Onde e particelle

DUE TEORIE A CONFRONTO

Per circa un secolo, due teorie relative alla natura della luce, quella corpuscolare e quel­la ondulatoria, furono in conflitto fra loro anche se la prima, formulata intorno al 1670 da Newton, era di gran lunga la più popolare. L’idea del fisico inglese ebbe maggior credito sull’altra innanzitutto perché era stata pro­posta da un grande scienziato e in secondo luo­go perché spiegava in modo chiaro e coe­rente la maggior parte dei fenomeni ottici noti a quel tempo. Spiegava ad esempio il fatto che un raggio di luce viaggia in linea ret­ta e get­ta ombre nettamente definite. La luce inol­tre veniva riflessa da uno specchio perché su di esso rimbalzavano le particelle di cui era costituita e un raggio luminoso cam­biava direzio­ne, ossia veniva rifratto, quan­do entrava nell’acqua o nel vetro per il fatto che le particelle viaggiavano più velocemente in un tale mezzo che nell’aria. Nello stesso tempo però la teoria lasciava alcune perplessità in quanto non si comprendeva ad esempio come potes­sero due raggi di luce incrociarsi senza in­fluenzarsi reci­procamente, cioè senza che i cor­puscoli di cui erano costituiti si scontrasse­ro.

Proprio in conse­guenza di questa e di altre incongruenze nel 1678 il fisico olandese Chri­stian Huyghens (1629-1695) avanzò una teoria alternativa a quella di Newton secondo la quale la luce consisteva di piccole onde. Questa teoria spiegava il motivo per cui i raggi luminosi avanzavano in linea retta, proprio come accadeva con un fascio di particelle, ma anche che due raggi, entrambi for­mati di onde, potevano incrociarsi senza risentirne. Tuttavia neppure la teoria ondulatoria era del tutto soddisfacente. Non spiegava ad esem­pio per quale motivo le onde luminose non potevano aggirare gli ostacoli, come invece fa­cevano le onde dell’acqua o quelle sonore. Inoltre, la teoria ondula­toria richiedeva la pre­senza di un mezzo entro il quale fare ondeggia­re le onde. Le onde marine, ad esempio, hanno bisogno dell’acqua per propagarsi; il suono stesso, che, come era ben noto già a quel tempo, procede per onde, ha bi­sogno dell’aria per propagarsi: senza aria il suono non si sposterebbe dalla bocca di chi parla all’orecchio di chi ascolta. Era quindi necessario in­dividuare un mezzo che fino ad allora nessuno ave­va mai visto.

All’inizio del XIX secolo, il medico e fisico inglese Thomas Young (1773-1829) condusse un esperi­mento che mostrava che la luce non poteva essere un fenomeno particellare. Egli fece cadere la luce su una superficie che presentava due fori sistemati molto vicini fra loro. Ogni foro fungeva da fonte di un cono di luce che in parte si sovrapponeva all’altro prima di cadere su di uno schermo sul quale si poteva osservare un susseguirsi di zone chiare e zone scure. Se la luce fosse costituita di particelle sullo schermo si sarebbe dovuta vede­re una zona più chiara là dove si sovrapponevano i due raggi e zone meno chiare nelle re­gioni adiacenti che riceve­vano la luce proveniente da un unico foro. Il fenomeno osservato veni­va invece chia­ramente spiegato dalla teoria ondulatoria: le bande luminose rappresen­tavano il rafforza­mento delle onde mentre le zone oscure rappresentavano il luogo in cui le onde giunge­vano sfasate, ovvero con il ventre dell’una che si sovrapponeva alla cresta dell’altra e quindi le due si annullavano a vicenda. Con quello stesso esperimento era an­che possibile mi­surare la lun­ghezza delle onde luminose che risultava essere piccolissima, dell’ordine del millesimo di millimetro, quindi ancora più pic­cola delle dimensioni di un bat­terio.

La sco­perta della pic­colezza delle onde luminose era molto importante anche perché permetteva di spiegare alcuni fe­nomeni che la teoria corpuscola­re non era in grado di chiarire. Per esempio faceva capire la ragione per cui la luce si propaga in linea retta e proietta ombre nette. Il fenomeno dipende proprio dal fatto che le onde lu­minose sono in­comparabilmente più piccole degli oggetti che vengono illuminati. Esse posso­no girare intorno ad un oggetto solo se que­sto è piccolissimo, os­sia se le sue dimensioni non sono molto superiori alla lunghezza dell’onda luminosa che lo investe. Le onde sonore sono lunghissime se confrontate con quelle luminose ed è per tale motivo che possono ag­girare molti ostacoli comuni. Tutto ciò che ci circonda ha dimensioni molto maggiori del­l’onda luminosa e que­sto è il motivo per il quale la luce non ha la possibilità di aggirare gli ostacoli e getta ombre nette.

 

L’ETERE LUMINIFERO

Nel 1815 il fisico francese Augustin Jean Fresnel (1788-1827) in una memoria presenta­ta all’Academie des Sciences chiariva definitivamente che la luce è composta da onde e non da corpu­scoli. Egli, con un esperimento storico dimostrò che se si illumina un oggetto sufficientemente pic­colo l’onda luminosa si propaga effettivamente intorno ad esso e la luce produce ciò che si chiama una figura di “diffrazione”. Si tratta di un fenomeno per cui le onde elettromagneti­che, quali ormai era chiaro fossero quelle luminose, incontrando un ostacolo, si propagano in modo non conforme alle leggi dell’ottica geo­metrica. Il modello ondulatorio della luce era stato confermato fino nei particolari dalla teoria elettromagnetica di Maxwell che è un pilastro della fisica moderna poiché unifica l’elettricità, il magnetismo e i fenomeni luminosi. Il fenomeno osservato non si spiegava con la teoria corpuscolare e invece era chiaramente interpretato dalla teoria ondulatoria. Rimaneva da risolvere il pro­blema relati­vo al mezzo adibito al trasporto dell’onda luminosa.

I fisici dell’Ottocento pensavano fosse ormai giunto il tempo di inventare un esperimento per sco­prire il mezzo entro il quale potessero ondeggiare le onde luminose. Frattanto a que­sto ipotetico mezzo ven­ne asse­gnato un nome: fu chiamato etere luminifero (da un’e­spressione latina che signifi­ca “por­tatore di luce”). L’idea può essere ri­condotta storica­mente alla quintes­senza che, se­condo Aristotele, era la materia di cui era­no fatti i corpi ce­lesti; gli al­tri quat­tro elementi (fuoco, aria, acqua e terra) formavano le cose terrene. E come in pre­cedenza Newton, per spiega­re in che maniera la forza di gravi­tà potesse agire a distanza aveva pen­sato all’ete­re, lo stesso poteva valere per la luce quindi oltre che di forza questo miste­rioso mezzo, che do­veva permeare di sé tutto l’Uni­verso, poteva essere anche tra­sportatore di luce.

L’ipotesi incontrò subito una grave difficoltà. Le onde luminose sono onde trasversali, cioè si muovono in senso perpendicolare rispetto alla direzione di propagazione: un po’ come fanno le onde del mare in cui si osservano cresta e ventre andare in su e giù mentre l’onda procede dal largo verso riva. Le onde dell’acqua viaggiano in superficie, ma qualora un’onda traversale dovesse muoversi in profondità il mezzo che la trasporta dovrebbe es­sere solido. L’etere luminifero pertanto avrebbe dovuto essere solido, ma non solo, esso doveva essere anche estremamente rigido. Anzi, per trasmettere le onde luminose alla sor­prendete velocità a cui viaggiano, questa sostanza avrebbe dovuto essere più dura dell’ac­ciaio e riempire oltre all’intero Universo anche qualsiasi mezzo entro il quale si trasmette la luce, ad esempio il vetro e l’acqua. Nonostante queste caratteristiche molto improbabili gli scienziati del tempo erano tuttavia convinti che l’etere luminifero dovesse comunque esi­stere.

Nel 1887 in un’Università nell’Ohio, il fisico prussiano-americano, di famiglia ebraica, Al­bert Abraham Michelson (1852-1931) e il suo assistente il fisico americano Edward Mor­ley (1838-1923), condussero uno dei più interessanti esperimenti della storia della scienza. Grazie ad un dispositivo, ideato dallo stesso Michelson alcuni anni prima, chiamato “inter­ferometro”, i due sperimentatori sarebbero stati in grado di misurare la piccolissima diffe­renza di lunghez­za d’onda di due raggi di luce diretti in direzioni diverse e a velocità diver­se. Prima di descrive­re l’esperi­mento nei det­tagli è opportuno far notare che la velocità a cui procede un’onda non dipen­de dalla veloci­tà a cui si muove il mezzo che l’origina. Ad esempio il rumore di una auto­mobile in avvici­namento arriva alle nostre orecchie prima del­l’automobile perché le onde sonore che viag­giano attraverso l’aria si muovono più veloce­mente dell’automobile più veloce. Ciò che vale per il suo­no vale anche per la luce?

I due fisici americani partirono dall’osservazione che la Terra si muove attraverso l’etere immobile nella sua orbita intorno al Sole, alla velocità di circa 100.000 kilometri all’ora. Do­vrebbe quindi esistere una sorta di vento dovuto all’etere cosmico che soffia sulla superfi­cie terrestre come avviene sul passeggero che mette la testa fuori del fi­nestrino del treno in corsa. Nel loro esperimento grazie all’utilizzo dell’interferometro sa­rebbero riusciti a mi­surare con grande precisione il tempo necessario a due raggi di luce diretti a 90 gradi l’uno dall’altro per percorrere due distanze di uguale lunghezza. L’interfe­rometro è uno strumen­to con il quale grazie ad una lastra semitrasparente è possibile sud­dividere un raggio di luce in due parti e inviare ciascuna lungo diversi cammini per poi ri­congiungerle alla fine e stabilire se si siano verificate variazioni di fase legate allo spazio percorso o alla velocità. I due scienziati diressero i due fasci di luce l’uno nella direzione del moto della Terra e l’altro in quella perpendicolare ad essa. Entrambi i raggi alla fine della loro corsa venivano poi ri­flessi da specchi all’oculare sistemato presso la sorgente. Se uno dei due raggi avesse viaggiato ad una velocità leggermente superiore all’altro sarebbe arriva­no sfasato rispetto al primo e avrebbe formato frange d’interferenza. L’interferometro è uno strumento tal­mente preciso e sensibile che riuscirebbe a misurare il piegamento di un binario ferroviario quando su di esso si posa un passero.

Se l’etere effettivamente esistesse – ragionavano i due sperimentatori – allora la Terra dovrebbe muoversi in esso e quindi la luce che viaggia in due direzioni fra loro perpendico­lari dovrebbe impiegare tempi diversi per coprire la stessa distanza. Sebbene la velocità della luce sia di un miliardo di kilometri all’ora, avvero 10.000 volte più veloce della Terra sulla sua orbita, il loro strumento di misura era così preciso da riuscire a rilevare differenze anche minuscole nel tempo di percorrenza di due diversi raggi di luce giacché esso era in grado di misurare l’interfe­renza tra le due onde quando erano combinate alla fine della corsa. Non si trovò invece al­cuna differenza fra i due raggi di luce.

Gli scienziati non riuscivano a giustificare questo risultato e pensavano che i due fisici avesse­ro compiuto qualche errore. Come era mai possibile che i due raggi di luce si muo­vessero alla stessa velocità se uno di essi era diretto nella direzione dell’etere e l’altro in dire­zione ortogona­le a questo? Per chiarire il concetto di solito si fa l’esempio del viaggiatore che cammina lungo il cor­ridoio del treno nella stessa direzione in cui viaggia il treno stes­so. Se quella persona viene osservata da un passeggero che è seduto al suo posto nello scompartimento la vedrà muoversi ad una velocità con la quale passerebbe se il treno fos­se fermo in quanto en­trambi i soggetti si muovono col treno. Se però in quello stesso mo­mento il treno transitasse in cor­rispondenza di una stazione e qualcuno, fermo sulla ban­china, osservasse la stessa scena, vedrebbe il passeggero che cammina lungo il corridoio muoversi ad una velocità che è la somma della velocità del treno più quella a cui egli cam­mina. Come abbiamo visto, l’esperimento dei due fisici americani non mostrò invece alcuna differenza fra i due raggi diretti in direzioni diverse, cioè essi osservaro­no che la velocità del­la Terra non ha alcuna influenza su quella della luce. Il ri­sultato dell’esperimento equi­vale a dire che sia l’osservatore sul treno sia quello a terra ve­dono il passeggero muoversi alla stessa velocità. Assurdo, o no?

Pur essendo, quello di Michelson e di Morley, un esperimento teoricamente fallito, esso avrà invece un peso determinante sulla teoria della relatività di Einstein il quale ipo­tizzerà che la velocità della luce nel vuoto è costante indipendentemente dal sistema di ri­ferimento. A Michelson, nel 1907, verrà assegnato, primo scienziato americano, il premio Nobel per la creazione degli strumenti ottici di precisione e per le indagini spettroscopiche e metrologi­che effettuate con l’utilizzo dei medesimi.

 

I RIMEDI E LE NUOVE TEORIE

Il fisico irlandese George Francis Fitzgerald (1851-1901), nel tentativo di spiegare il falli­mento dell’esperimento di Michelson e Morley, ipotizzò la contrazione delle lunghezze degli oggetti nella direzione del moto della Terra di una quantità tale da compensare esattamen­te la differenza delle distanze che il raggio di luce doveva percorrere. Fitzgerald elaborò an­che un’equazione che consentiva di calcolare l’accorciamento delle lunghezze in funzione della veloci­tà: se un oggetto procedeva alla metà della velocità della luce, si contraeva del 15%, alla ve­locità del 90% della velocità della luce la contrazione era di oltre il 50% e alla velocità della luce la lunghezza di un oggetto nella direzione del moto sarebbe uguale a zero. Ora, poiché non esiste alcun oggetto che abbia lunghezza negativa ne consegue che la velocità della luce è la massima velocità possibile.

Lo stesso argomento fu ripreso dal fisico olandese Hendrik Antoon Lorenz (1853-1928) il quale riteneva che se la carica di una particella venisse compressa in un volume inferiore a quello sul quale si trova la sua massa sarebbe aumentata. Pertanto, qualora una particel­la carica venisse lanciata a grande velocità tale da accorciarsi nella direzione del moto, do­vrebbe aumentare la sua massa. Il fisico olandese espresse il fenomeno attraverso un’e­quazione simile a quella di Fitzgerald la quale mostrava che a velocità crescenti la massa di un elettrone dovrebbe aumentare in propor­zione fino al punto che alla velocità della luce la massa dovrebbe diventare infinita. Ora poiché ancora una volta una massa non può di­ventare più che infinita, nessuna velocità avrebbe potuto superare quella della luce.

Un’ulteriore scossa alla struttura della fisica del tempo scaturì dall’osservazione che quanto più ve­niva riscaldato un corpo tanto maggiore era la radiazione che emetteva. Non solo, an­che il colore del corpo cambiava con l’aumento della temperatura. Riscaldando ad esempio un termosifone questo all’inizio emette radiazioni nell’infrarosso invisibile (ossia calore) però, continuando a fornire energia sotto forma di calore il termosifone emanerà luce di colore rosso, poi arancione, quindi giallo e infine il suo colore sarà bianco-azzurro a meno che non si sia fuso prima.

Per spiegare il fenomeno serviva una teoria straordinaria e originale. A proporla ci pen­sò il fisico tedesco Max Karl Ernst Ludwig Planck (1858-1947) il quale avanzò l’idea che la ra­diazione consistesse di piccole unità, ovvero di pacchetti di energia. Al pari della materia che è fatta di atomi anche l’energia, che appare continua come la materia, in realtà è fatta di particelle. Planck chiamòla particella di energia quantum (in italiano quanto) e spiegò che il suo valore era piccolissimo e la radiazione poteva essere assorbita solo per numeri interi di quanti come la materia è fatta di numeri interi di atomi. Al principio del ventesimo secolo capitò alla radiazione la medesima sorte che era toccata alla materia un secolo prima: sia l’una che l’altra dovettero essere ritenute discontinue.

La teoria di Planck fu annunciata nel 1900 e cinque anni più tardi Albert Einstein verifi­cò l’esistenza dei quanti, spiegando l’effetto fotoelettrico che era stato osservato alcuni anni prima dal fisico tedesco Philipp Lenard (1862-1947). Il fenomeno consisteva nella emissio­ne di elettroni da parte di alcuni metalli quando venivano colpiti dalla luce. Si era anche notato che l’aumento di intensità della luce non produceva alcun effetto sull’energia degli elettroni espulsi mentre una variazione della lunghezza d’onda della luce incidente provo­cava l’emissione di elettro­ni più o meno veloci. Che la luce fosse costituita da radiazioni di diversi colori fu un fenomeno osservato per la prima volta da Newton il quale fece cadere un raggio di luce solare su una delle facce di un prisma triangolare di vetro, notando che veniva rifratto una prima volta passando dall’aria al vetro e poi una seconda volta quando emergeva dal prisma. Il raggio di luce bianca non era più di questo colore quando usciva dal prisma di vetro ma formava una banda di colori che andavano dal rosso al viola passando per l’a­rancione, il giallo, il verde e il blu. I colori si differenziavano a seconda della lunghezza del­l’onda: il viola presentava lunghezza d’onda minore quindi intensità maggiore e il rosso lunghezza d’onda maggiore e intensità minore.

La luce violetta ad esempio espelleva dai metalli un maggior numero di elettroni rispetto alla luce di altri colori. Non solo, la luce di quel colore provocava l’emissione di elettroni più veloci di quelli emessi ad esempio da luce arancione o gialla. Inoltre, la luce rossa, per quanto intensa, non riusciva affatto a strappare elettroni da alcuni metalli. Einstein trovò una giustificazio­ne a questo comportamento della luce nella teoria dei quanti di Planck. Un elettrone, per assorbire energia sufficiente per abbandonare la superficie di un metallo do­veva essere colpito da un quanto di una certa grandezza minima. Nel caso di un elettrone debolmente legato al proprio atomo per strapparlo poteva bastare perfino un quanto di luce rossa. Se gli elettroni erano più strettamente legati agli atomi del metallo per strap­parli doveva essere necessa­ria luce viola o addirittura ultravioletta. Comunque, quanto più ener­getico era il quanto tanto maggiore velocità esso avrebbe comunicato all’elettrone espulso. Einstein ricevette il premio Nobel per la fisica nel 1921 per la spiegazione dell’ef­fetto fotoe­lettrico e non, come a molti sembrerebbe più logico, per la notissima teoria della relatività.

Come abbiamo visto, per spiegare il fenomeno fotoelettrico Einstein si avvalse dell’ipote­si che la luce fosse fatta di quanti che egli chiamò fotoni riesumando il concetto newtonia­no di costituzione corpusco­lare della luce. Ma si trattava in questo caso di un tipo partico­lare di corpuscolo perché conteneva in sé anche proprietà di onda. Questa particella-onda, per certe funzioni mo­strava le proprietà del corpuscolo, per altre quelle di onda. Tutti i fe­nomeni che erano stati spiegati in precedenza con la teoria ondulatoria rimanevano validi, ma nello stesso tempo veniva eliminato definitivamente l’etere luminifero in quanto il foto­ne, in virtù dei suoi attri­buti di particella, ora poteva propagarsi attraverso il vuoto cosmico senza bisogno di qualcosa che lo sorreggesse.

 

LA RELATIVITA’

Al tempo in cui Michelson e Morley resero pubblico il risultato del loro esperimento, Al­bert Einstein aveva otto anni. Diciotto anni più tardi, un giovane e sconosciuto impiegato dell’ufficio brevetti di Berna, completamente ignaro del sorprendente risultato annunciato al mondo da Michelson e Morley avrebbe presto iniziato egli stesso a ragionare sulle insoli­te proprietà della luce inventando esperimenti virtuali. L’impiegato dell’ufficio brevetti era un fisico nascente di nome Albert Einstein (1879-1955) il quale si chiedeva se, viaggiando alla velo­cità della luce e tenendo una specchio di fronte a sé sarebbe riuscito a vedere la propria immagine riflessa. Come avrebbe potuto la luce viaggiare dal suo viso allo specchio e poi rimbalzare per raggiungere i suoi occhi se lo specchio stes­so si allontanava alla velo­cità della luce?

Gli anni di meditazione dello sconosciuto impiegato di Berna terminarono nel 1905 quan­do, poco più che ventiseienne pubblicò la teoria della relatività ristretta. Essa si fonda su due idee fondamentali che si chiamano i due “postulati della relatività”. Il primo di essi af­ferma che il moto è relativo e nell’Universo non esiste nulla di veramente stazionario: di conseguenza non esistono esperi­menti che possano dirci che ci stiamo muovendo oppure che sia­mo fermi. Il secondo postulato afferma che la luce si propaga attraverso lo spazio sotto forma di fotoni alla velocità costante di 300.000 kilometri al secondo indipenden­temente dalla veloci­tà del corpo che l’ha originata, esattamente come abbiamo visto per le onde so­nore origi­nate da un’automobile in movimento.

Da queste premesse Einstein riuscì a dedurre le equazioni di Fitzgerald e di Lorenz. Egli di­mostrò che l’aumento di massa con la velocità che Lorenz aveva ritenuto valido solo per le particelle cariche, valeva invece per tutti gli oggetti, di qualunque tipo. Calcolò inoltre che l’aumento di velocità non avrebbe solamente accorciato la lunghezza dei corpi e au­mentato la loro massa ma avrebbe anche rallentato lo scorrere del tempo. Per chiarire il concetto facciamo un esempio di fanta­sia.

Consideriamo due razzi che nello spazio viaggiano ad alta velocità in direzione opposta. A motori spenti i due razzi ora procedono per inerzia a velocità costante e nessuno che viaggi su uno di essi sarà in grado di dire se sta fermo e l’altro gli viene incontro o se si stanno muovendo entrambi perché il moto è sempre riferito a qualcosa d’altro cioè a qual­cosa che sta fermo, ma nello spazio, come abbiamo detto, nulla è fermo.

Ora, se uno dei due astronauti mandasse un raggio luminoso verso l’altro e misurasse la velocità della luce che si allontana otterrebbe il valore di 300.000 km/s. Allo stesso tempo se l’astronauta che viaggia sull’altro razzo misurasse la velocità della luce che arriva trove­rebbe 300.000 kilometri al secondo; il che sarebbe normale perché la velocità della luce non dipende dalla velocità della fonte luminosa. La cosa paradossale è che entrambi gli astronauti misurano la stessa velocità della luce ed entrambi ritengono di stare fermi men­tre in realtà si stanno muovendo l’uno verso l’atro ad una velocità vicina proprio a quella della luce.

Prima di procedere siamo ora in grado di rispondere alla domanda di Einstein che corre con lo specchio in mano. Indipendentemente da quanto vada veloce egli si vedrà sempre riflesso; questo perché, a qualsiasi velocità proceda, la luce viaggerà dal suo viso ver­so lo specchio sempre alla stessa velocità esattamente come se non si muovesse affatto. Am­mettere che la luce viaggia alla stessa velocità per tutti gli osservatori indipendente­mente dalla velocità a cui loro si spostano è come ammettere che gli osservatori misurano tempo e spazio in modo diverso da come si era fatto fino ad allora.

La teoria della relatività ristretta non è “solo una teoria” è qualcosa che da quando è sta­ta formulata, più di cento anni fa, è stata verificata migliaia di volte e i suoi effetti si vedo­no quotidianamente. Uno degli aspetti della relatività che ancora provoca dispute fra i fisici è la nozione del rallentamento degli orologi. Un orologio in moto – dice Einstein – segna il tempo più lentamente di uno che stia fermo. Anzi, tutti i fenomeni che variano col tempo, quindi compreso l’uomo, variano più lentamente muovendosi che stando fermi, il che equi­vale ad affermare che il tempo stesso rallenta quando l’oggetto si muove. Naturalmente per avere conferme bisognerebbe osservare corpi che si muovono nello spazio a velocità molto vicine a quelle della luce. Per analizzare il fenomeno facciamo un altro esperimento ideale.

Supponiamo in questo caso di voler raggiungere una stella lontana da noi 100 anni luce con un razzo che viaggia ad una velocità prossima a quella della luce. Questo razzo non esiste e forse mai esisterà, ma immaginiamo lo stesso che di un mezzo del genere si possa dispor­re. La teoria della relatività afferma che più ci si avvicina alla velocità della luce più le di­stanze si contraggono. Quindi, una distanza di 100 anni luce, come nel caso del nostro esempio, si riduce a soli 14 anni luce a un viaggiatore in moto a una velocità pari 99 per cento della velocità della luce. Però, se il nostro astronauta viaggiasse a 99,99% della ve­locità della luce, questa distanza apparirebbe come un solo anno luce e quindi ci vorrà solo un anno per raggiungere la meta. Se ora la nostra astronave viaggias­se a 99,9999999% della velocità della luce si raggiungerebbe la destinazione in soli due giorni.

Sembra incredibile, però questo è quello che dice la legge della relatività ristretta. Più si viaggia ad una velocità vicina a quella della luce meno tempo ci vuole per raggiungere la destinazione e ciò non perché si viaggia più velocemente, ma perché, se si viaggia molto velocemente, la distanza si accorcia e se la distanza è minore minore sarà anche il tempo necessario per coprirla. Ora, se l’astronauta, partito dalla Terra, ci mette solo due giorni per coprire una distanza di 100 anni luce, allora egli sarà solo di due giorni più vecchio quando arriverà alla meta. Per chi è rimasto sulla Terra sono però passati 100 anni. Se quindi l’astronauta arrivato a destinazione volesse mandare un segnale luminoso verso la Terra per comunicare l’arrivo questo segnale giungerebbe a destinazione solo dopo 100 anni. Se poi volesse tornare a casa dovrebbe sapere che arriverà quando sulla Terra sono passati 200 anni dal giorno della partenza e non vi troverà più né amici né parenti.

Per verificare la teoria si dovrebbe lanciare un orologio ad una velocità prossima a quella della luce e registrare il suo rallentamento, ma non disponiamo dei mezzi per accelerare un orologio a quella velocità, è peraltro del pari impossibile accelerare una particella suba­tomica a velocità tanto elevate. Esistono tuttavia vari modi per verificare in concreto la teoria, alcuni dei quali ci sono offerti dalla natura stessa.

Si è notato ad esempio che la maggioranza delle particelle create nelle collisioni ad alta energia risulta instabile e decade dopo una frazione di secondo per cui esse possono esse­re utilizzate come orologi. Fra queste vi è il mesone μ (mu), o muone. La vita media di questa particella a riposo si aggira sul microsecondo e quindi sarebbe in grado in quel pic­colo lasso di tempo in cui vive di percorrere solo qualche centinaio di metri dal posto in cui è stata creata, prima di decadere. Per controllare con precisione in laboratorio la vita me­dia dei muoni questi corpuscoli sono stati prodotti da un acceleratore di particelle e si è potuto verificare che essi vivono circa due microsecondi, alcuni un po’ di più, alcuni un po’ di meno, prima di sparire.

Queste particelle in natura sono generate dall’urto dei raggi cosmici contro le molecole d’aria dell’alta atmosfera e si propagano in giù verso la Terra. Ora, poiché si muovono a velocità prossima a quella della luce la loro vita viene sostanzialmente allungata proprio dalla velocità a cui viaggiano, tanto che possono raggiungere il livello del mare dopo un percorso totale di una decina di kilometri.

Sono stati posti anche degli orologi atomici di alta precisione sugli aerei per misurare la dilatazione dei tempi conseguenti al moto dell’aereo. Anche in questo caso l’esperimento ha registrato un accordo perfetto con la teoria.

Prof. Antonio Vecchia

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