I raggi cosmici

Dallo spazio piovono in continuazione sulla Terra par­ticelle cariche con energie che van­no da 100 milioni a cento miliardi di miliardi di elettronvolt (1020 eV). L’elettronvolt è l’unità di misura dell’energia utilizzata dai fisici delle particelle al posto del joule (J) previsto dal Siste­ma Internazionale: per definizione 1 eV = 1,6・10-19 J. Le particelle cariche che piovo­no dal cielo sono dette rag­gi cosmici e pro­vengono da tutte le direzioni senza alcun orien­tamento preferenziale. Si di­stinguono raggi cosmici primari costituiti principalmente da protoni (85%) e da ioni di elio (13%); il restan­te 2% è formato da nu­clei di atomi più pe­santi. Attraversando l’atmosfera i raggi cosmici pro­vocano complessi fenomeni gene­rando i cosiddetti raggi cosmici secon­dari. Questi si formano in seguito all’interazio­ne delle parti­celle dei raggi primari con gli atomi e i nuclei presenti negli alti strati dell’atmo­sfera. Nei raggi secondari prevalgono gli elettroni, i neu­troni, i mesoni ed altre particelle sub-nuclea­ri.

 

ORIGINE DEI RAGGI COSMICI

La scoperta dei raggi cosmici è stata del tutto casuale. Si era osservato che un elettro­scopio carico tendeva lentamente a scaricarsi in presenza di raggi X o di raggi gamma i quali, con la loro presenza, priverebbero di qualche elettrone le molecole dei gas dell’aria rendendola conduttrice. I raggi X e gamma sarebbero prodotti da materiali radioattivi i quali, anche se non erano presenti nelle vicinanze, potevano tuttavia essere diffusi in pic­cole quantità nel suolo.

L’elettroscopio è uno strumento costituito da una ampolla di vetro entro la qua­le sono contenute due sottilissime lamine d’oro, sospese ad una asticciola metallica, che emerge dall’ampolla di vetro attraverso un tappo isolante. Le foglioline, chiuse e in posizio­ne verti­cale quando l’elettroscopio è scarico, divergono quando lo stesso viene carica­to elettrica­mente. Una particella radioattiva avrebbe potuto creare raggi X e raggi gamma i quali avrebbero potuto portare via un po’ della carica dell’elettro­scopio che, col tempo, si sareb­be scaricato completamente.

Elettroscopio a foglia

Tra i misteri dei raggi cosmici vi è innanzitutto il problema della loro origine. Poiché fra i raggi primari vi sono soprattutto protoni, ossia nuclei di atomi di idrogeno, che è l’ele­mento più abbondante nelle stelle, compreso il Sole, si era ritenuto che proprio quest’ulti­mo fosse la fonte maggiore di questa radiazione. Osservazioni fatte di notte mettevano però in evi­denza che non vi era alcuna differenza fra l’arrivo dei raggi cosmici di notte ri­spetto a quelli rile­vati di giorno. Si era anche pensato di portare l’elettroscopio in mezzo al mare, distante dalla terra, ma la carica continuava a sparire lentamente.

Nel 1912 il fisico austriaco Victor Franz Hess (1883-1964) decise di analizzare il feno­meno in modo approfondito salendo con un elettroscopio carico su un pallone ad aria cal­da per raggiungere l’alta atmosfera. Poiché si riteneva che le fonti di radiazione fossero nel suolo, portando l’elettroscopio a migliaia di metri d’altezza, si sarebbe dovuta arrestare la perdita di carica, invece il fisico austriaco osservò che l’elettroscopio perdeva la carica più rapida­mente via via che si saliva più in alto. Era ormai evidente che la radiazione proveniva dallo spazio. Per questa scoperta Hess fu uno dei fisici che ricevette il premio Nobel nel 1936.

Non era tuttavia ancora chiaro quale fosse la natura di questa radiazione che il fisico americano Robert Andrew Millikan (1868-1953) aveva chiamato “raggi cosmici”. Egli pen­sava si trattasse di una radiazione elettromagnetica a lunghezza d’onda molto corta quindi molto energetica e molto penetrante. D’altra parte, il fisico statunitense Arthur Holly Comp­ton (1892-1962) riteneva che i raggi cosmici fossero invece particelle subatomiche cariche che viag­giavano molto velocemente nello spazio.

Al fine di evitare avventurosi voli in palloni aerostatici sfidando il freddo e la rarefazione dell’aria, si decise di far volare solo gli strumenti che frattanto si erano fatti sempre più sofisti­cati e precisi. Oltre agli elettroscopi carichi furono portati in quota anche le camere a neb­bia e successivamente le ancora più complete e meglio attrezzate camere a bolle, stru­menti che avrebbero permesso di evidenziare il percorso delle particelle cariche che vi fini­vano dentro. Non essendo però presenti gli osservatori, che erano rimasti a terra, si rendeva ne­cessario fotografare la particella che passava attraverso le camere.

Nel 1932 l’inglese Patrick Blackett (1897-1974) e l’italiano Giuseppe “Beppo” Occhialini (1907-1993) misero a punto un ingegnoso sistema che consentiva ad una macchina foto­grafica di scat­tare la foto quando una particella passava attraverso la camera. Grazie a questo dispositi­vo il fisico americano Carl Anderson (1905-1982) individuò nei raggi cosmi­ci l’elettrone positivo a cui fu dato il nome fon­damentalmente sbagliato di “positrone”. An­derson e Blackett ebbero nel 1936 il premio Nobel per questa scoperta mentre non si capi­sce per quale motivo venisse del tutto escluso Beppo Occhialini che partecipò attivamente ad essa.

Il termine di positrone appare errato innanzitutto perché la desinenza delle particelle subatomiche è -one. Come esempi si possono citare l’elettrone, il protone, il fotone, il gra­vitone e tante altre. La “r” di elettrone e neutrone appartiene invece alla radice della paro­la da cui trag­gono origine i termini: ossia elettricità e neutro. Pertanto all’elettrone positi­vo, per rimane­re in armonia con le altre par­ticelle subatomiche, si sarebbe dovuto asse­gnare il nome di posito­ne, senza la r, perché positivo non contiene la r. Non solo, ma per rimanere in tema con le altre particelle subatomiche, l’elettrone positivo do­vrebbe essere chiamato antielettrone perché tutte le altre antiparticelle prendono il suffiss­o anti- che ag­giungono al nome della particella di segno opposto. Ad esempio, quando venne scoperto il protone ne­gativo ad esso fu assegnato il nome di antiprotone.

Altre volte è successo di avere assegnato un nome sbagliato ad un oggetto o a un feno­meno, per ignoranza o per un errore di giudizio. Il nome di positrone dovrebbe quindi es­sere cambiato, ma ormai sembra essere troppo tardi per farlo: si può comunque tentare. Un caso analogo si ebbe quando Michael Faraday chiamò anodo l’elettrodo caricato positi­vamente della sua cella elettrolitica: un termine che deriva dal greco e significa “via supe­riore” men­tre il catodo caricato negativamente deriva il nome da “via inferiore”. Tutto ciò perché a quel tempo si credeva che l’elettricità scorres­se dal polo positivo a quello negati­vo cioè dall’anodo superiore al catodo inferiore, così come l’acqua scorre da un livello più alto ad uno più basso.

 

VERIFICHE DELLE LEGGI RELATIVISTICHE

Nei raggi cosmici sono state scoperte sia le conseguenze sia alcune verifiche delle più importanti leggi della relatività di Einstein. In essi oltre all’antiparticella dell’elet­trone di cui abbiamo già detto, è stato scoperto anche il pione e il muone, particelle del tutto originali e di cui non si capisce quale dovrebbe essere la funzione. É celebre la frase del Premio No­bel Isaac Isidor Rabi (1898-1988), che ben rappresenta lo sconcerto dei fisici del tempo: “E questo chi l’ha ordinato?”.

Urtando contro i nuclei degli atomi d’aria i protoni, presenti nei raggi cosmici, li spezza­no e producono oltre a vari nucleoni e fotoni anche nuove particelle appena ricordate come i mesoni mu (o muoni) e i mesoni pi greco (o pioni). Il muone e il pione e tante altre particelle che saranno scoperte in seguito vengono collettivamente chiamate mesoni per indicare che si tratta di particelle con una massa intermedia tra quella dell’elettrone e quel­la del protone.

I mesoni (o pioni), dopo un centomilionesimo di secondo, decadono in altre particelle fra cui vi sono i muoni. I mesoni μ (o muoni) vengono generati nella stratosfera, ossia ad una ventina di kilometri d’altezza. Ora ci si chiede come facciano queste particelle ad arri­vare al suolo se vivono mediamente solo un milionesimo di secondo. Il calcolo è presto fat­to: se la particella viaggiasse a 300.000 km al secondo, cioè alla velocità massima consen­tita, nel breve tempo della sua esistenza potrebbe percorrere solo 300 metri e poi sparire ovvero trasformarsi in un elettrone e in due neutrini. Gli strumen­ti adeguati intercettano invece i muoni al livello del mare. Come fanno queste particelle in un tempo così breve a percorre­re i 20 km che li separano, dal punto in cui si formano, alla terra? Il mistero è pre­sto risolto perché l’alta velocità a cui viaggiano queste particelle allunga loro la vita come prevede la relatività di Einstein. Anche l’uomo vivrebbe più a lungo se fosse in grado di viaggiare ad una velocità vicina a quella della luce.

Nei raggi cosmici si verifica anche un altro fenomeno relativistico straordinario. Infatti i fotoni di alta energia primari, o generati dagli urti dei protoni nell’alta atmosfera, possono materializzarsi in una coppia costituita da un elettrone e da un antielettrone. Quest’ultimo non è altro che una particella di antimateria prevista anch’essa dalla relatività.

L’antimateria è certo una delle grandi scoperte dell’ultimo secolo. Essa rappresenta un ulteriore successo della fisica teorica che aveva previsto la nuova forma di materia prima che fosse osservata direttamente. Nel 1928 il fisico inglese Paul Adrien Maurice Dirac (1902-1984) scrisse un’equazione per l’elettrone che univa la teoria quantistica con la rela­tività. Alcuni pensano che questa sia l’equazione più bella di tutta la fisica. Essa prevedeva per ogni valore della quantità di moto dell’elettrone quattro soluzioni, ma solo due avevano senso. Le altre due comportavano l’esistenza di un elettrone con energia negativa: il che era ritenuto assurdo. Se l’elettrone ha carica negativa ed è rappresentato dalle due solu­zioni a energia posi­tiva, allora le altre due soluzioni dovevano rappresentare una particella identica all’elettrone, ma con carica opposta. Fu la scoperta dell’esistenza dell’antimateria, una forma di materia perfettamente simile a quella ordinaria ma con questa incompati­bile: se una particella di materia incontrasse una di antimateria le due si annichi­lerebbero reci­procamente ossia sparireb­bero e darebbero vita a energia pura.

Due anni dopo che Dirac formulò la sua teoria, come abbiamo visto, Anderson prima e poi Blackett e Occhiali­ni individuarono l’antielettrone nei raggi cosmici. Le proprietà di que­sta nuova particella erano esattamente quelle prevista da Dirac: più esattamente il positro­ne (ovvero, meglio, il positone) ha la stessa carica, ma il segno contrario di quella dell’elet­trone e quando un elettrone dovesse incontrare un positone sparirebbero entrambi, in quanto il positone non è altro che lo stato di energia negativa dell’elettrone.

Naturalmente la teoria di Dirac è molto generale e prevede accanto agli antielettroni l’e­sistenza di antiprotoni e di antineutroni. Quindi possono esistere gli antiatomi, le antimole­cole e in generale l’antimateria. Potrebbero quindi esistere anche esseri viventi, com­presi gli uomini, di antimateria. Si raccomanda qualora si incontrasse un uomo di antima­teria di non dargli la mano o peggio abbracciarlo.

Prof. Antonio Vecchia

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