I paradossi

Paradosso è parola che deriva dal greco: parà che significa “contro” e doxa, “opinione”. Il termine esprime pertanto un’affermazione o un concetto che va contro il modo di pensare comune e quindi sorprende perché strano, inaspettato. L’espressione appare stupefacente o incredibile, oppure determina situazioni di incertezza o di ambiguità. Oggi il termine ha assunto una pluralità di significati tutti lievemente diversi, ma al centro di ogni accezione si trova sempre l’idea di “contraddizione”.

Vi sono paradossi di ogni tipo e forma. Alcuni sono normali incoerenze logiche in cui c’è poco da indagare, mentre altri si possono risolvere con un’attenta analisi delle ipotesi su cui gli stessi si basano. Questi ultimi, pertanto, a rigor di logica, non dovrebbero nemmeno essere chiamati paradossi in quanto, una volta risolti non sarebbero più tali, ma semplici rompicapi.

Facciamo subito l’esempio di un paradosso privo di soluzione. Esso è il seguente.

Un paesino della Carnia ha fra i suoi abitanti un solo barbiere, un uomo ben sbarbato che rade tutti gli uomini che non si radono da soli. La domanda ora è la seguente: “Chi rade il barbiere?” A prima vista sembra plausibile supporre che il barbiere si faccia la barba da solo, ma se si comportasse in questo modo verrebbe violata la premessa secondo cui il barbiere rade tutti gli uomini che non si radono da soli.

Il paradosso, ridotto ai suoi termini essenziali prevede la presenza di due insiemi di uomini del paese: coloro che si radono da soli e coloro che non si radono da soli, ma ricorrono al barbiere. Il problema è quindi il seguente: a quale gruppo appartiene quest’ultimo? In realtà il barbiere non appartiene ad alcuno degli insiemi in quanto, come si è visto, la sua presenza produce la conclusione contraddittoria secondo cui egli rade sé stesso se e solo se non si rade. La verità è che quel barbiere non può esistere!

Facciamo ora l’esempio di un paradosso che in realtà è un semplice indovinello.

Tre ragazzi in viaggio una notte si fermano in un albergo in cui l’impiegato all’accettazione chiede trenta euro per una camera con tre letti. I ragazzi giudicano equo il prezzo e decidono di dividere la spesa pagando dieci euro a testa. Quando gli ospiti sono già nella stanza l’impiegato si ricorda che il padrone aveva deciso di abbassare il prezzo portandolo a 25 euro. Per non trovarsi nei guai con il suo datore di lavoro, l’impiegato prende dalla cassa cinque euro e corre verso la camera in cui si sono sistemati i ragazzi per rimediare all’errore.

Mentre sale le scale l’impiegato si rende conto che cinque non è divisibile per tre e quindi decide di dare un euro a ciascuno e tenersi gli altri due per sé. A questo punto però sorge il problema: ognuno dei tre ragazzi ora avrà pagato 9 euro che in tutto fa 27 e l’impiegato si è tenuto 2 euro: il totale fa dunque 29. Dove è finito l’ultimo euro dei 30 iniziali?

La storia sembra paradossale a causa del modo fuorviante in cui viene raccontata. L’errore nel ragionamento sta nel sommare i 27 euro pagati dai ragazzi con i 2 presi dall’impiegato, ma non c’è ragione di farlo in quanto non c’è più un totale di 30 euro di cui rendere conto. I 2 euro messi in tasca dall’impiegato devono essere sottratti dai 27 pagati dai ragazzi, il che lascia 25 euro, che è la somma messa in cassa.

I PARADOSSI SCIENTIFICI

I paradossi scientifici sono indubbiamente i più interessanti: si tratta di rompicapi o di enigmi che si possono quasi tutti risolvere con un po’ di conoscenze fondamentali delle leggi fisiche. Molti di essi si trovano nel sito all’interno di alcuni saggi di cui è autore il sottoscritto.

I paradossi scientifici hanno nomi famosi. Fra questi vi è ad esempio il gatto di Schrödinger in cui uno sfortunato felino viene rinchiuso in una scatola con un veleno che agirà quando un atomo radioattivo decadrà mettendo in moto un martello che romperà la fiala che racchiude il veleno. Fino a quel momento il gattino sarà contemporaneamente vivo e morto perché non è possibile sapere in anticipo quando un singolo atomo radioattivo si trasformerà. É possibile determinare con grande precisione il tempo necessario affinché la metà di un campione di atomi di un certo elemento decada radioattivamente, noto come “tempo di dimezzamento”, ma non quando lo farà un singolo atomo. La stessa cosa vale per gli uomini di cui si conosce la vita media di una popolazione, ma non quando morirà il singolo individuo. Per questo motivo conosceremo il destino del gattino solo quando verrà sollevato il coperchio della scatola.

Meno noto è il diavoletto di Maxwell, un demone microscopico che si pone all’interno di un’altra scatola chiusa piena, in questo caso, di un gas a temperatura uniforme e costante. Il recipiente è diviso in due parti da una parete che il diavoletto apre e chiude in modo da fare entrare tutte le molecole veloci da una parte e tutte le lente dall’altra. Dopo questa operazione il gas contenuto dalle due parti del recipiente avrà temperatura diversa: maggiore quella in cui vi sono tutte le molecole più veloci e minore dove vi sono le molecole lente. Il che è come dire che una differenza di temperatura è stata creata senza spese di energia. Quindi, Maxwell postulò che fosse possibile trasferire calore dal contenitore più freddo a quello più caldo, in palese violazione del secondo principio della termodinamica.

Un’analisi approfondita del problema mostra però che se il diavoletto di Maxwell obbedisse alle leggi della fisica e non fosse quindi dotato di poteri soprannaturali, il suo selezionare di molecole di velocità diversa comporterebbe necessariamente una spesa energetica. In altre parole il diavoletto dovrà usare qualche mezzo concreto per interagire con le molecole e qualunque sia questo mezzo dovrà cedere energia al sistema gassoso.

Prima che Maxwell proponesse il suo, il matematico francese Pierre Simon de Laplace (1749-1827) inventò un proprio diavoletto con poteri molto superiori a quello del fisico inglese. Il diavoletto di Laplace conosce le posizioni e il moto non solo delle particelle gassose racchiuse in una scatola, ma di ogni singola particella dell’Universo e conosce anche perfettamente le leggi della fisica che ne governano le interazioni. Il che significa che il diavoletto onnisciente di Laplace potrebbe calcolare l’evoluzione dell’Universo nel tempo e riuscire a prevedere lo stato futuro di tutto ciò che esiste. Se così fosse esso sarebbe in grado di cambiare deliberatamente il corso delle cose. In realtà l’Universo non è deterministico come si pensava a quel tempo e pertanto non è possibile determinare con certezza posizione e movimento delle particelle più piccole della materia. Per descrivere il moto di una particella subatomica, ad esempio di un elettrone, è necessario ricorrere alla meccanica quantistica, una teoria probabilistica adatta a descrivere le regole della natura su scala microscopica.

Molto famoso è anche il paradosso di Olbers che ha preso il nome dal medico e astronomo dilettante tedesco Heinrich Wilhelm Matthäus Olbers (1758-1840), ma diversi altri astronomi, compresi i celebri Johannes Kepler (1571-1630) e Edmond Halley (1656-1742) avevano riflettuto sul problema prima che Olbers pubblicasse la sua analisi nel 1826, nella quale egli si chiedeva per quale motivo il cielo notturno fosse buio.

A quel tempo non si conoscevano le galassie e si pensava che l’Universo fosse sempre esistito e pieno di un numero infinito di stelle. Anche se l’Universo non fosse infinito (e potrebbe invece esserlo) è così grande che dal punto di vista pratico possiamo assumere che si estenda all’infinito. Inoltre, invece che di stelle esso è popolato da centinaia di miliardi di galassie che al telescopio apparivano come piccole macchie di luce, chiamate a quel tempo “nebulae” cioè nuvole di polvere. Ora, in qualsiasi direzione si guardi si dovrebbe vedere un piccolo oggetto luminoso, non dovrebbero esserci spazi vuoti, e il cielo dovrebbe essere più luminoso la notte di quanto il Sole lo renda di giorno. É vero che le sorgenti luminose lontane (ossia le galassie) sono più fioche di quelle vicine, ma sono anche in numero maggiore e una semplice legge geometrica stabilisce che la luce complessiva delle poche galassie vicine equivale a quella delle molte galassie lontane.

In verità il cielo notturno è buio perché l’Universo non esiste da sempre e il numero delle galassie che contiene non è infinito. L’Universo al contrario è piuttosto giovane (essendo nato “solo” 14 o 15 miliardi di anni fa), il numero delle galassie che contiene è limitato e le stelle complessive presenti nell’insieme di tutte le galassie esistenti sono in numero minore delle molecole contenute in un sorso di acqua.

Il cielo di notte è buio perchè l’Universo si sta espandendo e ciò è conseguenza del fatto che un giorno lontano (ma non troppo) c’è stato il big bang. Le galassie lontane si allontanano in misura tale che la loro luce è spostata verso il rosso (il famoso red shift) e se sono molto lontane la loro luce finisce nell’infrarosso e quindi in una zona non visibile dall’occhio umano.

LE TEORIE RELATIVISTICHE

Le idee di Einstein sullo spazio e il tempo forniscono anch’esse un fertile terreno per giochetti mentali. Descriviamone alcuni iniziando con il paradosso del saltatore con l’asta.

L’atleta corre molto velocemente tenendo l’asta, che servirà per spiccare il salto, parallela al terreno. Se ha corso ad una velocità vicina a quella della luce, nel momento in cui dovrà superare l’ostacolo l’asta si sarà accorciata fino a raggiungere le dimensioni di un bastone da passeggio e sarà divenuta inservibile per effettuare il salto. La teoria della relatività prevede infatti che viaggiando a velocità prossime a quelle della luce gli oggetti si accorciano e più velocemente procede l’oggetto più esso si accorcia.

In una esposizione divulgativa della teoria della relatività il fenomeno è descritto con i seguenti versetti:

C’era una volta un bravo schermidore

che veloce giostrava con furore;

la sua rapidità fu così eccelsa

che contrasse la spada fino all’elsa.

Un altro paradosso interessante legato sempre alle teorie relativistiche è il paradosso dei gemelli. Esso racconta di due gemelli uno dei quali compie un viaggio nell’Universo a bordo di un’astronave che procede ad una velocità prossima a quella della luce. Immaginiamo che si diriga verso Sirio, la stella più luminosa del firmamento, che dista circa 8 anni luce da noi. Viaggiando a 9/10 della velocità della luce l’astronave impiega quindi venti anni per il viaggio completo di andata e ritorno.

Quanto tempo è passato per l’astronauta? Vent’anni? No, solo poco più di otto anni e mezzo. Per il gemello che lo ha aspettato a terra sono passati invece proprio vent’anni e i due gemelli quando si rincontreranno non saranno più tali. Ma dove sta il paradosso? Non certo nel tempo che scorre diversamente fra chi procede a grande velocità e chi sta fermo: questo fenomeno è previsto dalla teoria relativistica di Einstein.

Il paradosso sta nel fatto che non è detto che il fratello più vecchio sia quello che è rimasto a terra. La teoria prevede infatti che, come dice il nome, tutto è relativo e quindi è possibile che sia invecchiato proprio quello che ha viaggiato. Si può immaginare infatti che l’astronave sia ferma e quella che si allontana a velocità elevatissima sia la Terra con tutto ciò che le sta sopra. In tal caso sarebbe il gemello che ha viaggiato fino a Sirio ad invecchiare mentre sarebbe rimasto più giovane il fratello rimasto a Terra.

Ed ecco il paradosso del viaggio nel tempo. La teoria della relatività speciale prevede che qualora si superasse la velocità della luce il tempo tornerebbe indietro. La teoria stabilisce infatti che più velocemente si viaggia più rallenta il tempo fino al punto che, raggiunta la velocità della luce, il tempo si fermerebbe del tutto. Ora è evidente che se si riuscisse a superare la velocità della luce, il tempo dovrebbe tornare indietro. Questa implicazione è descritta in modo divertente da alcuni versetti riportati su di un libricino che spiegava in termini semplici la teoria relativistica di Einstein:

C’era una volta una ragazza e Chiara si chiamava

Più presto della luce camminava;

Uscì un dì estivo,

In modo relativo,

E tornò la vigilia del suo arrivo.

Qualora si riuscisse a viaggiare nel passato potrebbero verificarsi fatti incredibili e incresciosi. Una persona adulta potrebbe ad esempio conoscere quella che poi sarebbe diventata sua madre ed ucciderla. In tal caso la donna non si sarebbe sposata e l’assassino non sarebbe nato.

Chiudiamo questo capitolo descrivendo il cosiddetto paradosso di Fermi che il fisico italiano espose nel 1950 di ritorno a Los Alamos, il luogo di nascita della bomba atomica e del progetto Manhattan. A pranzo con alcuni colleghi, fra cui vi era quel Edward Teller (1908-2003) fisico americano di origine ungherese, che insistette a lungo per convincere Fermi a partecipare alla realizzazione delle bomba H (uno strumento bellico venti volte più potente della bomba atomica).

L’argomento della conversazione era la recente ondata di avvistamenti di dischi volanti, in particolare ci si chiedeva se fosse possibile che superassero la velocità della luce per raggiungere la Terra da sistemi stellari molto lontani.

Il paradosso di Fermi può esser descritto in questi termini: data la sua considerevole età e la sua immensa vastità l’Universo, con centinaia di miliardi di stelle, solo nella nostra galassia, molte delle quali hanno i loro sistemi planetari che a quel tempo non erano ancora stati individuati, ma che oggi si conoscono a centinaia, dovrebbe brulicare di vita e di civiltà intelligenti molte delle quali dovrebbero essere in possesso di una tecnologia necessaria per viaggiare nello spazio e arrivare fino a noi. Quindi Fermi si chiedeva: dove sono tutti quanti? Se la domanda venisse fatta oggi si presenterebbero a migliaia gli ufologi pronti a giurare di averli incontrati e di avere anche fatto un giretto in astronave con loro.

GLI ESPERIMENTI PIÙ RECENTI

Prima di chiudere l’argomento è opportuno fare un cenno su due enigmi relativi alla fisica delle particelle che solo di recente hanno trovato soluzione. Entrambi sono legati ad esperimenti condotti presso gli acceleratori del CERN, il Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire (Consiglio Europeo per la Ricerca Nucleare) di Ginevra (Svizzera).

Il primo si riferiva alla possibilità che alcune particelle subatomiche possano viaggiare a velocità superiori a quella della luce; il secondo all’effettiva esistenza dell’inafferrabile bosone di Higgs, la particella che dà sostanza alla materia.

Il 23 settembre del 2011 vi fu l’annuncio, da parte dei responsabili dell’esperimento OPERA (acronimo di Oscillation Project with Emulsion–tRacking Apparatus), che i neutrini lanciati dall’acceleratore di particelle del CERN in direzione del rivelatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) del Gran Sasso in Abruzzo, avrebbero percorso i circa 732 kilometri che separano le due strutture di fisica sperimentale ad una velocità inferiore di 60 miliardesimi di secondo rispetto a quella in cui la luce avrebbe coperto la stessa distanza. Non è molto come differenza di velocità ma abbastanza per essere un risultato incredibile, un vero paradosso. La teoria della relatività speciale di Einstein prevede infatti che nulla possa superare la velocità della luce. Ma cosa succederebbe se Einstein avesse effettivamente torto?

Ed ecco la sorpresa. A soli sei mesi dal clamoroso annuncio che i neutrini avevano viaggiato a velocità superiore a quella della luce i fisici Antonio Ereditato e Dario Autiero, a capo del gruppo di sperimentatori del progetto OPERA, annunciavano di aver scoperto due possibili cause di errore sistematico sulle misure del tempo di volo dei neutrini e in conseguenza di ciò, sfiduciati dai loro stessi colleghi, i due fisici si sono dimessi. I responsabili di un nuovo esperimento, chiamato ICARUS, proposto dal fisico goriziano Carlo Rubbia, dichiararono che i neutrini, se avessero viaggiato realmente a velocità superiore a quella della luce, avrebbero dovuto emettere continuamente una radiazione durante il percorso, che invece non è stata rilevata. I ricercatori del progetto ICARUS invece che misurare la velocità misurarono l’energia dei neutrini. Come l’aereo che supera il muro del suono emette un caratteristico fragore simile a quello dell’esplosione, il cosiddetto “bang sonico”, i neutrini avrebbero dovuto emettere continuamente radiazioni durante il tragitto perdendo energia, cosa che invece non si è verificata.

Il 4 luglio del 2012 alla dottoressa Fabiola Giannotti spettò l’onore di dare l’annuncio della individuazione del bosone di Higgs, una osservazione fatta anche grazie al ruolo di primo piano dei fisici italiani del CERN. Il fisico inglese Peter Higgs, presente alla conferenza di Ginevra, è colui che nel 1964 teorizzò l’esistenza della particella che dopo anni di tentativi andati a vuoto gli scienziati hanno finalmente osservato nel corso di due esperimenti indipendenti: l’ATLAS (A Toroidal LHC Apparatus) e il CMS (Compact Muon Solenoid) condotti all’interno dell’enorme acceleratore di particelle, il collisore LHC (Large Hadron Collider), un anello sotterraneo di 27 kilometri. All’interno di questo enorme circuito sono stati accelerati da magneti giganteschi i protoni che, ad ogni giro, subiscono un’ulteriore accelerazione fino ad avvicinarsi alla velocità della luce. Vengono poi creati due fasci diretti in direzione opposta che, una volta raggiunta la massima velocità, vengono fatti scontrare frontalmente producendo fra le tante particelle il bosone di Higgs. L’apparecchiatura è costata circa 7 miliardi di euro, un investimento giudicato eccessivo ma la comunità scientifica giudica che la cifra spesa possa ricompensare una scoperta epocale in un campo della conoscenza già proiettato verso il futuro. A ciò si aggiunga il fatto che LHC è un acceleratore giovanissimo che ancora non ha raggiunto il massimo della potenza. Pertanto in futuro potrà riservarci qualche nuova sorpresa.

Ma la particella osservata è proprio il bosone di Higgs? Durante la conferenza di Ginevra gli scienziati hanno annunciato che quella che il premio Nobel per la fisica Leon Lederman chiamò “la particella di Dio” è stata osservata nel corso di due esperimenti distinti e quando ciò si verifica rimangono pochi dubbi sulla solidità della scoperta.

Prof. Antonio Vecchia

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