Teorie evoluzionistiche

Lo spettacolare sviluppo delle applicazioni pratiche della ricerca scientifica può indurre molte persone, anche di buon livello culturale, a ritenere che il progresso tecnico costituisca l’obiettivo principale della scienza.

La scienza invece non è orientata esclusivamente verso la ricerca di applicazioni delle sue scoperte ma consiste fondamentalmente in uno sviluppo di idee, di teorie il cui primo scopo è quello di cercare di spiegare i fenomeni che si realizzano nel mondo in cui viviamo.

L’evoluzionismo è un classico esempio di teoria puramente scientifica che non ha avuto e non ha applicazioni pratiche dirette e che tuttavia ha destato fin dal suo nascere risonanza enorme e ancora oggi suscita contrasti e polemiche in tutto il mondo.

Attualmente vi sono ad esempio molti Americani che non pensano vi possa essere stato un processo evoluzionistico che ha modificato nel tempo le forme viventi ma credono che gli uomini e tutte le altre specie viventi siano state generate da un Creatore Divino esattamente come le vediamo oggi. Costoro si dicono creazionisti, anzi, senza comprendere l’incoerenza della definizione, “creazionisti scientifici” e il loro potere politico è tale che sono riusciti a convincere i governi di alcuni stati come l’Arkansas, la California e la Florida ad imporre nelle scuole l’insegnamento obbligatorio delle loro idee.

Anche in Italia non mancano i detrattori di Darwin: nel gennaio del 2004 il Ministro della Pubblica Istruzione, Letizia Moratti, su suggerimento di alcuni consulenti di area cattolica, ha tolto dai programmi delle scuole medie inferiori lo studio della teoria evoluzionistica adducendo a pretesto la necessità di far precedere i fatti sperimentali alle teorie che li interpretano. Secondo gli esperti pedagoghi del Ministro, i giovani, al di sotto dei 14 anni, non sarebbero quindi in grado di comprendere appieno l’aspetto speculativo della ricerca: gli stessi esperti, coerentemente, avrebbero dovuto consigliare il Ministro di togliere in quelle scuole anche l’insegnamento di tutte le altre teorie scientifiche (big bang, deriva dei continenti, atomico-molecolare e via dicendo).

La censura ha scatenato una valanga di proteste del mondo scientifico fino a costringere il Ministro a nominare una commissione di saggi al fine di dirimere la questione. Alla conclusione dei lavori, il presidente della commissione, il premio Nobel Rita Levi Montalcini, inviò al Ministro un documento in cui si sosteneva non solo che andava ripristinato l’insegnamento dell’evoluzionismo nella scuola media, ma che esso avrebbe dovuto essere esteso anche a quella elementare: un vero e proprio boomerang per i censori. A rincarare la dose, il gruppo di esperti ha auspicato anche un potenziamento dell’insegnamento delle scienze naturali in tutti gli ordini e gradi della scuola di Stato.

 

LA VITA DI DARWIN

Charles Robert Darwin nacque il 12 febbraio del 1809, quinto di sette figli, a Shrewsbury, una cittadina ubicata nell’Inghilterra occidentale, da Robert e Susannah Wedgwood. Il padre era medico, figlio a sua volta di un medico, Erasmus Darwin, personaggio pittoresco, buontempone e donnaiolo, ma anche uomo di scienza e letterato; il nonno materno era Josiah, ultimo di tredici figli di una famiglia di artigiani vasai che aveva acquistato notevole fama e ricchezza migliorando, proprio per opera di Josiah, la produzione di porcellana che da allora divenne famosa in tutto il mondo.

Charles trascorse i primi anni di vita in apparente serenità all’interno di una solida ed agiata famiglia borghese. Frequentò le scuole di primo grado per la verità senza troppo successo: era stato giudicato – come egli stesso ricorda – un ragazzo mediocre, un po’ al di sotto del livello intellettuale medio. Egli si applicava poco e certamente senza entusiasmo perché riteneva estremamente noiose le lezioni mentre era attratto dagli spettacoli che offriva la natura dall’osservazione della quale apprendeva nozioni scientifiche che gli sarebbero state di grande utilità in futuro. Si dilettava anche di fare raccolta delle cose più disparate come conchiglie, minerali e uova di uccelli (limitandosi a prenderne uno solo da ogni nido), ma collezionava pure monete e francobolli.

La morte della madre, quando Charles aveva da poco compiuto otto anni, lasciò la famiglia priva di una presenza capace di equilibrare quella paterna. Il padre era infatti una figura dalla personalità complessa e autoritaria che tuttavia fu sempre amato e rispettato dal figlio. Anche con le sorelle il ragazzo incontrò alcune difficoltà in particolare con la maggiore, Caroline, la quale, dopo la morte della madre, si dedicò con abnegazione ma anche con severità alla sua educazione.

Il padre avrebbe desiderato per il figlio la stessa carriera di medico che a lui e al suo genitore aveva dato agiatezza e soddisfazioni sul piano umano e sociale; con questo convincimento, lo ritirò dalla scuola un po’ prima che terminasse gli studi medi e lo mandò ad Edimburgo dove studiava medicina suo fratello maggiore, perché si iscrivesse anch’egli alla stessa facoltà.

I corsi universitari non migliorarono il carattere del ragazzo che non dimostrò interesse per le materie di studio da lui giudicate, anche in questo caso, scialbe e impartite da insegnanti altrettanto scialbi e banali. Le uniche lezioni che frequentava con piacere erano quelle di chimica forse perché, nei tempi della scuola dell’obbligo, aveva condotto piccoli esperimenti su sostanze allo stato gassoso insieme con il fratello maggiore in un laboratorio allestito all’interno di un capanno ubicato nel giardino di casa. Gli esperimenti erano spesso così puzzolenti che essendosi diffusa la notizia a scuola, i compagni gli attribuirono il soprannome di “Gas”.

Invece di seguire le lezioni Charles preferiva frequentare le società naturalistiche e mediche, che gli offrivano l’opportunità di fare amicizia con diversi giovani appassionati di scienze naturali dai quali apprese nozioni interessanti anche se non tutte condivisibili. Da uno di questi amici, che nutriva la massima ammirazione per le idee di Lamarck, venne a conoscenza della teoria evoluzionistica dello scienziato francese senza però rimanerne minimamente influenzato. Egli aveva letto in precedenza il libro Zoonomia scritto dal nonno Erasmus in cui si sostenevano idee analoghe senza che anche in questo caso venisse colpito particolarmente. Il suo interesse più forte era indirizzato verso le passeggiate a cavallo e soprattutto la caccia che rappresentava a quel tempo il suo impegno dominante.

La passione per la caccia e il disinteresse per la medicina preoccupavano il padre che temeva di vedere il figlio finire senza arte né parte e quindi gli propose la carriera ecclesiastica. Charles, che a quel tempo aveva 18 anni, all’inizio fu titubante ma poi l’dea di poter diventare un giorno un prete di campagna, lo convinse ad accettare l’offerta del padre. Lasciò quindi l’università scozzese di Edimburgo e si trasferì a Cambridge dove iniziò a seguire gli studi classici. Anche in quel luogo però non abbandonò le sue tendenze trasgressive e fra battute di caccia e cene fra amici con abbondanti libagioni, trascurò gli studi e sviluppò le sue naturali inclinazioni legandosi ad uomini di cultura che frequentò assiduamente impegnandosi anche nella lettura di libri di argomento scientifico: tra questi lo interessò in particolare uno scritto dal fisico e astronomo John Herschel, espressamente dedicato alla discussione del metodo induttivo della ricerca.

Fra le varie amicizie, si rivelò determinante quella con il botanico John Henslow il quale, nell’estate del 1831, lo informò che il capitano Robert Fitz-Roy desiderava dividere la sua cabina con un giovane disposto a seguirlo come naturalista in un viaggio per mare intorno al mondo. Si trattava di un viaggio a bordo del brigantino Beagle della Regia Marina, che doveva compiere rilevamenti cartografici delle coste del Sud America per conto dell’Ammiragliato: l’offerta non prevedeva retribuzione alcuna e inoltre il passeggero avrebbe dovuto provvedere al proprio equipaggiamento, al salario del suo servitore e al pagamento di una retta per il mantenimento a bordo di un viaggio che sarebbe dovuto durare due anni mentre si concluse dopo quasi cinque.

Il padre si oppose energicamente a questo progetto, aggiungendo però, per fortuna del figlio, che questi avrebbe avuto il suo consenso solo se avesse trovato una persona assennata che lo consigliasse di partire. La persona di buon senso fu subito trovata: lo zio Jos, ossia il fratello di sua madre, al quale Charles era molto affezionato. Il Beagle, detto “cassa da morto” per il suo cattivo stato di conservazione, dopo molti rinvii prese il mare il 27 dicembre 1831 dal porto di Plymouth sulla Manica.

Durante tutto il viaggio l’attività di Darwin fu incessante. Ad ogni scalo della nave egli compiva lunghi percorsi a cavallo per eseguire ricerche di geologia e raccogliere esemplari di animali, vegetali, rocce e fossili che poi studiava e catalogava durante i lunghi periodi di navigazione e quando il mal di mare (che in verità lo tormentava di frequente) non glielo impediva. Leggeva anche i numerosi libri che si era portato appresso e in particolare fu molto influenzato dal primo volume dei Principi di geologia, un libro fresco di stampa scritto da Charles Lyell (1797-1875), un geologo che in seguito sarebbe diventato suo amico. Questo giovane scienziato nella sua opera avanzava l’ipotesi che le forze naturali del passato fossero le stesse forze esistenti oggi. La Terra pertanto era stata modellata non da eventi repentini e violenti come proponevano le vecchie teorie catastrofistiche, ma da processi lenti e graduali, gli stessi che agiscono sotto i nostri occhi e che formano nuove catene montuose e nuovi oceani senza che ce ne accorgiamo. L’ipotesi prende il nome di “teoria dell’attualismo” ed implica che la Terra ha avuto una storia molto lunga e non di soli pochi millenni come si pensava a quel tempo.

La lettura di questo libro fu di fondamentale importanza per Darwin perché anticipava ciò che egli poté vedere lungo le coste del Sud America e cioè le profonde trasformazioni cui andò incontro la Terra e i cambiamenti che queste modificazioni produssero su piante e animali. Nel febbraio del 1835 assistette ad un violento terremoto in Cile, il cui effetto più evidente fu il sollevamento del terreno di alcuni decimetri. Darwin, sulla base della teoria attualistica di Lyell, mise in relazione questo episodio con la configurazione geologica della regione in cui si potevano estrarre conchiglie dalle rocce poste fino a 300 metri sopra il livello del mare. Ipotizzò quindi che questo sollevamento generale della costa potesse essere stato causato da una successione di piccoli sollevamenti del tipo di quello determinato dall’ultimo terremoto. Altre prove di queste modificazioni il giovane naturalista le riscontrò nella osservazione di alcuni fossili che non assomigliavano per nulla agli animali attuali.

Quando poi il Beagle raggiunse le isole Galapagos (poste a circa 1000 kilometri ad ovest dell’Ecuador, in mezzo al Pacifico), Darwin si trovò di fronte un laboratorio vivente in cui poté fare osservazioni che sarebbero state decisive per la formulazione della sua teoria. Le isole sono una quindicina di cui cinque molto più grandi delle altre e prendono il nome dalle tartarughe (galapagos in spagnolo) che in quel luogo presentano dimensioni enormi (alcune pesano più di un quintale). Su ogni isola viveva un tipo diverso di tartaruga che i pescatori cacciavano per cibarsi delle loro carni.

Egli osservò anche i fringuelli e notò che questi uccelli a loro volta cambiavano di forma, seppure in misura minima, da isola a isola. Contò ben 13 specie di fringuelli che differivano per grandezza, struttura e forma del becco e notò in particolare che questo si era adattato a mutate abitudini alimentari: i soggetti che si nutrivano di semi avevano il becco più grosso mentre quelli che si cibavano di insetti lo avevano lungo e appuntito. Aveva fra gli altri scoperto su di un’isola dell’arcipelago un fringuello simile al picchio che usava il becco per snidare i parassiti nascosti sotto la corteccia degli alberi ma, non avendo la lunga lingua viscosa della quale il picchio si serve per portarli alla bocca, utilizzava allo scopo un piccolo stecco che inseriva nelle fessure della pianta.

 

LE IDEE DOMINANTI PRIMA DI DARWIN

Nel primo libro della Bibbia, la Genesi, c’è scritto che il mondo fu creato da Dio, così come oggi lo vediamo, circa quattromila anni prima della scrittura di quel libro e che l’operazione richiese sei giorni di cui gli ultimi due dedicati a dar vita a piante e animali. Un’idea più o meno dello stesso tipo si trova in molte cosmogonie primitive ma quella biblica si impose per secoli così da dominare il pensiero scientifico della civiltà a cui apparteniamo.

Quindi, per circa duemila anni, i biologi rimasero convinti che tutte le specie viventi, compreso l’uomo, fossero un prodotto della creazione divina e che esse si siano conservate immutate nel tempo sia come numero sia come caratteristiche morfologiche.

Uno dei naturalisti più conosciuti, che credeva nella creazione originale, era lo svedese Carlo Linneo (1707-1778) il quale fu il più grande sistematico di ogni tempo. Egli elaborò un metodo di classificazione basato sulla nomenclatura binomia attribuendo cioè ad ogni essere vivente un nome latino composto dalla denominazione del genere seguito da quello della specie. Così ad esempio al genere Canis appartengono fra gli altri il Canis familiaris, il cane; il Canis lupus, il lupo e il Canis vulpes, la volpe. Lo stesso sistema di nomenclatura vale anche per le piante: ad esempio gli aceri appartengono al genere Acer, fra questi vi è  l’Acer rubrum, l’acero rosso e l’Acer nigrum, l’acero nero. All’uomo stesso fu assegnato il nome scientifico di Homo sapiens unica specie vivente del genere Homo.

Linneo era un fissista e in questo senso è illuminante una sua frase: Tot sunt species quot ab initio creavit Infinitum Ens (“Ci sono tante specie quante all’inizio ne creò Dio”), ma era anch’egli, come altri del suo tempo, tormentato dal dubbio che le specie dello stesso genere non potessero avere costituito all’inizio un’unica specie che si sarebbe poi diversificata per via ibrida. Questa sua ipotesi risulta essere un trasformismo che potremmo definire limitato ma che comunque fa di questo insigne scienziato un precursore dell’evoluzionismo.

In quella stessa epoca (nacque nello stesso anno di Linneo) si segnalò un altro scienziato: Georges-Louis Leclerc conte di Buffon, il quale è stato a lungo considerato un anticipatore del concetto di trasformazione del creato. In realtà egli pensava che tutti gli esseri viventi fossero stati creati da Dio e in quanto tali che fossero rimasti fissi e immutabili nel tempo: la prova di ciò starebbe nel fatto che, dai tempi più antichi, non si aveva notizia della comparsa di una nuova specie di animali mentre tutti i tentativi che aveva operato la natura per mescolare le specie avevano portato sempre ad ibridi sterili come era avvenuto ad esempio per il mulo.

Il Buffon era fissista per quanto riguardava le specie viventi ma evoluzionista per quanto atteneva alla storia della Terra e degli altri pianeti del sistema solare che immaginava originati da frammenti di Sole strappati da una cometa nel suo impatto con l’astro. Calcolò quindi il tempo necessario affinché una massa fluida e caldissima quale doveva essere la Terra all’inizio della sua esistenza si raffreddasse fino a raggiungere una temperatura compatibile con la vita. Questa età fu stimata in circa 100.000 anni, un tempo molto più lungo di quello calcolato dai teologi cristiani sulla base degli scritti biblici.

Gli storici della scienza hanno individuato altri personaggi che potrebbero essere ritenuti evoluzionisti ante litteram. Fra questi vi sarebbe perfino Aristotele (generalmente considerato un fissista) per la sua scala naturae cioè per avere classificato le forme viventi dalle più semplici alle più complesse riconoscendo all’uomo la posizione più elevata, ma escludendo nel contempo la possibilità di ulteriori miglioramenti. Evoluzionista venne ritenuto soprattutto Lucrezio il poeta latino che nel suo De rerum natura esprime concetti che adombrano più o meno velatamente la teoria evoluzionistica. Nel suo libro egli afferma fra l’altro che non tutti gli esseri viventi sono giunti ai giorni nostri: i più mostruosi si sono estinti. In questa affermazione alcuni hanno voluto vedere una anticipazione del principio darwiniano della sopravvivenza del più adatto.

Dovevano passare molti secoli, fino all’Età Moderna, perché si segnalassero scienziati convinti del cambiamento delle specie, ma, mancando di alcune conoscenze fondamentali come la struttura interna di animali e piante e l’esatta interpretazione dei fossili, questi non furono in grado di esprimere un pensiero evoluzionistico completo.

Il primo scienziato che propose un’ipotesi precisa per spiegare i modi dell’evoluzione delle forme viventi fu il biologo francese Jean Baptiste Lamarck (1744-1829). Nel 1809, anno in cui nasceva Charles Darwin, Lamarck pubblicò un libro in cui esprimeva le sue idee sull’evoluzione. La sua ipotesi riguardava in modo specifico gli animali e si basava su due presupposti fondamentali. Il primo lo chiamò “legge dell’uso e del disuso” e prevedeva che qualsiasi organo, se sottoposto ad un uso particolarmente frequente e continuo, si sarebbe sviluppato e ingrandito mentre gli organi non utilizzati si sarebbero indeboliti e rimpiccioliti fino a scomparire del tutto. Il secondo presupposto fu chiamato “legge dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti” e asseriva che ogni animale potesse trasmettere alla propria discendenza quei caratteri che si erano accentuati con l’uso o stavano per scomparire a causa del disuso.

Per avvalorare la sua tesi, Lamarck utilizzò molti esempi tratti dalla natura. Famoso è quello della giraffa alla quale si sarebbe allungato il collo per la necessità di raggiungere le foglie degli alberi, unico alimento disponibile in un luogo arso dal sole in cui il terreno è privo d’erba. Altro esempio è quello dei serpenti i quali probabilmente all’inizio avevano zampe e corpi tozzi, ma poi la necessità di passare attraverso spazi angusti del terreno sul quale vivevano aveva fatto loro perdere le zampe divenute pressoché inutili e assumere un corpo più snello.

La teoria di Lamarck venne violentemente attaccata dal naturalista francese Georges Cuvier (1769-1832), seguace di Linneo, il quale è considerato il fondatore dell’anatomia comparata e soprattutto della paleontologia, la scienza dei fossili. Fino a poco tempo prima i fossili venivano considerati “scherzi della natura” e fu il Cuvier a utilizzare ossa sparse e spesso frammentate per ricostruire, grazie alle sue conoscenze di anatomia, scheletri interi di animali estinti. Egli aveva estratto molti reperti dagli strati rocciosi (oltre che della paleontologia Cuvier viene considerato anche il fondatore di quella parte della geologia che si chiama stratigrafia) notando che i fossili presenti in strati rocciosi di diversa età erano diversi. Queste osservazioni avrebbero dovuto convincerlo che nel tempo vi era stata una graduale variazione delle forme viventi e degli ambienti all’interno dei quali queste forme vissero.

Cuvier era però un antievoluzionista di religione protestante e la fiducia cieca in ciò che era riportato dalla Bibbia lo mise fuori strada. Quindi anziché seguire la via più logica (oggi le principali prove dell’evoluzione si traggono proprio dalla paleontologia e dalla anatomia comparata) prese la strada più difficile e ipotizzò che la Terra fosse stata teatro di periodiche catastrofi che avrebbero cancellato tutte (o quasi tutte) le specie viventi e che, dopo ciascuno degli eventi, il Creatore avrebbe rimesso in vita altre specie un po’ diverse dalle precedenti. L’ultima catastrofe, preceduta da altre 26, corrispondeva al diluvio universale. Cuvier sosteneva quindi la fissità delle specie: un concetto diametralmente opposto a quello di Lamarck.

In verità i presupposti che stavano alla base dell’ipotesi di Lamarck apparivano entrambi infondati: la legge dell’uso e del disuso, così come era stata formulata, sembrava implicare uno sforzo consapevole verso forme più adatte che gli animali in genere non sono in grado di compiere, e tanto meno lo sono le piante. Solo l’uomo è capace di sviluppare una parte del suo corpo attraverso l’esercizio fisico: l’uso di certi organi conduce al loro sviluppo (basta osservare i muscoli di un tennista per rendersi conto che l’allenamento ha ingrossato visibilmente quelli dell’avambraccio corrispondente alla mano che impugna la racchetta, mentre la mancanza di movimento di un individuo colpito da poliomielite ha ridotto i muscoli delle gambe). La seconda legge era ancora più inverosimile. Essa non è applicabile nemmeno all’uomo: i figli di una generazione di tennisti non nascono infatti con braccia più muscolose della media degli altri bambini né sono ereditarie alcune mutilazioni o deturpazioni imposte agli individui appartenenti a diverse civiltà e culture come la circoncisione, i tatuaggi o la deformazione dei piedi inflitta un tempo alle donne cinesi.

Il biologo tedesco August Weismann (1834-1914) per dimostrare l’infondatezza del secondo postulato di Lamarck, non si accontentò di esempi tratti dalla natura ma tagliò egli stesso la coda ad alcuni topi che poi faceva accoppiare fra loro; dopo venti generazioni i topi nascevano ancora con la coda la quale era anche lunga quanto quella dei topi della prima generazione. In verità il naturalista tedesco avrebbe potuto risparmiarsi una tale dimostrazione: sarebbe stato sufficiente osservare che le donne nascono sempre con l’imene a dispetto della sua perdita in ogni generazione.

 

L’INIZIO DEL LAVORO TEORICO

Al suo ritorno in patria Darwin era molto diverso rispetto a quel giovanotto spensierato e fannullone che si era imbarcato sul Beagle quasi cinque anni prima: egli era mutato non solo fisicamente (il padre notò che perfino la forma della sua testa era cambiata) ma soprattutto intellettualmente. Durante il viaggio aveva mantenuto rapporti epistolari con alcuni amici tanto che nell’ambiente dei naturalisti era ormai noto come un autorevole scienziato.

All’inizio prese dimora per alcuni mesi a casa del professor Henslow a Cambridge, ma poi si trasferì a Londra dove si occupò subito di mettere a punto il Diario del viaggio; distribuì quindi i reperti della sua collezione di animali, vegetali e fossili ad esperti classificatori perché li analizzassero e scrisse le sue prime riflessioni sull’origine delle specie. Frattanto si decise anche di mettere su famiglia: nel 1839, dopo qualche esitazione, sposò la cugina Emma Wedgwood, figlia del famoso zio Jos. Negli anni successivi nacquero dieci figli di cui sette giunsero a maggiore età ma tutti purtroppo con problemi di salute.

Dopo il matrimonio, la coppia trascorse un paio d’anni a Londra quindi abbandonò “la disgustosa e affumicata città” per trasferirsi in campagna, dove aveva acquistato una spaziosa e comoda casa al centro di un parco a Down, una località poco lontana dalla capitale e qui Darwin sarebbe rimasto per tutto il resto della sua vita allontanandosi solo eccezionalmente per recarsi presso gli stabilimenti idropatici a curare i suoi numerosi disturbi.

Non si è mai saputo quale fosse il male di cui soffrì Darwin dopo il ritorno in Inghilterra, una sofferenza che gli procurava disturbi gastrici, palpitazioni, attacchi di panico e sensazioni di svenimento (le ultime parole che disse prima di morire furono: “Mi sento svenire”) e che non lo abbandonò mai. Alcuni pensano si trattasse di un malanno contratto per la puntura di una cimice durante il viaggio a bordo del Beagle. Dal momento però che alcuni dei sintomi erano presenti anche prima della sua partenza, sono in molti oggi a propendere per una diagnosi di tipo neurovegetativo dovuta all’ansia conseguente ai rimproveri ricevuti dal padre durante la sua adolescenza e soprattutto alle critiche scientifiche dei colleghi che contestavano aspramente le sue idee.

Darwin fu a lungo preoccupato che la sua potesse essere una malattia ereditaria e assillato dall’idea di poterla trasmettere ai figli: purtroppo le sue paure avrebbero avuto una drammatica conferma quando nel 1851 morì la sua prima figlia di soli 10 anni a causa di febbre gastrica biliare. La perdita prima della madre ed ora della figlia a causa di una malattia di cui egli stesso soffriva lo avrebbe indotto al pessimismo e ad angosciosi timori per la salute degli altri figli sottoposti a continue ed ossessive attenzioni. D’altra parte come avrebbe potuto, proprio colui che andava teorizzando la “lotta per l’esistenza” che favorisce i più forti e i più sani, non preoccuparsi del rischio che aveva corso nel mettere al mondo dei figli con una donna che era sua cugina prima?

La vita a Down regolare e tranquilla, operosa e ricca di affetti durò quarant’anni. Ebbe un primo attacco cardiaco nel dicembre del 1881, un secondo più grave nel marzo del 1882 e quello finale nella notte del 18 aprile dello stesso anno. Morì il 19 aprile del 1882 alle tre e mezza del pomeriggio. Fu sepolto solennemente nell’abbazia di Westminster, accanto a Newton.

Non molto tempo dopo il suo ritorno a casa Darwin lesse, per diletto, il libro del reverendo Thomas Malthus (1766-1834) Saggio sui principî della popolazione in cui lo studioso inglese sostiene che la società umana, moltiplicandosi, si accresce con un ritmo più rapido di quello consentito dall’aumento delle risorse. La sovrappopolazione avrebbe prodotto, secondo Malthus, miseria e vizi ossia fame, malattie e guerre quindi una lotta per l’esistenza in cui molti individui sarebbero destinati a soccombere.

Darwin riconobbe nelle parole di Malthus un principio generale valido per tutti gli organismi e non solo per l’uomo: egli intuì che la dura lotta per la sopravvivenza fra gli organismi della stessa specie o di specie diverse avrebbe portato alla conservazione delle variazioni più favorevoli e alla scomparsa delle altre: il risultato pertanto sarebbe stato la differenziazione delle specie. La lotta per l’esistenza non doveva essere vista sempre e unicamente come un combattimento vero e proprio ma, in alcuni casi, anche in senso metaforico. Essa poteva quindi presentarsi ad esempio come competizione per procurarsi il cibo, come capacità a sfuggire ai predatori, come difesa del territorio o ricerca della luce da parte delle piante ma anche come un accoppiamento più precoce o più frequente o come una migliore cooperazione tra i partner nell’allevamento della prole.

Darwin tuttavia non si decideva a pubblicare le sue idee perché gli parevano talmente scandalose ed eccessive che – scriveva ad un amico – “era come dover confessare un delitto”. Per vent’anni covò in silenzio le sue convinzioni limitandosi a poche pagine dei suoi saggi e alcune lettere agli amici più fidati.

Frattanto, nel giugno del 1858, mentre stava preparando ormai da due anni un’opera di vaste proporzioni sull’origine delle specie gli fu recapitata una lettera scritta da un naturalista scozzese, Alfred Russel Wallace (1823-1913) che in quel momento si trovava in Malesia. In quella lettera lo studioso esponeva una teoria identica alla sua e la comunicava all’unica persona che egli riteneva interessata all’argomento. Lo scoramento di Darwin nel leggere le sue stesse idee formulate in uno scritto da una persona che egli nemmeno conosceva fu grande e tuttavia si dichiarò pronto a far pubblicare lo scritto come gli veniva chiesto. I suoi amici, che ben conoscevano il lavoro svolto da Darwin e il tempo che vi aveva dedicato, lo convinsero a superare i suoi scrupoli e a presentare il lavoro di Wallace insieme ad un breve saggio della sua teoria nel Giornale della società linneana, Zoologia. Lo scritto, sorprendentemente, passò quasi inosservato. Uno dei pochi commenti, peraltro sferzante, fu quello di un oscuro professore di Dublino secondo il quale nelle teorie di Darwin e Wallace “tutto ciò che vi era di nuovo era falso e tutto ciò che vi era di vero era vecchio”.

Darwin cominciò poco dopo a scrivere un libro in cui esponeva in forma condensata la sua teoria e i dati su cui la stessa si basava; forse proprio la struttura più agile di quest’opera contribuì ad assicurargli il favore del pubblico. La gran mole dei dati presentati, il ragionamento pacato ma rigoroso, la risposta preventiva a molte delle obiezioni possibili, sono fra i motivi del successo della sua opera e spiegano forse anche il motivo per il quale si è sempre giustamente considerato Darwin e non Wallace il padre della teoria evoluzionistica.

Vale la pena ricordare a questo punto che più avanti negli anni gli interessi di Wallace si spostarono dalla biologia ad altre materie non scientifiche fra cui la frenologia (dottrina che metteva in relazione le funzioni psichiche con particolari rilievi del cranio) e lo spiritismo.

 

I PRESUPPOSTI DELLA TEORIA 

L’Origine delle specie (ma il titolo completo dell’opera è: “Sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale, ovvero la conservazione delle razze più favorite nella lotta per l’esistenza”) uscì nel novembre del 1859 in 1250 copie che si esaurirono tutte quante il giorno stesso in cui arrivarono in libreria; a questa prima edizione ne seguirono altre cinque di cui l’ultima nel 1872. In quel libro, tradotto successivamente nelle principali lingue del mondo, Darwin introduce immediatamente il problema di fondo: le specie sono fisse e immutabili o si trasformano? Sono state create indipendentemente l’una dall’altra o sono derivate da altre specie?

Per rispondere alla domanda il più grande biologo di ogni tempo si rifà alle osservazioni paleontologiche e a quelle relative alla distribuzione geografica degli organismi viventi incontrati nel corso del suo viaggio intorno al mondo. In particolare egli aveva osservato che in aree vicine, contigue o separate da bracci di mare come erano le isole dell’arcipelago delle Galapagos esistevano specie un poco diverse fra loro. Queste osservazioni fecero pendere la bilancia a favore della trasformazione delle specie, che non sarebbero state create indipendentemente le une dalle altre, ma piuttosto derivate da altre preesistenti. Il problema fondamentale rimaneva tuttavia quello relativo ai metodi che la natura avrebbe adottato per cambiare la fisionomia dei vari organismi.

L’azione delle condizioni ambientali e la volontà degli esseri viventi di migliorarsi, prospettate da Lamarck, gli parevano insufficienti e poco verosimili (soprattutto per le piante): era necessario quindi mettersi alla ricerca di qualche altro meccanismo più convincente. Darwin lo individuò in quello che mettevano in atto gli allevatori e i coltivatori quando avevano l’esigenza di produrre varietà di animali domestici e di piante coltivate che meglio corrispondessero alle loro richieste. Egli apprese quindi che la prima cura di un allevatore è quella di selezionare gli individui che possiedono i caratteri desiderati e quindi farli accoppiare.

Collegando queste ricerche alle osservazioni che aveva fatto nel viaggio sul Beagle, lo scienziato inglese si forma l’idea che forse anche in natura agisce una forza in qualche modo analoga alla selezione artificiale messa in opera dagli allevatori. Comincia così a delinearsi nella sua mente uno schema abbastanza completo nel quale i vari tasselli si andavano disponendo al posto giusto.

La teoria darwiniana dell’evoluzione si basa su alcuni principi generali: il primo riguarda la sovrapproduzione di prole da parte di una popolazione animale o vegetale. Tutti avranno notato, ad esempio, che un albero produce un numero sterminato di semi: basta contare quelli che stanno all’interno di una mela e le mele presenti sul melo per rendersi conto di quanto elevato sia questo numero. Da ognuno di questi semi potrebbe nascere un albero se l’ambiente lo consentisse.

Lo stesso Darwin aveva calcolato che se una pianta producesse in un anno solo due semi, e se ciascuno di essi desse una pianta che producesse a sua volta altri due semi e così via, in vent’anni i discendenti della prima pianta arriverebbero ad un milione di individui. Calcolò anche che da una sola coppia di elefanti (che come si sa sono gli animali più lenti a riprodursi) in 750 anni si dovrebbero avere diciannove milioni di elefanti viventi. Le condizioni ideali che permettono ad una popolazione di espandersi senza limiti, però, in natura non esistono e infatti normalmente le popolazioni animali e vegetali restano costanti nel tempo come numero di individui. Da questa osservazione Darwin dedusse che doveva esserci un’elevata mortalità. Una crescita senza limiti di una popolazione si potrebbe verificare solo in seguito alla introduzione di una nuova specie all’interno di un territorio favorevole al suo sviluppo. Gli esempi sono rari, ma tra essi il più degno di nota è rappresentato dai conigli dell’Australia.

Nel 1859 (l’anno della pubblicazione dell’Origine delle specie) un ricco contadino inglese residente in Australia importò dall’Europa una dozzina di conigli, che lasciò liberi nel suo vasto parco per poterli cacciare. Essi si moltiplicarono senza controllo e in pochi lustri invasero tutto il continente distruggendo pascoli e raccolti. La lotta contro questi animali iniziò troppo tardi e prosegue tuttora, nonostante per sterminarli si fosse fatto ricorso nel 1950 alla mixomatosi, una malattia virale molto contagiosa, dal decorso rapido e letale. I risultati furono in un primo tempo spettacolari e la popolazione di conigli diminuì drasticamente ma in seguito, per sopraggiunte variazioni, sia negli ospiti che negli agenti patogeni larga parte dei conigli sopravvisse alla malattia.

Il grande biologo inglese osservò inoltre che in una popolazione animale o vegetale non tutti gli individui sono identici: alcuni di essi hanno dei caratteri che consentono loro di adattarsi all’ambiente meglio di altri. La conseguenza di ciò è che alcuni organismi avranno più successo di altri nella sopravvivenza, e saranno anche portati a generare un maggior numero di discendenti rispetto a quelli più deboli. Gli esemplari destinati a dare origine alla generazione successiva vengono quindi selezionati naturalmente tra quelli che presentano il miglior grado di adattamento all’ambiente: l’ambiente opera quindi una selezione sugli individui di una popolazione.

Infine, considerando la somiglianza ereditaria tra genitori e figli, appare chiaro che le generazioni successive siano destinate a mantenere, e anche a migliorare gradualmente, il livello di adattamento raggiunto dai genitori. Alla base della teoria evoluzionistica di Darwin vi sono quindi la variabilità e la selezione. La grande intuizione di Darwin in realtà non fu l’aver espresso il concetto di evoluzione, quanto piuttosto l’aver dato a questa idea rigore e dignità di scienza.

 

LE CRITICHE

Quella evoluzionistica è forse la teoria che è stata verificata più di ogni altra senza che alcuna prova abbia però mai messo in dubbio la sua validità: le osservazioni e le risultanze sperimentali si sono sempre perfettamente inquadrate nello schema generale.

L’avversione della Chiesa per la teoria darwiniana fu immediata e per alcuni versi ancora più forte di quella espressa in precedenza nei confronti del copernicanesimo. Nel 1543 l’astronomo polacco aveva dato il colpo di grazia al dogma geocentrico spostando la Terra in zona periferica, ora Darwin lo assestava a quello antropocentrico, relegando l’uomo nel regno animale. Così se in una delle sue rare visite al British Museum lo scienziato venne indicato da un pastore anglicano presente in quel luogo come “l’uomo più pericoloso d’Inghilterra”, anche molti scienziati suoi amici fra cui il geologo Lyell (le cui idee avevano ispirato il giovane Darwin) non accettarono la nuova teoria. Lyell dichiarò candidamente che preferiva considerare l’uomo come un arcangelo decaduto piuttosto che un essere derivato dalla scimmia, anche se in verità Darwin non disse (né avrebbe potuto dirlo) che l’uomo discende dalla scimmia. Nell’Origine della specie l’autore non fa mai riferimento diretto al posto dell’uomo nell’evoluzione ma ai ben pensanti non sfuggì che anche l’uomo, come tutti gli animali più evoluti, sarebbe dovuto derivare da una forma inferiore di vita che nel suo caso non poteva che essere la scimmia. Solo dodici anni più tardi Darwin scrisse l’Origine dell’uomo in cui avrebbe affrontato l’argomento specifico.

E’ rimasta famosa la violenta discussione fra il vescovo anglicano Samuel Wilbeforce e lo scienziato Thomas Huxley il difensore più strenuo di Darwin, il suo “cane da guardia”, come veniva chiamato. Nel giugno del 1860, a pochi mesi dalla pubblicazione dell’Origine delle specie, l’Associazione britannica per il progresso delle scienze tenne la sua consueta assemblea annuale ad Oxford annunciando nel programma comunicazioni relative alla teoria evoluzionistica di Darwin il quale però, sofferente come spesso gli capitava, non poté presentarsi alla riunione. Vi andò invece Huxley che prese la parola per ribattere le aspre critiche che provenivano da alcuni scienziati contrari alle nuove idee. Lo storico scontro con il vescovo, persona dall’eloquio sciolto e convincente ma poco preparata sul tema che si stava trattando, avvenne il terzo giorno del convegno.

Wilbeforce fece un discorso vuoto e ampolloso, scientificamente inconsistente, ma pieno di facili battute l’ultima delle quali provocò direttamente Huxley. Rivolgendosi al naturalista amico di Darwin gli pose la famosa domanda: “Di grazia, è per parte di madre o per parte di padre che lei vanta la sua discendenza da una scimmia?”. La battuta fu accolta dal numeroso pubblico con un fragoroso applauso.

Era quanto ci voleva per stimolare lo spirito battagliero di Huxley il quale prese la parola per fare un discorso preciso e documentato a favore dell’evoluzionismo, quindi concluse con una frase di altrettanto effetto rispetto a quella pronunciata dal vescovo: “Non mi vergognerei di avere una scimmia fra i miei antenati, mi vergognerei piuttosto di essere imparentato con una persona che usa il singolare talento di cui è dotata per volgere in ridicolo una seria questione scientifica”. Gli applausi furono ancora più entusiastici di quelli tributati in precedenza al vescovo.

L’opera della selezione sugli organismi si esplica con l’incessante e sempre più perfetto adattamento di essi all’ambiente e quindi con il progresso costante delle strutture. Ma cosa si intende per progresso? Il concetto di progresso implica in genere l’aumento della complessità, ma può anche richiedere, come nel caso delle forme parassite, una riduzione di essa.

Il progresso, in verità, non è inevitabile e la prova è rappresentata dalla persistenza di forme inferiori, come vermi e batteri, che non dimostrano affatto l’inconsistenza dell’evoluzionismo. Chi contesta questa affermazione non si rende conto che anche gli insetti, allo stesso modo degli uomini, potrebbero pensare che gli esseri più perfetti siano le formiche e le api. Per chiarire il concetto possiamo ricorrere ad un esempio tratto dall’esperienza quotidiana: nessuno si stupisce del fatto che esistono ancor oggi le candele, quando è più pratico usare la corrente elettrica per illuminare gli ambienti. Ma le candele non sono sparite e, in alcune circostanze particolari, si dimostrano più utili della stessa forma di illuminazione moderna.

In Italia le prime notizie sulla nuova teoria giunsero l’anno seguente alla pubblicazione del libro ma senza scuotere l’inerzia intellettuale in cui languivano anche i centri culturali meno sonnolenti. Nel 1864 comparve in libreria la traduzione del libro di Darwin consentendo finalmente alla teoria di fare il suo ingresso ufficiale nel mondo accademico e culturale dove suscitò adesioni entusiastiche ma anche riprovazioni feroci.

I conservatori e i benpensanti, come spesso accade quando si profilano cambiamenti radicali nelle loro convinzioni più profonde, si mossero al contrattacco mirando soprattutto a scardinare il disgustoso e incomodo corollario dell’evoluzionismo, ossia la discendenza dell’uomo da antenati scimmieschi.

Violentissime furono le opposizioni alle nuove idee, pronunciate anche dal pulpito, da parte di alcuni prelati soprattutto per quello che riguardava l’incompatibilità di un’anima immortale in un uomo che discendeva da un animale. Tuttavia se appariva comprensibile il risentimento della Chiesa, meno giustificabile era invece la presa di posizione di intellettuali soprattutto di area cattolica, ma non solo. Ad esempio il pedagogista Raffaello Lambruschini scrisse su di un quotidiano un articolo in cui criticava aspramente la nuova teoria e concludeva affermando di non sapere veramente comprendere “di quale utilità potesse riuscire per il popolo fargli sapere che i suoi progenitori sono le scimmie”. Si tratta di un esempio molto eloquente della diffidenza con cui gli ambienti clericali guardavano all’emancipazione culturale delle masse. La frase ricorda quello che ebbe a dire una nobildonna inglese la quale, essendo venuta a conoscenza del fatto che nel libro di Darwin si accennava ad una eventuale discendenza dell’uomo dalle scimmie, esclamò: “Speriamo che non sia vero; e se poi lo fosse, speriamo che almeno non diventi di pubblico dominio”.

Alla fine entrò nella polemica, con tutta la sua autorità, anche il venerando vecchio Niccolò Tommaseo che in un libretto scritto espressamente per mettere in ridicolo la “lieta novella” denunciava il fatto che ora, grazie alla geniale spregiudicatezza dello scienziato inglese, gli Italiani venivano posti alla pari “non solo con i Russi e gli Ottentotti, ma anche con le scimmie”.

Frattanto però la teoria darwiniana incontrava sempre maggiori consensi nel mondo accademico, e non solo in quello, tanto che la Chiesa cattolica dovette rivedere alcune sue posizioni intransigenti e riconoscere l’avvenuta evoluzione delle specie, chiarendo tuttavia che ogni cosa era preordinata e rappresentava null’altro che un disegno concepito dalla mente suprema del Creatore.

Non possiamo tacere tuttavia il fatto che negli anni precedenti alla cosiddetta “teoria sintetica” in cui l’evoluzionismo di Darwin fu rianimato dalla genetica, la teoria ebbe un momento di crisi di cui seppero approfittare gli antievoluzionisti con a capo Benedetto Croce il quale disinvoltamente affermava che “l’immagine di fantastiche origini animalesche dell’umanità non solo non vivifica l’intelletto, ma mortifica l’animo”.

 

EVOLUZIONE E GENETICA 

Oggi nessuno scienziato nutre più il minimo dubbio sulla validità della teoria dell’evoluzione: sia gli esseri viventi presenti in natura, sia i fossili che si estraggono dalle rocce attestano loro che la vita si è davvero evoluta nel corso di miliardi di anni.

Anche alla fine dell’Ottocento tutto sembrava indicare che la teoria di Darwin fosse corretta eppure mancava qualcosa perché l’insieme risultasse completo. Affinché la teoria potesse spiegare le trasformazioni delle specie era necessario infatti che la prole ereditasse i caratteri dai genitori, ma non era chiaro in che modo ciò potesse avvenire. Darwin pensava che, quando gli animali si accoppiavano, si mescolassero dei liquidi speciali contenuti nel sangue e di conseguenza si mescolassero anche i loro caratteri. Se fosse stata vera questa ipotesi i figli di un uomo molto basso e di una donna molto alta sarebbero dovuti essere di statura media. È facile verificare che ciò non è vero perché i figli possono essere alti come la madre o bassi come il padre. A tale proposito è opportuno citare un esempio molto noto e, tra l’altro, contemporaneo al dibattito in atto, concernente la statura del principe ereditario, il futuro Vittorio Emanuele III, a cui fu data in sposa Elena di Montenegro, una donna molto alta, nella prospettiva di avere eredi alti: in effetti il loro figlio, che sarà a sua volta re d’Italia con il nome di Umberto II, era di statura alta.

Mentre Darwin dibatteva questo problema con altri biologi dissenzienti, un fraticello che viveva in un monastero alle porte di Brno in Boemia aveva risolto il problema: si trattava di Gregor Mendel (1822-1884), che avrebbe voluto diventare scienziato ma non ottenne mai una votazione sufficiente per essere ammesso all’Università, e pertanto dovette ripiegare sulla carriera ecclesiastica. A differenza di Darwin però egli non solo concluse con successo gli studi di teologia, ma prese anche i voti. Essendo figlio di contadini, Mendel passava volentieri il suo tempo nell’orticello annesso al monastero dove non si limitava a coltivare gli ortaggi necessari al mantenimento dei confratelli ma metteva anche a frutto la sua vocazione di sperimentatore e di scienziato.

Egli sapeva che era facile influenzare la riproduzione delle piante spostando il polline da un fiore all’altro, tecnica peraltro già nota agli antichi Egizi e Babilonesi, i quali provvedevano alla fecondazione artificiale delle palme da dattero spennellando il polline prodotto dai fiori di una pianta sui fiori di un’altra al fine di rendere più dolci i suoi frutti.

Mendel si era prefisso l’obiettivo di capire come venivano trasmessi i caratteri ereditari da un organismo ad un altro e, allo scopo, coltivava le piante di pisello, facili a fecondarsi artificialmente. Innanzitutto egli osservò che le piante figlie non avevano un carattere intermedio di quelle genitrici: se, ad esempio, quelle originali erano caratterizzate l’una da stelo lungo e l’altra da stelo corto, tutte le piante di prima generazione nascevano con stelo lungo. Il carattere stelo corto sembrava scomparso, ma esso ricompariva nelle piante di seconda generazione ossia in quelle ottenute dall’incrocio delle piante figlie. Egli osservò altre caratteristiche delle piante di pisello come ad esempio il colore dei fiori o il colore e la forma dei semi e notò che nell’incrocio comparivano risultati dello stesso tipo di quelli osservati per la lunghezza dello stelo.

Con i suoi esperimenti, Mendel dimostrò che non esisteva alcun liquido misterioso che con la riproduzione si mescolasse con quello dell’altro individuo distribuendo equamente i caratteri dei genitori ai figli; al contrario sembrava che i caratteri delle piante venissero ereditati sotto forma di unità distinte. L’essenza dei risultati ottenuti da Mendel era quindi la scoperta di una eredità discontinua e non continua come ipotizzava Darwin e ciò rappresenta il suo contributo maggiore allo sviluppo di quella scienza che verrà chiamata genetica.

Mentre Mendel faceva esperimenti nell’orticello del monastero di Brno Darwin era impegnato in qualcosa di analogo nel parco della sua villa di campagna a Down, ma senza ottenere alcun risultato concreto. La cosa sorprendente è che le scoperte di Mendel non vennero comprese dai biologi del tempo e lo stesso Darwin non ne venne informato. C’è da chiedersi se, qualora ne fosse venuto a conoscenza, Darwin avrebbe compreso l’importanza delle scoperte di Mendel e se quelle leggi sarebbero servite a risolvere i problemi che lo assillarono per tutta la vita.

Nel 1900 a più di vent’anni dalla morte di Darwin e dello stesso Mendel, le leggi sulla trasmissione dei caratteri ereditari vennero riscoperte simultaneamente ed indipendentemente l’uno dall’altro da tre scienziati, tutti e tre botanici: l’olandese Hugo De Vries, l’ungherese Erich Tschermak e il tedesco Carl Correns. I tre scienziati, conclusi i loro lavori, riconobbero che la paternità di quelle leggi spettava comunque a Mendel e le battezzarono infatti con il suo nome.

Non passò molto tempo perché ci si convincesse che le leggi di Mendel si applicavano a tutti gli esseri viventi, compreso l’uomo, e non solo alle piante. Stabilito che dai genitori ai figli si trasmettono delle particelle che Mendel chiamava “elementi”, restava da comprendere di che tipo di particelle si trattasse e dove le stesse si trovassero. All’inizio dello scorso secolo si sapeva che la riproduzione avveniva grazie alla fusione di due cellule speciali, i gameti, l’una prodotta dal padre e l’altra dalla madre: quindi le particelle che trasmettevano i caratteri ereditari presumibilmente dovevano trovarsi all’interno di quelle cellule. Poco tempo prima erano stati individuati all’interno del nucleo delle cellule dei filamenti incolori che fu possibile osservare al microscopio grazie all’aggiunta di un colorante: per questo motivo ad essi fu dato il nome, in verità improprio, di cromosomi (dal greco “corpi colorati”).

Numerose osservazioni permisero di scoprire che le cellule di ogni specie animale o vegetale hanno un numero di cromosomi fisso e caratteristico. Ad esempio, negli esseri umani, una normale cellula del corpo possiede 46 cromosomi, nei gameti invece ve ne sono solo 23. Quando i due gameti, quello maschile (spermatozoo) e quello femminile (uovo), si fondono dando origine alla prima cellula (lo zigote) che diventerà in seguito un essere umano completo, in essa si trovano 46 cromosomi. Ora, poiché i caratteri vengono ereditati in parte dal padre e in parte dalla madre, in seguito a questa osservazione, i biologi dedussero che gli elementi di Mendel dovessero essere i cromosomi.

Ma un essere umano ha ben più di 46 caratteri e quindi non era possibile che ci fosse un solo carattere per ogni cromosoma. In realtà ogni cromosoma contiene migliaia di particelle ereditarie le quali vennero battezzate “geni” dal greco genesis che significa “generazione”, “origine”. Da questa parola deriva anche il nome della scienza che studia il modo in cui gli esseri viventi ereditano i loro caratteri: la genetica.

Il passo successivo fu quello di determinare di quali e di quanti atomi fossero costituite queste particelle. A ciò collaborarono i chimici con una scoperta fondamentale: i cromosomi contenevano una molecola complessa il cui nome scientifico è acido deossiribonucleico, abbreviato in DNA. Si tratta di una molecola enorme (macromolecola) fatta di atomi di carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto e fosforo. Questa lunga molecola ha la caratteristica di potersi dividere longitudinalmente in due parti specularmente uguali che, assumendo nuovo materiale dalla cellula, ciascuna è in grado di produrre la metà mancante in modo da formare due nuove molecole complete e identiche (o quasi, come vedremo).

Prima che una cellula si divida per dar vita a due nuove cellule, il numero di cromosomi e con esso il DNA viene raddoppiato in modo che, dopo la divisione ciascuna delle due cellule figlie abbia lo stesso numero di cromosomi posseduto in origine dalla cellula madre. Ora però, quando nell’età adulta si formano i gameti, il numero di cromosomi non viene raddoppiato e di conseguenza ciascuno spermatozoo e ciascuna cellula uovo possiedono solo metà dei cromosomi presenti nelle normali cellule dell’organismo. Pertanto, quando i due gameti, quello maschile e quello femminile si fondono, la cellula che ne deriva ha un numero completo di cromosomi metà dei quali è stato fornito dalla madre e metà dal padre. Questo numero completo di cromosomi verrà quindi trasmesso attraverso successive divisioni a tutte le cellule che costituiscono il corpo dell’organismo che si sviluppa dall’uovo fecondato.

Proseguendo la sperimentazione sulle piante, Hugo de Vries, uno dei tre botanici che fece la riscoperta delle leggi di Mendel, notò un’eccezione particolarmente interessante proprio relativamente a quelle leggi. Egli osservò che, insieme con i caratteri che si trasmettevano dai genitori ai figli in modo ordinato e prevedibile, ogni tanto compariva un carattere che non era presente in nessuno dei due genitori né in alcun altro individuo degli ascendenti di quella determinata pianta. Egli allora ipotizzò che il nuovo carattere fosse il risultato di una modificazione avvenuta in un gene e chiamò questa modificazione mutazione.

Si completavano così i dati di cui Darwin avrebbe avuto bisogno per spiegare in modo completo e coerente la teoria dell’evoluzione, ossia il meccanismo che consentiva la continuità della trasmissione ereditaria e nello stesso tempo quello che conduceva a variazioni brusche sulle quali potesse operare la selezione naturale.

I genetisti accolsero il fenomeno delle mutazioni con grande entusiasmo nella convinzione che esso fosse in grado di spiegare in modo chiaro e completo l’evoluzione: un balzo genetico, un salto attraverso il quale un nuovo carattere avrebbe assicurato al suo possessore una superiorità talmente evidente che la forma mutante si sarebbe immediatamente imposta sulle altre. La discontinuità presentava inoltre il grande vantaggio di abbreviare il tempo necessario per il realizzarsi dell’evoluzione, mentre gli sperimentatori erano anche in grado di indurre continue mutazioni su piante e animali bombardandoli con radiazioni di ogni genere (raggi X, raggi ultravioletti, ecc.). In verità non tutte le mutazioni sono favorevoli, molte sono neutre, altre negative e il carattere da esse determinato risulta quasi sempre svantaggioso per l’individuo sul quale si manifesta. Alcune mutazioni non consentono addirittura la sopravvivenza dell’individuo che le porta e vengono dette “letali”.

Dall’altra parte vi erano i naturalisti i quali sostenevano che l’evoluzione si realizzava, come aveva sostenuto Darwin, attraverso tante minime variazioni accumulatesi durante un numero pressoché infinito di generazioni. Essi non si giovavano degli esperimenti di laboratorio limitandosi a basare i presupposti sull’osservazione che i cani generano cani, i gatti generano gatti e gli uomini generano uomini ma i figli di questi individui assomigliano ai genitori, però non sono ad essi identici. Questi biologi quindi ritenevano che i caratteri aventi valore selettivo erano dovuti alla naturale variabilità di una popolazione che si ripresenta costantemente di generazione in generazione.

Il conflitto fra naturalisti e genetisti fu risolto quando rigorosi metodi scientifici furono applicati allo studio di intere popolazioni e non più a singoli individui. Da quel momento si affermò la moderna teoria dei processi evolutivi a cui si è fatto cenno in precedenza, detta “teoria sintetica”, perché rappresenta la sintesi tra i due punti di vista: quello dei naturalisti e quello dei genetisti.

 

LE IPOTESI DI LAMARCK E DI DARWIN A CONFRONTO

I fenomeni evolutivi richiedono in genere tempi molto lunghi, ma vi sono delle eccezioni. In Inghilterra, ad esempio, è stato possibile osservare un fenomeno di evoluzione rapida molto interessante. Si tratta dei cambiamenti a cui andò incontro negli ultimi cento anni una farfalla notturna della specie Biston betularia che fu a lungo tenuta sotto osservazione nei boschi alla periferia di Manchester. Normalmente essa ha le ali di colore chiaro ma per effetto di una mutazione spontanea e ricorrente, ogni tanto compaiono degli esemplari con le ali scure, per la presenza in esse di un pigmento nero, la melanina.

Questa farfalla passa la maggior parte delle ore del giorno immobile sui tronchi d’albero o sulle rocce coperte di licheni dove la varietà bianca si mimetizza perfettamente, mentre quella scura viene facilmente individuata e mangiata dagli uccelli predatori: la selezione naturale favorisce quindi la falena con le ali bianche.

Con l’industrializzazione della seconda metà dell’Ottocento che richiedeva un forte consumo di carbone, tutto l’ambiente si è annerito a causa della fuliggine che usciva dalle ciminiere delle fabbriche sempre più numerose presenti nella zona. Ora succedeva che le farfalle bianche spiccavano sui tronchi neri delle betulle e costituivano una facile preda, mentre quelle nere risultavano favorite dalle nuove condizioni ambientali.

Il cambiamento avveniva proprio negli anni in cui Darwin meditava sulla opportunità di rendere pubbliche le sue idee. Nel corso di un centinaio di anni il pool genetico, cioè la somma di tutti i geni di quella popolazione di farfalle, mutò leggermente e il 98% delle falene presenti in quella zona era ora rappresentato da quelle di colore scuro. A questo fenomeno è stato dato il nome di melanismo industriale.

Qual è l’origine del cambiamento? Lamarck avrebbe detto che le farfalle scure comparvero come risposta al cambiamento ambientale diventando da chiare gradualmente sempre più scure a mano a mano che la fuliggine e la polvere di carbone sporcavano l’ambiente. La teoria evoluzionistica di Darwin, come si è visto, fornisce un’altra versione.

Nel 1952 il Parlamento inglese varò una legge per la depurazione dell’aria, che in pochi anni produsse i suoi effetti: la quantità di fuliggine diminuì, sugli alberi ricomparvero i licheni e con essi cominciò ad aumentare la percentuale delle falene con le ali chiare, che evidentemente tornarono ad essere favorite nella lotta per l’esistenza.

Lo stesso discorso vale per le giraffe: secondo Darwin questo animale aveva il collo lungo non per un continuo stiramento, ma perché alcune giraffe erano nate con un collo più lungo rispetto alle altre e quindi erano favorite nella possibilità di raggiungere il cibo sugli alberi quando esso mancava a terra. Queste ultime, se mangiavano più delle altre potevano anche raggiungere facilmente l’età adulta e riprodursi: alcuni dei loro figli avrebbero avuto il collo un po’ più lungo degli altri, così come alcuni figli di persone alte a volte diventano un po’ più alti dei fratelli e degli stessi genitori. Nel caso delle giraffe quelle con il collo più lungo si sono dimostrate più adatte delle altre in quell’ambiente: in un altro ambiente avere quelle dimensioni obiettivamente esagerate sarebbe stato uno svantaggio.

Altro esempio noto a tutti è la resistenza agli insetticidi da parte di pidocchi, zanzare ed altri insetti fastidiosi. Durante la seconda guerra mondiale il DDT si rivelò molto efficiente nella lotta contro i pidocchi. A Napoli, ad esempio, nel gennaio del 1944 la popolazione fu trattata in massa con il DDT perché fossero eliminati dagli abiti sudici di quella povera gente i pidocchi portatori del tifo petecchiale. In effetti l’epidemia trasmessa dal parassita dell’uomo in quell’occasione fu bloccata sul nascere.

Nel dopoguerra l’uso del DDT fu impiegato in modo massiccio per eliminare molte specie di insetti in diverse parti del mondo. Grado, ad esempio, una località balneare in provincia di Gorizia, molto apprezzata soprattutto dalle mamme con bambini in tenera età, era infestata dalle zanzare che venivano eliminate annaffiando letteralmente la città con il DDT. In effetti, l’azione dell’insetticida fu efficace e le zanzare sparirono. Tutte? No, non tutte perché dopo alcuni anni le zanzare tornarono e l’azione del DDT su di esse non aveva più alcun effetto. Non si sa se le zanzare resistenti al DDT siano state il frutto di una mutazione o semplicemente la conseguenza del rimescolamento dei caratteri già presenti in esse, fatto sta che l’uso del DDT fu sospeso perché a quel punto esso diventava inefficace sulle zanzare, ma pericoloso per l’uomo stesso. Lamarck avrebbe giustificato il fenomeno immaginando un graduale adattamento delle zanzare al DDT fino a diventare resistenti all’insetticida.

A questo punto si potrebbe pensare che una zanzara resistente al DDT sia una specie di “superzanzara” ma ciò è una convinzione errata in quanto si tratta semplicemente di un soggetto adatto ad un ambiente trattato con il DDT; d’altronde in un ambiente ripulito dall’insetticida quella stessa zanzara rappresenterebbe un insetto meno vigoroso e meno adatto di uno normale.

Nella teoria di Darwin – come abbiamo visto – si allude spesso della sopravvivenza del più “adatto”, ma bisogna chiedersi cosa significhi essere più adatto. Più adatto rispetto a cosa? Essere belli e forti vuol dire essere più adatti? Essere ciechi come il proteo, l’anfibio che vive nelle caverne buie del Carso, vuol dire essere più adatto? Una gazzella molto veloce, e quindi in grado più delle altre di sfuggire ai nemici, deve essere considerata più adatta all’ambiente rispetto a quelle più lente nella corsa?

Per Darwin, sono adatti ad un certo ambiente quegli individui che, indipendentemente dalle loro caratteristiche fisiche o dal loro aspetto, riescono a lasciare una discendenza. Non si tratta si badi bene di produrre tanti figli, ma di lasciare una discendenza. Il pinguino, ad esempio, produce un uovo per volta che cova tenendolo sui piedi palmati ed evitando che cada a terra dove il contatto anche per pochi secondi con il ghiaccio freddissimo, comprometterebbe irrimediabilmente lo sviluppo dell’embrione. Se ora comparisse un pinguino mutante in grado di deporre più uova, questo non sarebbe affatto favorito nella lotta per l’esistenza perché finirebbe per non riuscire a covarne in sicurezza nemmeno uno.

Gli esempi si potrebbero moltiplicare. La mantide religiosa mangia il maschio durante l’accoppiamento ad iniziare dalla testa ma ciò non impedisce che l’atto sessuale sia portato a termine. Se comparisse un maschio mutante programmato in modo da tenersi lontano dal suo “carnefice” sarebbe più adatto alla sopravvivenza individuale, ma non a produrre discendenti, quindi, secondo Darwin, sarebbe meno adatto rispetto a quello che sacrifica la propria vita pur di generare figli.

 

SELEZIONE STABILIZZANTE E SELEZIONE DIREZIONALE

In molti ritengono che l’evoluzione debba portare necessariamente ad un miglioramento, ma Darwin nella sua teoria non dice affatto che l’evoluzione è direzionale né che conduce a forme di vita superiori.

Possiamo spiegare questa affermazione in termini moderni facendo riferimento al DNA presente in tutte le cellule di tutti gli organismi. Il DNA, come sappiamo, è organizzato in migliaia di geni i quali a loro volta sono composti di miliardi di atomi disposti in modo rigoroso l’uno accanto all’altro. Ora, quando il simile genera il simile tutti i geni dovrebbero essere riprodotti e trasmessi alla generazione successiva con precisione assoluta, ma è impossibile che durante la duplicazione del DNA tutto avvenga senza che si commettano degli errori: se ci fosse perfezione assoluta nel trasferimento dei geni dai genitori ai figli non esisterebbero le mutazioni.

Tuttavia, poiché queste esistono, in ogni popolazione si dovrebbero verificare continui cambiamenti casuali di geni e quindi continui cambiamenti della fisionomia degli individui di quella popolazione. Esistono invece prove concrete che molte specie non sono affatto mutate per migliaia e a volte per milioni di anni. Abbiamo ad esempio la prova “fotografica” che gli struzzi raffigurati in documenti dell’antico Egitto sono identici a quelli oggi presenti nella stessa zona; lo stesso vale per le scimmie platirrine le quali vivono in un ambiente che per milioni di anni è rimasto sempre identico a sé stesso. In un luogo simile, tutte le nicchie ecologiche (le quali più che un luogo potrebbero essere definite una “professione” ossia l’insieme dei rapporti che l’organismo stabilisce con l’ambiente per vivere e nutrirsi) sono occupate e quindi non vi è posto per nuove specie. Deve esistere pertanto una forza che si contrappone alla mutazione che genera variabilità e questa è proprio la selezione naturale e quindi, paradossalmente, lo stesso processo che determina il cambiamento mantiene anche la costanza di una specie.

Quando la selezione mantiene lo statu quo esistente, si parla di “selezione stabilizzante” mentre quando determina evoluzione essa è detta “selezione direzionale”. Facciamo alcuni esempi.

Se in un prato in cui le larve di una particolare specie di farfalla, che sono del colore dell’erba, comparisse una forma mutata di un colore diverso (diciamo rosso) facilmente identificabile dagli uccelli predatori, queste larve non raggiungerebbero mai la maturità e quindi la possibilità di riprodursi e trasmettere quella particolare mutazione ai propri figli e le farfalle sarebbero sempre le stesse ossia quelle derivanti dalle larve verdi. Nuove larve di colore rosso comparirebbero solo per mutazione naturale.

La natura possiede anche un altro sistema per eliminare gli organismi mutati ed è quello di impedire loro di riprodursi. Vi sono molti casi in cui in una popolazione di animali della stessa specie è consentito solo ai maschi più forti di accoppiarsi: gli altri, quelli che nella lotta per la conquista delle femmine perdono, vengono allontanati. Per lo sconfitto si tratta di una specie di morte apparente. Nella morte reale di un individuo i suoi geni spariscono dalla popolazione; nel caso dell’esempio citato invece potremmo definire “morte genetica” la segregazione dello sconfitto.

L’idea che la selezione, oltre che cambiamento, potesse generare anche stabilità sembrava smentire la teoria darwiniana. Questa osservazione a metà Ottocento, soprattutto nell’Inghilterra vittoriana, rappresentava un fatto positivo perché il cambiamento, per motivi che in verità ci sfuggono, sembrava minare alla radice la fede religiosa.

Prove dell’esistenza di una selezione stabilizzante vale anche per il genere umano. Uno studio effettuato su migliaia di bambini durante i primi dieci giorni di vita mostrava che quasi la metà di quelli nati sottopeso moriva entro pochi giorni. Questa osservazione non è per nulla sorprendente perché i bambini nati prematuramente, cioè troppo presto rispetto ai nove mesi normali di gestazione, sono piccoli e immaturi. Sorprendente fu invece constatare che anche un certo numero di bambini troppo pesanti rispetto al normale morivano precocemente: lo studio dimostrava infatti che sono meno adatti alla sopravvivenza sia i bambini nati troppo piccoli sia quelli troppo grossi e pertanto che esiste un punto di equilibrio per il peso umano alla nascita.

Per selezione direzionale si intende lo spostamento del punto di equilibrio relativamente ad un certo carattere all’interno di una popolazione verso uno nuovo punto di equilibrio. Per fare un esempio riprendiamo il caso della variazione di colore della Biston betularia della periferia di Manchester, causata dall’avvento della Rivoluzione Industriale di metà Ottocento.

Intorno al 1850 il 98% di questa farfalla notturna era rappresentato da individui con le ali chiare mentre alla fine del secolo il rapporto si era invertito. La selezione direzionale è rappresentata dal tempo in cui è stato in atto il cambiamento da un punto di equilibrio fino al raggiungimento del nuovo punto di equilibrio. Essa è detta anche selezione progressiva.

Le due definizioni si prestano entrambe ad essere equivocate. La prima farebbe pensare che la direzione del cambiamento sia sempre la stessa, in particolare dal basso verso l’alto e dal semplice verso il complesso, mentre vi sono prove che in alcuni gruppi di animali, come ad esempio nel caso del cavallo, per un certo periodo di tempo le forme andarono dal piccolo verso il grande e poi la tendenza si invertì. Si presta ad equivoci anche il termine di selezione progressiva: per le falene, ad esempio, è un progresso diventare più scure; e per il proteo, che vive nelle caverne carsiche, diventare cieco deve essere ritenuto un progresso? In verità i fatti dimostrano che non esiste alcuna direzione necessaria dell’evoluzione.

 

IL DOPO DARWIN

Dopo quella di Darwin, sono state proposte molte altre teorie per spiegare l’evoluzione, ma tutte hanno mostrato solo punti deboli. Tratteremo le due che ci sembrano più interessanti iniziando dal neolamarckismo.

La teoria evoluzionistica di Lamarck non trovò mai molti sostenitori nell’ambiente scientifico, nemmeno al tempo in cui venne formulata e forse alla fine sarebbe stata completamente dimenticata se non fosse stato per Darwin, che inconsapevolmente la ravvivò proponendola come alternativa alla sua.

La teoria lamarckiana, ancorché priva di riscontri sperimentali, anche attualmente è preferita dai non addetti ai lavori (si provi ad esempio a chiedere a persone, anche in possesso di un buon livello culturale, di spiegare per quale motivo la gallina non vola e vi verrà data, nove volte su dieci, una risposta di tipo lamarckiano). La teoria di Lamarck infatti, a differenza di quella di Darwin che prevede una dura lotta per l’esistenza e la morte di un gran numero di individui, soprattutto di quelli più deboli e in giovane età, è più umana in quanto non comporta alcun prezzo da pagare e inoltre sembra garantire il progresso attraverso adattamenti determinati dalla ricerca continua di un miglioramento individuale.

In più occasioni in passato il movimento lamarckista rinacque nel tentativo di adattare la scienza alle proprie teorie filosofiche: ci provò e ci prova tuttora la Chiesa, ci provò il nazismo con le sue idee sulla razza ariana, ma il tentativo neolamarckista più impressionante e più tragico si ebbe in Russia ai tempi di Stalin.

In realtà, appena uscito il libro di Darwin, i materialisti accolsero con favore la nuova teoria che, secondo loro, conduceva all’ateismo, benché Darwin non si fosse mai espresso positivamente su questo punto, anzi egli concluse il suo libro accennando direttamente all’opera del Creatore: “Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue diverse forze, originariamente impresse dal Creatore in poche forme o in una sola forma.”. È il caso tuttavia di osservare che nell’originale inglese manca il termine “Creatore”, Darwin infatti scrive: “…having been breathed into…” quindi, senza specificare chi infuse energia nelle prime forme viventi, il grande naturalista accenna ad un non meglio definito “soffio vitale” o “forza interiore”. Più tardi Darwin si dichiarerà agnostico adottando un termine suggerito dall’amico Huxley.

Fatto sta che Karl Marx, il quale nel 1880 viveva a Londra, fece pervenire a Darwin le bozze del secondo volume del Capitale chiedendogli nel contempo l’autorizzazione a dedicarglielo. Darwin rispose negativamente adducendo a pretesto l’età avanzata e la fatica che provava nel leggere le bozze dei suoi lavori, fatica che gli avrebbe impedito di approfondire la lettura del suo libro. Successivamente in Russia sulla teoria evoluzionistica di Darwin si cambiò idea.

Nel 1936 il biologo sovietico Trofim Lysenko (1898-1977) sostenne nel corso di un convegno presso l’Accademia Lenin di Scienze Agrarie, che era impossibile separare con qualsiasi mezzo le influenze ambientali da quelle ereditarie; la tesi era palesemente in contrasto con il famoso genetista Nicolaj Ivanovic Vavilov (1887-1943) presidente della stessa Accademia. Negli anni seguenti Lysenko impose la sua teoria che era fondamentalmente di tipo lamarckiano anche se nei suoi scritti e discorsi evitò di richiamarsi al grande biologo francese preferendo professarsi discepolo del naturalista russo Ivan Michurin (1855-1935) per rimanere in linea con il partito comunista sovietico che rivendicava il primato dell’URSS in ogni campo dello scibile. Michurin in realtà era un ex capostazione divenuto giardiniere, il quale con i suoi esperimenti sugli alberi da frutta tentava nientemeno che “trasformare” la natura. Un bell’esempio di arroganza!

Qualora si fosse estrapolata questa teoria dal suo più specifico significato scientifico e la si fosse applicata alla società umana, significava che gli sforzi di una comunità avrebbero potuto cambiare, attraverso l’insegnamento rigoroso, le caratteristiche della generazione successiva.

La conseguenza del fanatismo ideologico che pervase la teoria di Lysenko fu quella di fare destituire, esiliare e imprigionare un certo numero di biologi che si rifiutavano di accettare la sua teoria. La vittima più illustre fu proprio Vavilov, scienziato di grande valore e di fama internazionale, a cui Lenin aveva affidato il compito di adeguare lo sviluppo della genetica in Russia alle esigenze dell’agricoltura sovietica. Egli fu arrestato nel 1940 e deportato in Siberia, dove morì tre anni dopo.

Lysenko contestava la validità delle leggi di Mendel e della genetica classica, tacciandola di essere scienza idealistica, borghese e al servizio del capitalismo: egli sosteneva infatti che fosse possibile modificare molti caratteri degli animali, e ancor più delle piante, mediante esposizione a particolari condizioni ambientali; le modifiche così ottenute poi si sarebbero trasmesse alla discendenza. Il punto debole di detta teoria era quello di appoggiarsi su fatti sperimentali non documentati o comunque di incerta interpretazione.

L’egemonia di Lysenko durò oltre la morte di Stalin e si protrasse durante il regime di Nikita Krusciov fino a quando, nel 1964, non venne egli stesso destituito. Con il dittatore decadde anche il potere di Lysenko e il suo tentativo di migliorare la produzione agricola dell’URSS. Da allora in poi venne ripristinato nelle scuole sovietiche l’insegnamento delle leggi di Mendel e della genetica mentre le vacche e le spighe rimanevano magre come lo erano all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre. E se, dopo quell’esperienza negativa, il governo russo poté ripianare il suo endemico e vistoso deficit di grano lo dovette ancora una volta all’agricoltura degli Stati Uniti.

Fra la gente comune vi fu un’altra teoria che ebbe una certa diffusione: quella dell’ortogenesi. Si tratta di un’idea distorta che spesso sviluppano le persone che pensano che l’evoluzione sia un processo diretto verso il meglio e verso l’alto. Costoro ritengono che la natura non faccia niente invano e che sia determinista cioè che tenda sempre alla perfezione: il miglioramento invece non può procedere all’infinito.

Circa 10.000 anni fa viveva in Europa un cervo gigante (Megaloceras giganteus) caratterizzato da corna esageratamente grandi, la cui scomparsa è generalmente attribuita all’uomo preistorico, ma quello che accadde in Irlanda, dove alcuni esemplari erano sopravvissuti, è un enigma perché in quell’isola l’uomo non aveva ancora messo piede. Anche in quel luogo però dopo alcuni secoli quell’animale si estinse.

Si sono fatte molte ipotesi sulle cause della scomparsa del cervo irlandese gigante, alcune delle quali decisamente fantasiose, ma tutte legate a quelle incredibili appendici che ornavano il capo del sesso forte. Si trattava dei più grossi palchi di corna mai visti nel regno animale: essi misuravano più di tre metri e mezzo di larghezza per 40 chili di peso. Le corna erano molto grandi ma comunque proporzionate alle dimensioni dell’animale che pesava circa 600 chili e mangiava fra i 15 e i 20 chili di vegetazione al giorno.

L’ipotesi più insistente sulla estinzione di questi animali è quella che immagina annegamenti di massa nelle torbiere a causa dell’eccessivo peso dei palchi e ciò sembrava essere un argomento a favore della teoria dell’ortogenesi. La grandezza delle corna fu probabilmente il risultato della selezione sessuale. Come accade anche attualmente fra i cervi le corna non servono per difesa, perché vengono perse dopo il periodo degli amori e inoltre perché sono possedute solo dai maschi. Le corna vengono usate solamente in esibizioni di aggressività e in lotte simboliche e quelle del cervo irlandese sarebbero servite per la conquista delle femmine. Per una femmina i grandi palchi del maschio rappresentano uno degli elementi positivi che devono essere presenti nei propri figli come la capacità di uscire vittoriosi nelle dispute e di procurarsi il cibo. Il cibo in particolare deve essere abbondante e di buona qualità per permettere di ricostruire più grandi di prima i palchi che cadono tutti gli anni. I palchi non solo sono grandi ma contengono anche 20 chili di sali minerali e, se i minerali non sono sufficienti nella dieta, l’animale mobilita quelli presenti nello scheletro causando momentanee osteoporosi.

È stato dimostrato che in Irlanda 11.000 anni fa il clima cambiò, divenendo da temperato più rigido e con il clima cambiò anche il tipo di vegetazione. Dalla ricca vegetazione di prateria si passò a quella più povera della tundra e per il cervo gigante iniziarono i guai: l’osteoporosi divenne permanente e le femmine iniziarono a generare progenie sempre di più piccole dimensioni che non furono tuttavia sufficienti a salvare la specie. Le corna caddero definitivamente e non crebbero mai più.

Il cervo irlandese si estinse semplicemente perché non riuscì ad adattarsi rapidamente alle mutate condizioni ambientali; fare appello per la sua fine ad un misterioso impulso ortogenetico non trova alcuna giustificazione scientifica. L’unica teoria che spieghi i cambiamenti nel mondo animale e vegetale rimane quella di Darwin.

Finora tutte le osservazioni e tutti i fatti sperimentali si sono perfettamente inquadrati all’interno della teoria evoluzionistica di Darwin ma anche questa, come una qualsiasi altra teoria, è destinata ad essere superata con il progredire degli studi di geologia, di paleontologia, di anatomia e di embriologia. Ogni teoria infatti è provvisoria e il suo valore è indicato non dalla sua persistenza in forma immutata, ma dal fatto che quando si aggiungono a quelli esistenti fatti nuovi, una nuova teoria possa integrarla. Siamo quindi in attesa di un nuovo Darwin che, proponendo una teoria più completa, accoglierà, superandolo il vecchio maestro così come Einstein ha accolto e integrato Newton.

Prof. Antonio Vecchia

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