La singolarità

Nella seconda metà del secolo scorso cominciò a serpeggiare fra la gente comune un senso di delusione nei confronti della scienza: generalmente indirizzato a tutte le discipline esclusa l’astronomia.

Come mai l’astronomia, in quella atmosfera di contestazione, conservava e conserva a tutt’oggi lo stesso fascino che aveva in passato? Si ritiene che ciò possa dipendere in parte dalla connotazione mistica di questa disciplina così come ci è stata tramandata dalle civiltà antiche e, in parte, dal fatto che fra tutte le scienze naturali l’astronomia è quella considerata la più “pulita”. Poiché non si possono di certo accusare gli astronomi della bomba atomica, dell’inquinamento atmosferico, della diffusione dei cibi OGM o dell’AIDS, si deve convenire che le scoperte di questi ricercatori non hanno mai minacciano la vita delle persone né messo in pericolo alcun posto di lavoro.

Tuttavia, nonostante i fenomeni celesti risveglino presso l’opinione pubblica un così alto interesse, non mancano argomenti che suscitano fra gli appassionati perplessità e difficoltà di comprensione.

 

LA FORZA GRAVITAZIONALE

Fra le scoperte astronomiche degli ultimi anni, quella che più ha affascinato il grosso pubblico è stata, senza dubbio, il buco nero. Molte furono le pubblicazioni e le trasmissioni televisive che illustravano il fenomeno tanto che la gente aveva vagamente compreso che i buchi neri erano particolari oggetti celesti che risucchiano ogni cosa senza poi lasciarla più uscire dal loro interno. Questi sono infatti veri e propri “aspirapolvere” cosmici che ingurgitano tutto ciò in cui si imbattono, compresi i fotoni che compongono la luce: non c’è scampo da un buco nero per nessuno. Tuttavia gli scienziati, prima ancora del buco, sono interessati a ciò che sta all’interno di esso.

La scoperta che una stella di grosse dimensioni potesse collassare vittima del proprio peso ed uscire di scena in modo catastrofico, quasi fosse una specie di Triangolo delle Bermuda dello spazio, costituiva un fatto veramente singolare tanto che gli scienziati hanno usato, per un simile evento, proprio il termine di “singolarità”. Prima di entrare in argomento dobbiamo però chiarire la natura della gravità ossia della forza maggiormente responsabile del fenomeno che ci apprestiamo a trattare.

Fra le forze naturali: nucleare forte, elettromagnetica, nucleare debole e gravitazionale, quest’ultima è quella che ci è più familiare, perché fra l’altro ci permette di stare ben saldi con i piedi in terra. La leggenda narra che questa forza fu scoperta quando una mela, cadendo sulla testa di Newton, portò lo scienziato ad interrogarsi sulla causa che aveva determinato la caduta di quel frutto dall’albero e ben presto comprese che la medesima forza doveva essere capace di attrarre tutti i corpi l’uno verso l’altro. La Terra non attira a sé solo gli uomini e le mele, ma anche la Luna e i tanti satelliti che negli ultimi anni sono stati lanciati nello spazio, alcuni dei quali ci sono già precipitati addosso. D’altra parte la Terra stessa, insieme con gli altri pianeti, è attirata dal Sole.

Fra le quattro forze che agiscono in natura la gravitazionale, pur essendo di gran lunga la più debole, è però anche quella che agisce a distanze grandissime, anzi il suo raggio di azione è infinito. Quindi, malgrado che l’intensità di questa forza sia bassa, gli effetti sono considerevoli perché essa è quella che assicura la coesione dell’Universo intero e determina il moto di tutti i corpi che lo compongono.

L’intensità della forza gravitazionale fra due corpi qualsiasi dipende da due fattori: dalla quantità di materia contenuta in essi e dalla loro distanza. Più vi è materia più grande è la forza gravitazionale: su Giove, la cui massa è 318 volte maggiore di quella della Terra, una persona di media corporatura peserebbe più di duecento kilogrammi e si muoverebbe con grande difficoltà mentre sulla Luna, la cui gravità è un sesto di quella della Terra, un individuo dello stesso peso potrebbe divertirsi a fare salti e capriole senza sforzo. L’attrazione gravitazionale è inoltre proporzionale all’inverso del quadrato della distanza fra i due corpi. Se la Terra, invece che a 150 milioni di kilometri dal Sole, si trovasse ad una distanza doppia, ossia a 300 milioni di kilometri, la forza di gravità si ridurrebbe a un quarto (½)2 e se si trovasse tre volte più lontano la forza diventerebbe 1/9.

Vediamo ora cosa succederebbe con questa legge se Terra e Sole si avvicinassero invece che allontanarsi. Se la Terra si venisse a trovare alla metà della distanza a cui si trova dal Sole, cioè a 75 milioni di kilometri, la gravità sarebbe quattro volte quella attuale e, a 50 milioni di kilometri di distanza (un terzo di quella reale), la gravità diventerebbe nove volte quella presente, e così via.

Dagli esempi descritti sopra si deduce che l’attrazione gravitazionale a mano a mano che aumenta la distanza fra Terra e Sole (ma anche fra due corpi qualsiasi) si avvicina sempre più a zero, mentre, diminuendo la distanza, essa tende all’infinito. A un centesimo della distanza attuale fra Terra e Sole la forza di gravità crescerebbe di diecimila volte, a un millesimo diventerebbe un milione di volte più grande e a un milionesimo raggiungerebbe un valore addirittura di cento miliardi di volte maggiore dell’attuale.

Ora però è necessario riflettere un po’ meglio sulle conseguenze che questa legge implica: a un milionesimo della distanza reale dal Sole, il baricentro della Terra si verrebbe a trovare a 150 kilometri dal baricentro dell’astro intorno a cui gira, ma questo è un globo di gas con un raggio di 696.000 kilometri; quindi a quella distanza la Terra si troverebbe sistemata all’interno di esso e in quella posizione la legge di Newton non sarebbe più valida.

L’attrazione gravitazionale di cui abbiamo parlato fin qui è infatti la forza esercitata da un corpo su un altro ad esso esterno. Solo allora infatti è lecito trattare tutta la massa del corpo come se fosse concentrata nel suo centro, e quindi determinare il valore dell’attrazione gravitazionale. Se la Terra si venisse a trovare all’interno del Sole, la parte dell’astro esterna alla posizione occupata dal nostro pianeta non contribuirebbe all’attrazione gravitazionale che sarebbe determinata solo dalla materia sistemata fra la Terra e il centro del Sole. Pertanto, più la Terra penetra all’interno del Sole più diminuisce l’attrazione gravitazionale di quel corpo su di essa. Se infine la Terra si venisse a trovare proprio nel centro del Sole non si noterebbe alcuna attrazione perché non vi sarebbe materia ad agire su di essa.

Ma, come abbiamo visto, la stessa forza mostra i suoi effetti anche su di un singolo corpo. La gravità del Sole ad esempio non viene esercitata solo sui pianeti che gli stanno intorno, ma agisce anche su di esso. Ciò significa che lo stesso materiale che costituisce il Sole viene attratto verso il centro e se non esistesse questa forza, i gas ad altissima temperatura che circondano la superficie della nostra stella sfuggirebbero nello spazio.

La forza di gravità che agisce sul Sole e che tende a spingere tutto il materiale verso il centro è bilanciata dalla pressione generata dalle alte temperature che si realizzano in seguito alle reazioni nucleari prodotte nel nucleo dell’astro. Immaginiamo allora che, in seguito all’esaurimento del combustibile nucleare, venga a mancare la pressione esercitata dai gas verso l’esterno: la gravità in quel caso avrebbe modo di agire nel senso di ridurre le dimensioni della nostra stella. Questa riduzione delle dimensioni, pur rimanendo costante la massa, farebbe aumentare la densità la quale creerebbe una forza di gravità ancora maggiore che tenderebbe a far comprimere ancor di più il Sole ma ciò provocherebbe un ulteriore aumento della gravità alla superficie e così via. La compressione però farebbe anche aumentare la pressione interna che, opponendosi alla forza di gravità, alla fine comunque ne uscirebbe vincente. Se il raggio si riducesse a un po’ meno di tre kilometri non esisterebbe più pressione sufficiente a salvare la situazione e il Sole sparirebbe nel nulla.

La legge dell’inverso del quadrato non vale solo per il Sole, ma per qualsiasi corpo. Se ad esempio la Terra si riducesse alle dimensioni di una piccola biglia conservando la sua massa, collasserebbe sotto l’effetto del proprio peso e sparirebbe per sempre; e perfino un essere umano, se fosse compresso fino ad essere ridotto alla grandezza di un granello di polvere, non potrebbe evitare la totale implosione sotto il peso immane del proprio corpo e svanirebbe anch’esso nel nulla.

 

I BUCHI NERI 

Le prime speculazioni teoriche sui corpi celesti che oggi vengono chiamati “buchi neri” risalgono alla fine del XVIII secolo, quando il matematico e astronomo francese Pierre Simon de Laplace (noto soprattutto per l’ipotesi sull’origine del sistema solare da una nebulosa) dimostrò che la luce non potrebbe uscire da un corpo celeste che avesse una densità media pari a quella del Sole e un diametro 500 volte maggiore.

Laplace pensava che la luce fosse fatta di particelle colorate che viaggiano alla velocità di 300.000 kilometri al secondo e aveva calcolato che una stella sufficientemente grande (che fra l’altro a quel tempo non era mai stata individuata) avrebbe avuto una velocità di fuga pari o superiore a quella della luce: tanto che questa non sarebbe potuta uscire da quell’astro il quale, di conseguenza, sarebbe apparso nero.

La velocità di fuga è la velocità iniziale che occorre imprimere ad un corpo in modo da farlo uscire dall’astro su cui si trova senza che possa fare più ritorno al luogo di partenza. Per la Terra la velocità di fuga è di 11,2 kilometri al secondo; su pianeti più piccoli è più bassa (su Marte, ad esempio, è di soli 5 km/s) e naturalmente su corpi celesti più grandi e pesanti essa è maggiore: ad esempio per sfuggire all’attrazione gravitazionale del Sole sono necessarie velocità di fuga di 620 km/s e su una stella di pari massa ma di raggio uguale a quello terrestre (cioè in una stella che si chiama nana bianca) la velocità di fuga sale ad oltre centomila kilometri al secondo.

In tempi successivi, quando prevalse la teoria ondulatoria della luce su quella corpuscolare di Newton, l’idea di Laplace fu abbandonata, perché si pensava che un’entità immateriale qual è l’onda elettromagnetica non potesse risentire della forza di gravità. L’idea fu però ripresa, come vedremo, dopo che Einstein sostituì alla forza di gravità la deformazione dello spazio generato dalla presenza in esso di corpi massicci.

La riscoperta delle strane “stelle nere” di Laplace inizia nel gennaio del 1916 durante il sanguinoso primo conflitto mondiale. Nell’armata prussiana prestava servizio, come volontario, un giovane fisico tedesco di nome Karl Schwarzschild (1873-1916), il quale, basandosi sulla teoria della relatività generale che era appena stata formulata da Einstein, calcolò il comportamento della materia fortemente concentrata in una stella prossima a morire. Schwarzschild coniò il termine di “raggio gravitazionale” una misura critica che rappresenta il limite minimo di un corpo celeste di una determinata massa oltre il quale non è possibile una configurazione stabile della materia e il corpo si avvia a sparire nel nulla. Questo limite per il Sole vale circa 3 kilometri e per la Terra un po’ meno di un centimetro; bisogna però precisare che Sole e Terra non potrebbero in nessun caso diventare buchi neri perché nell’Universo non esiste un processo naturale che possa comprimere questi due corpi al punto da farli diventare oggetti celesti di quel tipo. Purtroppo nel maggio dello stesso anno, dopo aver inviato il proprio lavoro ad Einstein per avere da lui un giudizio autorevole relativamente ai calcoli che aveva eseguito, Schwarzschild contrasse una polmonite che lo portò alla tomba.

Per chiarirci le idee, facciamo ora l’esempio di un’astronave che si venisse a trovare in vicinanza di una stella fortemente massiccia tanto da creare una notevole depressione dello spazio ad essa circostante. Il nostro veicolo spaziale sarebbe costretto a seguire un percorso curvo destinato a chiudersi su sé stesso qualora finisse a distanza inferiore al “raggio gravitazionale” del corpo intorno a cui orbita e per allontanarsi da quella posizione dovrebbe muoversi a velocità superiore a quella della luce, ma una tale velocità è proibita dalle leggi della relatività. Naturalmente la stessa cosa accadrebbe alla luce la quale, ai bordi di un corpo tanto massiccio, sarebbe costretta ad assumere una traiettoria circolare e per allontanarsi dovrebbe muoversi a velocità superiore “alla sua”. La superficie sferica del buco nero avente il raggio di Schwarzschild è chiamata “orizzonte degli eventi” perché, come per l’orizzonte terrestre, che preclude all’osservatore la visione delle cose che stanno al di là di esso, anche in questo caso un osservatore esterno non potrebbe in alcun modo aver notizia degli eventi che accadono all’interno di quel corpo celeste.

Il lavoro di Schwarzschild era il frutto di uno studio puramente teorico ma venne in seguito confermato e approfondito dall’astronomo inglese Arthur Eddington (1882-1944) secondo il quale non c’era limite alla compressione della materia dato che gli atomi sottoposti a forti pressioni possono rompersi in mille pezzi e i frammenti concentrarsi ulteriormente.

Nel 1939, due fisici americani, J. Robert Oppenheimer (1904-1967) – noto per aver diretto il gruppo di scienziati impegnati nel progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica – e Hartland Snyder (1913-1962), analizzando le proprietà delle stelle di neutroni, avevano previsto anche la possibilità che una stella di massa superiore a 3,2 volte quella del Sole si contraesse fino a ridursi ad un punto, ossia ad una singolarità.

In una stella di grande massa, dopo un’esistenza piuttosto breve rispetto a quella delle stelle di massa minore, si realizzerà uno degli eventi più violenti e spettacolari che si possono verificare nel mondo fisico: una tremenda esplosione che manderà all’aria (si fa per dire) la parte esterna mentre il nucleo imploderà. Il fenomeno si chiama supernova e prevede che durante il collasso il nucleo si contragga e la velocità di rotazione, all’inizio lenta, aumenti notevolmente in seguito ad un fenomeno simile a quello di una ballerina che per acquistare maggiore velocità di rotazione su sé stessa avvicina le braccia al corpo. A questo punto cosa succederà del nucleo imploso? Si formerà una singolarità coperta da un buco nero o una singolarità nuda?

Non è facile rispondere a questa domanda perché nessun fisico fino ad ora è riuscito ad elaborare un modello completo che descriva la complessa situazione che si crea all’interno di una supernova. Qualche congettura, però, si può fare.

 

LA SINGOLARITÀ VESTITAE SINGOLARITÀ NUDA

Riprendendo e integrando quanto è stato esposto fino ad ora, possiamo dire che quando una stella esaurisce il combustibile nucleare contrae il proprio nucleo mentre espande gli strati superficiali: diviene cioè una stella più grande ma meno calda, ossia una gigante rossa. A questo punto l’astro va alla ricerca di nuove configurazioni stabili espellendo gradualmente i suoi strati superficiali, o facendo la stessa operazione in maniera esplosiva. L’assetto finale dipende dalla massa restante dopo che è avvenuta l’espulsione delle parti superficiali: se questa è inferiore a 1,4 masse solari la stella termina la sua esistenza come “nana bianca” (e questa sarà la fine del nostro Sole); se la massa residua supera questo limite la stella si tramuterà in una “pulsar”, ovvero in una stella di neutroni; se infine ciò che rimane della stella ha una massa che è di almeno 3,2 volte maggiore di quella del Sole non esiste forza in grado di arrestarne la contrazione e terminerà il proprio collasso in un punto di volume zero e densità infinita cioè in quello che abbiamo chiamato “singolarità”. Il buco nero è la regione dello spazio attorno alla singolarità, che presenta un raggio uguale a quello di Schwarzschild e all’interno del quale la gravità è talmente intensa da impedire la fuga di qualsiasi forma di materia ed energia, compresa la luce. Cosa ci sia realmente al centro di un buco nero è tuttora argomento di discussione ma su una cosa i fisici sono tutti d’accordo e cioè sul fatto che in quel punto la fisica trascende le nostre attuali conoscenze.

Il termine di “buco nero” venne assegnato a questo oggetto celeste nel 1967 dal fisico americano John Archibald Wheeler (nato nel 1911) e il nome incontrò subito il favore del pubblico: esso infatti è proprio un buco, anzi un pozzo infinitamente profondo perché la materia che vi entra non può più uscire ed è nero perché nemmeno la luce può abbandonarlo e di conseguenza risulta invisibile.

Abbiamo quindi visto che la massa è la responsabile del destino finale di una stella ma anche altre sue caratteristiche come la carica elettrica e la velocità di rotazione giocano un ruolo importante nell’evoluzione degli astri. In precedenza si è accennato al fatto che in fisica esiste una legge fondamentale, detta della conservazione del momento angolare, la quale asserisce che se un corpo rotante diminuisce la sue dimensioni esso deve necessariamente aumentare la velocità di rotazione intorno al proprio asse. Ebbene, il modello di buco nero finora descritto è quello che prende in considerazione una stella sferica e statica ma, in natura, stelle rispondenti ad un simile modello teorico non esistono. Tutte le stelle, seppure con velocità diverse, ruotano intorno al proprio asse (il nostro Sole, ad esempio, compie una rotazione ogni 25 giorni) come si può dedurre osservando il diverso grado di schiacciamento dei loro poli.

Nel 1962 il matematico neozelandese Roy Kerr descrisse la formazione di un buco nero a partire da una stella rotante, ma dopo questo lavoro abbandonò la ricerca per diventare un giocatore di bridge di fama internazionale. La differenza sostanziale fra il modello di Schwarzschild e quello proposto da Kerr sta nel fatto che una stella con velocità angolare molto elevata, al momento della contrazione, si potrebbe anche frantumare e in tal caso si formerebbe la singolarità, ma non il buco nero. La singolarità priva della copertura del buco nero, come abbiamo accennato, viene detta “singolarità nuda” e la luce che esce da quel punto può viaggiare nello spazio e portare l’informazione ad un osservatore lontano.

Questo tipo di singolarità si potrebbe formare anche all’interno di un buco nero qualora questo fosse in rotazione o fornito di carica elettrica. Il questo caso infatti invece che un unico orizzonte degli eventi, come avviene nel modello statico di Schwarzschild, se ne formerebbero due, uno interno all’altro, a separare due regioni con diverse caratteristiche. Là dove vi era un punto privo di dimensioni ora appare un anello piatto che sarebbe possibile attraversare. Si formerebbe infatti una specie di tunnel spazio-temporale (la teoria della relatività richiede di considerare lo spazio tridimensionale e il tempo unidirezionale come parti di uno spazio-tempo unificato a quattro dimensioni) che collegherebbe il nostro ad un altro Universo. Pertanto, se un osservatore cadesse in un siffatto buco nero finirebbe nel tunnel spazio-temporale e quindi emergerebbe, attraverso una struttura che potremmo chiamare “buco bianco” (perché da esso la materia invece che entrare esce), in un Universo parallelo. Naturalmente questo percorso potrebbe essere ripetuto più volte e l’osservatore, dopo essere sbucato in un secondo Universo, potrebbe immergersi in un altro buco nero e, con la stessa tecnica precedente, riemergere attraverso un buco bianco in un terzo Universo, e così via in un viaggio senza fine.

Oltre a quella descritta sopra, questi particolari buchi neri hanno un’altra caratteristica: un osservatore che si venisse a trovare all’interno dell’orizzonte degli eventi nel punto più prossimo alla singolarità nuda potrebbe esaminare quest’ultima da vicino perché essa invierebbe informazioni che potrebbero essere da lui analizzate, ma non portate all’esterno.

Immaginiamo quindi che un astronauta temerario si avventuri all’interno di un buco nero: in prossimità della singolarità che in nessun modo riuscirebbe ad evitare perché all’interno di un buco nero ogni cosa materiale procede verso il punto centrale, egli noterebbe che spazio e tempo si sono scambiati di ruolo. Come sappiamo, nell’Universo nel quale viviamo è possibile muoversi in qualsiasi direzione all’interno di uno spazio tridimensionale mentre per il tempo è possibile un’unica direzione: dal passato al futuro. Ebbene all’interno del buco nero le due coordinate, quella spaziale e quella temporale, si ribaltano e mentre la coordinata spaziale punta verso un’unica direzione, ossia verso la singolarità, quella temporale si può muovere in ogni direzione. In virtù di questa caratteristica unidirezionale dello spazio (che nel mondo esterno appartiene alla coordinata temporale) diventa impossibile, all’interno di un buco nero, per gli oggetti materiali, sfuggire alla singolarità.

Lo scambio di ruoli fra spazio e tempo può però condurre ad alcuni equivoci come quello di immaginare il buco nero come una specie di macchina del tempo. Se infatti il tempo al suo interno si comporta come lo spazio all’esterno di questa strana struttura è ipotizzabile che lo si possa percorrere in senso contrario a quello normale violando le leggi della casualità, le quali impongono che la causa debba precedere l’effetto di un evento e non viceversa. Se infatti il tempo procedesse dal futuro al passato allora sarebbe possibile per una persona andare nel passato e, per esempio, uccidere i propri genitori prima che questi generino il figlio assassino.

 

CONCLUSIONI

I buchi neri e soprattutto le singolarità che stanno al loro interno pongono in evidenza una grave crisi della fisica moderna che, per certi versi, ricorda quella che è stata alla base dello sviluppo della meccanica quantistica nella descrizione della struttura atomica.

Nel 1911 Ernest Rutherford (1871-1937) in uno dei suoi tanti esperimenti divenuti famosi per la semplicità e la genialità dell’impostazione, dimostrò che l’atomo non poteva avere una struttura omogenea, come l’immaginava il fisico inglese Joseph John Thomson (1856-1940), ma doveva possedere un nucleo di dimensioni molto piccole e di carica elettrica positiva, nel quale era concentrata praticamente tutta la sua massa. Gli elettroni, necessariamente, dovevano muoversi su ampie orbite, intorno al nucleo centrale, come i pianeti ruotano intorno al Sole. Per questo motivo, il modello atomico di Rutherford, venne anche detto “modello planetario”.

Tuttavia, nonostante che il modello del grande fisico neozelandese fosse molto seducente, soprattutto per la descrizione unitaria che dava della struttura del micro- e del macrocosmo, esso aveva il difetto di essere assolutamente incompatibile con le leggi della meccanica e della elettrodinamica esistenti. Secondo queste leggi infatti, un corpo carico di elettricità che si muova con moto che non sia rettilineo ed uniforme, irradia energia a scapito della propria. L’elettrone pertanto, nel suo moto circolare intorno al nucleo, poiché è soggetto ad una continua accelerazione centripeta, e cambia quindi velocità ad ogni istante, dovrebbe irradiare e subire una progressiva diminuzione della propria energia. Ciò lo porterebbe a cadere, seguendo una traiettoria a spirale, sul nucleo. E’ stato calcolato che l’atomo, se fosse costruito secondo il modello proposto da Rutherford, sarebbe destinato a disintegrarsi in una frazione di secondo laddove esso, per nostra fortuna, è stabile. Alla fine, come sappiamo, con la nascita della meccanica quantistica, tale contraddizione venne risolta perché per la costruzione del modello atomico fu possibile servirsi dell’aspetto ondulatorio degli oggetti di piccole dimensioni.

Quando, nei primi anni Sessanta del secolo scorso, divennero noti i teoremi matematici che descrivevano la singolarità, i fisici cominciarono a preoccuparsi per le conseguenze che la comparsa di una tale entità avrebbero avuto per il mondo fisico. Quando poi venne scoperta la possibilità che la singolarità potesse anche essere nuda con le implicazioni paradossali che una tale eventualità portava con sé, si pensò alla necessità di escludere almeno quest’ultima ipotesi. Nel 1969, il matematico e fisico teorico britannico Roger Penrose (nato nel 1931) pensò infatti di eliminare le singolarità nude ipotizzando l’esistenza di un fantomatico “censore cosmico” che ne vieterebbe la comparsa nascondendole alla nostra vista con il manto di un buco nero.

Tuttavia il collasso gravitazionale, se è valido per una stella di grandi dimensioni, a maggior ragione dovrebbe esserlo per l’intero Universo il quale, se contenesse una quantità sufficiente di materia, alla fine dell’espansione in atto, dovrebbe contrarsi e terminare la sua esistenza per l’appunto in una singolarità. Ma esso stesso sarebbe nato da una singolarità nuda da cui scaturì il big bang. Almeno nel momento della nascita dell’Universo il censore cosmico (sempre che esista) dovrebbe essersi distratto.

I buchi neri, le singolarità racchiuse nel loro interno, gli ipotetici squarci aperti verso altri Universi, il destino stesso dell’intero Universo sono solo congetture, ma qualora lo studio e i calcoli dei fisici teorici dovessero essere confermati da osservazioni e da esperimenti si potrebbe giungere alla formulazione di una teoria del tipo di quella che dette giustificazione del modello atomico. Essa dovrebbe essere in grado di fornire alla materia una connotazione comprensibile e in tal caso anche le singolarità potrebbero essere accettate dalla comunità scientifica come realtà concrete.

Infine, per completezza di informazione, dobbiamo ricordare che una spiegazione matematica del collasso gravitazionale potrebbe anche non essere mai trovata. La gente è convinta che il progresso scientifico non avrà mai fine e che qualsiasi aspetto della natura, per enigmatico che possa apparire, troverà prima o poi una spiegazione. Vi sono invece sistemi talmente complessi, soprattutto nel campo delle scienze biologiche, che pretenderne la descrizione (si pensi ad esempio alla digestione o alla riproduzione dei mammiferi) attraverso espressioni matematiche, sarebbe una pretesa eccessiva.

Prof. Antonio Vecchia

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