Pierino il saputello

Tutti conoscono il detto popolare: “San Benedetto, la rondine sotto il tetto”. Esso indubbiamente fa rima, ma non corrisponde a verità. Salvo qualche annata particolarmente propizia, infatti, è raro che le rondini arrivino da noi prima della fine del mese o ai primi di aprile, con un ritardo cioè di una decina di giorni sul pronostico. Forse un po’ più precoci sono i balestrucci spesso confusi con le rondini, mentre decisamente più tardivi sono i rondoni, gli uccelli somiglianti alle rondini che popolano i cieli delle città.

Per trovare la spiegazione di questo ritardo dobbiamo rifarci alla riforma del calendario di papa Gregorio XIII, la quale prevedeva un provvedimento continuativo ed uno “una tantum”. Il primo consisteva nel saltare ogni tanto un anno bisestile perché il calendario di Giulio Cesare ne aveva posti troppi, avendo calcolato l’eccesso dell’anno tropico in sei ore esatte; in questo modo veniva trascurato il difetto di 11 minuti e 14 secondi. Gli anni bisestili omessi furono i secolari, salvo quelli con il millennio divisibile per quattro (come fu appunto il 2000), in modo che ne restasse uno solo ogni quattrocento anni.

Invece il provvedimento da prendere una volta soltanto era quello di saltare a piè pari 10 giorni perché fosse fissato alla data del 21 marzo l’equinozio di primavera, che alla fine del secolo XVI era arretrato al giorno 11. Così con bolla papale del 15 febbraio 1582 fu ingiunto che il 5 ottobre venisse considerato 15 ottobre, permettendo in questo modo che si celebrasse la festività di S. Petronio (e non di S. Francesco, come è scritto su molti testi, un santo che tuttavia si festeggia alla stessa data del 4 ottobre). Papa Gregorio XIII (al secolo Ugo Boncompagni) era bolognese di nascita e a piazza Maggiore di Bologna è possibile osservare la sua statua benedicente sul palazzo municipale; egli pertanto era interessato al patrono della sua città, appunto S. Petronio, piuttosto che a S. Francesco il quale diventerà solo successivamente il patrono d’Italia.

Da quel tempo pertanto non più S. Benedetto, ma S. Beniamino, o S. Ugo (1 aprile), o qualche collega dei dintorni, ha la rondine sotto il tetto. E così non più S. Lucia, ma S. Tommaso o Santa Vittoria, è la giornata più corta che ci sia. Allo stesso modo si potrebbe continuare con altri proverbi meteorologici che hanno perso di validità dopo la riforma del calendario, con il cambiamento del quale tutti i detti popolari molto antichi dovrebbero essere aggiornati.

Mi capitò, anni addietro, che uno studente non si ritenesse affatto persuaso di ciò che gli avevo insegnato a proposito della riforma del calendario effettuata da papa Gregorio XIII. Avevo detto infatti che il papa fece controllare dagli astronomi di quel tempo la data effettiva dell’equinozio di primavera e che gli esperti trovarono che cadeva l’11 di marzo e non più il 21, come avveniva molti secoli addietro. Preoccupato del fatto che continuando a spostarsi il 21 di marzo verso il periodo caldo dell’anno la Pasqua avrebbe finito per celebrarsi in estate, il pontefice ordinò di sopprimere 10 giorni dal calendario per riportare l’equinozio al 21, a compenso del ritardo accumulatosi dal 44 a.C., quando era andato in vigore il calendario di Giulio Cesare.

Lo studente pignolo si era messo a fare i conti ed aveva concluso che un errore di 11 primi e 14 secondi all’anno fanno un’ora circa in 5 anni e un giorno intero in 130 anni; quindi, in 1.600 anni o poco più, quanti ne erano passati, anche a fare i conti all’ingrosso, dalla metà del primo secolo avanti Cristo fino alla fine del XVI, il ritardo avrebbe dovuto essere di 14 giorni e non di 10, quanti in effetti furono sottratti dal calendario.

Lo studente concluse che ai tempi di Giulio Cesare l’equinozio di primavera doveva capitare il 25 marzo e non il 21 e l’equinozio stesso avrebbe dovuto cadere invece alla data del 21 marzo intorno al VI secolo dopo Cristo, cioè ai tempi di Teodorico. Quindi, papa Gregorio, saltando 10 giorni, aveva riportato l’equinozio non ai tempi di Cesare, ma a quelli del re ostrogoto.

Ebbene lo studente meticoloso e saputello (in ogni classe ce n’è sempre uno!) aveva proprio ragione: infatti, anche a tenere conto della scarsa precisione degli antichi calcoli, dell’incertezza delle cronologie, delle vicende del calendario dopo la riforma giuliana e delle reali oscillazioni di data degli equinozi, l’equinozio di primavera capitava effettivamente, ai tempi di Cesare, il 25 di marzo e la riforma lo riportò al 21, come era ai tempi di Teodorico. Quindi i libri (e gli insegnanti) riportano un errore di conteggio a cui nessuno bada, salvo il “Pierino” della situazione.

Ora, però, se ai tempi di Cristo l’equinozio di primavera cadeva il 25 marzo, il solstizio d’inverno doveva verificarsi il 25 dicembre e di ciò in effetti resta il segno nel calendario alla data di Natale. Sembra che il Natale sia stato fissato al 25 di dicembre verso la metà del IV secolo. Non essendo nota la data esatta della nascita di Cristo, pare che abbia influito nella sua scelta una festa pagana la quale salutava nel 25 dicembre la risalita del Sole sull’orizzonte (“solis invicti”) dopo la sua massima discesa al solstizio invernale.

Vediamo ora di chiarire la faccenda del 21 marzo legata al nome di Teodorico o, per meglio dire, al papa del suo tempo. Della determinazione della data della Pasqua si occupò, in un primo momento, il concilio di Nicea (325 d.C.). In quell’occasione fu stabilito che essa fosse celebrata dopo l’equinozio di primavera che, in quel tempo, cadeva esattamente il 22 marzo. Due secoli più tardi, papa Giovanni I (525 d.C.) fissò il ciclo pasquale in uso tuttora. A quel tempo l’equinozio di primavera capitava proprio il 21 marzo. La riforma gregoriana badò quindi soprattutto a necessità di carattere liturgico e in particolare alla Pasqua, che fu fissata alla domenica successiva al primo plenilunio seguente l’equinozio di primavera. Ecco il motivo per il quale l’equinozio di primavera venne riportato al 21 e non al 25 marzo.

Devono continuare i giovani ad avere fiducia in quello che si legge sui libri di testo e in quello che talvolta si insegna? Qual è la morale che possiamo trarre da questo episodio?

Innanzitutto che nel nostro Paese (e forse non solo nel nostro, se questo può servire a consolarci) le scienze naturali si insegnano poco e male. La riprova si ha quando si sente confessare candidamente e perfino con una punta di compiacimento, anche da persone di un certo livello culturale, di non conoscere nemmeno le più elementari nozioni scientifiche.

Naturalmente l’auspicio è che con la nuova riforma della scuola si ponga mano anche al potenziamento dell’insegnamento delle scienze naturali: il che non sarà facile perché contro questo progetto si sono schierati già alcuni intellettuali (con questo termine non si intendono quasi mai studiosi di materie scientifiche) i quali ritengono che la scuola, pur avendo bisogno di riforme, debba comunque custodire un insieme di valori che poco hanno a che vedere con la scienza e l’innovazione tecnologica. In questo modo costoro scavano un solco ancora più profondo fra cultura “autentica” (cioè umanistica) e sapere scientifico.

La verità è un’altra. Con l’introduzione di un insegnamento scientifico più ricco di contenuti e meglio articolato nella presentazione degli argomenti di studio e nella loro comprensione c’è il rischio che si creino cittadini dotati di crescente spirito critico, che rappresentano, come si sa, la categoria di persone più difficile da governare. Detto in chiare lettere: si preferisce che il sistema educativo partorisca masse anonime e facilmente malleabili anziché cittadini responsabili e capaci.

Prof. Antonio Vecchia

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