I numeri

“Dio creò i numeri, tutto il resto è opera dell’uomo”: questa è l’opinione di Leopold Kronecker, un matematico tedesco vissuto nell’Ottocento. L’affermazione è perentoria e sembra quasi invitarci a non indagare troppo sulla natura dei numeri. Noi invece vogliamo confutare il pensiero di Kronecker perché siamo convinti che il Padreterno può aver creato tutt’al più le pecore e tutte le altre cose del mondo ma non i numeri, i quali invece sono stati inventati dall’uomo proprio perché si possano contare le pecore e tutte le altre cose create da Dio.

Cominciamo allora con l’osservare che il sistema di numerazione che usiamo abitualmente è quello decimale, cioè contiamo e scriviamo i numeri per decine; ciò potrebbe non essere casuale.L’uomo primitivo, per contare, potrebbe essersi servito di parti del proprio corpo, per esempio delle mani e delle relative dita. Tutti abbiamo sperimentato che il modo più naturale di contare è quello di chiudere le mani (o anche una sola mano) a pugno e quindi sollevare un dito per volta in corrispondenza di ogni oggetto dell’insieme che si vuol contare. Se l’evoluzione avesse sviluppato solo quattro dita per mano, l’uomo avrebbe probabilmente elaborato un sistema di numerazione «quaternario» o «ottale», cioè a base quattro o a base otto.

Questo convincimento poggia anche sul fatto che sono esistiti in passato ed esistono anche attualmente, presso alcune popolazioni, conteggi e registrazioni dei numeri basati sulle dita di una sola mano (sistema di numerazione «quinario»), o sulle venti dita complessive delle mani e dei piedi (sistema di numerazione «vigesimale»). La numerazione celtica, ad esempio, era una numerazione a base venti e i francesi, nella loro lingua, conservano il ricordo del modo di indicare i numeri di quell’antica popolazione: per dire ad esempio ottanta, i francesi dicono quatre-vings, cioè quattro volte venti.

Esistono anche delle basi di numerazione che non derivano dall’anatomia del nostro corpo, ma dall’astronomia, come le numerazioni per dozzine o per sessantine, che si usano ad esempio quando si conteggia il tempo, dove, come tutti sanno, sessanta secondi sono un minuto e sessanta minuti sono un’ora e dove un giorno consta di ventiquattro ore ed un anno di dodici mesi.

 

LA FANTASTICA STORIA DEI NUMERI

I Caldei, gli antichi abitanti della Mesopotamia, avevano osservato che il Sole sorgeva nei vari periodi dell’anno in punti del cielo via via diversi e che dopo un anno, cioè dopo circa 360 giorni, il ciclo ricominciava. Essi notarono anche che la Luna riduceva le sue dimensioni giorno dopo giorno per poi ritornare a crescere ed assumere nuovamente l’aspetto di “Luna piena” dopo 30 giorni circa. Ora, 360 diviso 30 fa 12 e 12 erano appunto le costellazioni dello zodiaco, ossia i settori del cielo occupati da stelle che la fantasia degli antichi assimilava prevalentemente ad animali, entro i quali trovava sistemazione il Sole nei dodici periodi nei quali era stato diviso l’anno.

L’anno in realtà non dura 360 giorni, ma 365 e 6 ore circa, né vi sono 12 “lune”, cioè 12 mesi di trenta giorni in un anno, e quindi la divisione dell’anno suggerita dai Caldei dovette essere successiva­mente corretta, ma rimase inalterata la suddivisione della circonferenza in 360 parti, chiamate «gradi». La ripartizione della circonferenza in gradi è legata quindi alla divisione della linea dell’orizzonte in 360 parti, e pertanto ha origine astronomica. Trecentosessanta però è un numero troppo grande perché esso serva come unità di misura e i Caldei preferirono, come base per una numerazione, la sua sesta parte, cioè il numero sessanta.

Una volta risolto il problema di come contare rimaneva quello di registrare i numeri, cioè di scrivere ciò che si era contato. I primi simboli utilizzati per scrivere i numeri erano delle raffigurazioni schematiche dette cuneiformi, perché venivano ottenute affondando, su tavolette d’argilla, la punta di uno stilo metallico. Essi furono introdotti dai Babilonesi circa tremila anni prima di Cristo. Successivamente vennero utilizzati anche dagli Egizi, che per scrivere i numeri adottarono un sistema a base decimale. Vi era un simbolo speciale per ogni potenza del dieci e per scrivere gli altri numeri si ricorreva ad una legge additiva che consisteva nel ripetere più volte lo stesso simbolo (al massimo però fino a nove volte, perché poi c’era un apposito simbolo per scrivere il numero superiore).

I Greci furono pessimi matematici, pur essendo stati ottimi geometri, tanto che la geometria che si studia oggi nelle scuole è la cosiddetta geometria euclidea, formulata dal greco Euclide circa 300 anni prima di Cristo. I greci per scrivere i numeri si avvalsero di diversi sistemi, tutti molto approssimativi e di difficile impiego. Il più diffuso utilizzava le lettere dell’alfabeto che, a quel tempo, era costituito di ventisette simboli.

Il motivo per il quale i greci erano piuttosto arretrati nella scrittura dei numeri e conseguentemente nella pratica del conteggio risiede nel fatto che nella loro cultura le arti pratiche, cioè le attività di cui si occupavano i commercianti e gli artigiani, erano considerate attività di minor valore rispetto a quelle prive di fini utilitaristici come la filosofia e la poesia alle quali si dedicava la classe di­rigente. Questa specie di indifferenza o addirittura di disprezzo verso il “far di conto” si protrarrà nei Paesi d’Europa per tutto il Medioevo e, secondo alcuni, dura tutt’oggi.

I Romani adottarono un sistema di numerazione a base decimale i cui simboli, i cosiddetti «numeri romani», erano una modificazione dei simboli adoperati dagli Etruschi, gli antichi abitanti dell’Italia centrale, i quali si ispirarono, per la loro rappresentazione, alla forma delle mani e delle dita. I primi tre simboli della numerazione romana rappresentano una (I), due (II) o tre (III) dita distese della mano, il cinque (V) ravvisa il disegno schematico della mano aperta e il dieci (X) potrebbe essere la rappresentazione approssimativa di due mani a­perte e congiunte, attraverso i polsi, in senso opposto.

I Romani per scrivere i numeri riuscirono ad utilizzare meno simboli dei loro predecessori in quanto si avvalsero sia dell’addizione che della sottrazione. Quando i simboli si susseguivano da sinistra a destra in ordine di valore crescente si sommavano, se invece una cifra di minor valore precedeva una di maggior valore veniva sottratta. Così, ad esempio, “XVI” significava dieci più cinque più uno, cioè sedici, mentre “IV” significava cinque meno uno, cioè quattro.

 

LE DIFFICOLTA’ DEL “FAR DI CONTO”

Le numerazioni dell’antichità non erano molto adatte per fare calcoli, e specialmente non lo era quella romana. Immaginiamo di dover sommare il numero XVI al numero IV o peggio ancora di dover moltiplicare il primo per il secondo senza trasformarli prima nel sistema decimale. L’operazione, come è facile comprendere, risulta tecnicamente pressoché impossibile.

Gli antichi, in verità, per fare i calcoli usavano i cosiddetti «abachi», cioè tavolette divise in scomparti nei quali venivano sistemati dei sassolini che corrispondevano alle cifre di cui erano composti i numeri; essi funzionavano un poco come funzionano i pallottolieri. In ciascuno scomparto veniva sistemata una serie di sassolini a seconda delle unità, delle decine, delle centinaia e così via, di cui era composto il numero. Negli stessi scomparti, in modo coerente, venivano aggiunti i sassolini corrispondenti al numero che doveva essere sommato. Si contavano quindi tutti i sassolini presenti nel comparto delle unità e, se superavano il dieci, si lasciavano solo quelli eccedenti tale numero, mentre, nel secondo scomparto, quello delle decine, si aggiungeva un sassolino che valeva pertanto quanto dieci del primo scomparto. Si raggruppavano quindi i sassolini dello scomparto delle decine e, come nel caso precedente, se superavano il dieci, se ne toglieva appunto tale numero lasciandone il resto e si aggiungeva quindi un sassolino nello scomparto delle centinaia e così di seguito.

Successivamente, vennero introdotti dei simboli speciali per ciascun numero da 1 a 9. Con l’introduzione dei nuovi simboli che probabilmente arrivarono dall’India, e furono chiamati «numeri d’abaco», invece che sistemare negli scomparti i sassolini corrispondenti al numero che si voleva rappresentare, si piazzava direttamente il simbolo equivalente a quella cifra. In questo modo si arrivò praticamente all’introduzione del sistema moderno di numerazione.

Questo è detto posizionale perché ogni cifra di un numero ha un certo significato a seconda della posizione che occupa all’interno del numero stesso. L’adozione del sistema posizionale riduce la quantità dei simboli necessari per rappresentare i numeri. Senza questo artifizio la registrazione di un numero non sarebbe niente di più di una specie di stenografia, cioè una sequenza di simboli senza senso logico che certamente non avrebbe consentito alla matematica alcun progresso.

 

LO ZERO

Mancava, tuttavia, per arrivare alla scrittura moderna dei numeri, un perfezionamento di non secondaria importanza: l’introduzione dello zero, una cifra alla quale nessuno, fino a quel tempo, aveva ancora pensato.

Lo zero venne introdotto, come simbolo della numerazione, dai mercanti indiani del IX secolo dopo Cristo, poiché essi si erano accorti che lasciando degli spazi vuoti, nella scrittura dei numeri, c’era il rischio di incorrere in equivoci molto seri. Due cifre, per esempio l’uno e il due, potrebbero indicare nella numerazione decimale numeri diversi, a seconda della posizione assunta dai simboli stessi. Essi potrebbero indicare, ad esempio, il numero 12, ma anche il numero 102 se rimanesse vuoto uno spazio fra le due cifre. Il pericolo maggiore di errore si sarebbe verificato tuttavia se gli spazi vuoti fossero stati quelli finali, quindi ad esempio per i numeri 120 o 1200.

I mercanti indiani, che erano gente pratica che non andava troppo per il sottile, al contrario di quanto avveniva per i filosofi greci per i quali la scienza era un raffinato gioco intellettuale, introdussero, senza farsi troppi scrupoli, un simbolo specifico per indicare il vuoto. Del nuovo modo di scrivere i numeri vennero a conoscenza gli Arabi, i quali, essendo anch’essi dei mercanti, assimilarono immediatamente l’innovazione indiana, e successivamente la diffusero anche in Europa.

Come mai ci volle tanto tempo per capire che lo zero rappresentava una cifra fondamentale per la scrittura dei numeri? Il fatto è che i numeri vennero introdotti per contare gli elementi di una collezione e lo zero, all’interno di questa operazione, rappresenta il nulla, il vuoto. Era quindi difficile pensare allo zero come a qualche cosa di concreto.

Prima dell’invenzione dello zero fu introdotto, in verità, il punto per indicare lo spazio vuoto. Il punto è il simbolo visibile di più piccole dimensioni che si possa utilizzare per mostrare qualche cosa di immateriale e quindi era ciò che più si avvicinava al concetto di niente. Il punto però non rappresentava un numero, e quindi non poteva dare una risposta concreta ad un’operazione matematica del tipo, ad esempio, di due meno due.

 

I SISTEMI DI NUMERAZIONE EXTRAEUROPEI

Si pone qui il problema, affinché non ci si accusi di eurocentrismo, di classificare anche sistemi di numerazione in uso presso le altre popolazioni della Terra. Gli eurocentristi sono coloro i quali ritengono che l’Europa (ma in questo caso sarebbe più giusto dire il bacino del Mediterraneo) sia al centro del mondo e che la cultura e la civiltà siano un prodotto esclusivo dei popoli di queste terre dalle quali si siano poi irradiate nel resto del mondo. Ma non è così.

Le popolazioni degli altri continenti come ad esempio i cinesi, gli indiani (dei quali, per la verità, abbiamo già fatto cenno), o gli antichi abitanti delle Americhe (i Maya, gli Aztechi, gli Incas) avevano una loro civiltà e una loro cultura che nulla aveva da invidiare alla nostra, anzi, per molti aspetti, ne era anche superiore.

Per quanto riguarda la matematica, ad esempio, i Maya, gli antichi abitanti dello Yucatàn, erano in possesso di un sistema di numerazione essenziale, ma molto efficace. Si trattava di un sistema in base venti che si fondava su tre soli simboli, il punto per indicare l’1, il trattino per indicare il 5 e il cerchietto per indicare lo zero. Essi conoscevano quindi lo zero prima degli europei e grazie ad esso erano in grado di utilizzare il sistema posizionale per scrivere i numeri.

Solo di recente sono venuti alla luce i ruderi dell’antica civiltà Maya distrutta dai conquistadores spagnoli del Cinquecento, e si è potuta quindi ricostruire la lingua e la cultura di quelle antiche popolazioni. Gli europei hanno indubbiamente molti meriti per aver costruito e diffuso in tutto il mondo una cultura ed una civiltà ricca di valori, ma purtroppo hanno anche qualche colpa da farsi perdonare. Una di queste è proprio quella di avere sterminato antiche civiltà del continente americano arrestando, in questo modo, la loro crescita civile e culturale.

 

SCRIVERE I NUMERI

Con l’introduzione dello zero fu quindi possibile scrivere i numeri senza fare più uso degli abachi. Oggi i numeri vengono scritti come somme di potenze successive. Pertanto nella numerazione decimale, che è quella che ci è più familiare, la prima cifra a destra di un numero a più cifre, indica quante unità vi sono in quel numero; la seconda cifra indica quante decine bisogna aggiungere alle unità espresse dalla prima cifra, la terza cifra indica quante decine di decine (cioè centinaia) bisogna ulteriormente aggiungere e così via.

Il numero 243, ad esempio, può essere scritto nel modo seguente: 2·102 + 4·101 + 3·100  che fa appunto 243. La potenza 100, come qualsiasi altro numero elevato alla zero (escluso lo zero), fa 1. Scrivere un numero, nel sistema decimale, corrisponde quindi a scrivere una somma ordinata di potenze decrescenti del 10: si inizia dalla potenza più alta che corrisponde al numero delle cifre di cui è formato il numero meno una, e poi si cala gradualmente fino alla potenza zero. Il sistema di numerazione decimale viene detto pertanto «sistema di base 10».

Ma il 10, come abbiamo fatto osservare, non è un numero che rappresenta qualche proprietà matematica speciale. Esso è semplicemente una caratteristica anatomica del nostro corpo. Pertanto, il metodo che abbiamo usato per scrivere un numero di base 10 può essere adattato, senza alcuna variazione concettuale, per scrivere un numero a base qualsiasi, per esempio a base 5, o 20, o altro.

Se noi, ad esempio, utilizzassimo il sistema di numerazione quinario, scrivendo il numero 243 intenderemmo esprimere la quantità seguente: 2·52 + 4·51 + 3·50 che corrisponde al numero 73 nel sistema di numerazione decimale. Il numero 243 in un sistema di numerazione a base sessanta vorrebbe invece significare: 2·602 + 4·601 + 3·600 e rappresenterebbe, verosimilmente, un’indicazione di tempo, quindi da leggersi 2 ore, 4 minuti e 3 secondi (602 = 3600  sono i secondi in un’ora e 601 = 60 sono i secondi in un minuto). Uno stesso numero, come abbiamo visto, può corrispondere a quantità diverse (e a concetti diversi) a seconda del sistema di numerazione utilizzato per esprimerlo.

E’ interessante notare che il numero dei «segni», cioè il numero delle cifre che può essere utilizzato nei diversi sistemi di numerazione, è sempre uguale al valore della base. Così ad esempio, nel sistema di numerazione decimale le cifre che possono venire utilizzate sono dieci e vanno da 0 a 9. Nel sistema di numerazione a base cinque, analogamente, avremo solo le cifre 0,1,2,3,4, e il numero 5 verrebbe scritto 10, il numero 6 verrebbe scritto 11, il numero 7, 12 e così via. Allo stesso modo è facile verificare che maggiore è la base di numerazione minore è il numero delle cifre necessario per indicare lo stesso numero. Ad esempio il numero 100 che nel sistema di numerazione decimale richiede tre cifre per essere rappresentato, nel sistema di numerazione binario necessita di ben sette cifre dovendosi scrivere 1100100, mentre, in un sistema di numerazione per esempio a base 16, ne richiederebbe due sole e si scriverebbe infatti 64.

Il più semplice sistema di numerazione che si può immaginare è quello binario, cioè a base 2. In esso esistono due sole cifre, lo zero e l’uno. Il 2 si scrive quindi 10, il 3 si scrive 11, il 4 si scrive 100, e così via. Si noti che il numero 10 rappresenta sempre il simbolo della base della numerazione che si adotta e quindi vale 2 nel sistema di numerazione in base due, vale 5 nel sistema in base cinque, vale 10 nel sistema in base dieci e via dicendo.

Prendiamo un numero qualsiasi scritto nel sistema binario, ed analizziamolo nelle sue parti: scegliamo per esempio il numero 1101. A quale valore, nel sistema decimale, corrisponde questa scrittura? Il numero che abbiamo scelto può essere scritto nel modo seguente: 1·23 + 1·22 + 0·21 + 1·20. Esso, nel sistema di numerazione decimale, vale quindi 13.

 

NUMERI E COMPUTER

Il sistema di numerazione binario ha assunto, in questi ultimi tempi, notevole importanza a causa del suo impiego nei calcolatori elettronici, meglio conosciuti con il nome di «computer». I computer (termine inglese che deriva dal latino “computare”, cioè contare) sono appunto macchine per contare, e sono costituiti da una serie di elementi che possono assumere solo due posizioni stabili, ad esempio “aperto” o “chiuso”, oppure “passa” o “non passa” (la corrente elettrica). Questi apparecchi quindi, per contare, possono utilizzare due sole cifre rappresentate dai due soli stati fisici possibili di cui dispongono.

Il termine binario deriva dal latino “bis” che significa due volte. In inglese, cifra binaria si dice «binary digit» da cui l’abbreviazione “bit”. Nel linguaggio dei calcolatori elettronici il bit rappresenta l’unità minima di informazione che il calcolatore può riconoscere ed è rappresentato dall’assenza o dalla presenza di un impulso elettronico, cioè da 0 o da 1.

Ciascun numero, lettera o simbolo, come ad esempio $, / o &, battuto sulla tastiera di un computer, viene trasformato in un gruppo di bit disposti in modo opportuno, chiamato “byte”. I byte sono di diverse grandezze; in codice ASCII (American Standard Code for Information Interchange = codice standard americano per lo scambio di informazioni) la grandezza del byte è di 7 bit. Il byte che esprime per esempio la A maiuscola, in codice ASCII, è 1000001, mentre, per il numero 1, è 0110001. Ogni cifra del byte ha un preciso significato che dipende dalla posizione che occupa all’interno del numero a sette cifre. Nel codice ASCII, ad esempio, l’1 iniziale vuol dire che si tratta di una lettera dell’alfabeto, mentre lo 0 iniziale vuol dire che non si tratta di una lettera dell’alfabeto. Il byte esprime l’unità di misura della capacità di memoria di un calcolatore, e i suoi multipli sono il kilobyte (k o kbyte) e il megabyte (M o Mbyte), pari rispettivamente a mille e a un milione di byte.

 

LA NOTAZIONE SCIENTIFICA

Spesso, nella descrizione dei fenomeni naturali, è necessario far uso di numeri molto grandi o molto piccoli. Queste grandezze sono del tutto diverse da quelle con le quali siamo abituati a ragionare nella vita di tutti i giorni, e quindi sfuggono alle capacità immaginative delle persone comuni.

A poco servono espressioni del tipo: miliardi di miliardi di miliardi, ecc. usate a volte per dare l’idea della grandezza di un numero, né si otterrebbero risultati migliori scrivendo il numero a molte cifre per esteso. Quale idea ci si potrebbe fare, ad esempio, leggendo un numero del tipo:

602.200.000.000.000.000.000.000

 se non quella, generica, che si tratta di un numero molto grande?

Come fare allora per rendere semplice e chiaro un numero a molte cifre e nello stesso tempo comprensibili e veloci le operazioni di calcolo in cui quel numero eventualmente fosse implicato?

Gli scienziati hanno individuato un modo per scrivere i numeri molto grandi o molto piccoli che si chiama «notazione scientifica». Con questo metodo di scrittura il numero viene diviso in due parti, di cui una indica la sua grandezza complessiva ed è chiamata “ordine di grandezza”, mentre l’altra si limita a specificare con precisione il valore del numero stesso. E più sono le cifre che contiene quest’ultimo numero, maggiore è la precisione con cui viene definito il numero complessivo.

Per esempio, il numero 149.600.000 che è la distanza media in kilometri (scritto con il k in linguaggio scientifico rigoroso) della Terra dal Sole, in notazione scientifica, verrebbe scritto nel modo seguente:

1,496ּ108

Questa forma non solo è più economica, ma è anche più significativa, almeno per gli addetti ai lavori, i quali ne colgono il contenuto a “colpo d’occhio”. L’ordine di grandezza, infatti, chiarisce subito quanto rilevante è la distanza fra la Terra e il Sole (108 vuole dire centinaia di milioni di km), mentre il pre-fattore 1,496 specifica, con la precisione massima con cui può essere misurata, il valore di detta distanza.

Il fattore decimale viene trascurato quando si giudica di secondaria importanza la conoscenza esatta della grandezza di un valore, mentre la potenza del 10 è già sufficiente per dare un’idea chiara e concreta delle dimensioni del numero. Dunque possiamo affermare che, quando si analizza un argomento di carattere scientifico, per dare un senso alle nostre conoscenze, è importante sapere e ricordare soprattutto gli ordini di grandezza e le unità di misura.

 

«NUMERI GRANDISSIMI» E «NUMERI PICCOLISSIMI»

Quando si tratta di problemi di dimensioni cosmiche, i numeri molto grandi sono proverbiali. A volte è anche necessario eseguire delle operazioni con questi numeri, per esempio delle moltiplicazioni, che, se dovessero essere effettuate applicando le normali regole del calcolo potrebbero anche metterci in imbarazzo.

Per esempio, le stelle contenute mediamente in una galassia, si contano a centinaia di miliardi, un numero che, trascurando il pre-fattore, si scrive 1011; e anche le galassie esistenti si calcola siano centinaia di miliardi (1011). Per indicare quindi il numero complessivo di stelle presenti nell’Universo intero bisogna moltiplicare cento miliardi per cento miliardi che fa diecimila miliardi di miliardi, un numero di 23 cifre. Questo valore, scritto per esteso, difficilmente riuscirebbe a dare un’idea concreta del numero delle stelle presenti nel Cosmo, mentre, in notazione scientifica, lo stesso numero si ottiene facendo semplicemente la somma degli esponenti delle potenze di base 10 che esprimono il numero delle stelle e delle galassie di tutto l’Universo. Quindi basta scrivere:

1011 ∙ 1011 = 1022

     Il numero delle stelle presenti nell’Universo, scritto usando le potenze del dieci, sembra un numero molto grande, ma è ancora poca cosa se paragonato ad altre grandezze fisiche che hanno bisogno di numeri ben più grandi per essere rappresentate. Per esempio, il numero degli atomi (principalmente d’idrogeno) che formano una stella grande come il Sole è di 1057, mentre 1080 è il numero di atomi di cui è costituito l’universo intero. Che senso avrebbe scrivere quest’ultimo numero facendo seguire all’1 ottanta zeri? E che senso avrebbe ripetere la parola “miliardo” per nove volte nel tentativo di dare un’idea concreta della grandezza del numero?

In modo analogo si possono rappresentare i numeri più piccoli dell’unità. Prendiamo, per fare un esempio, il numero che esprime la massa in grammi di una molecola di acqua: questo numero è 2,989∙10-23. Se ora dividiamo la massa dell’acqua contenuta in un cucchiaio da cucina, circa 18 grammi, per la massa di una singola molecola otteniamo:

 18 g : (2,989∙10-23) g = 18∙3,3456∙1022  = 6,022∙1023,

 che prende il nome di «Numero di Avogadro» e rappresenta il numero di particelle presenti in una «mole» di qualsiasi sostanza. Abbiamo scelto infatti, per fare l’esempio, un cucchiaio che contenesse proprio 18 g di acqua, ovvero – direbbe un chimico – 1 mole di H2O. (La mole di una sostanza è il numero di grammi pari al peso molecolare di quella sostanza; il peso molecolare dell’acqua è 18 quindi 18 grammi di acqua corrisponde ad una mole di acqua)

Quest’ultimo esempio ci permette di farci un’idea concreta delle dimensioni veramente esigue delle molecole. Se consideriamo che il numero delle molecole presenti in un cucchiaio d’acqua, cioè in un solo sorso di questo prezioso liquido, è di un ordine di grandezza superiore al numero delle stelle presenti in tutto l’universo (÷1022), non dovrebbe essere difficile rendersi conto di quanto sono piccoli i costituenti ultimi della materia.

Prof. Antonio Vecchia

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