Il sistema periodico degli elementi

Non vi è laboratorio o aula di chimica al mondo in cui non sia esposta una copia del Sistema Periodico degli elementi: uno strumento essenziale per lo studio della chimica perché racchiude in sé, caso unico nel campo delle scienze naturali, buona parte delle conoscenze relative a questa disciplina.

La storia del Sistema Periodico (o Tavola) degli elementi chimici inizia più di centocinquanta anni fa e nonostante l’opera abbia subito aggiustamenti e miglioramenti via via che la scienza progrediva non ne è stata peraltro modificata la struttura originaria. Nemmeno le due teorie fondamentali del XX secolo, ossia la relatività di Albert Einstein e la meccanica quantistica di Max Planck, sono valse ad intaccare le basi strutturali dello schema elaborato dal suo ideatore.

La necessità di mettere ordine all’interno degli elementi chimici apparve impellente intorno alla metà dell’Ottocento quando l’elenco si arricchì di molti nuovi arrivi mentre nel frattempo si andava accumulando un gran numero di dati relativi alle proprietà chimiche e fisiche degli elementi che erano già stati isolati. Nel 1830 si conoscevano più di 50 elementi diversi e ci si chiedeva quanti ne rimanessero da scoprire. Gli elementi erano forse in numero infinito? Individuare un metodo per ordinarli in funzione delle loro caratteristiche peculiari forse avrebbe consentito anche la determinazione del loro numero.

Classificare gli elementi avrebbe voluto dire fra l’altro fare emergere nuove proprietà e chiarire il motivo per il quale, ad esempio, certi elementi realizzano determinate combinazioni e certi altri non si combinano affatto. Prima di descrivere i tentativi che vennero effettuati per giungere ad una loro classificazione chiara e razionale cerchiamo di spiegare in cosa consista l’opera di classificazione.

Quella di classificare è in generale un’esigenza fondamentale delle scienze sperimentali e la si ritrova in tutte le discipline; essa è utile non solo per motivi di chiarezza, ma anche e soprattutto perché permette di analizzare con maggior precisione le proprietà e le caratteristiche di ciò che ha trovato sistemazione logica all’interno dello schema in cui è stato inserito. Ad esempio, senza la chiarezza consentita dal sistema di classificazione in uso nelle scienze biologiche, che ripartisce in gruppi omogenei le centinaia di migliaia di specie note di animali e piante, Darwin non sarebbe mai pervenuto alla teoria dell’evoluzione e i biologi avrebbero incontrato serie difficoltà nella ricerca e nella diffusione dei risultati delle loro scoperte.

Classificare significa suddividere un insieme eterogeneo in tanti gruppi omogenei per determinate proprietà preventivamente fissate. La difficoltà sta proprio nello stabilire in anticipo le proprietà che devono essere alla base della classificazione stessa. Ad esempio, una classificazione degli elementi chimici che venisse realizzata seguendo l’ordine alfabetico, o quello cronologico della loro scoperta, sarebbe indubbiamente molto precisa, ma sarebbe anche priva di utilità pratica perché non conterrebbe alcuna informazione relativamente alle proprietà e alle caratteristiche degli elementi che hanno rappresentato l’oggetto della classificazione stessa.

Si usa definire empirica (o artificiale) una classificazione che è stata ottenuta basandosi esclusivamente sull’osservazione di pochi caratteri superficiali; si definisce invece scientifica (o naturale) una classificazione più dettagliata e completa per realizzare la quale si è tenuto conto, oltre che di una serie di aspetti esteriori, anche di conoscenze di carattere teorico e dell’analisi profonda degli oggetti di studio.

 

I PRIMI TENTATIVI DI CLASSIFICAZIONE

Fra i primi scienziati che tentarono di mettere ordine fra gli elementi noti vi fu il chimico tedesco Johann Wolfgang Döbereiner (1780-1849). Egli nel 1828 aveva osservato che il bromo, un elemento scoperto due anni prima, era dotato di proprietà che sembravano essere intermedie fra quelle del cloro e quelle dello iodio. Non solo si notava in questi tre elementi una graduale variazione di alcune proprietà come il colore e la reattività, ma si era osservato anche che il peso atomico del bromo si trovava a metà strada fra quello del cloro e quello dello iodio. Poteva trattarsi di una coincidenza? Döbereiner andò alla ricerca di altri gruppi di tre elementi le cui proprietà si disponessero secondo una variazione regolare e in effetti notò che si assomigliavano fra loro anche litio, sodio e potassio, elementi detti metalli alcalini perché presenti in composti chiamati alcali (sostanze con proprietà opposte a quelle degli acidi); così pure si assomigliavano magnesio, calcio e stronzio, detti metalli alcalino-terrosi in quanto i loro ossidi (un tempo detti terre) avevano anch’essi proprietà alcaline; cloro, bromo e iodio, sono detti alogeni (dal greco: “generatori di sali”) perché si combinano direttamente con alcuni metalli generando sali, come ad esempio il cloruro di sodio (il comune sale di cucina). Il Döbereiner propose allora la “teoria delle triadi” ma non essendo stato in grado di rinvenire altri gruppi di tre elementi con caratteristiche simili, dovette rinunciare alla teoria così come era stata formulata. In realtà da questo tipo di classificazione non poteva sortire alcun risultato di carattere generale perché essa si limitava all’analisi separata di gruppi di elementi.

Dopo i primi infruttuosi tentativi nella prima metà del diciannovesimo secolo ci si rese conto che sperare di mettere ordine fra gli elementi era illusorio, in quanto vi era molta confusione relativamente ai loro pesi e al numero degli atomi presenti all’interno dei composti tanto che, spesso per uno stesso composto, venivano proposte formule del tutto diverse. Per fare chiarezza sull’argomento si decise allora di organizzare una conferenza di chimici di tutta Europa. Nel 1860 fu pertanto indetto, per la prima volta nella storia della scienza, un convegno internazionale che prese il nome di Primo Congresso Chimico Internazionale e si tenne a Karlsruhe in Germania. Vi presero parte circa centotrenta delegati i quali tuttavia si limitarono a discutere problemi generali della chimica che non portarono ad alcuna decisione positiva. In mezzo a tanto grigiore ebbe però notevole successo la relazione di Stanislao Cannizzaro, professore di chimica presso la Regia Università di Genova, il quale difese il principio di Avogadro che lui stesso utilizzava per determinare il peso atomico degli elementi con risultati che si erano dimostrati estremamente precisi. Alla fine del congresso, quando i chimici si accingevano a tornare ai loro paesi nello stesso stato di confusione di idee di quando erano arrivati, Cannizzaro distribuì le dispense che utilizzava durante il corso di chimica che teneva a Genova. In esse erano espressi chiaramente i risultati a cui si sarebbe pervenuti accettando l’ipotesi di Avogadro nella sua totalità. “Fu come se un velo mi fosse calato dagli occhi – commentò il celebre chimico tedesco Julius Lothar Meyer (1830-1895), – sparirono in me tutte le incertezze e al loro posto subentrava la chiarezza piena di armonia”.

E fu proprio in seguito ai risultati scaturiti dal Congresso di Karlsruhe che il chimico inglese J. A. Reina Newlands (1837-1898) propose un sistema di classificazione basato sul peso atomico. Egli, disponendo gli elementi per peso atomico crescente, aveva notato che, con cadenza regolare, ad ogni otto di essi si ripetevano proprietà simili. Newlands, che aveva avuto un’educazione musicale, chiamò questa relazione “Legge delle ottave” per analogia con la scala musicale in cui l’ottava nota dà una percezione simile alla prima. Disponendo gli elementi in colonne verticali di sette unità quelli simili si venivano a trovare sistemati sulle stesse righe orizzontali. Il potassio, ad esempio, veniva a trovarsi vicino al sodio, il cloro cadeva sulla stessa riga di bromo e iodio e il magnesio si sistemava a fianco del calcio. In altre parole, le triadi scoperte da Döbereiner si posizionavano spontaneamente su righe orizzontali. La sua proposta però venne accolta con scetticismo, da qualcuno addirittura ridicolizzata, e alla fine fu scartata. Qualche cosa di simile aveva suggerito un paio d’anni prima il geologo francese Alexandre-Émile Béguyer de Chancourtois, ma anche la sua classificazione rappresentata con un grafico a spirale tracciato sulla superficie di un cilindro, la cosiddetta “vis tellurica” (cioè la vite della Terra), passò inosservata. Tali classificazioni contenevano invece il germe del criterio ordinatore che in seguito si sarebbe dimostrato quello giusto e infatti, molti anni più tardi, quando la Tavola Periodica di Mendeleev era stata universalmente accettata, i lavori del geologo francese e del chimico inglese ebbero riconoscimento ufficiale.

Non conseguì miglior fortuna il chimico tedesco Meyer il quale, mettendo in correlazione i pesi con i volumi atomici (in pratica con le dimensioni degli atomi), ottenne un grafico nel quale un certo numero di proprietà fisiche relative ai singoli elementi si ripetevano con regolarità. Egli pubblicò il suo lavoro nel 1870: troppo tardi, perché un anno prima il chimico russo Dimitri Ivanovich Mendeleev (1834-1907) aveva pubblicato un lavoro analogo.

Nel 1869 infatti Mendeleev pubblicò la sua “Tavola Periodica”, una costruzione scientifica che rappresentò un lavoro di enorme importanza sia dal punto di vista pratico che teorico. Da un punto di vista pratico l’opera di Mendeleev costituì la base della chimica moderna, perché fornì un quadro sintetico di tutti gli elementi noti, rendendo anche ragione, in modo schematico, di analogie e differenze di comportamento. Da un punto di vista teorico essa fu un modello di indubbio valore e significato scientifico, soprattutto se si considera il fatto che venne prodotta quando le conoscenze sulla struttura intima della materia erano ancora molto scarse.

Il merito della scoperta della Tavola Periodica venne attribuito a Mendeleev invece che a Meyer non già per una semplice questione legata al ritardo della pubblicazione da parte dell’editore, ma per l’uso sensazionale che il chimico russo seppe fare del suo lavoro. Egli, con i pochi dati di osservazione di cui disponeva, dimostrando però doti di intuito veramente sorprendenti, riuscì ad ordinare i sessantatré elementi chimici noti a quel tempo in modo logico e coerente. Dallo schema proposto da Mendeleev trasse poi origine tutta una serie di applicazioni e di ricerche chimiche di gran lunga superiore alle poche nozioni sperimentali su cui il sistema stesso era stato edificato. L’alto valore euristico di un modello scientifico si manifesta proprio quando, da pochi elementi cognitivi di partenza, si riescono a gettare le basi per un’idea che si dimostrerà feconda di sviluppi imprevedibili e copiosi.

Prima di esporre i criteri seguiti da Mendeleev per la sua classificazione, è necessario tuttavia chiarire che cosa si intendeva, a quel tempo, per valenza anche perché, come vedremo, il chimico russo, per ordinare gli elementi, utilizzò proprio questo parametro piuttosto che il peso.

La valenza (da una parola latina che significa “forza”) ai tempi di Mendeleev veniva definita genericamente come il potere di combinazione degli atomi. Poiché si era osservato che l’atomo di idrogeno non si combinava mai con più di un solo atomo di un qualsiasi altro elemento, all’idrogeno venne assegnata, per convenzione, valenza uno.

Se ora, l’analisi ponderale attribuiva ad esempio al solfuro di idrogeno la formula H2S, voleva dire che lo zolfo esplicava valenza 2, in quanto tale elemento risultava combinato con due atomi di idrogeno. Allo stesso modo, dalla conoscenza della formula dell’acqua, H2O, appariva evidente la valenza 2 dell’ossigeno.

Per gli elementi che non davano composti con l’idrogeno la valenza veniva stabilita per via indiretta, in base alla capacità di sostituirsi o di equivalere ad atomi di idrogeno. Ad esempio, dalla formula CaS risultava evidente la valenza 2 del calcio (Ca), perché si poteva immaginare che nella formazione del composto un suo atomo avesse sostituito i due atomi di idrogeno in H2S. Potremmo quindi dare la seguente definizione di valenza valida per quei tempi: “Valenza di un elemento è il numero degli atomi di idrogeno con cui quell’elemento si combina o a cui si sostituisce per formare un composto.”

L’esperienza, inoltre, metteva in luce che un elemento poteva possedere valenza diversa in composti diversi. Nel composto SO3, ad esempio, lo zolfo esplicava valenza 6, mentre nel composto SO2lo zolfo presentava valenza 4. Fu chiamata “valenza limite” la valenza massima che un elemento poteva presentare nei diversi composti a cui prendeva parte.

 

IL SISTEMA PERIODICO DI MENDELEEV

Mendeleev, disponendo gli elementi in funzione del loro peso atomico crescente, notò che si venivano a formare spontaneamente, ad intervalli fissi e ricorrenti, gruppi di essi con proprietà chimiche e fisiche comuni. Egli, nell’organizzare il suo Sistema Periodico, procedette nel modo che illustreremo qui di seguito e che sarà più agevole seguire tenendo sotto gli occhi una copia di esso.

Escludendo l’idrogeno, l’elemento più leggero, che non dimostrava somiglianze con alcun altro, Mendeleev ordinò, per peso atomico crescente, i sette elementi successivi, che a quel tempo erano: litio, berillio, boro, carbonio, azoto, ossigeno e fluoro. Questi elementi mostravano una graduale variazione delle proprietà chimiche e fisiche; in particolare variava gradualmente la valenza limite relativamente ai composti binari con l’idrogeno e con l’ossigeno. Per i composti con l’idrogeno si constatava che la valenza andava progressivamente aumentando da 1 a 4 per poi ridiscendere fino ad 1. I composti idrogenati presentavano pertanto le seguenti formule: LiH, BeH2, BH3, CH4, NH3, H2O, HF. Per i composti con l’ossigeno non si riscontrava invece la stessa regolarità; la valenza limite in questo caso cresceva fino a 5 (Li2O, BeO, B2O3, CO2, N2O5), ma poi l’ossigeno e il fluoro presentavano rispettivamente la bi- e la monovalenza (valenza 2 e 1).

Dopo questi primi sette elementi seguivano, in ordine di peso atomico crescente, sodio, magnesio, alluminio, silicio, fosforo, zolfo e cloro. Anche per questi elementi si assisteva ad una variazione graduale della valenza limite, e in maniera ancora più marcata che per il gruppo precedente. Infatti, mentre per i composti con l’idrogeno si ripetevano le valenze già viste, per i composti con l’ossigeno la valenza aumentava regolarmente da 1 a 7 in quanto gli ultimi due elementi, zolfo e cloro, mostravano rispettivamente la valenza 6 e 7 che non si riscontrava in ossigeno e fluoro. Inoltre, e questo è il fatto più significativo, ciascuno dei sette elementi ora menzionati, presentava proprietà molto simili al corrispondente elemento dell’insieme dei primi sette con cui era stato incolonnato.

Dopo il cloro si susseguivano, al tempo di Mendeleev, potassio, calcio, titanio, vanadio, cromo e manganese. I primi due si incolonnavano naturalmente nel primo e nel secondo gruppo di elementi, cioè rispettivamente sotto i metalli alcalini litio e sodio e sotto gli alcalino-terrosi berillio e magnesio; il titanio, invece, non presentava alcuna analogia con il boro e l’alluminio che erano, tra l’altro, trivalenti, mentre il titanio presentava valenza 2 e 4; le proprietà del titanio erano invece analoghe a quelle di carbonio e silicio. Mendeleev interpretò tale discordanza ammettendo l’esistenza di un elemento ancora sconosciuto, che egli provvisoriamente chiamò eka-boro (eka è un termine che deriva dal sanscrito e vuole dire “primo”), che doveva trovare sede nel terzo gruppo, insieme a boro e alluminio, e che avrebbe dovuto possedere le caratteristiche tipiche degli elementi di quel gruppo. Quindi incolonnò il titanio sotto il silicio, il vanadio sotto il fosforo, il cromo sotto lo zolfo e il manganese sotto il cloro.

Si noti, a questo punto, come la valenza limite stia diventando determinante al fine di stabilire la posizione dell’elemento nel sistema. Si osservi inoltre che la rappresentazione si andava configurando suddivisa in periodi orizzontali e in gruppi verticali, in modo tale che la valenza massima di ogni elemento corrispondesse al numero del gruppo in cui l’elemento stesso aveva trovato sistemazione.

Dopo il manganese seguivano, sempre in ordine di peso atomico crescente, ferro, nichel, cobalto, rame, zinco, arsenico, selenio e bromo. A questo punto Mendeleev notò che cessava quella graduale variazione di proprietà che si era riscontrata in precedenza passando da un elemento ad un altro. La triade ferro, nichel e cobalto presentava, ad esempio, caratteristiche fisiche e chimiche tanto simili da indurre il chimico russo a sistemarli tutti e tre in un’unica casella, dopo il manganese, inaugurando, in questo modo, un’ottava colonna. Lo studio accurato di questi tre elementi e dei loro composti lo indusse inoltre ad invertire di posto nichel e cobalto, sistemando nell’ottava colonna i tre elementi nel seguente ordine: ferro, cobalto e nichel. Pose successivamente il rame nella prima colonna, anche se in realtà le caratteristiche di questo elemento erano molto lontane da quelle dei metalli alcalini, ma lo fece confortato dal fatto che esso presentava la monovalenza (oltre alla valenza 2).

In realtà una simile discrepanza si era già osservata per alcuni elementi precedenti e precisamente dal titanio in poi, tanto che Mendeleev ritenne opportuno spostare leggermente detti elementi dall’incolonnamento, sdoppiando in pratica ciascun gruppo in due sottogruppi. Siccome la stessa cosa avveniva anche per lo zinco, alla fine lo spostamento complessivo risultò di 10 elementi (includendo anche quello sconosciuto): ad essi fu dato il nome di elementi di transizione.

Quindi procedendo, gli elementi arsenico, selenio e bromo trovavano naturale sede sotto quelli tipici della quinta, sesta e settima colonna. Restavano vacanti due posti, nel terzo e nel quarto gruppo. A questi due elementi ancora sconosciuti, il Mendeleev dette il nome provvisorio di eka-alluminio ed eka-silicio, prevedendone anche le proprietà con una tale precisione da lasciare stupiti quando i due elementi vennero effettivamente individuati.

Ora, applicando i criteri fin qui seguiti, non è difficile procedere alla sistemazione dei restanti elementi. E’ però opportuno far rilevare che nell’operazione si rende necessaria un’ulteriore inversione di posto allo scopo di incolonnare, per affinità di proprietà, lo iodio con gli alogeni e il tellurio con selenio e zolfo. Concordemente con il criterio dei pesi atomici crescenti, il tellurio (peso atomico 127,6) dovrebbe seguire lo iodio (peso atomico 126,9), e non precederlo come appare invece più logico attendersi considerando le sue proprietà chimiche. Ancora una volta quindi, nella scelta della posizione da attribuire ad un elemento all’interno del Sistema Periodico, il ruolo determinante venne assunto dalle caratteristiche chimiche (sintetizzate nella valenza) e non dal peso atomico crescente, come in origine era stato indicato da Mendeleev.

A questo punto è opportuno ricordare che quando venne edificato il Sistema Periodico non si sapeva nulla sulla costituzione intima dell’atomo per cui, come abbiamo già fatto osservare, diventa ancora più ricco di contenuto scientifico il lavoro di Mendeleev. Si rifletta anche sul fatto che, ordinando gli elementi secondo le loro caratteristiche chimiche, inconsapevolmente lo scienziato russo suggeriva che l’atomo non poteva considerarsi un semplice blocchetto di materia inerte, ma doveva possedere una struttura interna ordinata, poiché solo in questo modo si potevano giustificare le variazioni graduali delle proprietà chimiche e fisiche degli elementi al crescere del loro peso. Per esempio, litio, sodio e potassio, che stanno su righe diverse, ma nella stessa colonna, hanno proprietà simili, che non possono essere spiegate appellandosi semplicemente al crescere del loro peso.

Un secondo elemento di conferma del valore euristico del Sistema Periodico di Mendeleev si ebbe quando vennero scoperti gli elementi mancanti per i quali era stata già prevista la sistemazione. Questi elementi vennero chiamati scandio (l’eka-boro), gallio (l’aka-alluminio) e germanio (l’eka-silicio) in onore della patria dei loro scopritori, rispettivamente la Scandinavia, la Francia e la Germania.

Un’ulteriore dimostrazione della validità del lavoro di Mendeleev fu rappresentata dalla scoperta dei primi due gas nobili: elio e argo. Fu possibile, in quell’occasione, prevedere l’esistenza di altri elementi simili in quanto il Sistema Periodico risultava strutturato in modo tale da accogliere l’inserzione di tutto un gruppo di elementi inerti, quali erano elio ed argo, senza perturbare l’ordine già definito. I gas nobili o gas rari sono sei (elio, neo, argo, kripto, xeno e radon) e trovarono sistemazione naturale in un’ultima colonna opportunamente aggiunta: il gruppo zero.

Possiamo definire di tipo empirico il modello di classificazione elaborato da Mendeleev in quanto, lo stesso ideatore non era stato in grado di rendere ragione (ma non lo si poteva nemmeno pretendere) né della periodica variazione di certe proprietà degli elementi che si andavano sviluppando al suo interno, né del motivo delle analogie che si riscontravano fra gli elementi stessi.

Riepilogando possiamo dire che Mendeleev in un primo tempo credette di aver individuato nel peso atomico crescente il principio ordinatore degli elementi, ma poi dovette ammettere delle eccezioni, invertendo le posizioni di nichel e cobalto e di iodio e tellurio. Successivamente dopo la scoperta dei gas nobili ci si accorse che anche potassio e argo risultavano scambiati di posto: è evidente pertanto che la necessità di queste inversioni di posto inficiava l’importanza che si era data all’inizio al peso atomico quale elemento ordinatore fondamentale del sistema. Abbiamo più volte sottolineato il fatto che lo stesso Mendeleev finì per conferire maggiore importanza, nella sistemazione dei singoli elementi all’interno della sua Tavola Periodica, alle caratteristiche chimiche riassunte nella valenza, piuttosto che al peso atomico.

 

LA SCOPERTA DEGLI ELEMENTI MANCANTI

La scoperta di nuovi elementi attraverso metodi chimici richiedeva che la sostanza da analizzare contenesse l’elemento ignoto in quantità relativamente abbondante, mentre molti degli elementi rari erano presenti nei minerali in quantità molto esigua, tanto da rendere praticamente impossibile isolarne una quantità sufficiente per potere effettuare su di essa gli esami necessari.

La situazione cambiò profondamente quando venne utilizzato un nuovo strumento di analisi della materia: lo spettroscopio. Esso venne costruito nel 1814 da un ottico tedesco di nome Joseph von Fraunhofer (1787-1826) il quale studiava il metodo migliore per produrre lenti prive di aberrazione cromatica facendo passare un raggio di luce solare prima attraverso una stretta fessura e poi attraverso un prisma di vetro. In seguito a questa operazione si veniva a formare su di uno schermo sistemato alla parete una striscia colorata dei colori dell’arcobaleno (detta “spettro”) all’interno della quale si potevano contare centinaia di righe scure di cui però l’artigiano tedesco non seppe dare giustificazione.

Coloro che compresero il significato di quelle righe furono due scienziati tedeschi: il fisico Gustav Robert Kirchhoff (1824-1887) e il chimico Robert Wilhelm Bunsen (1811-1899). Essi notarono, quarantacinque anni dopo le osservazioni di Fraunhofer, che riscaldando fino all’incandescenza gli elementi chimici gli stessi producevano uno spettro caratteristico di linee luminose diverse da elemento ad elemento. Vennero quindi passati in rassegna tutti gli elementi noti e ad ognuno di essi fu attribuita una propria “impronta digitale” rappresentata da una particolare serie di righe luminose. Qualora l’analisi attraverso lo spettroscopio di qualche minerale portato ad incandescenza avesse rivelato una serie di righe che non corrispondeva ad alcuno degli elementi noti voleva dire che all’interno del minerale era presente un elemento sconosciuto. La potenza di questo metodo di indagine della materia risiedeva nel fatto che anche piccolissime tracce di un elemento erano sufficienti per dar luogo ad uno spettro significativo e caratteristico.

In effetti nel 1860 gli stessi Bunsen e Kirchhoff, avendo notato una serie di righe spettrali che non coincideva con alcuno degli elementi conosciuti, estrassero dal minerale un elemento che presentava proprietà simili a quelle dei metalli alcalini. Chiamarono il nuovo elemento cesio da una parola latina che significa azzurro perché di quel colore appariva la linea più evidente del suo spettro. Un anno dopo i due scienziati scoprirono il rubidio altro metallo alcalino a cui fu dato quel nome, che in latino significa rosso, per il colore della riga più brillante dello spettro.

Frattanto molti chimici si dedicarono all’analisi spettroscopica di svariati minerali allo scopo di individuare al loro interno nuovi elementi. Il chimico francese Paul Lecocq (1838-1912) nel 1874 notò la presenza di righe sconosciute nello spettro di alcuni minerali raccolti sui Pirenei: si trattava dell’impronta di un elemento nuovo a cui fu assegnato il nome di gallio (da Gallia, antico nome della Francia). Mendeleev, venuto a conoscenza della scoperta, riscontrò nelle caratteristiche della sostanza identificata dal chimico francese quelle del suo eka-alluminio.

Pochi anni più tardi vennero individuati anche gli altri due elementi previsti da Mendeleev nella sua Tavola. Nel 1879 il chimico svedese Lars Nilson (1840-1899) scoprì lo scandio (così chiamato in onore della Scandinavia) che non era altro che l’eka-boro di Mendeleev e pochi anni più tardi, nel 1886, il chimico tedesco Clemens Winkler (1838-1904), in un minerale d’argento, isolò un elemento che chiamò germanio (in onore della sua patria) e le cui caratteristiche coincidevano con quelle dell’eka-silicio. L’analisi spettroscopica riserverà altre sorprese e altre conferme della validità della Tavola Periodica.

Nel 1894 il chimico scozzese William Ramsay (1852-1916) rifece un esperimento che alcuni anni prima era stato tentato dal chimico inglese Henry Cavendish (1731-1810) il quale aveva fatto reagire azoto con ossigeno (i due gas più abbondanti dell’atmosfera) senza però riuscire a completare la reazione: alla fine del processo rimaneva infatti un po’ di gas che non poteva essere azoto ma che Cavendish non fu in grado di stabilire cosa fosse.

Ramsay sottopose all’analisi spettroscopica il gas che si rifiutava di reagire notando una serie di righe che non coincidevano con alcuno dei gas noti. Si trattava in effetti di un nuovo elemento, più pesante dell’azoto e presente nell’aria in quantità pari a circa l’1% del volume totale: poiché esso non reagiva con nessun altro elemento gli fu assegnato il nome di argo da un termine greco che significa “inerte”. Il suo peso atomico era compreso fra 39 e 40 quindi avrebbe dovuto trovare sistemazione nella Tavola degli elementi fra potassio (PA=39,10) e calcio (PA=40,08) ma, come più volte abbiamo fatto notare, per Mendeleev la valenza era più importante del peso atomico per decidere della posizione di un elemento all’interno del sistema e pertanto, poiché quello appena scoperto non dava segno di combinarsi con altri elementi, si decise di assegnargli valenza zero. L’elemento prima del potassio era il cloro che presentava valenza 1 e 1 era pure la valenza del potassio; l’argo avrebbe quindi potuto sistemarsi fra questi due elementi e una volta stabilita la sua collocazione non fu nemmeno difficile convincersi che questo nuovo elemento non poteva essere l’unico esemplare a mostrare inerzia chimica. Non tardarono infatti a presentarsi altri gas con le sue stesse caratteristiche.

In realtà un elemento simile all’argo era già stato individuato, ma non su questa Terra. L’astronomo inglese Norman Lockyer (1836-1920) aveva attribuito ad alcune delle righe presenti nello spettro solare la presenza di un nuovo elemento a cui fu assegnato il nome di elio (parola che in greco significa sole) perché lo si riteneva tipico di quell’ambiente. Nel 1895 Ramsay esaminando con lo spettroscopio un minerale di uranio osservò una serie di righe che corrispondeva a quella che vent’anni prima era stata osservata sul sole: l’elio esisteva quindi anche sulla Terra. Lo stesso Ramsay riscaldando lentamente l’aria liquida scoprì tre gas inerti che evaporavano successivamente in funzione del loro peso atomico crescente: furono chiamati neon (nuovo), cripto (nascosto) e xeno(straniero). La serie dei gas nobili (così detti per analogia con le persone di rango elevato le quali se ne stanno per proprio conto evitando di confondersi con la gente comune) si completò nel 1900 con la scoperta del radon (o emanazione): un gas che usciva dal radio sostanza altamente radioattiva, scoperta due anni prima dai coniugi Curie.

Vi era infine un altro gruppo di elementi per il quale era necessario trovare sistemazione coerente all’interno della Tavola Periodica di Mendeleev.

Già nel lontano 1794 il chimico finlandese Johan Gadolin (1760-1852) aveva scoperto un nuovo ossido metallico (o terra, nome col quale, come sappiamo, veniva anche chiamato quel tipo di composto) all’interno di un minerale proveniente dalla cava di Ytterby vicino a Stoccolma, in Svezia. Poiché si trattava di una terra meno comune delle altre terre note come ad esempio la calce (CaO) e la magnesia (MgO), venne detta “terra rara”. Cinquanta anni più tardi venne estratto da quell’ossido, che frattanto era stato battezzato “ittria”, un elemento cui fu assegnato il nome di ittrio. Negli anni compresi fra il 1839 e il 1843 lo svedese Carl Gustav Mosander (1797-1858) scoprì altri elementi simili fra cui lo scandio e il lantanio.

Scandio, ittrio e lantanio si trovano generalmente in natura insieme con un nutrito gruppo di altri elementi (che diventeranno quattordici quando verrà scoperto l’ultimo, il prometeo, un elemento artificiale) i quali, con termine comprensivo, saranno chiamati elementi delle terre rare. Lo studio dettagliato di queste sostanze mostrava che si trattava di elementi con proprietà chimiche molto simili a cominciare dalla valenza uguale a 3 per tutti quanti. Essi, coerentemente, avrebbero dovuto trovare sistemazione all’interno del Sistema Periodico in un’unica colonna ma nessuna colonna era abbastanza lunga da contenere tutti quegli elementi. D’altra parte i pesi atomici molto vicini facevano ritenere dovesse trattarsi di un gruppo di elementi che avrebbe dovuto trovare posto in un’unica casella. In verità senza informazioni aggiuntive sulla struttura intima della materia non si sarebbe mai riusciti a dare ad essi sistemazione corretta.

 

IL VERO PRINCIPIO ORDINATORE DEL SISTEMA PERIODICO 

Quando Mendeleev ordinò gli elementi all’interno della sua Tavola Periodica non aveva la minima idea del motivo per il quale gli stessi si andassero disponendo spontaneamente secondo famiglie con proprietà analoghe e difatti solo dopo la scoperta della struttura intima degli atomi si ebbe la spiegazione di questa regolarità.

Fra il 1906 e il 1908 il grande fisico neozelandese Ernest Rutherford (1871-1937), a quel tempo insegnante presso l’Università di Manchester in Inghilterra, compì una serie di esperimenti che mostravano come la maggior parte della massa dell’atomo fosse concentrata al centro di esso in un corpuscolo di dimensioni molto piccole rispetto a quelle dell’atomo intero. Le esperienze di Rutherford consistevano nel lanciare particelle  (nuclei dell’atomo di elio) contro sottili lamine di metalli diversi e nell’osservare la direzione che questi proiettili assumevano dopo aver attraversato il bersaglio. Egli notò che la maggior parte delle particelle alfa attraversava il foglio metallico senza subire deviazioni mentre una piccola parte di esse defletteva dalla sua traiettoria rettilinea. Dalle deviazioni osservate il fisico neozelandese dedusse non solo la presenza di corpuscoli all’interno dell’atomo ma anche il valore della massa e della carica elettrica da essi posseduta.

In precedenza il fisico inglese Joseph John Thomson (1856-1940) aveva estratto dalla materia gli elettroni, particelle praticamente senza massa ma con carica elettrica negativa. Ora, poiché l’atomo nel suo complesso è neutro, Rutherford immaginò che ad ogni unità di carica positiva (oggi identificata con il protone) corrispondesse la carica negativa di un elettrone. Il numero delle cariche positive del nucleo pari a quello degli elettroni sistemati intorno ad esso venne chiamato numero atomico e simboleggiato con la lettera Z.

Negli anni 1913-1914 il fisico inglese Henry G. J. Moseley (1887-1915) misurando la lunghezza dell’onda dei raggi X che uscivano da elementi di diversa natura bombardati da elettroni veloci, scoprì che nell’atomo esisteva una quantità fondamentale il cui valore aumentava regolarmente nel passare da un elemento a quello successivo della Tavola Periodica. Se, ad esempio, due elementi creduti adiacenti nella Tavola Periodica davano origine a raggi X le cui lunghezze d’onda differivano del doppio del previsto, fra loro doveva trovarsi un elemento ancora sconosciuto; se differivano del triplo, gli elementi da inserire dovevano essere due. Se invece i raggi X di due elementi adiacenti differivano della misura prevista, si poteva essere certi che fra di essi non doveva essere inserito alcun nuovo elemento. Il posto (o numero d’ordine) di ogni elemento all’interno del Sistema Periodico coincideva con il valore della carica elettrica posseduta dal nucleo dell’atomo di quel determinato elemento e questo a sua volta corrispondeva al numero di elettroni necessari per bilanciare la carica del nucleo stesso. Il vero responsabile delle proprietà chimiche e fisiche degli elementi non era quindi il loro peso, ma il numero degli elettroni presenti negli atomi di quegli elementi. Questa quantità, come già sappiamo, venne chiamata “numero atomico” e adottata come il vero principio ordinatore del Sistema Periodico. Moseley morirà in combattimento presso Gallipoli all’inizio della prima guerra mondiale durante l’invasione inglese della Turchia. Probabilmente quella morte precoce defraudò il giovane fisico anche del premio Nobel.(*)

Grazie al lavoro dello sfortunato talento inglese fu così definitivamente acquisito dalla chimica che la base teorica su cui in realtà poggiava la classificazione degli elementi, andava ricercata nella carica elettrica posseduta dai nuclei e nella conseguente struttura elettronica degli atomi. Successivamente si scoprì che dalla disposizione degli elettroni intorno al nucleo derivava anche la spiegazione del significato chimico che il Sistema Periodico conteneva. La configurazione elettronica degli atomi darà quindi giustificazione del raggruppamento spontaneo degli elementi aventi proprietà analoghe e attribuirà, come vedremo, i motivi di tale comportamento alle caratteristiche elettroniche degli atomi degli elementi stessi. Cerchiamo quindi di completare il modello atomico definendo la posizione assunta dagli elettroni intorno al nucleo.

Lo studio con i raggi X aveva evidenziato una distribuzione degli elettroni atomici in gruppi di energia crescente a mano a mano che ci si allontanava dal nucleo. Questi gruppi vennero sistemati nei cosiddetti livelli energetici (o strati) e contraddistinti con le lettere K, L, M… o con i numeri 1, 2, 3… Il livello energetico più interno o strato K poteva contenere al massimo due elettroni; lo strato L ne poteva contenere al massimo 8, quello M 18 e così via verso un numero di elettroni sempre maggiore degli strati più esterni. Ogni stato (eccetto il K) si divideva poi in due o più sottostrati o sottolivelli (indicati con le lettere s, p, d ed f) in cui trovava sede un numero determinato di elettroni i quali a loro volta erano sistemati nei cosiddetti orbitali, ossia in regioni di spazio in cui era massima la probabilità di incontrare uno di essi. Ogni orbitale poteva contenere uno o due elettroni, non di più. Il sottostrato s ad esempio presentava un unico orbitale (di tipo s) e quindi poteva contenere al massimo 2 elettroni; il sottostrato p poteva contenere al massimo 6 elettroni sistemati su tre orbitali di tipo p; nel sottostrato d potevano trovare sistemazione al massimo 10 elettroni sistemati su 5 orbitali di tipo d e il sottostrato f presentava 7 orbitali di tipo f per un totale di 14 elettroni. Questa scoperta contribuì a spiegare la distribuzione degli elementi nella Tavola Periodica.

(*) A seguito della morte di Moseley nel 1915, all’età di soli 28 anni, il governo britannico rinunciò per il futuro ad inviare scienziati al fronte in tempo di guerra.

 

IL SISTEMA PERIODICO IN FORMA MODERNA

La moderna Tavola Periodica degli elementi è stata ottenuta tenendo conto anche delle conoscenze della struttura atomica effettuate all’inizio dello scorso secolo. Essa ricalca, nelle linee essenziali, la precedente Tavola di Mendeleev, conservando la suddivisione in periodi e gruppi, ma si arricchisce ulteriormente di una struttura a blocchi. Nel procedere della lettura si tenga sott’occhi una Tavola in versione moderna.

Si possono contare quattro blocchi. Il blocco di sinistra è formato di due colonne (denominate gruppo IA e gruppo IIA): in esso trovano sede gli elementi nei quali i rispettivi atomi vanno riempiendo di elettroni gli orbitali di tipo s dei vari livelli energetici.

Il blocco di destra è formato di sei colonne (gruppi IIIA, IVA, Va, VIA, VIIA, e 0): in esso trovano sistemazione gli elementi i cui atomi vanno via via riempiendo di elettroni gli orbitali di tipo p dei diversi livelli energetici.

Il blocco centrale è formato di dieci colonne e in esso trovano sistemazione gli elementi corrispondenti a quegli atomi i cui elettroni occupano progressivamente tutti gli orbitali di tipo d. Si tratta di quegli elementi che in precedenza abbiamo chiamato elementi di transizione.

Il blocco inferiore, infine, è costituito di quattordici colonne e in esso trovano sistemazione due periodi di quattordici elementi ciascuno, i Lantanidi e gli Attinidi, che già conosciamo con il nome di elementi delle terre rare e che vengono anche detti “elementi di transizione interna”, i cui atomi completano di elettroni gli orbitali di tipo f.

La disposizione a periodi si interpreta ora con il riempimento progressivo di elettroni degli orbitali dei diversi livelli energetici. Si possono contare 7 periodi.

Il primo periodo è detto piccolissimo (o cortissimo) ed è formato di soli due elementi, l’idrogeno e l’elio; nei rispettivi atomi gli elettroni occupano l’orbitale s del primo livello energetico (K o 1).

Il secondo e terzo periodo sono detti piccoli (o corti) e sono formati di otto elementi ciascuno. Nei rispettivi atomi gli elettroni occupano i tre orbitali p del secondo e del terzo livello energetico, oltre che gli orbitali di tipo s più interni. Entrambi questi periodi iniziano con un metallo alcalino (litio e sodio, rispettivamente) e terminano con un gas inerte (neo e argo), con configurazione elettronica esterna s²p6, identica per entrambi.

Seguono due grandi (o lunghi) periodi di 18 elementi ciascuno. Il primo di questi (il quarto in assoluto) inizia con il potassio (metallo alcalino) e termina con il kripto (gas nobile), mentre il secondo (il quinto in assoluto) va dal rubidio (metallo alcalino) allo xeno (gas nobile). In queste successioni di atomi, tra gli orbitali s e p, si inseriscono gli orbitali di tipo d che possono accogliere 10 elettroni. Ad essi corrispondono 10 elementi: i cosiddetti elementi di transizione. Si ricorderà che nella rappresentazione di Mendeleev gli elementi di transizione si trovavano in posizione atipica, mentre ora, come si può vedere, risultano organicamente inquadrati fra gli altri.

Il sesto periodo viene designato con il nome di grandissimo (o lunghissimo) e contiene 32 elementi. Qui compaiono atomi che presentano elettroni sugli orbitali di tipo f. Gli orbitali di tipo f sono 7 e possono accogliere complessivamente 14 elettroni. Ad essi corrispondono 14 elementi, i cosiddetti Lantanidi, che presentano caratteristiche molto simili fra loro, tanto che a rigore dovrebbero occupare tutti la stessa casella, cioè quella del lantanio, il 57° elemento. I Lantanidi sono elementi piuttosto rari in natura e poiché risulterebbero concentrati tutti insieme nel terzo gruppo del sistema periodico (o dei metalli terrosi) essi prendono anche il nome di elementi delle terre rare. Anche questo sesto periodo inizia con un metallo alcalino, il cesio, e termina con un gas nobile, il radon.

L’ultimo periodo, il settimo, è detto incompleto perché dovrebbe contenere 32 elementi come quello precedente, ma per il momento risulta monco. Esso inizia, come tutti gli altri periodi con un metallo alcalino, il francio, ma  termina prima di arrivare al gas nobile, elemento che dovrebbe avere il numero 118.

L’ultimo elemento esistente in natura è l’uranio, che occupa la 92ª casella; ad esso seguono alcuni elementi artificiali, ottenuti cioè in laboratorio mediante reazioni nucleari. Gli elementi transuranici sono i seguenti: nettunioplutonioamericiocurioberkeliocalifornioeinsteiniofermiomendelevionobeliolaurenziorutherfordio (o kurchatovio), dubnioseaborgiobohrioassio e meitnerio più altri tre ottenuti in questi ultimi anni in Germania e di cui si parlerà in seguito. Anche in questo periodo si presentano raggruppati i 14 elementi (dal torio al laurenzio) corrispondenti agli atomi con elettroni sistemati sugli orbitali di tipo f; essi prendono il nome di Attinidi e dovrebbero trovare sede, tutti insieme, nella 89ª casella.

I gruppi che si vanno a formare spontaneamente acquistano, nella attuale configurazione, un preciso significato fisico. Si sarà notato, infatti, che gli elementi che fanno parte dello stesso gruppo possiedono un’identica struttura elettronica esterna. Per struttura elettronica esterna di un atomo si intende esattamente il numero degli elettroni presenti in eccesso su quell’atomo, rispetto al gas nobile immediatamente precedente. Siccome le caratteristiche chimiche di un elemento dipendono, come si sa, proprio dalla configurazione esterna del suo atomo, ne consegue che elementi di uno stesso gruppo devono avere comportamento chimico simile.

Nella moderna tavola periodica degli elementi è possibile contare 16 gruppi, e precisamente: 7 gruppi A, 7 gruppi B, un ottavo gruppo B comprendente tre triadi, e il gruppo zero occupato dai gas inerti.

Per gli elementi dei gruppi A, il numero del gruppo corrisponde al numero di elettroni che questi elementi possiedono nell’ultimo livello energetico. Ad esempio, nel gruppo IA troviamo la famiglia dei “metalli alcalini” costituita di 6 elementi i cui atomi possiedono la prerogativa di avere nell’ultimo livello energetico un solo elettrone, sistemato su un orbitale di tipo s. Nel gruppo IIA trovano sistemazione i “metalli alcalino-terrosi”, i cui atomi possiedono due elettroni sul livello energetico più esterno. I “metalli terrosi” del gruppo IIIA sono costituiti di atomi che portano nell’ultimo livello energetico tre elettroni (due nell’orbitale di tipo s ed uno in uno dei tre orbitali di tipo p), e così via. Infine l’ultimo gruppo, quello dei gas nobili, comprende elementi i cui atomi, fatta eccezione per l’elio che ha due elettroni in tutto, possiedono sempre otto elettroni sull’ultimo livello energetico (due nell’orbitale di tipo s e sei equamente ripartiti nei tre orbitali di tipo p); questa disposizione elettronica è responsabile della loro nulla (o quasi nulla) reattività.

Nei gruppi B trovano sistemazione quelli che abbiamo chiamato “elementi di transizione”. Si tratta di sostanze a carattere metallico i cui atomi presentano nel livello energetico più esterno 2 elettroni (raramente 1), mentre gli orbitali di tipo d, immediatamente sottostanti, ospitano un numero variabile di essi (da 1 a 10).

Infine nelle due serie degli “elementi di transizione interna”, sono sistemate quelle sostanze i cui atomi derivano rispettivamente dal riempimento degli orbitali 4f e 5f. Poiché questi orbitali sono piuttosto interni all’atomo, mentre all’esterno vi sono gli elettroni degli orbitali s e p, cioè gli elettroni che sono i veri responsabili del comportamento chimico, si comprende facilmente il motivo per il quale questi elementi hanno proprietà chimiche molto simili.

La descrizione dettagliata della Tavola del Sistema Periodico degli elementi ha messo in luce alcuni dei pregi che essa contiene. Si è potuto osservare ad esempio che molte proprietà chimiche e fisiche degli elementi variano gradualmente al variare del numero atomico, mentre altre lo fanno periodicamente. Le variazioni graduali sono evidenti all’interno di ciascun gruppo e di ciascun periodo, mentre le variazioni periodiche risultano dall’analisi del Sistema preso nel suo insieme.

La conoscenza dell’andamento delle proprietà chimiche e fisiche permette anche di prevedere il comportamento di un singolo elemento scelto a caso all’interno della Tavola: ad esempio, la linea a zigzag che in molte tabelle corre diagonalmente nel blocco di destra, separa i metalli (a sinistra), dai non metalli (a destra). Gli elementi che si trovano vicino alla linea che separa questi due gruppi di elementi con caratteristiche opposte, presentano proprietà intermedie e vengono chiamati semimetalli (o metalloidi).

 

GLI ULTIMI ELEMENTI DELLA TAVOLA PERIODICA

Agli inizi del ventesimo secolo grazie soprattutto al criterio di classificazione conseguente al lavoro di Moseley fu possibile prevedere esattamente quanti elementi rimanessero ancora da scoprire essendo ormai chiaro che fra l’idrogeno e l’uranio (che si riteneva essere l’ultimo elemento esistente in natura) dovesse trovarsi solo un numero limitato e definito di essi. Nel 1913 erano già stati occupati tutti i posti del Sistema Periodico tranne sette: rimanevano vuote la caselle con i numeri 43, 61, 72, 75, 85, 87 e 91.

Nel 1917 fu scoperto il protoattinio (numero atomico 91); nel 1923 venne isolato l’afnio (numero atomico 72) e nel 1925 toccò al renio (numero atomico 75). A tale data non rimanevano quindi da scoprire che quattro elementi. Ora, poiché tutti quelli noti fra il numero 84 e il numero 92 erano radioattivi, ci si aspettava che lo fossero anche l’85 e l’87, ma non il 43 e il 61, che si riteneva invece dovessero essere stabili come lo erano quelli che stavano loro intorno: guidati da questo convincimento, i fisici si misero a cercarli fra le rocce.

Com’era facilmente prevedibile, fin dal 1828 furono in molti a dichiarare di avere individuato gli elementi mancanti, ma si trattò sempre di falsi allarmi. L’unica eccezione è rappresentata dai coniugi Noddack (Ida Tacke e Walter), gli stessi chimici che alcuni anni prima avevano scoperto il renio, i quali annunziarono di aver isolato l’elemento 43 a cui dettero il nome di masurio (in onore di Masuren una regione della Prussia orientale). Essi dichiararono di essere riusciti ad estrarre da una grande quantità di minerali di uranio una frazione di milligrammo del nuovo elemento che identificarono in base all’emissione di raggi X, cioè in pratica applicando la legge di Moseley. Questa prova però, a quel tempo, non era giudicata sufficiente per il riconoscimento di un elemento soprattutto se nuovo e quindi i due chimici persero il merito della scoperta che sarà tuttavia riconosciuta ma solo nel 1988.

Nel 1926 due chimici americani annunciarono di aver rinvenuto l’elemento 61 a cui dettero il nome di illinio (da Illinois lo Stato in cui si trovava l’Università dove era avvenuta la scoperta); nello stesso anno due chimici dell’Università di Firenze pensavano di aver isolato lo stesso elemento che, senza metterci troppa fantasia, chiamarono florenzio. Nell’uno come nell’altro caso l’identificazione non venne confermata e quando nella scienza una scoperta non trova conferma da parte di altri scienziati, è come se essa non fosse mai stata fatta.

L’elemento numero 43 venne invece isolato ufficialmente da Emilio Segrè (1905-1989). Questo grande fisico italiano nel 1936 si trovava a Berkeley, sede dell’Università della California, presso il laboratorio dell’amico Ernest Orlando Lawrence (1901-1958), l’inventore del ciclotrone. Qui Segrè (che in un tempo successivo si sarebbe trasferito definitivamente negli Stati Uniti) irradiò per alcuni mesi un frammento di molibdeno con deutoni (nuclei di deuterio, l’idrogeno pesante) e quindi si portò il campione così trattato all’Università di Palermo dove insegnava.

Dopo una serie di analisi accurate condotte insieme con il collega Carlo Perrier, scoprì che il campione di molibdeno sottoposto a bombardamento conteneva tracce di una nuova sostanza radioattiva che si dimostrò essere l’elemento di numero 43. Ad esso fu assegnato il nome di tecnezio (da una parola greca che significa artificiale) e questo fu il primo elemento del Sistema Periodico ottenuto in laboratorio. Questo elemento, che a rigore non dovrebbe essere definito artificiale, non avrebbe mai potuto essere rintracciato fra le rocce a causa del suo periodo di semitrasformazione molto breve se non fosse che contemporaneamente alla sua scomparsa veniva rigenerato, seppure in quantità minime, da reazioni fisiche naturali. Il tecnezio (o masurio) infatti è uno dei prodotti della fissione nucleare dell’uranio indotta da parte sia di neutroni che provengono dallo spazio sia di quelli che si liberano dall’uranio stesso. Anche il tecnezio artificiale oggi si ottiene nello stesso modo in cui lo produce la natura.

Alcuni anni dopo la scoperta del tecnezio da parte di Segrè vennero riempite anche le ultime tre caselle della tavola periodica rimaste vuote. Nel 1939 venne isolato il francio (numero atomico 87) e nel 1940 l’astato cosiddetto per la sua instabilità (numero atomico 85) mentre l’ultimo vuoto, quello dell’ elemento numero 61 (prometeo), venne colmato nel 1947. Tutti e tre questi nuovi elementi sono radioattivi.

 

GLI ELEMENTI TRANSURANICI 

I chimici, fin dal 1913, erano convinti che con la scoperta degli ultimi sette elementi ancora mancanti nel Sistema Periodico l’elenco sarebbe stato completo. Questo convincimento però cambiò quando nel 1932 il fisico inglese James Chadwick (1891-1974) scoprì nel nucleo atomico il neutrone (una particella pesante quanto il protone ma priva di carica elettrica) la cui esistenza era già stata ipotizzata in precedenza da Rhuterford e da Bohr, ma mai individuata materialmente. La nuova particella proprio per il fatto di essere priva di carica elettrica si dimostrerà preziosa come proiettile da lanciare contro i nuclei atomici che fino ad allora erano stati colpiti da protoni, deutoni e particelle alfa, cioè da corpuscoli carichi positivamente che trovavano notevole difficoltà ad infilarsi nei nuclei atomici anch’essi carichi positivamente.

Fu Enrico Fermi (1901-1954) ad individuare nel neutrone la particella più adatta (soprattutto se in precedenza la sua velocità veniva rallentata) a penetrare nei nuclei degli atomi pesanti e a rimanerne intrappolata. I nuovi nuclei che ne risultavano per la maggior parte erano instabili e tendevano a ripristinare la stabilità liberandosi di un elettrone e di un antineutrino (un corpuscolo senza massa e senza carica). Il fenomeno si chiama decadimento beta e determina l’aggiunta di un protone a quelli già esistenti all’interno del nucleo di partenza: in altri termini bombardando con neutroni lenti il nucleo di un elemento pesante se ne formava un altro con numero atomico maggiore di un’unità rispetto a quello sottoposto al trattamento. Lo stesso Fermi era convinto di avere prodotto in laboratorio due elementi più pesanti dell’uranio che chiamò “esperio” e “ausonio” e di cui parlò durante la lezione che tenne in occasione della consegna del premio Nobel. In realtà il fisico romano con i suoi esperimenti non aveva ottenuto elementi nuovi ma la rottura di quelli che aveva sottoposto a bombardamento neutronico. La conferma di ciò si ebbe nel 1939 quando il fisico tedesco Otto Hahn (1879-1968) dimostrò che il bombardamento dell’uranio con neutroni produceva la rottura dell’atomo pesante in due frammenti più leggeri. Era la bomba atomica!

Nel 1940 due fisici dell’Università della California a Berkeley, Edwin M. McMillan (1907-1991) e Philip H. Abelson (1913 –) estrassero da un campione di uranio, che in precedenza era stato irradiato con neutroni all’interno del ciclotrone dell’istituto, l’elemento 93, il primo al di là dell’uranio. Ad esso coerentemente dettero il nome di nettunio dato che Nettuno è il primo pianeta dopo Urano. Nel corso degli anni quaranta e cinquanta un gruppo di fisici americani, diretti da Glenn T. Seaborg (1912 –) del Lawrence Berkeley National Laboratory, continuando le ricerche che erano iniziate durante la guerra con la scoperta dell’elemento 94 (chiamato plutonio dal pianeta Plutone) produssero tutta una serie di nuovi elementi che andavano ad occupare i posti compresi fra il numero 95 e il 100; essi erano: americiocurioberkeliocalifornioeinstenio e fermio. Tutti questi elementi sono stati prodotti per cattura neutronica e susseguente decadimento beta.

Con il fermio terminava però la possibilità di ottenere atomi attraverso il bombardamento con neutroni lenti perché al di là di un certo assembramento di particelle all’interno del nucleo non si realizzava più il decadimento beta. Per continuare a produrre elementi sempre più pesanti si doveva cambiare strategia. Il nuovo metodo che venne adottato fu quello di far collidere nuclei relativamente leggeri (carbonio, azoto e ossigeno) con elementi transuranici. Per eseguire questi esperimenti era però necessario imprimere ai proiettili grandi velocità che i ciclotroni in uso non erano in grado di produrre. Furono quindi studiati acceleratori di nuova concezione che però solo le due superpotenze furono in grado di realizzare materialmente.

Fu così che il Lawrence Berkeley National Laboratory negli Stati Uniti e l’Istituto congiunto per la ricerca nucleare di Dubna in Unione Sovietica si trovarono a competere sia sul piano scientifico sia su quello politico: le scoperte che si realizzarono in quegli anni di guerra fredda rimasero infatti per lungo tempo sottoposte a segreto militare. Con il disgelo iniziarono a comparire i primi risultati del lavoro condotto in modo occulto e il Sistema Periodico si allungò fino all’elemento numero 106. Nel 1955 il gruppo di Berkeley aveva sintetizzato l’elemento 101 per fusione di elio e einstenio e ad esso era stato dato il nome di mendelevio. Poi, fra il 1958 e il 1974 furono sintetizzati gli elementi nobelio (102), lawrencio (103), rutherfordio (104), dubnio (105) e seaborgio (106).

A causa della situazione politica di quegli anni non fu facile stabilire chi per primo avesse scoperto questi ultimi elementi e quale dovesse essere il nome che gli stessi avrebbero dovuto assumere. L’elemento 104 ad esempio fu ottenuto per la prima volta nel 1964 da un fisico russo e battezzato kurchatovio (dal nome del fisico, Igor Kurchatov colui che nel 1946 realizzò in URSS la pila atomica, la stessa che era stata messa a punto due anni prima da Fermi) ma quello prodotto era in realtà un suo isotopo. L’elemento vero e proprio, cui dettero il nome di rutherfordio, fu ottenuto successivamente da Albert Ghiorso e Glenn Seaborg. Oggi la scoperta viene attribuita ad entrambi ma il nome ufficiale resta quello assegnatogli dagli Americani. Altro problema lo creò l’elemento 105 che i Russi chiamarono dubnio (da Dubna il luogo in cui i fisici sovietici eseguivano le loro ricerche) e gli Americani hahnio.

Per completezza di informazione e per chiarezza espositiva a questo punto è opportuno spiegare in due parole il fenomeno dell’isotopia (da una parola greca che significa “stesso posto”), definito dal fisico inglese Frederick Soddy (1877-1956) negli anni 1910-1911. Tale fenomeno metteva in luce che non vi era corrispondenza diretta fra atomo definito dal suo peso atomico ed elemento chimico definito dal numero atomico: infatti la maggior parte degli elementi chimici si presentava in natura come una miscela di due o più isotopi. Questi sono atomi con peso atomico diverso e quindi con nucleo diversamente strutturato, ma chimicamente identici perché forniti dello stesso numero atomico Z dal quale, come sappiamo, dipendono le proprietà chimiche.

Trent’anni fa le ricerche di nuovi elementi si spostarono in Germania dove nel 1975 entrò in funzione presso l’Università di Heidelberg un acceleratore di ioni pesanti battezzato UNILAC (Universal Linear Accelerator). Questa nuova macchina era in grado di accelerare tutti i tipi di ioni, variandone anche le velocità. In quegli anni i fisici russi avevano scoperto che la temperatura dei nuclei appena formati era più bassa e quindi i nuclei stessi non si disintegravano subito dopo essere stati sintetizzati se le velocità delle particelle destinate all’impatto non erano eccessive. La tecnica di ridurre la velocità delle particelle lanciate contro i nuclei pesanti avrebbe quindi permesso, nelle intenzioni dei fisici tedeschi, di sintetizzare i nuclei degli elementi dal 107 al 114. Si puntava verso il 114 perché lo si riteneva un elemento con il nucleo particolarmente stabile.

In quegli anni si era anche scoperto che i nuclei diventavano di formazione sempre più difficile e contemporaneamente sempre più instabili a mano a mano che cresceva il loro numero atomico: la loro vita media in altri termini si accorciava con l’accrescersi della complessità del nucleo, così che quella piccola quantità di elemento che si riusciva ad ottenere svaniva rapidamente. Ad esempio, per ottenere solo due atomi dell’elemento 112, l’ultimo della cui esistenza si abbia notizia certa benché essa duri solo alcuni milionesimi di secondo, si è dovuto procedere ad un esperimento che è proseguito per 24 giorni di fila.

Un nucleo è stabile quando neutroni e protoni assumono all’interno di esso una configurazione particolare paragonabile alla distribuzione degli elettroni negli atomi dei gas nobili. Il primo degli elementi superpesanti con nucleo stabile è quello con numero atomico 107 e fu anche il primo ad essere identificato a Darmstadt dove aveva sede la società per la ricerca degli ioni pesanti (GSI è la sigla di questa società) nei primi anni ottanta del secolo scorso. Per esso fu proposto il nome di nielsbohrio (da Niels Bohr unico caso in cui il cognome è un tutt’uno con il nome, per evitare confusione con il boro) ma poi assunse il nome ufficiale di bohrio. Poco dopo vennero anche sintetizzati l’elemento 108 e il 109. Al primo fu assegnato il nome di assio (dalla regione tedesca dell’Assia dove si trova Darmstadt) e al secondo il nome di meitnerio (in onore di Lise Meitner, la straordinaria fisica austriaca morta nel 1968 all’età di novanta anni).

Fra il dicembre del 1994 e il febbraio del 1996 il gruppo di fisici tedeschi riuscì a sintetizzare, non senza difficoltà, pochi atomi degli elementi numero 110, 111 e 112 a cui a tutt’oggi non è ancora stato assegnato un nome ufficiale. Ma l’ambizione massima dei fisici è quella di riuscire ad aggiungere alla serie altri sei elementi, fino ad arrivare a quello con numero atomico 118, in modo da completare il settimo periodo del Sistema Periodico.

Prof. Antonio Vecchia

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