rocciosi e su spiagge a bassa densità abitativa. Ben diversi furono i danni nel caso del terremoto calabro-messinese del 1908 il quale provocò anch’esso un’imponente onda di tsunami la cui pressione è stata calcolata pari a cinquanta tonnellate per metro quadrato. Questa spaventosa ondata di maremoto si spinse all’interno del territorio indebolendo al suo passaggio i pochi manufatti che ancora erano rimasti in piedi dopo la scossa tellurica i quali vennero definitivamente abbattuti dall’onda di riflusso che trascinò verso il mare le macerie insieme con migliaia di cadaveri.

Anche l’Italia, quindi, è un’area soggetta agli tsunami a causa soprattutto della elevata sismicità di alcune regioni e per la presenza di vulcani attivi. L’ultimo caso di tsunami del nostro Paese si è verificato nell’isola di Stromboli in seguito ad una prolungata attività eruttiva nel dicembre del 2002 che provocò una frana sottomarina la quale a sua volta generò un’onda alta una decina di metri che investì la costa dell’isola nel giro di pochi minuti. In quella occasione le onde anomale hanno prodotto danni solo alle strutture e disagi alla navigazione ma ben più gravi sarebbero state le conseguenze di quell’evento qualora si fosse verificato d’estate quando le spiagge dell’isola sono molto frequentate. Nel caso delle spiagge italiane non è possibile allertare la popolazione con i sistemi adottati sulle coste del Pacifico per i tempi piuttosto brevi del tragitto dell’onda verso la costa. La prevenzione deve quindi fondarsi su criteri diversi e puntare su una informazione capillare e insistita degli abitanti delle zone rivierasche e degli operatori turistici possibilmente anche con cartelli sistemati sulla battigia che avvisino di allontanarsi velocemente dalla spiaggia in caso di scosse sismiche o del ritiro improvviso del mare.

Infine merita un cenno la costruzione, in Giappone e in India, di alcuni muri e portoni di acciaio che si chiudono automaticamente qualora scatti l’allarme i quali hanno mostrato la loro effica­cia in occasione di tsunami seguiti a pochi minuti dal terremoto o in ore notturne in cui non è possibile avvertire con tempestività la popolazione. Le costruzioni sistemate sulla spiaggia non sono certo un bel vedere ma hanno dimostrato la loro efficacia in passato in Giappone e in India proprio in occasione dell’ultimo tsunami.

Prof. Antonio Vecchia

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