Alla ricerca degli extraterrestri

GLI EXTRATERRESTRI: UN’IDEA MOLTO ANTICA

Siamo soli nell’Universo? La vita è un fenomeno irripetibile che si è potuto realizzare solo su questa Terra, o vi sono altri luoghi nei quali si sono verificate le stesse condizioni? Se esistessero, in giro per il Cosmo, altre forme di vita intelligente e tecnicamente progredite, come potremmo metterci in contatto con esse?

Sono tutti interrogativi molto avvincenti e di grande attualità ai quali, però, troppo spesso, si risponde in modo superficiale e con buona dose di presunzione. Noi cercheremo di affrontare il tema in termini rigorosamente scientifici, escludendo quindi dalla trattazione tutte quelle disquisizioni di carattere metafisico di cui si fa largo uso quando si dibatte questo argomento.

Oggi, come è facile verificare, molta gente comune, e anche molti astronomi di professione, sono convinti che esistano altri mondi abitati; alcuni però, fra cui chi scrive, lo sono un po’ meno. Comunque, prima di entrare nel merito della questione forse è opportuno ricordare che l’idea che potremmo non essere soli nell’Universo non è né originale, né moderna. Questa idea, cioè, non è legata all’attuale disponibilità di sofisticate strumentazioni di osservazione del cielo, né alle recenti conquiste dello spazio, ma era presente già nelle antiche civiltà e forse perfino nell’uomo primitivo. Il recente sviluppo dell’astronomia, pertanto, non ha affatto favorito queste convinzioni, anzi è vero il contrario. L’astronomia, creando una nuova visione del mondo, ha contribuito semmai ad allontanare dalla mente dell’uomo gli spiriti e le altre figure misteriose che in passato condizionavano in modo pesante e spesso decisivo l’attività umana e il controllo dei fenomeni naturali.

Gli antichi, come sappiamo, avevano ideato un modello di Universo ben diverso da quello che ha prodotto la scienza moderna e quindi non potevano ipotizzare luoghi adatti alla vita come li concepiamo noi oggi. Essi ritenevano che tutto si esaurisse su questa Terra, cioè su quello che per loro rappresentava il mondo intero. Sopra la Terra vi era il cielo che era ritenuto esattamente ciò che appare e cioè, di giorno, una volta azzurra illuminata dal Sole e, di notte, una coltre nera punteggiata di stelle le quali erano immaginate tutt’altra cosa da quello che effettivamente sono. Alcuni ritenevano che fossero diamanti incastonati su di un drappo scuro, altri forellini attraverso i quali si poteva scorgere il fuoco eterno che ardeva dall’altra parte, altri avevano avanzato altre ipotesi ancora, ma sempre di natura fantastica.

Successivamente i filosofi dell’antica Grecia, messi da parte i miti, considerarono l’esistenza di altri mondi un concetto razionale strettamente legato alla teoria atomistica della materia. Secondo questa teoria, inizialmente proposta da Leucippo e Democrito, il mondo sarebbe formato di atomi che si muovono disordinatamente nel vuoto. Poiché il numero degli atomi è infinito ed infinite sono le loro possibilità di aggregazione, non esisterebbe alcun impedimento alla formazione di altri mondi, né alla presenza, su questi, di altre forme viventi. (Questa idea, tutto sommato, è molto simile a quella che spinge alcuni scienziati del nostro tempo alla ricerca di forme di vita extraterrestre. Essi affermano infatti che, data l’abbondanza della materia e l’uniformità della natura, i processi naturali che hanno portato alla formazione del sistema solare e del nostro pianeta dovrebbero ripetersi altrove e la vita dovrebbe emergere anche su quei mondi lontani, qualora si verificassero le stesse condizioni che si sono realizzate sulla Terra.)

In tempi più moderni l’idea di vita extraterrestre torna ad affiorare, ma sotto altre forme. Dopo la fine del geocentrismo tolemaico, Giordano Bruno parla dell’infinità dei mondi abitati, e per questa convinzione finirà bruciato vivo dopo aver subito un processo per eresia dall’autorità ecclesiastica. Il cristianesimo predicava, infatti, che Cristo era venuto appositamente sulla Terra per redimere gli uomini e pertanto la Terra doveva essere l’unico mondo abitato da queste creature privilegiate. Chi la pensava diversamente era considerato un eretico e doveva essere condannato alla giusta punizione.

Pochi anni più tardi, Galilei puntò il suo cannocchiale sulla Luna e la vide disseminata di montagne e pianure, come la Terra. Galilei non credeva nella pluralità dei mondi abitati, tuttavia le sue osservazioni fecero nascere in molti il dubbio che anche sulla Luna vi potessero essere organismi viventi.

Altri grandi scienziati come Christiaan Huygens, Isaac Newton e William Herschel ritenevano verosimile che la vita si fosse potuta sviluppare anche su quei mondi lontani che nel frattempo telescopi sempre più potenti andavano scoprendo.

Alla fine dell’Ottocento, l’italiano Giovanni Virginio Schiaparelli osservò delle linee scure sulla superficie di Marte che chiamò “canali”. La parola venne tradotta in inglese con “canals” che significa sì canali, ma canali artificiali, mentre il termine corretto sarebbe dovuto essere “channels”. Ciò trasse in errore il mondo anglosassone che pensò a canali costruiti da esseri intelligenti. Più tardi, l’astronomo francese Camille Flammarion e soprattutto l’americano Percival Lowell, non ebbero alcun dubbio sulla natura di quelle striature osservabili con difficoltà al telescopio: esse erano canali costruiti da esseri intelligenti per fini pratici. Oggi sappiamo che i canali osservati su Marte erano semplici apparenze dovute all’allineamento casuale di montagne o a giochi d’ombre; i marziani non c’entrano.

In tempi recenti, dopo lo sviluppo della radioastronomia e dell’esplorazione spaziale, il problema dell’esistenza di forme di vita extraterrestri è stato riproposto su basi meno fantasiose ma, nello stesso tempo, con maggior vigore. Nasce perfino una nuova scienza, l’Esobiologia, che si occupa in modo specifico delle possibilità e delle condizioni di vita in ambienti alieni, cioè non terrestri.

 

LA SCIENZA E IL METODO SCIENTIFICO

Abbiamo detto, all’inizio, che ci proponevamo di affrontare il tema relativo alla presenza della vita nel Cosmo in termini rigorosamente scientifici. Pertanto, prima di procedere, è opportuno chiarire bene che cosa sia la scienza (o, più esattamente, le “scienze naturali”), specificandone la natura, i metodi di indagine e i fini che si prefigge.

Come tutti (o quasi) sanno, la ricerca scientifica opera secondo criteri che vennero indicati, nelle loro linee essenziali, quattrocento anni fa da Galilei: essi hanno prodotto finora ottimi risultati e oggi sono pienamente accettati dalla comunità scientifica.

I criteri indicati da Galilei impongono che l’indagine sui fenomeni naturali inizi sempre dall’osservazione attenta e scrupolosa della realtà sulla quale lo scienziato è tenuto ad eseguire delle misurazioni. Queste misurazioni producono i cosiddetti dati sperimentali che costituiscono la materia prima per il lavoro successivo. Se non ci sono i dati, o se questi sono scarsi e di cattiva qualità, non si fa scienza. Questa, per l’argomento che stiamo trattando, è una premessa molto importante e dalla quale in ogni caso non si deve prescindere.

Dopo aver raccolto i dati, e dopo averli sistemati organicamente all’interno di equazioni matematiche che prendono il nome di leggi, bisogna interpretarli. L’interpretazione dei dati sperimentali si fa attraverso la formulazione di ipotesi le quali, in pratica, non sono altro che idee e, come tutte le idee, possono essere buone o cattive, giuste o sbagliate. Per stabilire il pregio di un’ipotesi, la si sottopone alla prova dei fatti. Se l’ipotesi mostra di non essere in contraddizione con le leggi fondamentali di natura e con ulteriori osservazioni ed esperimenti, essa assume un significato più vasto ed è promossa a dignità di teoria, cioè, in pratica, di ipotesi più sicura. Anche la teoria, tuttavia, per quanto capace di fornire una spiegazione soddisfacente dei fenomeni naturali noti, poiché è e rimane anch’essa un’idea, può sempre venire abbandonata o modificata. Il corpo delle conoscenze scientifiche non è quindi qualche cosa di statico, di acquisito una volta per sempre, ma un prodotto dinamico, in continuo rifacimento.

E’ bene allora ribadire che nel mondo della scienza non esiste un’autorità indiscussa, e nessuno è chiamato a fare atto di umiltà e di fiducia per credere ciecamente in quello che dice lo scienziato più bravo o più famoso del momento. Le verifiche delle teorie scientifiche devono poter essere avvallate da chiunque lo desideri e senza far ricorso a condizioni eccezionali. Per esempio, un fenomeno che si verificasse solo in assenza di altre persone che guardano, oppure facendo ricorso ad abilità che solo pochissimi possiedono, non può essere preso in considerazione dalla scienza. Questo è il motivo per il quale le verità scientifiche sono “migliori”, ovvero più affidabili, delle altre: esse sono patrimonio di tutti e tutti le possono verificare.

Con questo non si vuol dire che la scienza sia superiore a qualsiasi altra attività umana, ma semplicemente che, per fare scienza, bisogna rispettare alcune regole precise e ormai ben consolidate. Esistono tante altre attività dell’uomo, ad esempio di tipo morale, religioso, artistico o politico molto importanti per la sua vita sociale e spirituale, ma non rientrano nella sfera dell’attività scientifica. Ne possono scaturire discorsi interessanti e profondi, ma non sono discorsi scientifici. E’ importante che questo concetto venga compreso con chiarezza prima di procedere.

 

L’ORIGINE DEL SISTEMA SOLARE

Torniamo ora alla domanda che ci eravamo posti all’inizio. Esiste la possibilità che nell’Universo siano presenti altre forme viventi oltre a quelle che possiamo osservare sotto i nostri occhi? Più in particolare, esistono altri esseri intelligenti?

Per rispondere a queste domande dovremmo, innanzitutto, identificare i luoghi entro i quali indirizzare la ricerca. Già, ma a cercare cosa? Naturalmente la vita, come abbiamo appena detto. Ma che cosa è la vita? Sotto quali forme si presenta? Esistono organismi viventi profondamente diversi da quelli presenti sulla Terra, o dobbiamo immaginarli tutti più o meno simili a quelli che osserviamo vicino a noi?

Le forme viventi che conosciamo sono sistemi materiali costituiti da un insieme di molecole complesse e ben organizzate, in grado di immagazzinare e trasmettere un gran numero di informazioni. Tutto ciò richiede la presenza di un atomo con caratteristiche eccezionali che solo il carbonio possiede. Dobbiamo cercare solo questo tipo di vivente?

C’è qualcuno che ipotizza l’esistenza di forme viventi costituite di molecole che hanno per base l’atomo di silicio invece che quello di carbonio. Tale ipotesi si basa sul fatto che l’atomo di silicio assomiglia a quello di carbonio in quanto è anch’esso tetravalente e forma legami silicio-silicio come il carbonio forma legami carbonio-carbonio. In realtà la chimica del silicio è profondamente diversa da quella del carbonio e per noi è molto difficile immaginare organismi costruiti con atomi di silicio anche perché la Terra è piena di silicio e, qualora fossero possibili forme viventi formate da tale elemento, queste si sarebbero dovute sviluppare anche sul nostro pianeta. In più si consideri il fatto che le nostre conoscenze nel campo della biochimica sono troppo scarse per valutare la possibilità che vi possano essere strutture viventi totalmente diverse da quelle presenti sul nostro pianeta. Per questo motivo andremo alla ricerca solo di forme di vita più o meno del tipo di quelle di cui abbiamo esperienza diretta.

Gli organismi viventi a noi noti, come dicevamo, sono formati da delicate e complesse strutture chimiche in continuo rifacimento, ma, nello stesso tempo, molto stabili. Non è quindi possibile immaginare la presenza di molecole di questo genere in qualsiasi luogo. Ad esempio non potrebbero resistere senza modificarsi chimicamente e fisicamente, sulle stelle, dove sussistono temperature elevatissime in grado di fondere ogni cosa, né negli spazi interstellari, dove viceversa si registrano temperature bassissime che irrigidiscono qualsiasi tipo di materia. I pianeti (e i satelliti), con le loro temperature intermedie, rappresentano invece l’ambiente ideale per la realizzazione di quelle reazioni chimiche ordinate e diversificate, che stanno alla base del metabolismo dei viventi. Quindi, se per vita intendiamo qualche cosa di altamente organizzato e simile a ciò che siamo abituati a vedere su questa Terra, non rimangono altri luoghi dove andare a cercare, se non i sistemi planetari.

Noi però conosciamo un unico sistema planetario, il nostro, nel quale vi è un solo pianeta, la Terra, che ospita la vita. La presenza di altri sistemi planetari, all’interno della nostra Galassia (o Via Lattea), costituirebbe un punto di partenza molto importante per la nostra ricerca. Se ad esempio si venisse a scoprire che i sistemi planetari sono rari, si rafforzerebbe l’idea che la vita è un fatto eccezionale che forse si è realizzato solo sulla nostra Terra, viceversa se si scoprisse che i sistemi planetari sono numerosissimi la ricerca di altre forme di vita ne verrebbe stimolata. Per dare risposta a questa domanda è necessario sapere, innanzitutto, come si origina un sistema planetario.

Noi, come abbiamo detto, non abbiamo conoscenza diretta di altri sistemi planetari diversi dal nostro, e pertanto non abbiamo a disposizione altri dati di osservazione, per formulare un’ipotesi sulla loro origine, se non quelli che possiamo raccogliere sul Sole, sui nove pianeti che gli orbitano intorno e sui satelliti che a loro volta girano intorno ai pianeti. Con questi dati è possibile formulare delle ipotesi, che per il momento, tuttavia, non potranno essere verificate su altre realtà.

All’inizio del secolo che si è appena concluso, era accreditata una serie di ipotesi (diverse solo nei dettagli), che potremmo definire di tipo catastrofico (o dualistico), secondo le quali il nostro sistema planetario sostanzialmente si sarebbe formato per l’avvicinarsi di una stella al Sole: a causa della forza gravitazionale, si sarebbe prodotta una fuoriuscita di materia dalla quale si sarebbero quindi originati i pianeti.

Questo genere di ipotesi sulla formazione del sistema planetario pone immediatamente delle limitazioni al problema relativo alla presenza di altre forme viventi nel Cosmo, perché riduce drasticamente il numero di altri luoghi adatti alla vita. Un’ipotesi del genere suggerisce, infatti, che la formazione di un sistema planetario debba essere un evento eccezionale, in quanto, a causa degli enormi spazi che separano le stelle, l’urto, o anche il semplice avvicinamento fra due di esse, rappresenterebbe un evento molto raro. La distanza fra due stelle è mediamente cento milioni di volte superiore al loro diametro; ciò equivale a dire che se una stella venisse immaginata delle dimensioni di una capocchia di spillo, questa si troverebbe a distanza di decine di kilometri da una sua simile. Si è calcolato che nel corso della vita della nostra Galassia si sarebbero verificati, al suo interno, non più di una decina di incontri ravvicinati da cui si sarebbe potuto formare un sistema planetario.

Se accettassimo per buona questa ipotesi, dovremmo concludere che ben difficilmente potremo scoprire altri sistemi planetari in mezzo ai miliardi di stelle che formano la nostra Galassia. Inoltre, una volta trovati, questi potrebbero anche essere tutti disabitati. Se pertanto volessimo andare alla ricerca di altre forme di vita in luoghi simili alla nostra Terra, il discorso sulla loro presenza nell’Universo si chiuderebbe qui, prima ancora di iniziare.

Oggi invece è accreditata una serie di ipotesi (anche in questo caso diverse solo nei dettagli) sulla formazione del nostro sistema planetario, che porta a conclusioni diametralmente opposte. Secondo queste ipotesi il sistema solare si sarebbe formato dalla evoluzione di una nube di gas e polvere in lenta rotazione che avrebbe generato i pianeti alla periferia, mentre al centro si sarebbe condensato il Sole. Queste ipotesi sono dette evoluzionistiche (o monistiche) e costituirebbero un evento del tutto normale e quindi facilmente ripetibile. A differenza delle ipotesi precedenti, queste seconde porterebbero a concludere che, di sistemi planetari, la nostra Via Lattea è piena zeppa e se si prendessero in considerazione anche le altre galassie (che si contano a miliardi), il numero dei possibili mondi abitati diventerebbe sterminato.

Se vogliamo quindi continuare il nostro discorso relativo alla presenza di forme viventi nel Cosmo, dobbiamo accettare, gioco forza, quest’ultima ipotesi. Certo, i ragionamenti che abbiamo fatto fin qui hanno ben poco di scientifico, perché non sono basati su dati di osservazione. Tuttavia, obbiettivamente, dobbiamo convenire che esiste qualche punto in più a favore delle ipotesi evoluzionistiche rispetto alle altre.

A sostegno dell’ipotesi evoluzionistica, si è osservato che i pianeti compiono il loro moto di rivoluzione e di rotazione tutti nello stesso senso e in concordanza anche con quello di rotazione del Sole; inoltre, gli assi di rotazione dei pianeti sono tutti quasi paralleli fra loro e paralleli a quello dell’astro centrale; infine, la loro distanza dal Sole non è una distanza qualsiasi ma segue una legge scoperta due secoli addietro dagli scienziati tedeschi Johann Daniel Tietz (latinizzato in Titius) e Johann Elert Bode. Questa legge, che va sotto il nome di “legge di Titius e Bode”, dice che le distanze fra un pianeta e il successivo aumentano progressivamente con la lontananza dei pianeti dal Sole. Ora, tutte queste regolarità vengono appunto spiegate meglio con l’ipotesi della nebulosa primitiva che non con quella dell’avvicinamento casuale di due stelle. A ciò si aggiunga il fatto che recentemente, con l’uso di potenti calcolatori, è stato possibile seguire matematicamente il contrarsi di una nube di gas sotto l’effetto della gravitazione, e si è visto che in quelle condizioni la formazione di un sistema planetario è un evento assai probabile.

 

LA RICERCA DI SISTEMI PLANETARI

Anziché fare delle ipotesi sulla presenza di altri sistemi planetari, la cosa migliore sarebbe quella di scoprirne qualcuno. Ma come possiamo fare per vederli direttamente? I pianeti si trovano molto vicini alla stella intorno a cui girano e quindi per vederne uno, si dovrebbe utilizzare un telescopio con potere risolutivo (cioè con la capacità di vedere separati due oggetti vicini) altissimo. Se le osservazioni vengono condotte da Terra, a causa soprattutto della presenza dell’atmosfera che disturba notevolmente l’immagine, questo accertamento è praticamente impossibile, anche per le stelle più vicine. Ma se le osservazioni venissero fatte da un telescopio sistemato nello spazio, si riuscirebbe forse ad ottenere qualche risultato apprezzabile.

Il problema vero, tuttavia, non è tanto quello legato al potere risolutivo dello strumento, quanto piuttosto di riuscire a scorgere un oggetto (il pianeta) vicino ad un altro (la stella) circa un miliardo di volte più splendente. Un pianeta che girasse intorno ad una stella, in realtà, si troverebbe letteralmente immerso nella sua luce abbagliante e sarebbe impossibile da distinguere, come è impossibile scorgere un moscerino che gira intorno ad un faro posto a due o trecento metri di distanza. Anche questa difficoltà potrebbe tuttavia essere superata ricorrendo ad alcuni accorgimenti tecnici da applicare però solo su telescopi piazzati nello spazio.

Esiste un altro sistema che dovrebbe consentire di osservare la presenza di oggetti massicci orbitanti intorno ad una stella. La tecnica è detta astrometria, e consiste nel misurare la deviazione di una stella dal suo moto regolare, prodotta dalla gravità di un eventuale oggetto orbitante. La prima osservazione del genere venne effettuata nel 1969 dall’astronomo olandese Peter Van de Kamp il quale notò che la traiettoria percorsa dalla stella di Barnard, nel corso degli anni, era una linea ondulata dovuta, presumibilmente, alla presenza di un oggetto massiccio intorno ad essa. Questi risultati non sono stati purtroppo confermati da osservazioni successive e lo stesso Van de Kamp, riesaminando i dati raccolti, mise in dubbio ciò che egli stesso aveva individuato. In verità, osservazioni di questo tipo sono state tentate, in tempi recenti, su altre stelle e con discreto successo, nonostante le difficoltà legate alla limitata sensibilità degli strumenti.

Occorre pertanto spiegare più diffusamente in che cosa consista la tecnica astrometrica. Le stelle, come ben sappiamo, non sono fisse nello spazio ma si muovono percorrendo traiettorie curve di enormi dimensioni intorno al centro della galassia. Il nostro Sole, ad esempio, impiega 200 milioni di anni per fare un giro completo intorno all’asse della Via Lattea. Questa traiettoria curva, per un breve tratto, può essere considerata rettilinea. Il Sole, tuttavia, non si muove lungo un percorso rettilineo (o, se si preferisce, a curvatura molto ampia) regolare, e se lo si potesse osservare da lontano lo si vedrebbe compiere un cammino leggermente sinuoso con un periodo di circa 12 anni (il periodo orbitale di Giove, il pianeta più grosso del sistema solare). Un pianeta massiccio infatti perturba, anche se molto leggermente, la traiettoria della stella intorno a cui orbita. Quindi, se noi notassimo in una stella delle dimensioni più o meno del nostro Sole, posta ad una distanza non molto grande, delle deviazioni dalla traiettoria rettilinea del valore di quelle calcolate per il Sole, dovremmo concludere che intorno a quella stella vi è un pianeta più o meno delle dimensioni di Giove. In realtà, le deviazioni che eventualmente si potrebbero osservare, nel caso considerato, sono molto piccole (dell’ordine di grandezza del millesimo di secondo d’arco), e comunque molto inferiori agli errori di misura che si compiono con i più moderni e sofisticati strumenti di indagine.

Oggi, tuttavia, con l’entrata in funzione dell’Hubble Telescope Space, è stato possibile riconoscere alcune decine di sistemi extrasolari. In realtà, il telescopio posto nello spazio ha individuato dei corpi intorno ad alcune stelle ma non ha potuto specificare con sicurezza di che cosa effettivamente si tratti: potrebbero essere pianeti massicci o piccole stelle, non certo pianeti piccoli come la nostra Terra. Da questo punto di vista Giove stesso, che noi consideriamo un pianeta, in realtà presenta caratteristiche fisiche molto simili a quelle di una stella di piccola massa.

Accenniamo infine ad un metodo di rilevazione moderno basato su osservazioni nell’infrarosso. I pianeti, come sappiamo, non emettono luce propria, bensì radiazioni infrarosse tipiche dei corpi caldi, ma non incandescenti. Se quindi in una stella lontana si osservasse un’emissione di radiazione infrarossa superiore a quella presente normalmente nei corpi incandescenti, dovremmo concludere che, intorno a quella stella, vi sono “corpi” relativamente freddi.

Nonostante tutti i tentativi la verità, per il momento, rimane una sola: non siamo in grado di dire con certezza se esistano o meno altri sistemi solari simili al nostro all’interno della Via Lattea, e tanto meno se ne esistano su altre galassie.

 

LE CARATTERISTICHE DEI MONDI ABITATI

Tuttavia, ammesso pure che nella nostra (o fuori della nostra) Galassia vi siano degli altri sistemi planetari, quali condizioni dovrebbero sussistere affinché su qualche pianeta, satellite o asteroide di questi sistemi possa svilupparsi la vita? L’esistenza di un sistema solare simile al nostro è, ovviamente, una condizione necessaria, ma non sufficiente per aspettarsi uno sviluppo biologico. Perché ciò possa avvenire, devono infatti realizzarsi tutto un insieme di fattori interdipendenti riguardanti sia la stella centrale sia il pianeta candidato ad ospitare la vita. Quali sono queste condizioni?

Certamente dovremmo scartare, anche ammesso che avessero una corte di pianeti orbitanti, le stelle troppo grandi e quelle troppo piccole. Sappiamo, infatti, che le stelle molto grandi sono anche molto instabili ed hanno vita piuttosto breve perché consumano il combustibile rapidamente (in pochi milioni di anni), mentre abbiamo esperienza diretta che affinché la vita possa affermarsi occorrono alcuni miliardi di anni.

Per il motivo opposto, le stelle non dovrebbero essere nemmeno troppo piccole, perché in tal caso avrebbero esistenza lunghissima e su un loro eventuale pianeta la vita avrebbe avuto tutto il tempo per evolvere fino all’estinzione. Le specie animali e vegetali, infatti, mutano e si estinguono in tempi relativamente brevi se confrontati con i miliardi di anni di vita di una stella di piccole dimensioni. Una stella di questo tipo, inoltre, irraggerebbe poco calore e l’eventuale pianeta dovrebbe sistemarsi molto vicino ad essa per ricevere energia sufficiente. Ma un pianeta che si trovasse molto vicino ad una stella, anche se di piccole dimensioni, risentirebbe in modo eccessivo della forza gravitazionale, la quale provocherebbe maree terrestri di tale intensità da rendere instabile la sua superficie e naturalmente, a causa dell’incessante attività sismica e vulcanica che ne deriverebbe, impossibile la presenza di organismi viventi.

Dovremmo anche scartare molte stelle doppie e multiple, perché eventuali pianeti seguirebbero traiettorie tali da portarli a volte troppo vicino e a volte troppo lontano da uno dei Soli. In questo modo non verrebbero garantite quelle condizioni di uniformità di radiazione, di pressione e di temperatura indispensabili per lo sviluppo degli organismi viventi. Per le stesse ragioni dovremmo scartare tutte le stelle variabili.

Ora, ammesso che le stelle “buone”, cioè in pratica quelle simili al nostro Sole, che sono comunque molto numerose all’interno della nostra Galassia, abbiano tutte una corte di pianeti che gira loro intorno, il singolo pianeta quali caratteristiche dovrebbe possedere per trovarsi nelle condizioni di generare un ambiente adatto ad ospitare organismi viventi?

Intanto è evidente che questo pianeta dovrebbe trovarsi ad una distanza giusta dal suo Sole, cioè né troppo lontano perché le temperature risulterebbero troppo basse per lo svolgimento delle reazioni chimiche tipiche della vita, né troppo vicino perché il calore sarebbe tale da rompere le delicate molecole organiche di cui sono fatti gli organismi viventi. Esso inoltre non dovrebbe essere né troppo grande, né troppo piccolo. Se fosse molto grande tratterrebbe i gas dell’atmosfera primitiva, cioè in pratica idrogeno ed elio, e inoltre la superficie non si raffredderebbe velocemente per consentire il formarsi di una crosta solida. Se fosse troppo piccolo perderebbe tutti i gas, non si formerebbe un’atmosfera stabile, e finirebbe per diventare un corpo simile alla Luna, che infatti è un satellite “morto” privo di atmosfera. Anche il periodo preciso di rotazione intorno al proprio asse avrebbe la sua importanza per garantire condizioni di omogeneità climatica.

La cosa che colpisce, quando si cerca di elencare le caratteristiche che dovrebbe possedere un pianeta per candidarsi ad ospitare forme viventi, è che si finisce per descrivere un corpo celeste non molto dissimile dalla nostra Terra! Questo succede perché, come abbiamo detto più volte, noi sappiamo abbastanza bene come funziona la vita sul nostro pianeta, e riteniamo (forse in modo colpevolmente antropocentrico?) che le forme viventi eventualmente presenti da altre parti debbano avere più o meno le caratteristiche che osserviamo qui da noi.

 

IL PROBLEMA DELL’ORIGINE DELLA VITA

A questo punto sarebbe indispensabile, per procedere nella nostra indagine, dare una definizione chiara e completa di “vita” e vedere quindi come la stessa sarebbe potuta comparire sul nostro pianeta.

Purtroppo, però, pur conoscendo abbastanza bene come sono fatti e come funzionano i singoli organismi viventi, non sappiamo che cosa sia effettivamente la vita e non siamo quindi in grado di dare di essa una definizione precisa e inequivocabile.

Una definizione di vita, incompleta e parziale, tuttavia, potrebbe essere la seguente: «La vita è lo svolgimento, all’interno di un sistema materiale, di un insieme di processi chimici ordinati garantiti da un continuo rifornimento di energia dall’esterno». Come abbiamo detto in precedenza, qualcuno ha prospettato anche forme di vita con caratteristiche profondamente diverse da quelle a noi familiari, fondate, ad esempio, sul silicio invece che sul carbonio, o sull’ammoniaca invece che sull’acqua. Queste forme di vita rientrerebbero nella definizione che abbiamo dato sopra in quanto l’atomo di silicio è in grado di formare anch’esso molti composti di diverso tipo legandosi (anche se più debolmente) con sé stesso come fa l’atomo di carbonio. Tuttavia, forse sarà per mancanza di fantasia, ma ci riesce effettivamente difficile immaginare condizioni di vita profondamente diverse da quelle di cui abbiamo esperienza diretta.

Noi conosciamo abbastanza bene solo le forme viventi presenti sulla Terra e da qui partiremo per la nostra ricerca. In quali condizioni chimiche e fisiche dovrebbe trovarsi un pianeta per essere reputato adatto all’insorgere della vita? E poi, qualora queste condizioni si realizzassero, la vita effettivamente avrebbe origine? Per rispondere in modo appropriato a queste domande dovremmo, innanzitutto, avere le idee ben chiare su come funzionano gli organismi viventi sulla Terra e su come gli stessi hanno avuto origine.

Quello che sappiamo con certezza è che gli esseri viventi presenti sul nostro pianeta sono costituiti per il 95% del loro peso di carbonio, ossigeno, idrogeno e azoto, e che questi elementi sono anche molto abbondanti nell’Universo. Gli stessi elementi, inoltre, possiedono proprietà chimiche molto speciali che li rendono unici fra tutti quelli esistenti in natura.

Gli elementi base della vita si uniscono infatti fra loro attraverso legami chimici molto forti e formano lunghe e complesse catene di atomi in grado perfino, come nel caso del DNA, di duplicarsi spontaneamente. Nel far ciò possono prodursi delle alterazioni, cioè dei cambiamenti della struttura molecolare, che i biologi chiamano mutazioni e che stanno alla base del fenomeno dell’evoluzione. Tutte queste proprietà vengono ritenute indispensabili per poter definire “vivente” un sistema materiale.

I biologi ritengono, inoltre, che i composti organici tipici degli esseri viventi si siano potuti formare spontaneamente, miliardi di anni fa, da molecole inorganiche attraverso processi non biologici. A questo riguardo esiste un esperimento che è rimasto famoso.

Nel 1953, il biochimico americano Stanley Müller, dimostrò che in adatte condizioni fisiche, molecole inorganiche a struttura molto semplice si organizzano in materiali prebiotici, cioè in molecole più complesse tipiche degli organismi viventi. Egli sottopose una miscela di metano (CH4), ammoniaca (NH3), idrogeno (H2) ed acqua (H2O), che si pensava costituisse l’atmosfera primitiva, a scariche elettriche molto intense. Dopo alcuni giorni osservò che si erano formati molti composti organici fra cui alcuni amminoacidi, i costituenti delle proteine, cioè dei composti che formano la struttura portante degli organismi viventi.

Molti altri esperimenti di questo genere vennero eseguiti negli anni successivi, cambiando le miscele di gas e la forma di energia. Si ottenne in questo modo la conferma che sottoponendo composti inorganici di varia natura, ma sempre a base di carbonio, ossigeno, idrogeno, azoto, zolfo e fosforo (gli elementi chimici fondamentali degli organismi viventi) all’azione di scariche elettriche, raggi ultravioletti, alte temperature, onde d’urto come quelle causate dall’eventuale impatto di meteoriti, questi si trasformano in composti organici tipici degli organismi viventi, come glucidi, lipidi, amminoacidi e nucleotidi, i costituenti, questi ultimi, del DNA e dell’RNA.

Purtroppo la ricerca scientifica non è riuscita a compiere il passo successivo. I biologi, infatti, non sono ancora arrivati a dimostrare come dal materiale organico si possa passare all’organismo vivente vero e proprio. Essi sono riusciti invece a comprendere perfettamente il meccanismo attraverso il quale da poche forme viventi originarie si sia poi arrivati all’enorme varietà di quelle attuali. Il meccanismo è stato individuato da Charles Darwin verso la metà dell’Ottocento e prende il nome di “evoluzione attraverso selezione naturale”.

Riguardo alla data della comparsa degli organismi viventi sulla Terra, ricerche molto scrupolose, basate sul decadimento radioattivo di alcuni elementi come l’uranio 238, hanno confermato che la vita ha avuto origine circa tre miliardi e mezzo di anni fa, cioè circa un miliardo di anni dopo che si era formato il pianeta. Abbiamo anche le prove che dopo la sua comparsa, la vita ha subito uno sviluppo molto lento; poi, circa mezzo miliardo di anni fa, si sono finalmente evoluti gli organismi che possiamo considerare i diretti precursori di quelli attuali.

Questa particolare scala dei tempi è frutto del caso, oppure riveste uno speciale significato? Non lo sappiamo, ma è certamente rimarchevole il fatto che l’evoluzione abbia prodotto, per i primi tre miliardi di anni solo esseri unicellulari anche se sempre più complessi e meglio organizzati, e soltanto nell’ultimo mezzo miliardo di anni tutta quella straordinaria profusione di organismi complessi (tra cui l’uomo stesso) che ora popolano la Terra. Potrebbe darsi, ad esempio, che la vita pluricellulare abbia tardato a svilupparsi per la mancanza di qualche particolare condizione ambientale ad essa necessaria, che soltanto da poco più di mezzo miliardo di anni ha potuto realizzarsi sul nostro pianeta; ma non abbiamo a tutt’oggi la più pallida idea di quale condizione poteva trattarsi.

Più verosimilmente, potremmo dare alla scala dei tempi dell’evoluzione terrestre un significato probabilistico, valido forse per qualsiasi pianeta; ma dobbiamo far presente che si tratta comunque di un’estrapolazione molto ardita. L’idea base è la seguente: nella statistica degli eventi casuali, la frequenza con cui questi accadono, è proporzionale alla loro probabilità (non capita tutti i giorni, ad esempio, di vincere un terno al lotto). Quindi, se è vero che l’evoluzione procede mediante “balzi” casuali che l’ambiente provvede successivamente a selezionare salvando i più adatti, ne dovremmo concludere che il “balzo” più difficile nel cammino dell’evoluzione sarebbe stato non già la comparsa delle prime cellule (presenti sulla Terra subito dopo la solidificazione della crosta), ma proprio la transizione dagli esseri unicellulari (alghe azzurre e batteri) a quelli pluricellulari (meduse e vermi) che ha richiesto un tempo ben più lungo. Dopodiché, il passaggio da questi primi organismi pluricellulari all’essere intelligente sarebbe stato un passo piuttosto rapido che si concluse in poco più di 500 milioni di anni.

La vita extraterrestre non sarà per caso costituita solo da batteri? Se così fosse non solo sarebbe estremamente difficile scoprirne qualcuno negli spazi cosmici, ma dovremmo anche guardare ai primi fossili pluricellulari, scoperti nelle rocce dell’Australia meridionale (che hanno un’età di circa 600 milioni di anni) come ad un’autentica meraviglia dell’Universo.

Ora, su un pianeta di un lontano sistema solare, in cui si siano realizzate le condizioni fisiche e chimiche simili a quelle terrestri, quante probabilità vi sono che la vita sia poi potuta fiorire effettivamente? Questo è un interrogativo di importanza primaria per la possibilità dell’esistenza di vita extraterrestre. Purtroppo non ne conosciamo la risposta in termini scientifici perché abbiamo a disposizione solo i dati relativi ad un pianeta, il nostro, e ciò non è sufficiente per eseguire calcoli statistici e probabilistici. Comunque i biologi ritengono che i processi biochimici che hanno portato la materia bruta ad organizzarsi in forme viventi molto semplici e poi a progredire fino a portare all’uomo, siano piuttosto complessi e delicati e quindi difficilmente ripetibili. Esiste tuttavia qualche irriducibile ottimista che ritiene che una volta create le condizioni chimico-fisiche adatte, la vita debba poi necessariamente comparire e svilupparsi e, a sostegno di questo convincimento, porta l’osservazione recente di alcune molecole organiche, tipiche degli organismi viventi, formatesi negli spazi interstellari.

 

LA VITA INTELLIGENTE

Per completare l’argomento relativo all’evoluzione delle forme viventi rimane da stabilire quanto durerà ancora la specie umana o, per meglio dire, quanto durerà la civiltà tecnologica che l’uomo moderno è riuscito a realizzare grazie alla propria intelligenza. Per rispondere a questa domanda considereremo prima l’uomo da un punto di vista biologico, cioè come specie vivente simile a tutti gli altri animali, e poi lo analizzeremo in quanto essere dotato di intelligenza.

La teoria evoluzionistica, a cui abbiamo accennato in precedenza, ci insegna che le specie animali e vegetali non sono eterne. I biologi hanno calcolato che una specie animale si modifica profondamente, fino a perdere la sua identità, mediamente in un milione di anni. I mammiferi hanno tempi di ricambio più lunghi quindi possiamo ipotizzare che entro quattro o cinque milioni di anni anche l’uomo, in quanto specie animale, sparirà dalla faccia della Terra o verrà sostituito da una specie diversa. Qualcuno ritiene che la specie umana verrà sostituita da una migliore, cioè con potenzialità intellettive superiori. Ma questa è un’idea fuorviante.

Il termine evoluzione molto spesso viene inteso come cambiamento verso un miglioramento, ma in natura non esiste il meglio o il peggio in assoluto. In natura tutti gli organismi presenti in un determinato momento storico devono essere ritenuti i più adatti, quindi i migliori possibili rispetto alla situazione di quel momento, ma non i migliori in assoluto, cioè rispetto ad una situazione qualsiasi. L’ambiente, come ben sappiamo, non è fisso e immutabile, esso cambia continuamente in seguito all’azione erosiva dell’acqua e dell’aria sulle rocce, all’attività dei vulcani, alla presenza degli organismi viventi, ed a tanti altri fattori chimici e fisici. Pertanto continuamente nuove forme viventi, prodotte dalle mutazioni sempre in atto, vanno a sostituire quelle che non si trovano più perfettamente a loro agio nella nuova situazione che si è venuta a creare. Questa operazione di rinnovamento delle specie avviene in modo traumatico attraverso quella che Darwin definì la lotta perl’esistenza che si conclude inevitabilmente con la vittoria del più forte o, per meglio dire, del più adatto e la sconfitta del più debole, ovvero del meno adatto. Di conseguenza, poiché non è possibile prevedere come si modificherà l’ambiente, non è nemmeno possibile prevedere come saranno le specie animali e vegetali del futuro.

Il vero problema tuttavia non è tanto quello di stabilire quanto durerà la specie umana, ma piuttosto di vedere quanto a lungo potrà sopravvivere una società tecnologicamente avanzata come la nostra. Prima di affrontare l’argomento è bene chiarire che la tecnologia non è l’unica manifestazione dell’intelligenza umana. Gli antichi Greci, ad esempio, certamente non erano meno intelligenti degli attuali Americani, tuttavia non svilupparono una civiltà tecnologica.

La tecnologia, come ben sappiamo, ha bisogno di materie prime e soprattutto di energia per attuarsi e svilupparsi. La Terra, tuttavia, è limitata e le sue risorse sono destinate ad esaurirsi. Che cosa succederà quando avremo consumato tutto ciò che di non rinnovabile esiste sul nostro pianeta? Qualcuno pensa che potremo andare a rifornirci di materiali utili sul nostro satellite naturale o sui pianeti più vicini. Ma chi immagina uno scenario del genere non si rende perfettamente conto dei costi (di gran lunga superiori ai ricavi) di un’operazione del genere in termini di consumi energetici e di materiali pregiati per la costruzione dei mezzi idonei a viaggiare nello spazio. Alcuni, molto ottimisticamente, prevedono che troveremo il modo di produrre energia a basso costo e in abbondanza, ma anche in questo caso non avremmo risolto i nostri problemi.

Esiste, ad esempio, la questione dell’inquinamento. Le scorie radioattive o di altra natura e i veleni che l’uomo immette nell’ambiente in quantità sempre più rilevante finiranno per soffocarlo e per produrre danni talmente gravi e irreversibili sull’ambiente stesso che lo costringeranno a rinunciare allo sviluppo tecnologico per tornare ad una dimensione di vita più aderente alle regole imposte dalla natura. E che dire delle armi potentissime che l’uomo è riuscito a costruire in questi ultimi anni? Fino a quando egli sarà in grado di controllare il potenziale distruttivo di cui è venuto in possesso? Vi è infine l’incremento demografico che non accenna a ridursi e che, secondo alcuni, costituisce il problema dei problemi.

Secondo i futurologi (personaggi che studiano i possibili scenari futuri), una civiltà tecnologicamente avanzata contiene in sé il germe dell’autodistruzione. Ciò sarebbe insito nella natura stessa degli organismi viventi i quali sopravvivono solo se escono vincitori dalla lotta per l’esistenza. Se le cose stanno in questi termini (e sembra difficile negarlo), è evidente che un essere intelligente, avendo la possibilità di fabbricare strumenti di offesa, li usi poi per eliminare i propri nemici al fine di crearsi maggiori margini di sicurezza.

Quanto potrebbe quindi durare una civiltà tecnologicamente avanzata? Poco, dicono i pessimisti, i quali fanno osservare che la nostra esiste, a un buon livello di sviluppo, solo da alcuni decenni e sembra già sull’orlo dell’autodistruzione. Molto, dicono gli ottimisti, i quali sono convinti che l’uomo troverà il sistema per superare tutti i pericoli e i limiti che la stessa tecnologia produce. Secondo i primi una società tecnologicamente avanzata come la nostra potrebbe quindi durare al massimo qualche centinaio d’anni, secondo gli ottimisti invece anche un milione di anni. Ebbene, noi ci schieriamo, anche se con poca convinzione, con questi ultimi.

Tuttavia, anche ammettendo che tutte le forme di vita intelligente eventualmente presenti nell’Universo siano in grado di produrre civiltà tecnologiche della durata di un milione di anni, la probabilità di comunicare con extraterrestri sarebbe lo stesso molto bassa perché si dovrebbe tenere conto dell’età della nostra Galassia. E’ evidente infatti che due civiltà tecnologicamente avanzate, per poter comunicare fra loro, dovrebbero essere contemporanee. Se una civiltà durasse un milione di anni in un certo periodo di esistenza della Via Lattea ed un’altra durasse pure un milione di anni, ma ad esempio un miliardo di anni dopo che la prima si è estinta, le due civiltà ovviamente non potrebbero comunicare fra loro. Ecco allora che per stimare la probabilità che due civiltà possano coesistere nel tempo, occorrerebbe sapere quanto a lungo può vivere una galassia.

I dati più recenti a disposizione della scienza confermano che l’Universo è nato circa 15 miliardi di anni fa, mentre le galassie si sarebbero formate solo un po’ più tardi e continueranno ad esistere fino a tanto che rimarranno in vita le stelle che le compongono. Una stella come il Sole ha una vita di una decina di miliardi di anni; altre stelle durano di meno e terminano la loro esistenza esplodendo. Vi sono anche stelle a vita più lunga, e alcune si formano dal materiale prodotto dall’esplosione di quelle instabili. Lo stesso nostro Sole è una stella di seconda generazione nel senso che si è formata dal materiale espulso da una supernova cioè da una stella esplosa circa 5 miliardi di anni fa. Tenuto conto di tutte le conoscenze acquisite, gli astronomi ritengono che la vita media di una galassia sia di 30 miliardi di anni. Se così fosse, il rapporto fra la durata di una civiltà tecnologicamente avanzata (stimata da noi ottimisticamente in un milione di anni), e la durata di una galassia (stimata in 30.000 milioni di anni), sarebbe 1/30.000.

 

LA FORMULA DI DRAKE

Vediamo ora di riordinare i dati fin qui acquisiti utilizzando l’equazione di Drake, una relazione matematica formulata nel 1961 dall’astronomo americano Frank Drake, divenuto famoso per l’impegno e l’entusiasmo con cui si dedica da oltre quarant’anni alla ricerca di segnali radio di civiltà extraterrestri. La formula è la seguente:

N0 = N · fp · fc · fv · f· ft · L/T

Si tratta di una relazione molto semplice ma contemporaneamente inconsistente tanto da risultare, come vedremo tra poco, praticamente inutilizzabile. Per applicarla, infatti, bisognerebbe definire i valori numerici da assegnare ai fattori che la compongono, ma la definizione di tali valori, risentendo delle valutazioni di chi li formula, non può essere fatta in termini oggettivi e quindi la struttura, nel suo complesso, è priva di contenuto scientifico. L’equazione, in altre parole, finisce per fornire il risultato che desidera colui che propone i valori da assegnare ai termini della relazione stessa. Vediamo comunque, in modo più particolareggiato, cosa dice questa formula.

N0 rappresenta il numero di civiltà galattiche con le quali sarebbe possibile attualmente instaurare un colloquio. Esso si ottiene moltiplicando il numero totale di stelle della nostra Galassia (N) per una serie di fattori, indicati con f, tutti minori o, al massimo, uguali a 1. Se questi fattori (compreso L/T) fossero tutti uguali a 1, N0 risulterebbe uguale a N e quindi tutte le stelle della nostra Galassia presenterebbero almeno un pianeta con una civiltà tecnologica in grado di comunicare, in questo momento, con noi. In tal caso l’interlocutore più vicino si troverebbe su un pianeta della Proxima Centauri, una stella che staziona a “soli” 4 anni e 4 mesi luce da noi, una distanza che sembra poca cosa, ma che in realtà è 6.300 volte maggiore della distanza che intercorre fra la Terra e l’ultimo pianeta del sistema solare. Ora, anche senza fare troppi calcoli, è evidente che N non può essere uguale a N0.

L’ultimo fattore L/T rappresenta il rapporto fra la durata di una civiltà tecnologica (L) e la durata della Galassia (T). Se ad esempio le civiltà tecnologiche durassero tanto a lungo quanto dura una galassia, il rapporto varrebbe 1 e non avrebbe alcuna influenza sul numero totale delle civiltà galattiche, che si otterrebbe moltiplicando fra loro tutti gli altri fattori. Ma poiché la durata di una civiltà tecnologicamente avanzata deve essere necessariamente molto inferiore a quella di una galassia, questo fattore finirà per ridurre drasticamente il numero delle civiltà tecnologiche presenti, ad ogni istante, all’interno di ciascuna di esse.

Nella formula compaiono alcuni fattori che possono essere determinati con una certa sicurezza, altri dei quali possiamo dare stime ragionevoli, altri ancora per i quali non possiamo fare altro che indovinare. Basterebbe già questa prima considerazione perché la formula fosse scartata definitivamente. Si ricordi infatti che avevamo detto, all’inizio, come non si possa impostare un serio discorso scientifico senza avere a disposizione dati sicuri su cui lavorare. Ma proseguiamo lo stesso per vedere dove si va a finire.

N rappresenta il numero totale di stelle presenti in una singola galassia e costituisce uno dei pochi fattori che si riesce a valutare con una certa sicurezza. Questo numero si può determinare misurando la massa della nostra Galassia.

Questa ha una struttura spiralata con un nucleo in cui le stelle sono molto fitte, e con dei bracci esterni dove invece sono più rade. Tutte queste stelle girano intorno ad un asse centrale nello stesso modo in cui i pianeti girano intorno al Sole (cioè più velocemente quelli vicini e più lentamente quelli lontani). Questo movimento impedisce che la forza gravitazionale costringa tutte le stelle ad addensarsi al centro. Ora, poiché conosciamo la velocità con cui il nostro Sole gira intorno all’asse centrale, e conosciamo pure la sua distanza da quest’asse oltre alla sua massa, applicando la legge di gravitazione di Newton, è possibile determinare la massa dell’intera Via Lattea.

Fatti i conti, risulta che la massa della nostra Galassia è circa 100 miliardi di volte più grande di quella del Sole. Ora, poiché in essa sono presenti stelle più grandi e stelle più piccole del nostro Sole, e poiché queste ultime sono più numerose delle prime, si calcola che il numero delle stelle esistenti sia di circa 200 miliardi. Inoltre, poiché possiamo considerare tutte le galassie presenti nel Cosmo più o meno grandi come la nostra, assumeremo questo valore come rappresentativo di tutte le galassie. Tuttavia, anche se le stelle di una singola galassia, invece che 200, fossero 100 o 300 miliardi, le valutazioni complessive, come vedremo fra breve, non cambierebbero di molto.

fp è la frazione di N (cioè delle stelle presenti nella Galassia) che possiede sistemi planetari. Questo è un parametro che forse un giorno potrà essere determinato con una certa precisione, ma che, per il momento, ci sfugge del tutto. Non sapendo su che cosa basare la stima, lo valuteremo, ottimisticamente, uguale a 1. In questo modo avremo convenuto, anche se ci sembra poco verosimile, che tutte le stelle esistenti nella Via Lattea sono circondate da pianeti.

fc rappresenta la frazione dei sistemi planetari con condizioni fisiche e chimiche adatte al sorgere della vita. Abbiamo già visto che per valutare questo parametro si devono scartare quei sistemi planetari il cui astro centrale è troppo grande o troppo piccolo, come pure quelli che si trovano intorno a stelle multiple. Rimangono quindi le stelle con massa vicina a quella del nostro Sole che rappresentano circa un decimo del totale. Se ammettiamo che in questi sistemi vi sia almeno un pianeta alla distanza giusta dalla stella centrale (come succede nel nostro) e con massa non troppo grande né troppo piccola, i pianeti in grado di ospitare la vita sarebbero circa un decimo delle stelle presenti nella Galassia. La valutazione anche in questo caso è stata fatta in modo approssimativo e con una buona dose di ottimismo, ma forse un giorno, alla presenza di dati oggettivi, questo fattore potrà essere determinato con maggior rigore. fc, per noi, vale quindi 0,1.

fv indica la frazione dei pianeti che teoricamente potrebbero essere adatti allo sviluppo della vita e sui quali poi questa effettivamente si manifesti. Qui si potrebbe fare la previsione che si vuole perché, fra l’altro, non sappiamo nemmeno con precisione come nasca la vita. Tuttavia, anche in questo caso, ottimisticamente possiamo affermare che ogni volta che un pianeta si trova con le dimensioni giuste e nella posizione giusta rispetto alla stella centrale la vita debba svilupparsi automaticamente attraverso un processo spontaneo. Assegniamo quindi pure a questo fattore il valore 1, ma non si dimentichi che le argomentazioni che hanno portato a questa conclusione sono del tutto arbitrarie. Quindi f= 1.

f rappresenta la frazione dei pianeti sui quali, dopo che è comparsa la vita, si sviluppa anche l’intelligenza. Anche in questo caso non abbiamo nulla su cui fondare le nostre valutazioni e pertanto potremmo scrivere al posto di f un numero qualsiasi, anche 1. In questo caso, però, non ci sentiamo di assegnare ad f il valore massimo perché ciò significherebbe ritenere che la vita debba evolvere sempre e inevitabilmente verso una forma intelligente. Prima di esprimere le nostre idee, riteniamo quindi utile fare sull’argomento qualche riflessione.

Innanzitutto, che cos’è l’intelligenza? Ma, soprattutto, di quale tipo di intelligenza stiamo parlando? Non dimentichiamo che stiamo tentando di valutare il numero delle civiltà tecnologiche presenti nell’Universo, quindi l’intelligenza delle scimmie o quella dei delfini non ci interessa. Non ci interessa, per dire la verità, nemmeno l’intelligenza dell’uomo primitivo o quella dei boscimani (popolazione molto antica dell’Africa meridionale): a noi interessa unicamente l’intelligenza dell’uomo che è riuscito a creare l’organizzazione sociale e culturale in cui vivono i Paesi altamente industrializzati. Ma, se vogliamo essere onesti fino in fondo, il problema vero non è nemmeno questo. Il problema vero è quello di vedere se la comparsa di un animale con un’intelligenza decisamente superiore a quella di tutte le altre specie viventi sia un fatto eccezionale oppure un evento normale che si verifica spontaneamente con l’evoluzione.

Cominciamo allora con l’osservare che l’intelligenza è legata chiaramente allo sviluppo del cervello. L’uomo, in altri termini, è intelligente perché possiede un cervello enormemente più sviluppato (in relazione al peso corporeo) di quello di qualsiasi altro animale. Ora, il processo di crescita e di raffinata strutturazione del cervello deve essere interpretato in termini evoluzionistici, come un qualsiasi altro organo. A questo proposito abbiamo visto che gli organismi viventi mutano a caso producendo modificazioni delle loro strutture anatomiche o del loro corredo biochimico che potrebbero rivelarsi, in un secondo tempo, vantaggiose o svantaggiose in relazione all’ambiente fisico in cui vivono. Così, ad esempio, un collo più lungo del normale, la comparsa di una pelliccia più folta, la sintesi di un nuovo enzima non sono di per sé né fatti positivi, né fatti negativi. Bisogna vedere quale vantaggio porteranno queste trasformazioni quando il nuovo organismo dovrà confrontarsi con l’ambiente.

Come si può facilmente provare, la natura non è dotata di preveggenza e pertanto una mutazione non avviene in vista di qualche futuro adattamento particolare. La comparsa, ad esempio, di una pelliccia più folta su di un animale, potrebbe rivelarsi un vantaggio nel caso in cui l’ambiente dovesse diventare più freddo, ma anche uno svantaggio nel caso contrario. Per quanto riguarda il cervello, valgono le stesse regole: affinché una mutazione che produce un notevole ingrandimento del volume cerebrale possa affermarsi, occorre la contemporanea presenza di una situazione adeguata. Se l’uomo fosse rimasto a vivere nella foresta, dove molto probabilmente è nato, forse lo sviluppo della scatola cranica non avrebbe prodotto alcun vantaggio e si sarebbe perso spontaneamente attraverso meccanismi di selezione naturale. Costretto invece ad abbandonare la foresta per trasferirsi nella savana, cioè in un ambiente più difficile per la presenza di un maggior numero di nemici e per una maggiore difficoltà di procurarsi il cibo, un cervello molto sviluppato si è rivelato determinante ai fini della sopravvivenza.

E’ opportuno quindi tenere presente che l’evoluzione verso l’intelligenza non è un fatto consequenziale. In altre parole, non esiste alcuna legge di natura che costringa la vita a diventare intelligente a tutti i costi, così come non esiste alcuna legge che obblighi gli animali ad avere, ad esempio, quattro zampe, o cinque dita per arto, o qualsiasi altra caratteristica.

Su questa Terra l’uomo, con la sua intelligenza, è una cosa rara, anzi unica, visto che altri esempi di specie intelligenti quanto la nostra non esistono e non sono mai esistiti in passato; e poiché consideriamo l’intelligenza anche una cosa preziosa che ci sentiamo orgogliosi di possedere, non ci piace dover affermare che la sua comparsa rappresenti un fatto del tutto spontaneo e casuale. Per questo motivo limiteremo il numero dei pianeti con vita intelligente ad uno solo su cento. Quindi porremo f = 0,01.

ft rappresenta la possibilità di sviluppo di una civiltà tecnologica. Molti ritengono che la cosa sia ovvia: se compare l’intelligenza questa si dirigerà automaticamente verso la tecnologia. Anche noi, in questo caso, vogliamo essere ottimisti al massimo. Poniamo quindi f=1.

Rimane infine da valutare il rapporto L/T cioè il rapporto fra la durata della civiltà tecnologica e quella di una galassia che permette di valutare la possibilità che due civiltà si sovrappongano nel tempo. Abbiamo visto che nel caso più favorevole L/T vale 1/30.000, cioè un milione di anni la durata di una civiltà tecnologicamente avanzata come la nostra e trenta miliardi di anni la durata di una galassia.

Sostituiamo ora i valori che abbiamo deciso di adottare con molto ottimismo nella formula di Drake per potere fare i conti:

N0 = 2·1011 · 1 · 0,1 · 1 · 0,01 · 1 · 3,3·10-5

da cui risulta:

N0 = 6.600

Quindi, nonostante l’ottimismo che abbiamo messo nelle nostre valutazioni, si arriva ad un risultato decisamente sconfortante: nella nostra Via Lattea esisterebbero solo seimila e seicento civiltà con cui, eventualmente, mettersi in contatto. A questo punto, tuttavia, è bene ripetere ancora una volta che chi desiderasse trovare un numero più alto, potrebbe fare valutazioni più ottimistiche delle nostre, fino a prevedere anche la presenza di milioni di civiltà tecnologicamente avanzate con cui comunicare. Naturalmente vi sono anche i pessimisti e gli ultrapessimisti che arrivano a risultati insignificanti, cioè vicini a 1: costoro ritengono che l’uomo sia l’unico essere intelligente presente dell’intera Galassia.

Come abbiamo più volte fatto notare, le stime che si possono fare su questo argomento sono in gran parte arbitrarie e rispecchiano una valutazione personale. Ma nel campo della valutazione individuale, quella di un esperto vale quanto quella di uno studente, del professore di scienze o del vicino di casa. Tutti possono fare previsioni su questo argomento e tutte queste previsioni avrebbero lo stesso valore. Allora tanto vale che ognuno si faccia le proprie, e così tutti sarebbero soddisfatti.

Secondo le nostre stime, le civiltà tecnologiche simultaneamente presenti in una galassia qualsiasi sarebbero solo 6.600. Ora, poiché le stelle della nostra Galassia sono 200 miliardi, solo una ogni 30 milioni circa avrebbe intorno a sé un pianeta abitato da una società tecnologicamente avanzata e in grado di comunicare in questo momento con noi. Detta in un altro modo, nella nostra Galassia, la distanza più probabile che ci separa dalla più vicina civiltà altamente evoluta sarebbe di circa mille anni luce.

Se si considera che le stelle visibili ad occhio nudo sono solo seimila e che finora abbiamo tentato il contatto radio, e anche per tempi molto limitati, con solo qualche migliaio di stelle (tutte, fra l’altro, molto più vicine di mille anni luce), si comprende come l’attuale insuccesso debba ritenersi un fatto del tutto scontato.

Naturalmente poi vi sono anche le altre galassie, che sono in numero enorme, forse almeno 100 miliardi, per cui le civiltà presenti in tutto l’Universo sarebbero molte migliaia di miliardi. E’ il caso tuttavia di far notare che il contatto con una civiltà di un’altra galassia (a milioni o miliardi di anni luce da noi) oltre che essere un’impresa difficilissima, sarebbe, come vedremo meglio tra breve, anche del tutto priva di senso.

 

ALLA RICERCA DI SEGNALI

La storia recente della ricerca di intelligenze extraterrestri inizia alla fine degli anni Cinquanta quando, sulla prestigiosa rivista scientifica “Nature”, comparve un articolo scritto dall’italiano Giuseppe Cocconi e dall’americano Philips Morrison, due astronomi che a quel tempo si trovavano a lavorare insieme alla Cornell University, ad Ithaca, negli Stati Uniti. In quell’articolo i due scienziati si dicevano convinti che a distanze non molto grandi dovevano esistere civiltà extraterrestri con interessi scientifici e possibilità tecnologiche pari almeno alle nostre e pronte quindi a mettersi in contatto con noi. Essi proponevano di usare le onde radio di una ben determinata lunghezza d’onda per comunicare con questi esseri intelligenti.

L’anno seguente, era il 1960, Frank Drake, l’astronomo americano che abbiamo già incontrato come autore della formula che sarebbe dovuta servire per calcolare la probabilità di esistenza di altre civiltà tecnologiche, ma che in realtà non serve a niente se non a evidenziare le difficoltà e le incertezze che si incontrano nel tentare una valutazione del genere, lanciò il progetto “Ozma”, dal nome della principessa del mitico regno di Oz, abitato da strani personaggi, secondo un racconto per bambini molto diffuso nel mondo anglosassone. Questo progetto prevedeva trecento ore di ascolto con il radiotelescopio funzionante presso il National Radio Observatory a Green Bank, in Virginia.

Furono tenute sotto osservazione due stelle, la tau Ceti e l’epsilon Eridani che si trovano a poco più di 10 anni luce da noi e che hanno caratteristiche molto simili a quelle del nostro Sole. L’osservazione si concluse senza risultati anche se, in un primo momento, a causa della registrazione di un segnale sospetto di cui la stampa venne a conoscenza, i media parlarono, senza esitazione, della scoperta degli extraterrestri. In realtà si trattava dell’avvistamento involontario di un missile che il governo americano utilizzava per missioni spionistiche in territorio sovietico.

Nonostante il fallimento del progetto Ozma, le ricerche continuarono in America e anche in Russia utilizzando i radiotelescopi che normalmente servono per tutt’altri scopi. L’impiego di apparecchiature già esistenti permette, in realtà, di risparmiare tempo e soprattutto denaro in caso di insuccesso, ma contemporaneamente ne limita l’utilizzo perché tali attrezzature non possono essere distolte dai loro compiti fondamentali per periodi troppo lunghi.

Oggi tutti i progetti di ricerca di forme di intelligenza extraterrestri prendono genericamente il nome di SETI, acronimo di Search for Extra-Terrestrial Intelligence, cioè ricerca degli ETI (o anche semplicemente E.T.)

Attualmente la maggior parte degli scienziati, cioè, in pratica, tutti coloro che non si interessano direttamente alla ricerca degli ETI, sono convinti che nella nostra Galassia civiltà extraterrestri non ve ne siano affatto o che, anche qualora ve ne fossero, sarebbero così poche da essere quasi impossibili da scovare.

Ora ci si chiede: se fosse effettivamente vero che vi sono così scarse possibilità di un contatto radio con gli alieni, per quale motivo la ricerca continua? La risposta noi crediamo di averla, tuttavia prima di renderla nota, vediamo di capire cosa succederebbe se miracolosamente un giorno si potesse stabilire un contatto con una civiltà extraterrestre.

Immaginiamo allora di essere riusciti a collegarci, via radio, con gli abitanti di un pianeta che si trova distante da noi, diciamo, cento anni luce (si tratterebbe di un evento oltremodo fortunato in quanto 100 anni luce rappresentano una distanza molto minore di quella un po’ generosa adottata in precedenza) e di essere stati noi a lanciare il segnale che, dopo aver viaggiato per 100 anni, è giunto finalmente sul pianeta abitato. Immaginiamo anche che il nostro interlocutore, una volta ricevuto il messaggio, sia riuscito immediatamente a decifrarlo e a rispondere mediante un altro segnale radio. Anche il suo messaggio, pur viaggiando alla velocità massima consentita, avrà impiegato altri cento anni per arrivare fino a noi.

Un segnale molto forte, tale cioè da poter essere captato alla distanza di 100 anni luce, è stato da noi effettivamente lanciato alcuni anni addietro. La risposta, se tutto procederà nel modo che abbiamo immaginato, giungerà sulla Terra fra circa duecento anni, cioè quando in attesa non ci saranno più nemmeno i nostri pronipoti e chissà in che modo, nel frattempo, sarà cambiata la nostra civiltà, se mai sarà sopravvissuta alle tante difficoltà che verosimilmente le si saranno presentate. E’ chiaro quindi che, anche qualora riuscissimo a comunicare con gli extraterrestri, in ogni caso non si tratterebbe di una conversazione nel senso usuale del termine, cioè con domanda e risposta immediata, ma tutt’al più di una comunicazione fra civiltà lontane nel tempo (oltre che nello spazio). Alcuni ritengono che questo evento rappresenterebbe un fatto di incalcolabile rilevanza in grado di cambiare radicalmente il nostro modo di pensare e di garantirci immensi benefici. Da dove derivi questa convinzione non è ben chiaro. Quali sarebbero questi benefici?

Si dice che se gli alieni fossero ad un livello tecnico e culturale superiore al nostro, potrebbero fornirci informazioni di fondamentale importanza, che ci aiuterebbero a superare tutte le difficoltà nelle quali attualmente ci dibattiamo e che, grazie a questi suggerimenti, la nostra specie non correrebbe più il rischio dell’autodistruzione. Sarà anche vero, però la storia ci insegna tutt’altro. Essa insegna che mai una civiltà più potente si è messa al servizio della più debole: quando ad esempio gli Incas videro arrivare Pizarro e i suoi, non pensarono certo ad un incontro amichevole, né alla presenza di un benefattore. Per esperienza sappiamo che il più forte ha sempre schiacciato il più debole o, nel migliore dei casi, lo ha colonizzato. Pertanto trovare segni di vita intelligente nell’Universo potrebbe anche rappresentare un pericolo per la nostra specie.

Facciamo ora il caso inverso e cioè immaginiamo di captare un segnale proveniente da un pianeta che si trovi a 100 anni luce di distanza: in questo caso dovremmo essere noi ad interpretarlo e quindi eventualmente a rispondere. In realtà, anche senza rispondere, potremmo comunque far tesoro del contenuto del messaggio così come abbiamo tratto utili suggerimenti dalle civiltà del passato. Noi, in effetti, abbiamo imparato molte cose dai Greci, dai Latini e dagli Arabi dell’antichità senza aver mai parlato direttamente con loro. Certo, nel caso del messaggio proveniente dallo spazio, molto dipenderà da quello che ci verrà comunicato. Se nel messaggio, ad esempio, trovassimo scritto qualche cosa di simile a ciò che noi stessi abbiamo comunicato attraverso i segnali spediti verso civiltà aliene, non c’è dubbio che ci troveremmo di fronte ad una forte delusione.

In ogni caso, ricevere un segnale dallo spazio costituirebbe una notizia straordinaria in sé, ma questa notizia difficilmente rappresenterebbe quello shock culturale che qualcuno immagina. Per quale motivo dovremmo rimanere così profondamente turbati da un evento del genere? Anche quando si mise piede per la prima volta sulla Luna si disse che quell’impresa avrebbe prodotto grandi cambiamenti nel nostro modo di pensare e nella nostra cultura e invece, dopo pochi anni, la conquista della Luna fu dimenticata e su questa Terra tutto tornò come prima, con i problemi di sempre, fatti di soprusi, di guerre e di miserie. Naturalmente, e fortunatamente, anche di cose piacevoli!

 

I VIAGGI NELLO SPAZIO IN ASTRONAVE

Proponiamoci ora di capire per quale motivo il contatto fra civiltà cosmiche dovrebbe necessariamente avvenire attraverso le onde radio e non piuttosto attraverso altri sistemi di comunicazione. Le onde radio, nonostante procedano alla velocità della luce, cioè alla massima velocità consentita, ci sembrano, in questo caso, estremamente lente. Non esiste qualche altro sistema più rapido o più efficace per comunicare attraverso lo spazio?

In effetti un modo più veloce della luce per contattare gli extraterrestri esisterebbe e sarebbe rappresentato proprio dai voli spaziali. In altre parole, salendo su di un’astronave e andando direttamente sul posto, si stabilirebbe una comunicazione ben più rapida che non fosse quella orale.

Oggi, per dire il vero, i veicoli spaziali sono molto lenti essendo in grado di raggiungere la velocità massima di “appena” 100.000 kilometri all’ora, cioè una velocità ancora circa diecimila volte inferiore a quella della luce, che è di un miliardo di kilometri all’ora. Alle velocità attuali per andare e tornare dalla Luna si impiegherebbero solo alcune ore, ma per andare e tornare dalla stella più vicina ci vorrebbero almeno 100.000 anni. Un viaggio del genere, com’è facile comprendere, è irrealizzabile.

Se riuscissimo però a raggiungere, con le navette spaziali, una velocità prossima a quella della luce, si otterrebbe un risultato molto interessante dal nostro punto di vista perché, a quelle velocità, il tempo rallenterebbe di molto. La teoria della relatività di Einstein insegna infatti che il tempo passa molto lentamente quando si viaggia a velocità molto prossime a quelle della luce. Anzi, ad una velocità rigorosamente uguale a quella della luce, il tempo si ferma del tutto.

A velocità elevatissime, si tenga presente, rallenterebbe non solo il tempo segnato dall’orologio, ma anche quello biologico. In altri termini, viaggiando a grandi velocità si invecchierebbe molto più lentamente di quanto non si invecchi rimanendo sulla Terra. Ad esempio un viaggio verso un pianeta che si trovasse a 100 anni luce da noi, potrebbe durare anche solo pochi mesi. Naturalmente pochi mesi passerebbero solo per chi viaggia, mentre, per chi rimane sulla Terra la vita procederebbe secondo i ritmi usuali per cui, al ritorno, il viaggiatore spaziale si troverebbe in un ambiente profondamente mutato rispetto a quello che aveva lasciato alla partenza.

Ma è possibile viaggiare alla velocità della luce? Abbiamo visto che oggi siamo ben lontani da questo traguardo. Però, se si considera che poco più di un secolo fa si viaggiava  ancora in carrozza, cioè ad una velocità media di poco superiore ai 10 km all’ora, bisogna riconoscere che in poco tempo si sono fatti notevoli progressi se attualmente le sonde spaziali raggiungono velocità circa 10.000 volte superiori. La velocità della luce è ancora 10.000 volte superiore a quella degli attuali veicoli spaziali quindi qualcuno ritiene che fra un secolo (forse anche meno, data l’accelerazione del progresso tecnologico) si potrà raggiungere anche questo incredibile traguardo.

E’ assurdo, tuttavia, pensare di realizzare effettivamente un viaggio con un veicolo spaziale a velocità prossime a quelle della luce, per una serie di difficoltà alcune delle quali si incontrerebbero già alla partenza. Vi sarebbe, ad esempio, il problema dei costi. Un semplice viaggio di andata e ritorno dalla stella più vicina richiederebbe infatti un consumo di energia enorme pari a quello che si potrebbe ottenere dalla combustione di miliardi di tonnellate di carburante. Con tutto questo carburante si potrebbe soddisfare il fabbisogno energetico degli abitanti della Terra per secoli e nessun Parlamento del mondo autorizzerebbe una spesa del genere anche qualora si riuscisse effettivamente a trovare la fonte energetica necessaria. Ma non sarebbe nemmeno questo il problema principale, ché anzi esso sarebbe superato da un altro, ben più importante, ovvero da quello della sicurezza.

A velocità prossime a quelle della luce basterebbe infatti l’impatto con un piccolissimo meteorite perché fossero causati danni irreparabili all’astronave. I meteoriti in realtà sono piuttosto rari negli spazi cosmici, ma le particelle grandi come granuli di polvere sono invece frequenti e sufficienti per trasformare in breve tempo l’astronave in un colabrodo. Gli stessi atomi di idrogeno, urtando l’astronave, si ionizzerebbero rendendo il mezzo radioattivo e ustionando irrimediabilmente gli occupanti.

Per ragioni di sicurezza si dovrebbe pertanto ridurre la velocità, ma a velocità ridotta i vantaggi conseguenti alla dilatazione dei tempi non si avvertirebbero più. Se si viaggiasse, ad esempio, ad una velocità pari a 1/10 di quella della luce, cioè a 30.000 km/s che è sempre una grande velocità, ma che secondo gli esperti rappresenterebbe quella di sicurezza relativa, un viaggio di 100 anni durerebbe un po’ più di 99 anni, con un risparmio di tempo, come si può vedere, minimo.

Un viaggio in astronave con o senza uomini a bordo, a velocità prossime a quelle della luce è quindi impensabile adesso e lo sarà molto probabilmente anche in futuro. Tuttavia l’uomo è riuscito a realizzare un’impresa simile ma di più modeste dimensioni: attualmente sono in viaggio, verso le stelle lontane, quattro astronavi, ovviamente senza passeggeri a bordo, partite dalla Terra più di trent’anni fa.

Il 2 marzo 1972 è stato inviato nello spazio il Pioneer 10, una sonda la quale, dopo aver portato a termine il suo obbiettivo primario, che era quello di studiare Giove e i satelliti che gli orbitano intorno, sta ora proseguendo il viaggio verso gli spazi cosmici. Nel giugno del 1998 il Pioneer 10 ha abbandonato il sistema solare e si è avventurato verso le stelle lontane: esso continuerà a viaggiare per molti secoli prima di usurarsi per effetto dell’abrasione provocata dall’urto con la polvere cosmica. Riuscirà nel frattempo a raggiungere qualche pianeta abitato?

Il Pioneer porta con sé un’immagine, incisa su una placca di alluminio dorata, indirizzata ad eventuali civiltà extraterrestri. Le probabilità che questo messaggio giunga a destinazione sono nulle. La sonda viaggia infatti ad una velocità di crociera di poco superiore ai 10 kilometri al secondo (40.000 km/h), cioè ad una velocità che le consentirebbe di raggiungere la Proxima Centauri, la stella a noi più vicina, in 100.000 anni. La sonda tuttavia non è diretta in quella direzione, bensì verso una regione del cielo eccezionalmente vuota di stelle. Si è calcolato che il Pioneer si potrebbe avvicinare ad una stella, fin tanto da sfiorarne un eventuale pianeta, non prima di 10 miliardi di anni cioè fra un numero di anni equivalente a quello dell’intera esistenza dell’Universo; per quella data la nostra navetta spaziale (e non solo quella) sarà ridotta in briciole. Fra l’altro non è fuor di luogo ricordare che già da alcuni anni i contatti radio con questo mezzo si sono interrotti.

Ci si chiede quindi il motivo di queste operazioni senza senso. In realtà si tratta di operazioni simboliche destinate più a noi stessi che alle improbabili civiltà extraterrestri. Il messaggio di cui è latore il Pioneer consiste in una piastra metallica con su raffigurati un uomo e una donna oltre ad una serie di altri simboli. Questa targhetta ha fatto molto discutere per ciò che vi è rappresentato, come se il messaggio fosse effettivamente indirizzato a qualcuno. Si sono avanzate molte riserve, ad esempio, sul fatto che le due figure umane fossero rappresentate nude. Secondo Carl Sagan (1934-1996), una delle più note personalità nel campo della ricerca della vita nel Cosmo nonché ideatore del messaggio, le figure umane sarebbero proprio le immagini che un extraterrestre potrebbe non essere in grado di capire. Tutte le altre parti del messaggio, espresse in codice più tecnico, dovrebbero invece essere comprese da una civiltà che avesse raggiunto uno sviluppo simile al nostro.

Dopo il Pioneer 10 sono state lanciate altre tre sonde destinate ad abbandonare il sistema solare una volta compiute le loro missioni scientifiche in vicinanza di Giove e Saturno. Fra queste vi è il Voyager 1 che, partito cinque anni dopo il Pioneer 10, ma più veloce di esso, all’inizio del 1998 l’ha superato ed ora viaggia alla velocità di crociera di 72.000 km/h. Anche su questa navicella è stato sistemato un messaggio destinato a civiltà lontane che, come il primo, non ha alcuna probabilità di arrivare a destinazione. In questo caso si tratta di un disco su cui sono incisi suoni e rumori tipici di questa Terra fra cui il saluto in varie lingue, il battito del cuore, gli effetti acustici di un’eruzione vulcanica, l’abbaiare di un cane, il suono di una risata e lo schiocco di un bacio. Anche questa sonda, che attualmente rappresenta l’oggetto che più di ogni altro si è allontanato dalla Terra, fra pochi anni perderà il contatto radio con la NASA (l’ente spaziale americano) e quindi continuerà il suo viaggio silenzioso avvolta nel più fitto mistero.

 

LE ONDE RADIO

L’unico modo per verificare se esistono effettivamente delle civiltà extraterrestri sembra quindi essere quello di mettersi in ascolto con dei radiotelescopi, oppure trasmettere noi stessi dei segnali radio con la speranza che qualcuno li raccolga e che poi risponda. I segnali radio sono radiazioni dello stesso tipo della luce o dei raggi X e gamma, cioè forme di energia che si trasmettono attraverso onde elettromagnetiche; la differenza sta solo nella diversa lunghezza di queste onde. Vediamo allora innanzitutto di capire per quale motivo, per comunicare, dovremmo usare proprio le onde radio e non qualche altro tipo di segnale della stessa natura.

Una prima ragione sta nel fatto che la maggior parte delle radiazioni elettromagnetiche vengono assorbite dall’atmosfera. Per esempio, le radiazioni ultraviolette, le infrarosse, i raggi X e i raggi gamma non passano attraverso l’atmosfera se non in minima misura. L’atmosfera, di contro, è trasparente solo a due gamme di frequenza: l’ottica e la radio. Premesso questo, vediamo allora per quale motivo non potremmo usare la luce per lanciare messaggi.

Cominciamo dall’aspetto economico. Le onde radio, come abbiamo detto, sono onde elettromagnetiche la cui lunghezza è molto più grande di quella delle altre radiazioni dello stesso tipo. Ora si sa che una radiazione elettromagnetica possiede tanta più energia quanto maggiore è la sua frequenza e quindi quanto minore è la sua lunghezza d’onda. Ad esempio, una radiazione ultravioletta, cioè una radiazione molto penetrante, possiede energia decine di volte superiore a quella di una radiazione infrarossa caratterizzata da onde più lunghe, quindi meno penetranti. E’ chiaro allora che le onde radio, essendo radiazioni ad onde molto lunghe, quindi di bassissima frequenza, richiedono, per essere lanciate, meno energia (e quindi meno spesa) delle radiazioni luminose che sono invece radiazioni ad onda molto più corta.

Ma a parte l’aspetto economico, vi sono altri motivi per i quali non è possibile comunicare per mezzo della luce. Se ci servissimo di questa, il nostro faro, per poter essere visto a distanza, dovrebbe essere più luminoso del Sole, quindi molto potente e con luce molto concentrata. Ora, per esperienza sappiamo che è impossibile mantenere compatto un fascio di luce per grandi distanze. Il faro più potente che saremmo in grado di costruire potrebbe essere visto, con un buon telescopio, al massimo dai pianeti a noi più vicini (Venere, Marte) e pertanto sarebbe inservibile su distanze cosmiche.

Naturalmente il discorso relativo alla potenza del fascio luminoso vale, ma solo in parte, anche per le onde radio in quanto le stelle (e quindi anche il Sole) emettono, con elevata intensità, oltre alle onde luminose anche quelle radio, e le onde radio inviate da noi potrebbero confondersi con quelle che escono dal Sole. Qui però il vantaggio consisterebbe nel fatto che è possibile scegliere una frequenza molto ristretta all’interno di una banda di onde radio molto ampia (mentre la banda delle onde luminose è molto stretta, e quindi in quel caso vi sarebbe poco da scegliere) ed inviarla in una precisa direzione. Una stella invece emette onde radio di tutte le frequenze e in tutte le direzioni. In pratica, con un radiotelescopio di notevoli dimensioni (come ad esempio quello dell’Osservatorio di Arecibo a Puerto Rico, nelle Antille) sarebbe possibile inviare onde radio in una precisa direzione, con una frequenza ben definita e con una potenza tale che potrebbero essere captate da un pianeta abitato che si trovasse molto lontano, anche ai limiti della nostra Galassia.

La radioastronomia è una tecnica giovanissima di ascolto e di comunicazione astronomica e rappresenta attualmente l’unico sistema utile per lanciare messaggi nello spazio. Lo stesso sistema di comunicazione dovrebbe essere utilizzato anche dalle civiltà extraterrestri tecnologicamente evolute, perché tutte le altre forme di energia a noi note rappresentano sistemi di comunicazione, per un motivo o per l’altro, inutilizzabili. I favori verso questo tipo di comunicazione dipendono anche dal fatto che esso non richiede apparecchiature speciali, in quanto possono essere utilizzate quelle già esistenti per lo studio del Cosmo; inoltre, anche qualora fosse necessaria la costruzione di impianti più potenti, non servirebbero, per fabbricarli, tecnologie diverse da quelle che già si conoscono.

Nonostante i vantaggi economici delle comunicazioni via radio, le difficoltà che si incontrano quando si tenta di stabilire un contatto con eventuali civiltà extraterrestri sono enormi. Innanzitutto non sappiamo verso quale direzione puntare il radiotelescopio, perché non sappiamo quali sono le stelle che potrebbero avere un pianeta abitato da forme di vita intelligente. Inoltre c’è il problema relativo alla frequenza.

I radiotelescopi non trasmettono (e non ricevono) a tutte le frequenze possibili. Essi, in altre parole, non sono come le comuni radio in cui basta girare la manopola per passare da una frequenza ad un’altra e quindi ascoltare ad esempio una stazione che trasmette da Lubiana e, subito dopo, girando leggermente la manopola, porsi in ascolto di una stazione che trasmette da Roma. Nel caso dei radiotelescopi si deve tentare di indovinare a quale frequenza potrebbe trasmettere l’eventuale civiltà extraterrestre per tarare l’apparecchio su quella determinata frequenza e quindi porsi all’ascolto.

Lo stesso discorso vale anche se, invece che rimanere in ascolto, fossimo noi a inviare messaggi: a quale frequenza dovremmo trasmettere per poter nutrire almeno una tenue speranza di essere ascoltati? Nell’articolo scritto nel lontano 1959 da Cocconi e Morrison sulla rivista Nature, di cui abbiamo già parlato, si suggeriva di trasmettere (e di mettersi in ascolto) sulla frequenza di 1420 megahertz (MHz), corrispondente ad una lunghezza d’onda di 21 cm. Fu suggerita questa frequenza perché è la stessa che viene emessa spontaneamente dall’idrogeno. Questo gas, molto diffuso nell’Universo, irradia alla frequenza di 1420 MHz in quanto il suo elettrone ogni tanto cambia spontaneamente il senso della rotazione su sé stesso o, come suole dirsi con termine tecnico, inverte lo spin.

Il suggerimento di Cocconi e Morrison poggiava sul convincimento che qualunque civiltà, giunta ad un buon livello tecnologico, presumibilmente è a conoscenza di questa radiazione in quanto essa serve per studiare la distribuzione dell’idrogeno nello spazio interstellare. Una ricezione o una trasmissione in corrispondenza di questa frequenza dovrebbe essere privilegiata quindi anche per motivi pratici, in quanto tutte le civiltà tecnologicamente avanzate che stanno usando radiotelescopi sicuramente sono in ascolto del rumore dell’idrogeno nello spazio, anche se non stanno ricercando espressamente gli ETI.

Ai tempi dell’articolo di Cocconi e Morrison non si conosceva alcun’altra riga dello spettro radio della Galassia se non quella dell’idrogeno. Successivamente è stata scoperta una nuova frequenza, la 1665 MHz corrispondente ad una lunghezza d’onda di 18 cm, che viene emessa dall’ossidrile OH¯. Poiché questo ione, unito all’H+ forma l’acqua (H2O), si pensò che l’intervallo di frequenza fra 1420 e 1665 MHz dovesse essere quello privilegiato da civiltà extraterrestri per le quali l’acqua, come da noi, ha un ruolo fondamentale. L’insieme delle frequenze comprese fra 1420 e 1665 Mhz venne indicato con il termine di “water hole”, cioè “buco nell’acqua”, una sigla non proprio bene augurante per una ricerca tanto ambiziosa. In realtà l’espressione ha il significato più eloquente di “pozza d’acqua” con riferimento al fatto che come il laghetto nel deserto rappresenta il luogo di raduno degli animali selvatici che vanno ad abbeverarsi, allo stesso modo le frequenze generate dai costituenti dell’acqua dovrebbero rappresentare il punto più favorevole di ascolto e di comunicazione delle civiltà galattiche. Naturalmente chi non crede nel ruolo fondamentale dell’acqua per la vita suggerisce l’uso di altre frequenze costruite, per esempio, su altre sostanze presenti nello spazio o sulle costanti fisiche fondamentali.

Stabilita quindi la frequenza bisogna che l’abitante del lontano pianeta sia sintonizzato con gli apparecchi adatti proprio nel momento in cui avviene la trasmissione, altrimenti la comunicazione gli passerebbe, inascoltata, sopra la testa. La stessa cosa potrebbe essere capitata a noi in passato, ma potrebbe capitare anche attualmente qualora, nel preciso istante in cui arriva il messaggio dallo spazio, non ci fossero radiotelescopi puntati nella direzione giusta, cioè nella direzione dalla quale stanno arrivando i segnali.

Un altro problema è quindi quello di mettersi in ascolto al momento giusto. Noi su questa Terra, ad esempio, siamo in grado di ricevere onde radio dallo spazio solo da una cinquantina d’anni a questa parte. Ora, se questo lasso di tempo viene confrontato con la durata dell’esistenza della Terra che è di qualche miliardo di anni, ci si rende conto che il momento in cui avviene la trasmissione rappresenta un fattore di estrema importanza per il successo dell’operazione. Ma anche in questi ultimi cinquant’anni, pur avendo a disposizione i mezzi idonei, non  siamo rimasti costantemente in ascolto con i radiotelescopi puntati in tutte le direzioni dello spazio. Che cosa avrebbe pensato un eventuale extraterrestre se un centinaio di anni fa avesse insistentemente inviato messaggi radio verso la Terra e non avesse ricevuto risposta? Avrebbe pensato che sulla Terra non vi sono forme intelligenti di vita o quanto meno che non vi sono esseri intelligenti in grado di captare onde radio che provengono dallo spazio.

Trasmettere nel Cosmo segnali radio senza sapere esattamente verso quale direzione puntare e a quale frequenza sintonizzarsi, è un po’ come cercare sul nostro Pianeta i vincitori di una ipotetica lotteria internazionale senza sapere se questa lotteria è stata effettivamente organizzata e quindi senza sapere nemmeno se esistono realmente dei vincitori. Come potremmo fare per individuare, in giro per il mondo, questi ipotetici ultramiliardari vincitori della lotteria? Potremmo andare personalmente a suonare alla porta delle case e chiedere se per caso abita lì un vincitore della fantomatica lotteria, oppure potremmo usare il telefono. Ammettiamo che risulti più utile e più comodo il telefono come mezzo di ricerca. Quali numeri dovremmo comporre? Se telefonassimo in luoghi vicini, le telefonate costerebbero poco ma anche le probabilità di trovare quello che cerchiamo sarebbero poche. Se telefonassimo lontano aumenterebbero le probabilità di trovare i vincitori ma aumenterebbe anche il numero delle telefonate e la spesa. Ma poi, quale lingua dovremmo usare per comunicare? L’inglese o l’esperanto cioè quella che dovrebbe essere la lingua internazionale conosciuta da tutti, ma che poi in pratica nessuno conosce? E se il vincitore, proprio nel momento in cui abbiamo composto il suo numero, non fosse in casa? E se, pur ricevendo la telefonata, non volesse rispondere? Come è facile capire, la nostra ricerca sarebbe un’operazione disperata. Allo stesso modo ci appare impossibile e scoraggiante l’impresa di andare alla ricerca di esseri intelligenti nello spazio.

 

I MESSAGGI INVOLONTARI

E’ interessante riflettere sul fatto che, senza rendersene conto, l’uomo sta inviando nello spazio, da più di sessant’anni, segnali radio e segnali TV di intensità tale da poter essere captati da eventuali civiltà tecnologiche presenti su pianeti lontani (ma non troppo). Ad esempio, un radiotelescopio di notevole potenza che fosse in funzione su un pianeta di Aldebaran, l’occhio sanguigno del Toro, starebbe registrando, in questo momento, i comunicati relativi ai preparativi che portarono alla seconda guerra mondiale. Aldebaran è una stella che si trova nella costellazione del Toro ad una distanza di circa sessanta anni luce da noi e se un suo pianeta che le orbita intorno avesse i mezzi adeguati, potrebbe stare in ascolto della cronaca dell’attacco subìto a Pearl Harbor dalla flotta statunitense ad opera dell’aviazione giapponese che determinò l’entrata degli USA in guerra.

Allo stesso modo, gli abitanti di un eventuale pianeta in orbita intorno a Capella, la stella più luminosa della costellazione dell’Auriga, lontana da noi 45 anni luce, potrebbero intercettare, con un buon radiotelescopio puntato verso la Terra, le prime trasmissioni di “Lascia o raddoppia?” condotte dal giovane e aitante Mike Bongiorno. E ancora, gli abitanti del pianeta che staziona nelle vicinanze di Arturo, una stella che si trova a 35 anni luce da noi, potrebbero, in questo momento, stare in ascolto delle notizie relative ai moti studenteschi del ’68 immaginando di chissà quali e quanti sovvertimenti essa potrà essere foriera sul nostro pianeta: essi dovranno aspettare solo pochi anni ancora per apprendere che tutto è rimasto come prima.

Gli scenari che abbiamo immaginato sono più fantascientifici che reali, tuttavia qualche cosa di simile potrebbe effettivamente accadere. Il totale dell’energia sulle lunghezze d’onda radio e TV che parte dalla Terra è superiore a quello emesso dal Sole sulle stesse lunghezze d’onda. Se quindi una civiltà non troppo lontana da noi si mettesse ad osservare il Sole noterebbe che su alcune determinate frequenze esso appare stranamente più “rumoroso” del previsto, con un periodo di 24 ore (il periodo di rotazione della Terra sul proprio asse). Seguendo con attenzione il fenomeno, i nostri vicini dovrebbero essere in grado di osservare due picchi di emissione molto intensi e da ciò arguire di trovarsi in presenza di qualche civiltà tecnologica. I due picchi di forte intensità corrisponderebbero al passaggio dell’Europa e degli Stati Uniti sulla loro linea visuale, mentre la zona di non emissione corrisponderebbe al passaggio dell’Oceano Atlantico.

 

I GRANDI PROGETTI DI RICERCA

L’esperienza fatta finora ha portato alla conclusione che cercare forme di vita intelligente fra miliardi di stelle esige uno straordinario impegno e richiede la disponibilità incondizionata ed ininterrotta dei radiotelescopi attualmente utilizzati per altri studi. Pertanto, poiché non è possibile distogliere per lungo tempo le apparecchiature esistenti dai loro compiti primari, il solo sistema attuabile per esplorare in modo sistematico la nostra Galassia alla ricerca degli ETI, sarebbe quello di costruire una serie di telescopi da destinare esclusivamente a questo scopo.

In realtà è stato già avanzato un progetto del genere: la costruzione di un gigantesco radiotelescopio significativamente denominato “Ciclope”. Si tratta di un complesso costituito da mille antenne del diametro di cento metri ciascuna disposte su una superficie di 200 km², lo spazio occupato da una città grande come Udine. Con uno strumento del genere si riuscirebbe a rilevare anche quei segnali che per la loro debolezza oggi sfuggono all’osservazione. Il costo dell’opera, al valore attuale, equivarrebbe a circa 100 miliardi di dollari (una cifra spropositata). Il progetto, per nostra fortuna, non è stato approvato.

Anche senza avere la disponibilità di radiotelescopi di quelle dimensioni, un altro di quei tentativi inutili che sono già stati realizzati con le sonde spaziali è stato messo in atto con il radiotelescopio di Arecibo, il più grande apparecchio radiotrasmittente esistente al mondo, collocato in una depressione naturale del terreno dell’isola di Porto Rico.

Nel 1974 da Arecibo è stato trasmesso un messaggio radio in direzione dell’ammasso di Ercole, il famoso M 13. Questo è un agglomerato di mezzo milione di stelle che si trova, fuori della nostra Galassia, ad una distanza di oltre ventimila anni luce da noi. La risposta al nostro messaggio, se tutto andrà come previsto, arriverà intorno all’anno 45.000! Di che tipo di messaggio si è trattato in questo caso?

Innanzitutto va detto che il messaggio è stato scritto in codice binario cioè in quel linguaggio matematico che fa uso di due soli simboli, lo zero e l’uno. Si ritiene che questo sia un linguaggio universale, conosciuto cioè da tutti. Sarà vero? Il messaggio contiene delle informazioni banali, come ad esempio quella che su questa Terra, per far di conto, si usa la numerazione decimale, oppure quella che la molecola che trasmette l’informazione genetica è il DNA, o ancora che il nostro sistema solare è formato di nove pianeti. Per quale motivo queste informazioni dovrebbero essere così interessanti per gli ETI? E’ facile da capire che se i nostri interlocutori fossero, come siamo noi, in febbrile attesa di un messaggio proveniente da altre civiltà, il ricevere dopo lunghe ricerche una comunicazione del genere rappresenterebbe, senza alcun dubbio, una grande delusione.

 

CONCLUSIONI

Come possiamo concludere la nostra lunga e dettagliata analisi? Innanzitutto possiamo affermare, senza tema di smentita, che, alla luce delle attuali conoscenze, non è possibile dimostrare scientificamente che esistono altre forme di vita nel Cosmo. Con ciò non vogliamo dire che non esistono, vogliamo semplicemente dire che non è possibile darne una dimostrazione scientifica perché gli elementi a disposizione per farlo sono troppo scarsi. Vediamo comunque di analizzare, uno per uno, i punti a favore dell’esistenza di altri esseri viventi e quelli contrari. Cominciamo dai primi.

Sappiamo che il Sole, la nostra fonte primaria di energia, non è che una comunissima stella di media grandezza, una di quelle stelle presenti in alcuni miliardi di esemplari nella nostra Galassia, e in miliardi di miliardi se si considerano anche le altre galassie. Sappiamo anche che intorno ad alcune stelle di tipo solare ruotano dei corpi massicci che potrebbero essere dei pianeti. Sappiamo inoltre che la materia che costituisce il Cosmo è la stessa ovunque e che anche le leggi che regolano il suo comportamento sono sempre le stesse. Sappiamo infine, per averlo osservato, che alcune molecole organiche si formano spontaneamente negli spazi interstellari. Tutto qui. E’ sufficiente, quello che sappiamo, per dire che la vita esiste anche su altri mondi oltre che sul nostro?

Invece ciò che ignoriamo sull’argomento è molto di più ed anche più determinante. Non sappiamo, ad esempio, se esistano altri luoghi adatti alla vita oltre a quello che abbiamo sotto i piedi. Non sappiamo esattamente nemmeno cosa sia la vita e come si sia generata, né se sia destinata ad evolvere verso forme intelligenti come è avvenuto sulla Terra. Non sappiamo, infine, quanto è destinata a durare una civiltà tecnologica.

Oltre a ciò vi è tutta una serie di evidenze osservative e teoriche che ci fanno dubitare sulla possibilità di un contatto con altre forme di vita, qualora queste esistessero realmente. E’ indubbio, ad esempio, che la ricerca di forme di vita inferiori debba essere fatta recandosi direttamente sul posto o tutt’al più inviando mezzi in grado di compiere osservazioni molto da vicino, cosa che attualmente sarebbe possibile solo in luoghi posti in prossimità della Terra, cioè in pratica solo sui pianeti del sistema solare.

Dopo essere stati di persona sulla Luna e dopo aver inviato sonde su molti dei pianeti del sistema solare (alcune anche con apparecchiature in grado di effettuare prove dirette a stabilire la presenza di composti biochimici), abbiamo quasi la certezza che all’interno del nostro sistema solare non vi siano esseri viventi di alcun genere, nemmeno i più semplici. A questo punto non resterebbe che andarli a cercare su altri sistemi solari. I viaggi nello spazio verso le stelle più vicine, su razzi con o senza uomini a bordo, rappresentano però un’impresa proibitiva, almeno per il momento.

La ricerca di forme di vita molto semplici (del tipo dei batteri o delle alghe azzurre) può continuare quindi solo all’interno del nostro sistema solare. Da alcuni dati recenti sembra che su Marte esseri viventi siano stati presenti in un lontano passato e oggi si trovino allo stato fossile (dal latino fodere = scavare). Andare alla ricerca di fossili, su di un altro pianeta, non è tuttavia più agevole che cercare, nello stesso luogo, esseri viventi.

Per quanto riguarda le forme di vita intelligente, abbiamo visto che l’unico modo per trovarle è quello di cercare di stabilire con esse un contatto radio. Abbiamo inoltre dimostrato che mettersi in contatto radio con eventuali civiltà extraterrestri è un’impresa estremamente difficile che prevede l’impiego di mezzi molto costosi e di un’organizzazione molto complessa.

Il buon senso quindi suggerisce che altre forme di vita (intelligente o meno) forse anche esistano in prossimità di lontane stelle, ma scientificamente non siamo in grado di provarlo. Dobbiamo rinunciare a trattare questo argomento che tanto appassiona l’opinione pubblica? Certamente no, anche perché si tratta di un problema scientifico di grande interesse: ma proprio per questo motivo lo si dovrebbe affrontare in modo rigoroso, onesto, documentato, evitando di far ricorso al fantastico, al sensazionale nel momento in cui si informa la gente su ciò che si crede di sapere; in caso contrario, tanto varrebbe parlare di metafisica o di fantascienza anziché di argomenti scientifici.

A questo proposito forse è interessante ricordare la domanda che fece Enrico Fermi quando fu informato dell’opinione di alcuni scienziati secondo i quali lo spazio cosmico sarebbe pieno di esseri intelligenti: «Dove sono?», domandò. Con questa battuta, il grande fisico italiano sintetizzò l’essenza e il significato profondo della ricerca scientifica che si basa sui fatti, più che sulle parole. Se gli ETI esistessero veramente, essi dovrebbero essere qui. L’Universo esiste infatti da molto più tempo della Terra, per cui se fossero possibili altre forme di civiltà, molte di esse si sarebbero sviluppate miliardi di anni fa e avrebbero avuto tutto il tempo di arrivare fino da noi. Sulla Terra invece non esiste traccia della presenza di alieni, né al presente, né al passato. Da ciò Fermi concluse che nell’Universo siamo soli.

Ai tempi di Fermi, in realtà, non era ancora scoppiata la mania degli UFO, altrimenti i sostenitori della presenza degli alieni avrebbero fatto sentire la loro voce e giurato sull’avvistamento di astronavi provenienti dagli spazi galattici e di contatti fisici con gli E.T. Questi personaggi oggi accusano gli scienziati e i capi di governo di nascondere la verità su questo problema, perché accecati dal pregiudizio gli uni, e dalla ragione di Stato gli altri.

E’ importante anche sottolineare quanto decisivo sia stato il sostegno dell’opinione pubblica per assicurare i finanziamenti necessari a questa ricerca. Le inchieste sull’argomento indicano un aumento continuo sia delle persone convinte dell’esistenza di forme di vita extraterrestre, sia di quelle che ritengono molto importante promuovere iniziative finalizzate alla ricerca degli ETI. Fra queste, predominanti, sono le persone colte e i giovani. E poiché i giovani, soprattutto, rappresentano la società del domani, la loro opinione favorevole può essere decisiva per fare in modo che continui la ricerca anche in futuro. Pensare che possano esistere forme di vita extraterrestre non vuol dire tuttavia che queste effettivamente esistano.

Andare invece controcorrente e mostrarsi scettici verso questa eventualità può diventare motivo di disagio per uno scienziato o anche per quelle persone che semplicemente coltivano interesse verso i problemi della scienza. Si rischia l’accusa di essere tolemaici. E passare per tolemaico rappresenta un’offesa infamante, peggio che essere definiti conservatori e reazionari, soprattutto per le persone che si ritengono di vedute moderne, al passo con i tempi e prive di pregiudizi.

Tolomeo fu l’astronomo che, nel II secolo dopo Cristo, utilizzando tutte le conoscenze accumulate fino al suo tempo, ideò un sistema del mondo molto complesso e ingegnoso che prevedeva la Terra immobile al centro, e tutti gli altri corpi celesti a ruotarle intorno. Questo modello di Universo rimase in auge fino a che Copernico, nel XVI secolo, non lo rivoluzionò ponendo al centro il Sole. Il modello copernicano trovò poi una serie di conferme osservative e teoriche da parte di Keplero, Galilei e Newton. L’uomo accettò quindi per veritiero questo nuovo modello e il suo pensiero si adeguò al sistema copernicano.

Oggi sappiamo che nemmeno il Sole è al centro dell’Universo, ma che questo è costituito da un’infinità di galassie nessuna delle quali occupa una posizione privilegiata rispetto alle altre. Noi con il nostro Sole ci troviamo all’interno di una delle tante galassie esistenti, relegati in una zona periferica, senza alcun ruolo particolare. Il nostro piccolo pianeta, nell’economia generale dell’Universo, non conta più nulla, quindi non conta più nulla nemmeno la vita, che si è sviluppata su di esso. Questa scoperta porta a concludere che la vita non può essere qualche cosa di speciale, tipica solo della nostra Terra, ma una cosa universale, diffusa ovunque. Oggi, essere copernicani vuol dire accettare questa visione delle cose.

Sostenere viceversa la tesi opposta e dimostrarsi scettici verso l’eventualità che la vita possa esistere anche su altri mondi e, di conseguenza, giudicare assurda una ricerca di civiltà extraterrestri condotta nel modo in cui viene condotta, vuol dire esporsi a critiche feroci. Si mette in azione una forma di ricatto psicologico ignobile e meschino che vuol far passare per persona disinformata, presuntuosa e fuori dai tempi chi avanza qualche perplessità sul modo di condurre la ricerca di forme di vita aliene. In queste condizioni è impossibile ragionare.

Ma a parte gli aspetti psicologici, qual è il vero motivo che sta alla base di una ricerca la quale, considerate le enormi distanze interstellari, difficilmente porterà ad un risultato positivo? Ma è chiaro, la ricerca prosegue perché si tratta di un business e vi sono sempre persone interessate agli affari. I grandi progetti, anche se non servono per realizzare le cose per le quali vengono ideati, sono tuttavia fonte di vantaggi di vario genere, e di guadagni cospicui. Se si fa caso, dietro alle grandi imprese, vi sono sempre le stesse persone: in prima fila i politici, poi, a ruota, seguono militari e industriali, quindi una serie senza fine di opportunisti che spera di trarre profitto dall’operazione.

E’ immaginabile lasciare perdere e occuparsi di ricerche più importanti, più urgenti, più fondamentali? Quelle somme, si dice, potrebbero essere indirizzare in modo più utile verso la soluzione di problemi come quello relativo alla ricerca sul cancro, alla fame nel mondo, alla costruzione di ospedali, e a tante altre questioni che assillano l’umanità. Non prendiamoci in giro. Sappiamo bene che i fondi destinati alle imprese spaziali sono senz’altro minori di quelli che, ad esempio, gli americani spendono in un anno in lozioni per la crescita dei capelli. Perché allora non chiedere agli americani e, già che ci siamo, a tutti i calvi del mondo, di smetterla di illudersi di poter tornare con la folta chioma di un tempo e utilizzare invece quei soldi per aiutare i diseredati del terzo mondo?

La ricerca della vita nel Cosmo, giusta o sbagliata che sia, utile o inutile, andrà avanti. Andrà avanti anche perché i mezzi di informazione (e di plagio) hanno contribuito (e contribuiscono tuttora) a creare nell’opinione pubblica un interesse quasi morboso verso un problema che non è certamente superiore a tanti altri che inquietano il genere umano.

Ora, il pericolo vero, da un punto di vista scientifico, è che a forza di cercare e di spendere ingenti somme di denaro si finisca per trovare effettivamente qualcosa, magari uno di quei segnali di dubbia interpretazione e provenienza che verrebbe fatto passare per un indizio della presenza di extraterrestri. Finalmente avremo la prova di non essere soli nell’Universo sconfinato e soprattutto la dimostrazione di non avere speso invano i soldi destinati alla ricerca in questo settore.

Non si tratta di un’idea assurda: un fatto del genere è accaduto con il ritrovamento di un meteorite in Antartide nel 1984. Osservando con attenzione il reperto, dieci anni più tardi, si scoprirono al suo interno strane strutture vermiformi del diametro compreso fra il centesimo e il millesimo di millimetro che, nonostante le dimensioni estremamente ridotte, vennero classificati come fossili di batteri primitivi. La cosa sorprendente è che il meteorite presenta una composizione tale da fare pensare che possa provenire da Marte. Dobbiamo quindi immaginare che, in tempi molto lontani, un grosso asteroide sia piombato su Marte sbalzando nello spazio del materiale che solo in parte ricadde sul pianeta. Uno dei frammenti che si dispersero nello spazio sarebbe stato attirato dalla gravità terrestre e fatto precipitare sui ghiacciai dell’Antartide dove una oscura ricercatrice americana, in missione scientifica, lo avrebbe notato e raccolto. E’ credibile un racconto del genere? Molti ritengono di no.

 

POST SCRIPTUM: GLI UFO E GLI UFOLOGI

Gli Ufo e gli Ufologi meritano un discorso a parte. Ufo è l’acronimo inglese di Unidentified fleying objects (cioè «oggetti volanti non identificati») ed è una sigla che gli scienziati hanno scelto per indicare quei fenomeni fugaci, generalmente luminosi, che alcune persone raccontano di avere osservato in cielo. Gli Ufologi sono invece delle persone che, anche senza avere avuto esperienze dirette, credono ciecamente nelle testimonianze di coloro che raccontano di avere avuto contatti di vario tipo con gli alieni.

L’ufologia, ossia la scienza che si occupa di questi strani avvistamenti, inizia il 24 giugno del 1947 quando un uomo d’affari di Seattle, negli Stati Uniti, certo Kenneth Arnold, vide dall’aereo privato su cui viaggiava nove oggetti splendenti a forma di disco, che si spostavano in aria saltellando come fanno i ciottoli lanciati sull’acqua. La storia degli UFO inizia quindi con questo racconto banale e molto personale dell’avvistamento di enigmatici oggetti luminosi che per la loro forma vennero chiamati «dischi volanti».

Da quel tempo ad oggi gli avvistamenti si sono susseguiti a migliaia in tutto il mondo. A volte questi strani oggetti, che oggi non si chiamano più dischi volanti, ma UFO, sono stati fotografati e anche individuati dai radar. Alcune persone hanno raccontato di essere state rapite trasportate a bordo di navi spaziali e condotte in giro per l’Universo e, dopo essere state studiate e stuprate, riportate sane (o quasi) e salve là dove erano state prelevate. Dalle informazioni rilasciate da queste persone non si è potuto estrarre alcuna informazione utile circa la navigazione e la tecnica di propulsione, né alcun dato credibile circa l’origine extraterrestre dei fenomeni descritti.

Vi è da dire che mai è capitato ad un astronomo professionista di imbattersi in un avvistamento di UFO, né, fino a pochi anni addietro, che un fenomeno riconducibile ad avvistamenti di quel tipo fosse stato descritto da un Cinese. Come mai? Notte e giorno migliaia di astronomi professionisti scrutano il cielo con ogni sorta di strumento, dai telescopi ai radar, dai sensori a raggi infrarossi e ultravioletti ai rilevatori gamma, ma mai nessuno di essi ha dichiarato di aver visto qualche cosa di strano associabile ad astronavi aliene o a emissioni di energia di cui non era possibile identificare la provenienza. Per quanto riguarda i Cinesi, fino a pochi anni fa, in quella parte del mondo nessun organo di informazione aveva accennato a questo fenomeno, per cui quelle popolazioni non sapevano dell’esistenza di oggetti strani che si muovono in cielo.

La scienza ufficiale, per la verità, non ha mai preso troppo sul serio il fenomeno UFO, anche perché non le sono mai stati forniti dati concreti e sicuri su cui lavorare. Molto spesso si è trattato o di testimonianze di persone in genere poco allenate all’osservazione, o di documenti fotografici sfocati, o di echi radar incerti o di filmati della cui autenticità è lecito dubitare. Il tutto, agli occhi degli scienziati, sa molto di incompetenza, di superficialità o addirittura di imbroglio.

Naturalmente gli ufologi accusano la scienza ufficiale di manipolare le carte, di trascurare fatti importantissimi, di essere al servizio di governi (fondamentalmente quello americano) che non vogliono sentire parlare di UFO. La gente comune, ovviamente, è schierata dalla parte degli ufologi, cioè dei perseguitati, delle vittime, di persone in buona fede che non vengono credute, e le cui testimonianze vengono trattate con sufficienza.

In realtà vi è una larga categoria di persone che trae profitto dalla situazione che si è venuta a creare. Sono gli scrittori di fantascienza, i registi cinematografici, gli editori, i fabbricanti di giocattoli e perfino interi paesi che hanno programmato la vita sociale e organizzativa della comunità sulla credenza di avvistamenti di navi spaziali e di contatti con alieni. Ristoranti, librerie, negozi di giocattoli, musei, passeggiate e giardini pubblici, richiamano l’attenzione dei visitatori su questo strano fenomeno. E il turismo ne trova beneficio.

C’è un astronomo americano di nome Allen Hynek, che da molti anni si sta occupando con competenza e rigore del fenomeno UFO e tuttavia non ha trovato finora nulla di concreto su cui impostare un discorso serio, nemmeno facendo leva su principi scientifici oggi sconosciuti. Egli attualmente non solo non dispone di una soluzione accettabile del problema, ma non è nemmeno in grado di impostare un’ipotesi verosimile su cui lavorare. Hynek tuttavia è convinto che la soluzione verrà e sarà una soluzione importante. Vi sono d’altra parte altri scienziati, altrettanto seri e altrettanto credibili, che pensano che una soluzione non verrà mai e che comunque, anche se dovesse venire, non sarà importante.

Prof. Antonio Vecchia

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