Le migrazioni dell’umanità

Non era difficile, qualche anno addietro, prevedere che alla fine del millennio si sarebbe assistito ad una massiccia migrazione di uomini dai Paesi poveri verso quelli ricchi.

Fino a che una popolazione è impegnata, con tutte le sue forze, a risolvere i problemi immediati e circoscritti al territorio entro il quale le precarie condizioni della sua esistenza la costringono, non ha la possibilità di pensare ad un avvenire diverso da quello che sta vivendo. Ma quando l’uomo migliora, anche se di poco, il proprio tenore di vita, comincia a guardarsi intorno e a progettare per il proprio futuro e per quello della propria famiglia scenari di più ampia portata rispetto a quelli ristretti imposti dai bisogni quotidiani.

Agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, le condizioni igienico-sanitarie, la produzione e la distribuzione degli alimenti, e soprattutto l’istruzione e la diffusione dell’informazione, erano notevolmente aumentate in alcuni Paesi poveri del terzo mondo grazie anche all’impegno e alla solidarietà degli Stati industrializzati. Questo lieve miglioramento della qualità della vita si è, nei fatti, rivelato sufficiente per mettere molti giovani in condizioni di avventurarsi verso nuove esperienze attratti dalla prospettiva di un’esistenza più facile e più ricca di possibilità di lavoro.

A questi giovani, provenienti soprattutto dall’Africa e dall’Asia, si sono aggiunti, ad iniziare dagli anni ’90, quelli dei Paesi dell’Europa orientale che, dopo la caduta del muro di Berlino e l’affermarsi della politica della perestrojka di Gorbaciov, che ha aperto le frontiere dell’Est europeo, si sono diretti verso i Paesi a economia di mercato dell’Europa occidentale. Tali flussi erano motivati in parte da aspirazioni personali miranti a migliorare le condizioni economiche, ma erano causati altresì dalla volontà di sfuggire a conflitti etnici e religiosi conseguenti a guerre e persecuzioni razziali.

 

LA VOCAZIONE DELL’UOMO ALLA MIGRAZIONE

La specie umana, nella sua lunga storia iniziata alcuni milioni di anni fa con le forme primitive di Homo habilis e Homo erectus, ha sempre manifestato una forte propensione alla migrazione, a spostarsi cioè dai luoghi di origine per andare alla ricerca di nuovi territori. Quando, ad esempio, una mutazione genetica che rafforzava la specie o un’innovazione culturale che consentiva l’acquisizione di nuove tecnologie per la produzione di migliori qualità e maggiori quantità di cibo o per la lavorazione dei metalli, favoriva l’aumento della popolazione presente in un dato territorio, una parte di essa era indotta ad allontanarsi dal gruppo per andare alla ricerca di spazi liberi e di nuove esperienze.

Le migrazioni, generate sia da fattori biologici sia da fattori culturali, hanno prodotto esse stesse effetti culturali e soprattutto biologici smussando le differenze genetiche fino a portare alla formazione di un’unica specie umana su tutto il pianeta. Possiamo quindi affermare che sono state le grandi migrazioni dell’antichità ad omogeneizzare la nostra specie e, in una certa misura, anche ad accelerare l’organizzazione sociale che, senza i condizionamenti delle migrazioni, si sarebbe sviluppata molto più lentamente.

Lo spostamento di masse consistenti di popolazione ha segnato la vicenda umana anche in epoca storica. Ricordiamo, solo per citare i casi di maggiore rilievo, la grande corrente migratoria, che, a partire dal XVII secolo, ha portato, con la forza, sette milioni di neri dall’Africa in America. Quel traffico schiavista su navi che salpavano dalle coste del golfo di Guinea per dirigersi verso le regioni meridionali degli Stati Uniti, è stato forse il più grande fenomeno di migrazione illegale che la storia ricordi.

Ma i flussi migratori più imponenti sono avvenuti nel corso del XIX secolo e hanno riguardato ambiti culturali diversi. Un esempio di flusso migratorio che ha coinvolto culture eterogenee è stato quello che ha portato milioni di cinesi in Malaysia dove attualmente rappresentano quasi la metà della popolazione residente e controllano l’economia di quel Paese attraverso le attività industriali e commerciali, mentre la popolazione autoctona, che detiene il potere politico, vive ed opera soprattutto in campagna. Questa netta separazione fra le due principali comunità della Malaysia rende i rapporti reciproci molto conflittuali sia in ambito culturale che religioso, tanto da indurre il governo ad imporre alcune restrizioni comportamentali quali ad esempio l’obbligo di indossare il tipico abbigliamento malese all’interno delle Università, e forti limitazioni alla pratica e alla diffusione di culti diversi dall’islamismo.

Invece un esempio di flusso migratorio all’interno di un medesimo universo culturale si è verificato nel periodo compreso fra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento quando 50 milioni di europei si trasferirono nel Nord America, ma anche nell’America latina e in Australia. Questo enorme movimento migratorio iniziò in Irlanda dove una terribile carestia causata dalla Peronospora, un fungo parassita della patata, che distrusse la principale fonte di nutrimento di quel Paese, fra il 1845 e il 1847, lasciò senza cibo e senza lavoro milioni di Irlandesi. Come conseguenza di questa grave epidemia 250.000 residenti morirono di fame e un milione fu costretto ad emigrare. Al gruppo etnico irlandese seguì quello germanico e poi le popolazioni dell’Europa meridionale, anch’esse costrette a lottare con un’agricoltura in crisi. Questa massiccia migrazione di contadini e operai scarsamente qualificati comportò molti traumi e incomprensioni ma si concluse in modo positivo con la urbanizzazione e l’industrializzazione del nuovo continente, la più profonda trasformazione culturale mai avvenuta sul pianeta.

Anche se gli immigrati provenivano quasi esclusivamente dall’Europa, l’omogeneità culturale non era assoluta e il modello americano, a cui dovevano uniformarsi i nuovi arrivati, non fu accettato passivamente da tutti. Anzi, con il passare del tempo, si evidenziarono sempre più le diverse identità nazionali e le specificità culturali, che si accentuarono ulteriormente con l’arrivo di nuovi immigrati dai Paesi in via di sviluppo dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina. Si venne così a creare, negli USA, ma anche in Canada e in Australia, una società multietnica e multiculturale che persiste tuttora.

Anche il vecchio continente, in questi ultimi anni, è stato oggetto di un cambiamento radicale. L’Europa, un tempo centro di emigrazione, è diventata essa stessa la principale mèta dei flussi migratori. Nel secondo dopoguerra, il processo di ricostruzione e il successivo sviluppo industriale aveva attirato milioni di persone dai Paesi del Sud Europa verso le nazioni del Centro e del Nord (soprattutto Germania, Belgio, Svizzera e Francia). A partire dagli anni Settanta del secolo appena concluso questi spostamenti cessarono e Paesi come Portogallo, Spagna, Italia e Grecia, che per decenni furono esportatori di manodopera, videro non solo il ritorno di molti loro connazionali, ma constatarono anche l’esaurirsi del fenomeno. Terminata la migrazione “interna”, grazie allo sviluppo economico raggiunto anche dagli Stati del Sud europeo, iniziò, dapprima timidamente, poi sempre più massicciamente, l’emigrazione verso i Paesi dell’Europa occidentale, di moltitudini di disperati, provenienti dall’Africa, dall’Asia e dagli Stati dell’Est europeo.

 

LA DIREZIONE DEI FLUSSI MIGRATORI

Oggi, alle soglie del nuovo millennio, si calcola che vi siano circa 150 milioni di persone che vivono stabilmente all’estero, cioè in Paesi diversi da quello in cui sono nati. Di questi, quasi 30 milioni sono profughi o perseguitati politici; gli altri sono emigranti “normali” ossia persone che hanno lasciato, più o meno liberamente, il loro Paese di origine per andare in cerca di fortuna. Il numero degli emigrati, come si vede, è enorme e rappresenta il 2,5% della popolazione mondiale. Una piccola parte, ma non irrilevante, di questi si trova nei Paesi dell’Unione Europea.

Le migrazioni sono un fenomeno imponente che riguarda, come abbiamo visto, la totalità dei Paesi e dei popoli del mondo; tuttavia, nonostante ciò, non esiste ancora una definizione chiara e univoca di “migrante”. Con questo termine normalmente si intende una persona o un gruppo di persone che si sposta da un luogo ad un altro, sia all’interno dello stesso Paese (ad esempio dalla campagna alla città come è avvenuto anche qui da noi quando l’Italia passò dal sistema agricolo a quello industriale), sia verso un Paese straniero, per motivi diversi: tra questa disparità di cause va segnalata innanzitutto la ricerca di un’occupazione stabile, ma vi compare altresì la volontà di sfuggire a catastrofi naturali, a guerre e a persecuzioni di carattere politico o religioso. Tale definizione potrebbe però prestarsi a degli equivoci come ad esempio nel caso degli atleti che, ingaggiati dalle società sportive, si recano all’estero, dove soggiornano per anni, spesso con la famiglia, ma non vengono considerati migranti. La stessa cosa vale per il personale diplomatico o per i membri delle forze armate dei Paesi alleati. Nemmeno i molti pensionati dei Paesi ricchi del Nord Europa e Nord America, che sono soliti passare i mesi più freddi dell’anno sulle coste del Mediterraneo o in altre zone turistiche dell’Africa o dell’America Latina, possono essere considerati migranti.

Quando la migrazione interessa intere popolazioni costrette ad abbandonare la loro terra in seguito a guerre o per sfuggire a regimi politici oppressivi, allora si parla di “profughi”. A volte, gli esodi di massa sono determinati dagli stravolgimenti territoriali causati da trattati di pace che modificano i confini di un Paese costringendo le minoranze etniche a spostarsi: questo è il caso, ad esempio, degli Istriani che alla fine della seconda guerra mondiale hanno abbandonato la loro terra, passata alla Jugoslavia, per rifugiarsi in Italia e in altri Paesi del mondo occidentale.

In passato i flussi migratori hanno interessato piccoli gruppi o anche intere popolazioni che da regioni della Terra povere di risorse, ma ricche di abitanti si spostavano verso regioni ricche di risorse, ma poco abitate. In genere questi uomini trovavano nel Paese ospite vasta disponibilità di spazi entro i quali poter organizzare le proprie attività senza interferire con le culture locali e senza entrare in competizione con esse. Ciò ha consentito che, per quanto in terra straniera, essi mantenessero le loro tradizioni e professassero il loro credo.

Oggi le cose sono profondamente cambiate e, per quanto ciò possa apparire paradossale, buona parte dei flussi migratori dai Paesi in via di sviluppo è diretta non già verso i ricchi Paesi industrializzati del Nord del mondo, ma verso altri Paesi in via di sviluppo o tutt’al più verso Paesi di recente industrializzazione. La composizione dei flussi migratori da lavoro è molto articolata e non comprende solo manodopera poco qualificata, ma anche intellettuali e tecnici specializzati. Negli ultimi anni, ad esempio, a migrare verso gli Stati Uniti sono stati per lo più tecnici e specialisti ad alta qualificazione. Il fenomeno è tutt’altro che irrilevante e coinvolge anche i Paesi dell’Unione Europea. Si tratta di un depauperamento intellettuale che impoverisce i Paesi d’origine e molte volte non arricchisce i Paesi ospitanti perché gli immigrati vengono spesso sottoutilizzati.

Un altro tipo di migrazione, svincolata dal mercato del lavoro, riguarda quelle persone, in genere anziane e ricche, di cui si è già fatto cenno, che tendono a trasferirsi dai Paesi freddi del settentrione del pianeta a quelli caldi del meridione per passarvi alcuni mesi dell’anno, ma a volte anche per stabilirvisi definitivamente. Il fenomeno è diffuso in America dove molti Canadesi e Statunitensi si spostano sulle calde spiagge dei Caraibi o del Brasile e in Europa, dove si assiste a spostamenti di Tedeschi e Scandinavi soprattutto verso la Costa del Sol e le isole Canarie in Spagna, la regione dell’Algarve in Portogallo o la costa romagnola e la Toscana in Italia.

Vi è infine l’immigrazione clandestina che si indirizza ovviamente verso attività illegali e molto remunerative come la prostituzione, lo spaccio della droga, scippi e piccoli furti nelle abitazioni. Questa frangia di mercato illegale non è per niente trascurabile e rappresenta un grosso problema legato all’ordine pubblico e alla sicurezza dei cittadini. Se da un lato è vero che gli atti criminosi sono imputabili alla malavita organizzata e che il fenomeno nulla ha a che fare con le comunità di immigrati, è altrettanto vero, come abbiamo visto, che la malavita recluta più agevolmente la sua manovalanza fra quanti risiedono illegalmente in un Paese straniero e si trovano in condizioni disagiate.

Mai in passato i flussi migratori hanno costituito di per sé una minaccia alla sicurezza e alla pace, anzi erano essi stessi il risultato di squilibri economici, di guerre e di conflitti politici. Spesso gli immigrati venivano in un certo senso invitati dal Paese ospitante che li utilizzava in lavori che i locali non erano in grado di fare o non erano disposti a svolgere. Si pensi ad esempio alle coltivazioni di cotone del sud degli Stati Uniti dove i bianchi, poco resistenti alla fatica e alle temperature molto elevate, avevano difficoltà ad operare in quelle terre mentre i neri prelevati a forza dall’Africa si dimostrarono adatti e quindi indispensabili per quel tipo di lavoro. Anche la Germania e gran parte del centro Europa ha avuto bisogno, fino alla metà del Novecento, di manodopera straniera che importava prevalentemente dai Paesi del sud del continente europeo (Spagna, Italia, Grecia e Turchia).

Un problema serio e di non facile soluzione è quello dell’integrazione. L’integrazione economica, come abbiamo detto, è la più facile da ottenere perché è quella che porta grossi vantaggi al Paese ospitante e della quale approfittano imprenditori senza scrupoli che sfruttano l’immigrato occupandolo in lavori faticosi e spesso illegali.

Ma a prescindere da quella economica, l’integrazione logistica (case, scuole, ospedali, ecc.) e soprattutto quella socioculturale determinarono problematiche di inserimento nel tessuto sociale molto complesse e di difficile soluzione. L’integrazione logistica richiede tempo e denaro e, ad esempio, in un Paese come il nostro in cui esistono ancora molti concittadini poveri ed emarginati che non hanno un alloggio decoroso in cui abitare, privilegiare gli immigrati rispetto ai locali sarebbe sbagliato e si correrebbe il rischio concreto di provocare una guerra fra poveri. Anche l’inserimento scolastico di bambini con culture diverse provoca qualche apprensione nelle famiglie che vedono con preoccupazione il contatto dei loro figli con coetanei che incontrano difficoltà ad accettare regole che non conoscono e non gradiscono.

Il problema più difficile è comunque quello dell’integrazione socioculturale. L’esperienza ci offre due modelli entrambi imperfetti e contraddittori. Il primo è quello francese dell’assimilazione integrale che intendeva fare di ogni immigrato un cittadino francese a tutti gli effetti. Questo modello è fallito perché gli immigrati, molto spesso, non vogliono diventare cittadini della nazione che li ospita. Vogliono semplicemente essere persone che vivono in quella determinata nazione, conservando però le proprie tradizioni e la propria cultura.

Anche il modello proposto dalla Germania è risultato negativo. I Tedeschi, considerando gli immigrati ospiti ed escludendoli dalla vita politica e amministrativa del loro Stato, fanno sorgere un problema di giustizia sociale e di etica. Pertanto, in un caso come nell’altro, l’immigrato che lavora ed opera in un Paese straniero, non viene mai coinvolto nelle scelte politiche che lo riguardano.

Ad esempio, la richiesta delle ragazze islamiche di indossare il chador a scuola, non crea alcun problema in Italia, ma ne crea in Francia perché nelle scuole di quel Paese è proibito esibire elementi di appartenenza ad una determinata religione (anche i preti cattolici non possono entrare nelle aule scolastiche indossando l’abito talare). E fin che si tratta di un velo, l’ostacolo è minimo, ma ben altri sono i conflitti politico-culturali che potrebbero sorgere in seguito. La poligamia ad esempio, qui da noi, non è contemplata; quella dello straniero può essere accettata o deve essere rifiutata? E se viene accettata, il lavoratore di religione islamica che ha più di una moglie, ha diritto all’assistenza sociale per tutte le sue mogli o per una sola di esse? C’è infine il problema dell’infibulazione, ossia la pratica della mutilazione degli organi genitali femminili, che in verità non è legata direttamente alla religione islamica, ma che fra i seguaci di quel credo è molto diffusa e accettata, mentre qui da noi è un reato. Questa pratica, odiosa per la nostra sensibilità, deve essere vietata ad un cittadino di religione islamica o deve essere tollerata?

Indubbiamente il rispetto delle idee altrui è indice di civiltà, ma è altrettanto legittimo da parte di alcune popolazioni pretendere che vengano mantenute e difese le proprie soprattutto in un luogo come l’Europa popolato da antiche minoranze etniche che rivendicano la loro identità culturale. Si pensi, ad esempio, ai Baschi in Spagna, ai Valloni e ai Fiamminghi in Belgio, agli Irlandesi nel Regno Unito, ai Curdi, ai Ceceni e, in Italia, agli Altoatesini, ai Friulani, ai Sardi e così via. Tutta questa gente ha lottato per far valere i propri diritti e perché venisse rispettata la propria storia, e teme di essere “inquinata” dalla presenza di comportamenti del tutto diversi da quelli che, al loro interno, si sono affermati nei secoli.

 

EUROPA INVASA

L’Europa, in breve tempo, si è trasformata da grande fonte a grande attrattore dei flussi migratori. Si calcola che attualmente siano presenti nei soli Paesi dell’Unione Europea dai 25 ai 30 milioni di stranieri in gran parte extracomunitari e clandestini provenienti soprattutto dall’Est Europa e dall’Africa. Si tratta di un numero consistente (fra l’altro in continua crescita) che ormai ha superato quello di USA, Canada e Australia messi insieme.

In totale gli extracomunitari dovrebbero essere da 15 a 20 milioni suddivisi, ma non in modo omogeneo, nei 15 Paesi della Comunità europea. Da dove provengono? La Germania è meta prevalente di persone che arrivano dalla ex Jugoslavia, dai Paesi dell’Est (non solo europeo) e soprattutto dalla Turchia. In Gran Bretagna gli immigrati sono per lo più asiatici (India, Pakistan, Bangladesh). In Francia, in Spagna e negli altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo i flussi migratori provengono in gran parte dall’Africa (Marocco, Algeria e Tunisia).

La migrazione verso il vecchio continente ha sorpreso molti governi europei. Il fenomeno, repentino quanto inaspettato, ha trovato assolutamente impreparati  Portogallo, Spagna, Italia e Grecia che fino a pochi anni prima avevano a che fare con il problema opposto. Questi Paesi, all’inizio, non sono stati capaci di far fronte al fenomeno e di controllarlo in modo efficace. Ciò ha consentito l’insediamento illegale di gruppi sempre più numerosi di disperati, in cerca di un’occupazione qualsiasi, e di disadattati.

I governi di quei Paesi non hanno indicato con chiare e precise regole i diritti e i doveri degli immigrati oscillando fra posizioni di permissivismo e rigide limitazioni sulla base di normative velleitarie. Questo atteggiamento incerto ha consentito, come abbiamo detto, l’ingresso illegale di molti stranieri che, non riuscendo a trovare un’occupazione dignitosa, sono stati costretti a delinquere scatenando, nel Paese ospitante, sentimenti xenofobi (= paura dello straniero) e razzisti (= disprezzo per le altre razze) che i governi cercano di frenare promettendo nuovi giri di vite contro l’immigrazione clandestina. Grecia e Italia, in particolare, nonostante siano i Paesi che hanno introdotto nei confronti dell’immigrazione clandestina norme più restrittive dei partner europei, non riescono a farle rispettare, forse anche a causa della loro posizione geografica e per la difficoltà di controllare migliaia di kilometri di coste.

Nell’immediato secondo dopoguerra, si assiste ad un consistente flusso migratorio dai Paesi dell’Est europeo verso quelli occidentali: in particolare si calcola che quasi quattro milioni di cittadini della Germania Democratica si siano riversati clandestinamente, spesso rischiando la vita, nella Germania Federale. Per interrompere questo flusso illegale che riguardava soprattutto intellettuali e professionisti, venne innalzato il famigerato muro di Berlino, una barriera che contribuì a diminuirne l’entità senza però interromperlo del tutto.

Nel 1989 con l’abbattimento del “muro della vergogna”, gli spostamenti dall’Est ripresero vigore e per la prima volta interessarono anche cittadini sovietici, un milione dei quali abbandonarono l’URSS per recarsi in occidente. L’Europa occidentale, in quell’occasione, si preoccupò non poco del fenomeno, perché temeva potesse trattarsi solamente delle prime avanguardie di una marea di gente che poi nessuno avrebbe più potuto fermare.

I timori erano infondati perché in realtà si era in presenza di un flusso etnico riguardante soprattutto cittadini ebrei e tedeschi che approfittavano della situazione per ritornare nei loro Paesi di origine. Nell’ex Unione sovietica vivono attualmente ancora molti cittadini ungheresi, rumeni, polacchi ed ebrei che, appena possibile, lasceranno quella terra per tornare da dove erano venuti. La temuta grande migrazione da Est non c’è stata e, proprio perché si trattava di una migrazione determinata da motivi etnici e non dalla ricerca di lavoro, il flusso si è andato via via assottigliando. Oggi si calcola che gli emigrati provenienti dai Paesi del cosiddetto socialismo reale nell’intera area dell’UE siano poco più di un milione.

L’ingresso di forza lavoro straniera porta indubbiamente molti vantaggi al Paese ospite, ma, come abbiamo fatto cenno, causa altresì problemi legati agli aspetti negativi del fenomeno che possono essere preponderanti rispetto a quelli positivi. Ad esempio, se il flusso migratorio è eccessivo questo, invece che vantaggi, provoca turbative del mercato del lavoro perché, alimentando il mercato nero e lo sfruttamento, esso genera conflitti con i lavoratori locali. Ma un flusso migratorio eccessivamente forte danneggia anche il Paese di origine di queste popolazioni. Normalmente, dall’emigrazione il Paese di origine trae vantaggi sia attraverso le rimesse di danaro che i lavoratori spediscono in patria, sia attraverso l’acquisizione di competenze professionali che poi il migrante può far valere una volta tornato nella sua terra di origine. Ma se il flusso migratorio è esagerato, il Paese di provenienza è privato della forza lavoro migliore e di conseguenza esso registra un peggioramento delle condizioni di sottosviluppo in cui già si trovava. E’ il caso di quanto si è verificato per esempio in Italia negli anni ’50 e ’60 quando dal Sud sono partite migliaia di persone fra le più qualificate, forti e giovani, per recarsi a lavorare nelle città del Nord: il loro esodo determinò un peggioramento delle condizioni già precarie in cui versava la loro terra d’origine.

 

ACCOGLIERLI O RESPINGERLI?

Ogni anno, nei soli Paesi della Comunità, arrivano oltre un milione e mezzo di nuovi ospiti, molti dei quali clandestini e stagionali. Come abbiamo visto, sono svariate le cause di questo flusso migratorio per molti aspetti nuovo nelle forme e nelle dimensioni; fra queste possiamo annoverare l’accentuata divaricazione fra Paesi ricchi e Paesi poveri, la caduta del muro di Berlino, la revisione delle leggi sull’immigrazione da parte dei Paesi tradizionalmente recettori come gli Stati Uniti, ma soprattutto, come si diceva all’inizio, la diffusione attraverso i mezzi di comunicazione di massa del modello occidentale, nei Paesi dell’Est europeo e del Sud del mondo. E’ pertanto legittimo chiedersi se si debbano accogliere o respingere coloro che bussano alla nostra porta.

Nei prossimi vent’anni i quattro più grandi Paesi d’Europa (Francia, Germania, Regno Unito e Italia) vedranno aumentare la loro popolazione di un milione di persone mentre nello stesso periodo di tempo i Paesi Nord africani (Marocco, Algeria ed Egitto) e i maggiori Paesi del Medio oriente (Siria, Iran, Iraq e Arabia Saudita) aumenteranno la loro popolazione di 150 milioni di unità. A questi milioni di giovani in cerca di lavoro che i loro Paesi non potranno offrire, si dovranno aggiungere gli abitanti dei Paesi dell’Est europeo che rappresenteranno anch’essi un bacino di povertà extracomunitaria in cerca di una sistemazione dignitosa. Poi vi sono i Cinesi, gli abitanti dell’estremo oriente asiatico e i Latinoamericani.

Questa enorme massa di disperati si riverserà tutta nei Paesi della Comunità europea in cerca di lavoro o esiste qualche soluzione alternativa del problema? Vi è da dire che molti di questi futuri emigranti extracomunitari sono turchi o cittadini della ex Jugoslavia, appartengono cioè a Paesi che si accingono ad integrarsi definitivamente e quindi in breve faranno parte a pieno titolo della Unione Europea all’interno della quale uomini e merci circolano liberamente. Poi vi sono i flussi consistenti che provengono dalla Cina e dai Paesi del Sud-Est asiatico che probabilmente sono destinati ad esaurirsi o a ridursi di molto perché quelle zone del mondo sono interessate da una forte crescita economica accompagnata da una stabilizzazione demografica che lascia prevedere un assorbimento consistente di manodopera. I poveri del Sud America prenderanno verosimilmente la strada del Nord del loro continente. Resta il filone africano il quale effettivamente rappresenta un problema perché in quel continente ad un incremento economico molto lento, corrisponde ancora un incremento demografico molto sostenuto.

Riuscirà l’Europa a resistere alla pressione migratoria di tutta questa gente? Ovviamente sarà necessario attrezzarsi adeguatamente per non subire il fenomeno come succede attualmente e provvedere invece alla sua gestione. Per farlo ci vogliono regole precise e chiare per tutti, e soprattutto qualcuno che le faccia rispettare.

L’immigrato, come abbiamo detto, rappresenta indubbiamente un vantaggio per un Paese fortemente industrializzato non solo perché va ad occupare i posti di lavoro faticosi e mal pagati rifiutati dai residenti, ma anche per tutta una serie di motivi etici e culturali di cui il Paese ospite non potrà che trarre profitto.

Il problema è quindi quello di individuare le reali esigenze e necessità di manodopera in modo da permettere l’ingresso solo a coloro cui la ricca Europa potrà offrire un lavoro e una sistemazione logistica dignitosa. Devono invece essere chiusi i confini all’immigrazione clandestina, anziché con le motovedette o il pattugliamento dei confini, con la dissuasione, cioè rendendo difficile la vita a coloro che si trovano illegalmente nel Paese ospite in modo da scoraggiare nuovi ingressi. I clandestini che entrano in Europa per delinquere devono sapere che, per loro, la vita sarà molto difficile e molto più dura di quella che lasciano nel Paese di origine. Nello stesso tempo però sarà necessario aiutare i Paesi poveri a progredire e offrire lavoro ai loro concittadini.

 

LA SITUAZIONE ITALIANA

In Italia, dalla fine degli anni ‘60 ad oggi, il tasso di accrescimento demografico annuo è stato in continua diminuzione fino ad invertirsi in questi ultimi anni. Se la situazione dovesse durare nel tempo, la popolazione italiana tenderebbe gradualmente ad estinguersi. Una tendenza tuttavia non è un destino e non è detto che quello che sta accadendo attualmente continuerà in un prossimo futuro. La storia evolutiva dell’uomo ha insegnato che i fattori culturali sono stati molto più importanti rispetto a quelli biologici nel determinare la crescita demografica di una popolazione. Non è detto quindi che una rivoluzione tecnologica, sempre in agguato, un nuovo atteggiamento culturale o una decisa scelta politica non possano cambiare, fino ad invertirlo, il trend negativo attualmente in atto.

Ma prima di disegnare scenari catastrofici per quanto riguarda l’estinzione della popolazione italiana, bisogna chiedersi cosa si intenda effettivamente per popolazione italiana. E’ possibile individuare un insieme di caratteri antropologici (forma del naso, altezza, colore dei capelli, ecc.) che definisca un individuo appartenente alla popolazione italiana? La risposta è: no. Così come è impossibile definire scientificamente le razze umane, è altrettanto impossibile individuare caratteri genetici o morfologici che caratterizzino in modo non ambiguo un Italiano e lo distinguano ad esempio da un Tedesco, da un Francese e perfino da un Africano di pelle nera. Il colore della pelle è solo uno dei tanti caratteri che distingue un individuo da un altro e il fatto che lo sappiamo riconoscere dipende unicamente dalla conformazione dei nostri sensi che vedono colori e forme, ma non sanno distinguere tanti altri tratti genetici che caratterizzano l’individuo.

Vi sono invece aspetti culturali, storici, linguistici e l’insieme delle tradizioni, nei quali si può riconoscere un cittadino italiano, ma si tratta di un insieme di caratteristiche definite in termini politico-culturali e geografici, non certo genetici.

Se quindi è vero che non esiste un problema legato all’estinzione della specie “Homo Italicus” (?), esiste invece nel nostro Paese un problema relativo alla riduzione delle nascite. Alla fine degli anni ’60 nascevano in Italia quasi un milione di bambini all’anno; oggi il numero si è ridotto a meno della metà ed è quasi uguale a quello dei morti così che ormai siamo molto vicini alla “crescita zero”: un valore che per i demografi (gli studiosi delle variazioni delle dimensioni di una popolazione) è un aspetto positivo, ma che per l’opinione pubblica, condizionata da stereotipi culturali legati soprattutto alla religione e ad un rozzo orgoglio campanilistico, è un fatto negativo. Le cause di questo declino sono svariate, ma tutte conseguenti alle condizioni socioeconomiche della popolazione. A sostegno di questo convincimento sta il fatto che il declino non è stato omogeneo in tutto il Paese, ma si è rivelato più intenso nelle regioni settentrionali e centrali rispetto a quelle meridionali. Questa osservazione evidenzia il fatto che in realtà quello dell’incremento demografico è un falso problema: il vero problema sta nella equa distribuzione della ricchezza che condiziona la vita sociale della gente e di conseguenza anche la pianificazione familiare.

Altro dato inconfutabile è l’invecchiamento della popolazione italiana e da questo punto di vista l’introduzione di forza lavoro giovane proveniente da Paesi esteri a lungo termine sarebbe un vantaggio. La richiesta di manodopera delle regioni del Nord non trova più risposta nei giovani disoccupati del Sud dell’Italia i quali non intendono trasferirsi in un ambiente che offre loro solo il lavoro senza quelle strutture logistiche che sono indispensabili per un inserimento completo nel tessuto socio culturale. Ciò li costringerebbe a sacrifici che non sono intenzionati a sopportare.

Oggi si calcola che in Italia siano presenti circa un milione e mezzo di immigrati regolari, la maggioranza dei quali extracomunitari, e che i clandestini siano più del doppio. Si tratta in genere di gente giovane che, come abbiamo detto, in una certa misura riequilibra l’età della popolazione residente. Sono molti, sono pochi? Sulla base di parametri prevalentemente economici si è calcolato che l’Europa Comunitaria sarebbe in grado di assorbire una quota di stranieri pari a circa lo 0,1% dei suoi abitanti all’anno, un numero che per l’Italia corrisponderebbe circa a 50.000 immigrati all’anno. In realtà questa quota nel nostro Paese è attualmente largamente superata, ma tuttavia bisogna tenere presente che molti stranieri scelgono l’Italia come punto di transito verso i Paesi del nord Europa.

Se la quota di immigrazione si mantenesse sui valori stimati compatibili con il nostro sviluppo industriale, si tratterebbe di una quota scarsamente influente sulla struttura genetica della popolazione italiana la cui identità, come abbiamo visto, è molto poco individuabile da un punto di vista prettamente biologico. In realtà il problema è politico e culturale insieme. Occorre una politica per l’immigrazione che non sia altalenante fra permissivismo e limitazioni fondate su norme ambiziose, ma inconcludenti. In un periodo di recessione, qual è quello che stiamo vivendo, l’immigrazione incontrollata potrebbe scatenare gravi tensioni sociali per prevenire le quali non sarebbe sufficiente la maturazione di una cultura antirazzista e antixenofoba. Da un punto di vista politico sarebbe sbagliato erigere un nuovo muro di Berlino, ma sarebbe altrettanto sbagliato aprire le porte del nostro territorio senza un controllo adeguato.

L’arrivo di decine e centinaia di migliaia di persone che vanno ad inserirsi fra i residenti rompendo equilibri già ben consolidati rappresentano solo un fatto negativo? Prima di rispondere alla domanda bisogna osservare che il Paese ospite subisce, per l’arrivo di immigrati stranieri, nell’immediato, un certo incremento demografico dovuto non solo alla presenza dei nuovi arrivati, ma anche dall’alto indice di natività che li caratterizza. Poi, come abbiamo già fatto notare, c’è da tenere presente che da un punto di vista economico, la migrazione reca un beneficio alla crescita del Paese ospitante, in quanto gli stranieri si adattano a ricoprire posti di lavoro che in genere gli abitanti del luogo rifiutano perché poco graditi o sottopagati. In Italia, ad esempio, dove pure la disoccupazione è elevata, soprattutto nel Sud, non si trovano più ragazze che vogliano fare le domestiche, o persone disposte a lavorare nei campi alla raccolta dei pomodori o nelle stalle ad accudire gli animali. La forte immigrazione incide anche sull’incremento della popolazione scolastica e sulla conseguente necessità di assumere nuovo personale insegnante.

L’Italia, travolta da questa ondata migratoria, è stata costretta ad affrontare un problema del tutto nuovo e ha reagito in modo scomposto, oscillando fra un’accoglienza umanitaria e una serie di dichiarazioni di fermezza che poi venivano regolarmente disattese. Nonostante gruppi consistenti di clandestini vengano giornalmente intercettati e respinti dalle forze dell’ordine, sono tanti quelli che riescono ad insediarsi.

La situazione è veramente preoccupante come molta gente afferma? La diversità culturale, se ben utilizzata, può essere un valido strumento di evoluzione. Da un punto di vista antropologico la variabilità è un vantaggio rispetto alla omogeneità e bisogna riconoscere che di ciò in passato noi Italiani, più degli altri, ci siamo largamente avvantaggiati.

Prof. Antonio Vecchia

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