In pochi e anche vecchi

L’INCREMENTO DEMOGRAFICO RALLENTA

Per la prima volta nella storia dell’umanità si assiste, in numerose regioni del mondo, ad un deciso e consistente rallentamento dell’incremento demografico: nello stesso tempo e in conseguenza di ciò, il numero dei giovani percentualmente è in calo, mentre è in aumento quello dei vecchi. Dobbiamo preoccuparci?

Vediamo. Con la fine del millennio, la popolazione mondiale avrà raggiunto e superato i sei miliardi di abitanti, un numero che gli esperti giudicano eccessivo perché si continui a vivere ancora a lungo agli attuali standard di comodità e benessere. Inoltre, anche se vi sono segni evidenti, soprattutto nei paesi industrializzati, del calo dell’incremento demografico, la popolazione mondiale, nel suo complesso, continua a crescere e lo fa ad un ritmo tale che prevede il suo raddoppio ogni 50 anni circa. A questa velocità, per intenderci, fra un secolo, contemporaneamente su questa Terra, vivranno 25 miliardi di persone e fra 350 anni si sfioreranno i 1.000 miliardi.

Una tendenza, tuttavia, non è un destino ed è evidente che le cose non potranno andare come prospettato. In realtà, la popolazione mondiale ha già abbondantemente superato il limite di sopportabilità del pianeta (anche se ciò non si nota nei paesi altamente industrializzati) e deve diminuire al più presto se non si vuole perdere quanto di buono è stato costruito finora e se si vuole rimediare, almeno in parte, ai danni prodotti sull’ambiente. La disponibilità di alimenti, di acqua e di energia è già oggi insufficiente in molte parti del pianeta, mentre l’inquinamento e il degrado dell’ambiente hanno ormai raggiunto un tasso di pericolosità allarmante.

E’ necessario quindi attivarsi con intelligenza ed equilibrio per disciplinare la crescita della popolazione fino ad invertirne la marcia, perché se non si agisce subito in modo graduale e consapevole l’incremento demografico si arresterà ugualmente, ma lo farà nel peggiore dei modi. Non sembra infatti essere molto lontano il giorno in cui l’umanità in preda al panico, nel tentativo maldestro di salvare il salvabile, cercherà di sfruttare al massimo la tecnologia di cui dispone con la conseguenza di appestare l’ambiente in modo definitivo. Le epidemie allora si diffonderanno con sempre maggiore frequenza e non ci sarà modo di controllarle, mentre la scarsità di cibo e di energia spingerà le nazioni a combattersi fra loro per accaparrarsi quel poco di buono che la Terra sarà ancora in grado di offrire. Si verrà a creare una situazione di forte tensione sociale e di insicurezza che porterà alla barbarie, con la prospettiva concreta dell’estinzione della nostra specie.

 

ABBASSARE IL TASSO DI NATALITA’

Non possiamo aspettare che le cose migliorino da sole e quindi deve essere l’uomo ad indicare la strada da percorrere. Ora, come è facile capire, per arrestare l’incremento demografico non vi sono che due vie: alzare il tasso di mortalità o abbassare quello di natalità.

La prima soluzione, ovviamente, è impraticabile. Quali sistemi si dovrebbero escogitare per aumentare il numero dei morti? Si dovrebbero diffondere pestilenze in alcune parti del pianeta? Si dovrebbero scatenare guerre fratricide fra le popolazioni più povere e più deboli fino ad arrivare all’olocausto? O si dovrebbero, in modo più subdolo, mettere in difficoltà i vecchi dimezzando loro la pensione e raddoppiando il ticket sui medicinali? In quest’ultimo caso si otterrebbe il duplice vantaggio dell’abbassamento demografico e della riduzione delle spese sociali. E’ ovvio che la civiltà non sopravvivrebbe ad una politica mondiale di assassinio selettivo.

Non rimane allora che ridurre il tasso di natalità e per farlo, si possono adottare vari metodi, alcuni basati sulla costrizione, altri sulla consapevolezza.

Si potrebbe, ad esempio, come sta facendo la Cina, agire sulla pressione fiscale in modo da dissuadere le giovani coppie ad avere troppi figli. E’ difficile, per noi occidentali, accettare ciò che sta avvenendo in quel Paese dove il Governo promette incentivi economici a chi mette al mondo un solo figlio, mentre minaccia pesanti sanzioni e tasse molto elevate a chi ne mette al mondo più di uno. Certo è che il sistema finora ha funzionato anche se ha creato disparità e prodotto tensioni sociali preoccupanti perché i contadini più ricchi possono pagare le multe e mettere al mondo quanti figli vogliono, mentre i poveri, non potendo generare più di un figlio, vogliono almeno che quell’unico sia maschio e per ottenere lo scopo spesso arrivano a compiere l’infanticidio delle neonate. Si tratta certamente di metodi odiosi, ma in pochi anni la Cina ha visto passare la fertilità media da cinque figli per coppia a soli 2,1. Invece l’India, che è ancora molto lontana da questi risultati, nel 2030 con un miliardo e mezzo di abitanti avrà superato la Cina. Oggi quel Paese, dagli osservatori internazionali, è considerato il simbolo dell’insuccesso delle politiche demografiche.

In alternativa ci sarebbero i sistemi basati sulla persuasione, i cui effetti però sono molto lenti. Per secoli l’uomo si è sforzato di persuadere le donne che la maternità rappresentava la totale realizzazione della loro personalità e che il compito più nobile che la società ha affidato loro è stato quello di procreare ed allevare i figli. Ebbene, questo concetto oggi non è più attuale ed è opportuno che cambi e che cambi in fretta e in modo radicale.

Le donne non sono al mondo per fare figli anche se per lungo tempo si sono sacrificate quasi esclusivamente in questo ruolo. Fare tanti figli poteva andare bene (e in effetti andò bene) in un mondo spopolato, con una durata media della vita molto bassa e con una mortalità infantile enorme, ma ora le cose sono cambiate: il mondo è pieno di gente che mediamente vive a lungo e la mortalità infantile, almeno nei paesi più industrializzati, è stata praticamente sconfitta. Sono lontani i tempi in cui alla limitazione delle nascite provvedeva il buon Dio con le malattie infantili e le morti per parto. In quei tempi perfino un terzo dei bambini moriva prima del compimento del primo anno d’età e anche la maternità era molto rischiosa e provocava molti decessi fra le stesse partorienti.

Oggi mettere al mondo tanti figli non ha più senso, ed anzi, farlo deliberatamente, equivale a commettere un atto sconsiderato e dannoso nei confronti dell’intera comunità. Di questo si devono convincere le donne e nello stesso tempo devono prendere coscienza della enorme responsabilità, nei confronti della società civile, che grava sulle loro spalle.

In ogni tempo le donne hanno sempre ricoperto un ruolo determinante nella dinamica demografica; attualmente una donna che vive in un paese altamente industrializzato e che gode di un discreto livello di benessere è più preoccupata per la sorte dei figli che ha, ai quali vorrebbe assicurare una vita ricca di opportunità e priva di rischi, piuttosto che di metterne al mondo degli altri. Al contrario, una donna che vive in un paese povero del terzo o del quarto mondo con un alto tasso di mortalità infantile, tende ad avere molti figli perché inconsapevolmente percepisce che molti di loro non supereranno i primi anni di vita.

Con l’esigenza di un razionale controllo delle nascite deve mutare anche il nostro atteggiamento nei confronti del sesso. La sessualità è sempre stata considerata funzionale alla procreazione e l’atto sessuale, per qualsiasi altro fine fosse stato praticato, era ritenuto sconveniente, peccaminoso e contro natura. Ciò non è vero; e non può essere vero.

Questo convincimento è falso perché l’uomo, dal punto di vista del comportamento sessuale, è un caso unico nel regno animale. Negli animali (e nelle piante) la riproduzione è un fatto naturale e spontaneo finalizzato alla sopravvivenza della specie. Nelle femmine di gran parte dei mammiferi, ad esempio, esiste l’estro, cioè un breve periodo di tempo in cui il desiderio sessuale si fa irresistibile e incontrollabile e in cui gli animali sono, per così dire, costretti ad accoppiarsi perché è la natura stessa che glielo impone. L’uomo invece non ha periodi limitati di fecondità: egli è fecondo sempre (entro una certa età), e quindi lo stimolo sessuale non è determinato solo dal ciclo riproduttivo, ma anche e soprattutto da fattori di tipo culturale e ambientale. L’uomo può compiere l’atto sessuale in qualsiasi periodo dell’anno e in qualsiasi momento della giornata e quest’atto, inoltre, non prevede necessariamente la nascita di un figlio, a differenza di quanto avviene negli animali per i quali, ad ogni periodo degli accoppiamenti, segue, infallibilmente, la nascita della prole.

L’atto sessuale, nell’uomo, deve avere quindi un altro fine oltre a quello, ovvio, della procreazione. Quale sarebbe questo fine? Poiché si tratta di un’azione piacevole e desiderabile non è escluso che possa essere servita, agli albori della sua storia, per tenere unita la coppia al fine di facilitare l’allevamento dei figli, con chiaro vantaggio evolutivo. Oggi invece, indipendentemente dal fatto biologico, la sessualità deve essere interpretata in modo più ampio e cioè come un atto interpersonale e sociale, un modo intimo e intenso di comunicare fra due individui di sesso opposto e non come un’azione unicamente e necessariamente rivolta alla procreazione.

Naturalmente, una vita senza figli, e senza avere modo di indirizzarla verso altri interessi, rappresenterebbe, per la donna, una vita vuota, quasi inutile, e non sarebbe molto agevole convincerla che passare il tempo senza fare niente è una delle massime aspirazioni della specie umana. Con che cosa si potrebbe quindi riempire la vita di una donna che rinunciasse ai figli? Naturalmente con il lavoro e lo studio. La donna di oggi deve poter accedere a tutte le professioni, senza limiti di funzioni e di carriera, esattamente come avviene per l’uomo. Solo raggiungendo la parità di diritti con l’altro sesso la donna potrebbe rinunciare ai figli. Questo non vuole dire che non ci sarebbero più bambini, vuol dire semplicemente che i bambini sarebbero pochi e quindi più preziosi: un bene da tutelare e proteggere con la massima cura e da trattare con la più tenera e amorevole attenzione educativa.

 

IL PROBLEMA DEI VECCHI

E veniamo al problema dei vecchi. In un mondo in cui il rallentamento demografico è determinato da un ridotto tasso di natalità, mentre la durata media della vita continua a crescere, è fatale che il numero dei giovani sia destinato a diminuire e quello dei vecchi ad aumentare. E anche se con gli inizi del nuovo secolo il numero degli anziani dovesse diminuire, insieme al resto della popolazione, in percentuale i vecchi continuerebbero ad essere preponderanti sui giovani. Questo discorso, tuttavia, vale solo in termini relativi; in assoluto invece mai il mondo è stato così giovane come è oggi. Attualmente, sul pianeta, vi è un miliardo di persone di età compresa fra i 15 e i 24 anni, e mai si era verificata in passato una cosa del genere. Per dire il vero purtroppo si tratta soprattutto di giovani che vivono in Paesi sottosviluppati e quindi con scarsa o nulla scolarizzazione e con conoscenze professionali piuttosto approssimative.

L’esigenza di un mutamento della composizione della popolazione non è una questione di scelta: è il prezzo della sopravvivenza, è lo scotto che dobbiamo pagare se vogliamo continuare a disporre di alimenti, energia e altri beni di consumo come attualmente avviene e se vogliamo aiutare le popolazioni più povere della Terra a migliorare il loro tenore di vita. Solo una migliore qualità della vita, fra l’altro, abbasserebbe il tasso di natalità (e di mortalità infantile), ancora elevatissimo, nelle zone più depresse del nostro pianeta.

Il mondo di domani, soprattutto dei paesi industrializzati, è destinato quindi a diventare un mondo di vecchi, così come quello di ieri è stato un mondo di giovani. Come dovrà essere organizzato? Sarà migliore o peggiore di quello attuale?

Sicuramente sarà diverso. Fino a tempi molto recenti il modello di società era costruito a misura di giovane anche perché il mondo, in lenta e graduale trasformazione, era popolato, come abbiamo visto, prevalentemente da giovani. La durata media della vita era bassissima e le persone che, logorate da un lavoro faticoso e debilitante, superate anche le malattie e le frequenti epidemie, riuscivano a raggiungere un’età avanzata, erano veramente poche. Per le donne invecchiare era ancora più difficile che per gli uomini giacché, in aggiunta a tutti i mali che affliggevano l’umanità, vi erano anche i pericoli connessi con la gravidanza e il parto. Per farsi un’idea del fenomeno si rifletta sul fatto che all’inizio di questo secolo le persone con oltre 65 anni d’età erano poco più dell’uno per cento della popolazione mondiale, mentre attualmente sono quasi il sette per cento e nel 2050, si calcola, sarà il 20%.

Tuttavia gli anziani anche per il loro numero limitato non rappresentavano, in passato, un problema per la società, anzi al contrario di oggi, essi erano molto considerati per la loro esperienza e perché depositari delle conoscenze più recondite, tutte cose che potevano tornare utili in una civiltà povera di documenti scritti e ricca di analfabeti. E a questi vecchi, in effetti, ci si rivolgeva con fiducia e rispetto; spesso anche per chiedere consigli sul modo di governare la comunità.

Come andranno le cose in futuro? Innanzitutto vi è da dire che il sessantenne che va oggi in pensione normalmente è un anziano sano di corpo e di mente il quale ha fondate speranze di vivere almeno altri vent’anni, mentre cento anni fa il pensionato sessantenne era un vecchio decrepito senza eccessive speranze di vita ulteriore. Fra cento anni, presumibilmente, i sessantenni che andranno in pensione saranno degli adulti di aspetto giovanile con davanti a loro forse altri quarant’anni di vita.

La vecchiaia non si computa quindi dal momento della nascita, ma da quello della morte. In media, infatti, si è inabili negli ultimi due o tre anni di vita; ciò significa che quando si moriva intorno ai cinquant’anni di età si diventava vecchi a quarantasette anni, ora che si muore intorno agli ottanta anni si diventa vecchi a settantasette. Con l’allungarsi della vita media si sono allungate la giovinezza e la maturità delle persone mentre la durata della vecchiaia è rimasta la stessa, forse addirittura è diminuita. I veri vecchi quindi non sono aumentati rispetto al passato ma sono rimasti proporzionali al numero delle persone che nascono, perché ogni bambino è destinato a vivere, nella condizione di vecchio, non più di due o tre anni della sua vita.

In futuro le cose sono destinate a migliorare anche perché è prevedibile che rispetto ad una società di giovani una società di adulti possa vantare una migliore qualità della vita in quanto apprezza maggiormente la pace e la convivenza fra i popoli, cura meglio il proprio corpo e la propria mente evitando gli eccessi nel mangiare e nel bere e rinunciando all’uso di alcune sostanze dannose come il tabacco e le droghe. La persona adulta inoltre legge di più dei giovani e si dimostra maggiormente interessata ai problemi ambientali e sociali.

L’organizzazione sociale si è fatta cogliere di sorpresa dal fenomeno tutto positivo della longevità trasformando un progresso in tragedia per milioni di persone gettate nella solitudine e nell’inerzia in attesa di una morte che tarda sempre più a venire. Prendiamo, ad esempio, il problema dell’istruzione. Anche questa è sempre stata intesa a favore dei giovani per aprire loro la strada che conduce al mondo del lavoro e per fornire le conoscenze indispensabili per inserirsi, senza troppe difficoltà, nella struttura organizzativa della società del loro tempo.

Una volta terminati gli studi i giovani non sentivano più parlare di scuola, né volevano sentirne parlare. L’istruzione veniva considerata qualche cosa di acquisito una volta per sempre, un episodio della formazione dell’uomo la cui validità sarebbe stata sufficiente per tutta al vita e non più bisognosa di aggiustamenti o aggiornamenti. Questo convincimento, frutto evidentemente di una scuola strutturata male, si è rivelato deleterio sia per i giovani che per gli adulti.

I ragazzi ancora oggi, nonostante i miglioramenti e gli ammodernamenti che non hanno tuttavia modificato l’organizzazione di base dell’istruzione, considerano la scuola un’attività inutilmente faticosa che impone l’apprendimento di cose superflue e di nozioni che servono unicamente a rendere lo studio pesante e odioso. Sanno che terminato l’impegno scolastico non dovranno più tornare in quello che per loro è stato più che un luogo di cultura un ambiente di tortura. Per molti studenti il vero obiettivo non è quello di imparare, ma di uscire al più presto dalla “prigione”.

Gli adulti associano la scuola alla loro età giovanile, cioè ad un’epoca passata e ad un’esperienza dalla quale bene o male sono usciti per sempre. E così come sanno che gli anni della giovinezza non tornano, allo stesso modo pensano che sia riduttivo della loro dignità di adulti fare cose che facevano da ragazzi, come leggere un libro, cercare di risolvere un problema o abbracciare un’idea nuova. Sono così profondamente convinti della giustezza delle loro idee che non le cambierebbero per nessuna ragione al mondo. Ne consegue un conservatorismo ottuso e insopportabile, pregiudizialmente contrario a qualsiasi innovazione. Questo è anche il motivo della sfiducia che spesso i giovani nutrono nei confronti delle persone anziane che considerano arretrate e noiose. Però, nello stesso momento in cui i giovani accettano questo stereotipo, vi si adeguano a mano a mano che invecchiano e così si innesca un circolo vizioso.

Naturalmente vi sono alcune apprezzabili eccezioni rappresentate da quelle poche persone che vogliono rimanere aggiornate e al passo coi tempi; esse però il loro aggiornamento lo ottengono attraverso un’attività personale sacrificando parte del loro tempo libero. Non esiste ancora una scuola per tutte le età, una scuola che possa essere frequentata da chi lo desidera e quando lo desidera. Le attuali scuole per adulti (le cosiddette Università della terza età) sono un tentativo lodevole, ma in un certo senso ipocrita, di trattare umanamente le persone anziane e dare ancora un senso alla loro vita.

Nella società contemporanea, che potremmo definire di transizione, chi è in possesso di un’istruzione specializzata in breve tempo si vede tagliato fuori dal mondo del lavoro e costretto ad un aggiornamento frettoloso e precario per non perdere il salario. Ma anche gli altri, con il passare del tempo, incontrano difficoltà sempre maggiori ad adattarsi alle nuove esigenze di una società in rapida e continua evoluzione e i loro antiquati modi di pensare e di agire fanno sorridere i giovani, i quali si convincono che, nella vecchiaia, debba esserci qualche cosa di intrinsecamente stupido.

Per l’uomo pensare, ragionare, creare, dovrebbe essere invece una cosa spontanea, quasi un piacere, un po’ come per il cavallo correre, per il piccione volare o per il delfino nuotare. Nessun altro animale ha infatti un cervello tanto sviluppato (rispetto al resto del corpo) quanto l’uomo e pertanto per l’uomo l’uso del cervello dovrebbe essere un’attività del tutto naturale. E in effetti i bambini quando ancora sono molto piccoli dimostrano una grande curiosità e un desiderio incontenibile di conoscere il mondo che li circonda. Questo desiderio poi si accresce ancor più quando imparano a parlare e cominciano a porre domande su tutto ciò che frulla nella loro mente. Come mai, quando vanno a scuola, generalmente i bambini non dimostrano più tutta la curiosità e la vivacità intellettiva che avevano in precedenza?

Ci deve essere nell’istruzione scolastica qualche cosa che non funziona; l’insegnamento evidentemente non è interessante (almeno non sempre), non stimola la fantasia dei bambini, anzi molto spesso la inibisce. Nel momento in cui lo scolaro si accorge che le risposte alle sue domande sono banali e poco convincenti smette di fare domande. Come porre rimedio?

 

CAMBIARE LA SCUOLA

Una riforma della scuola profonda e veramente innovativa sarebbe quella di riuscire a trasformare il dovere di studiare in un piacere. Come fare? Un sistema potrebbe essere quello di sostituire l’insegnante con il computer. Sembra una provocazione ma si sa che i ragazzi si avvicinano volentieri al computer e in genere a tutte le macchine. Le critiche alla proposta tuttavia sono forti e vengono soprattutto dal mondo degli insegnanti: «Le macchine – essi dicono – sono fredde, insensibili, incapaci di comprendere le esigenze dei giovani». Perché – dicono i giovani – gli insegnanti non lo sono? Quanti insegnanti freddi e insensibili ai bisogni dei ragazzi vi sono nelle nostre scuole? Se questi insegnanti dovessero essere rimossi dai loro incarichi, probabilmente molte scuole sarebbero costrette a chiudere.

Con il computer al posto degli insegnanti le cose invece procederebbero con maggiore naturalezza e spontaneità. Tanto per cominciare non vi sarebbe da parte dei giovani alcun problema di comprensione. Tutti sanno infatti con quanta disinvoltura e facilità i ragazzi di qualsiasi età usino le macchine, mentre come abbiamo detto non poche difficoltà, nei rapporti interpersonali, esistono fra alunni ed insegnanti. La macchina inoltre sarebbe un insegnante paziente e tollerante, disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte, programmata appositamente per quel particolare studente e regolata sui suoi ritmi personali. Né esisterebbe il pericolo, che qualcuno paventa, dell’isolamento e della emarginazione del giovane. Il problema relativo ai contatti umani e alla socializzazione fra ragazzi verrebbe risolto attraverso le esperienze di gruppo da attuarsi nella pratica sportiva, nelle visite guidate ai musei e alla osservazione dei fenomeni naturali, nel teatro, nei seminari e nei dibattiti organizzati per mettere a confronto le esperienze acquisite.

Lo studente inoltre utilizzando l’insegnante macchina potrebbe scegliere i programmi che più gli aggradano e gli argomenti che ritiene più interessanti. A questo punto che male ci sarebbe se l’alunno decidesse, ad esempio, di dedicare il suo tempo allo studio delle automobili che sono la sua passione? Studiando le caratteristiche tecniche delle automobili prodotte e circolanti in tutto il mondo, forse, in un secondo momento, sentirebbe la necessità di un approfondimento e quindi la esigenza di leggere qualche rivista che tratta l’argomento, migliorando, in questo modo, la lettura. (Agli Italiani, almeno a quelli di sesso maschile, ha insegnato a leggere più la «Gazzetta dello sport» che il Manzoni; ed è stata proprio la passione per il calcio, più che l’istruzione obbligatoria, a ridurre, in tempi passati, il numero dei cosiddetti “analfabeti di ritorno” nel nostro Paese.) Inoltre non è escluso che il nostro studente interessato alle automobili, a forza di sentire parlare di velocità e accelerazioni, di potenza e di numero di giri del motore, non avverta il bisogno di conoscere in modo più preciso il significato di questi termini e non decida quindi di passare allo studio della fisica.

Ma la cosa che più conta, dal nostro punto di vista, è che nessuno vorrà più rinunciare al piacere di rimanere in contatto con il suo insegnante personalizzato e aggiornato, al quale si è ormai affezionato come ad una persona di casa e che è in grado di usare con piacere e grande disinvoltura. L’uomo infatti non rinuncia con gli anni alle cose piacevoli della giovinezza, come la bicicletta o il tennis (o, già che ci siamo, il sesso) anche se da giovane, in queste attività, era più bravo. Perché allora dovrebbe rinunciare a studiare e a pensare? Perché un uomo di sessant’anni, ad esempio, non dovrebbe decidere di imparare una lingua straniera o di mettersi a studiare le leggi e i principi che regolano il mondo della finanza e dell’economia, in vista di una nuova occupazione?

Con una scuola impegnata ad impartire un’istruzione permanente all’interno di un sistema completamente computerizzato e automatizzato, ci sarà la possibilità di cambiare mestiere con facilità e senza che questo comporti traumi irreparabili. I continui progressi della scienza e della tecnica, fra l’altro, hanno messo a disposizione dell’uomo tutta una serie di macchine che sono in grado di eseguire quei lavori tediosi e ripetitivi che mortificavano la sua dignità e intelligenza. Trasferiti alle macchine anche molti lavori che richiedono un notevole sforzo fisico, rimarrebbero solo lavori creativi e altamente qualificati alla cui esecuzione le persone anziane non sarebbero meno adatte di quelle giovani. Tuttavia giovani intelligenti e attivi, con idee fresche e innovative, pronti a dare continuo impulso e stimolo alla comunità non mancherebbero certamente, nemmeno in una società formata prevalentemente da vecchi.

Si rifletta a questo proposito sul fatto che in un momento in cui il nostro Paese sembra avviato a diventare il più vecchio del mondo, il numero dei disoccupati dell’Italia del sud, già di per sé molto elevato, per il 30% è rappresentato da giovani. Ciò nonostante si continua a considerare una vera iattura il fatto che in Italia nascano pochi bambini. Il vero problema invece non è quello di aggiungere altri giovani a quelli che già ci sono, ma semmai di istruire i disoccupati in modo da dare loro una qualifica adeguata per un pronto inserimento nel mondo del lavoro.

 

CAMBIARE LA SOCIETÀ

In una società organizzata e programmata a misura di vecchio, dovrà scomparire anche il concetto di pensione obbligatoria. Questa fu istituita al fine di creare, in modo artificioso, posti di lavoro per i giovani, ma un domani, quando i giovani saranno pochi, non sarà più necessaria e gli anziani potranno continuare a lavorare finché lo vorranno. Costituirà una piacevole sorpresa scoprire che una società che vede protagonisti i vecchi, non sarà affatto una società monotona e pigra.

Anche la medicina e la ricerca scientifica dovranno fare la loro parte. Finora la medicina ha avuto successo solo nel rendere la vita dell’uomo più lunga, sconfiggendo le malattie infettive e molte altre cause di morte prematura. Tuttavia la vecchiaia in sé rimane inalterata: un vecchio è sempre un vecchio, oggi come in passato. Se la scienza medica riuscisse a capire i meccanismi chimici e fisici che stanno alla base dell’invecchiamento, forse sarebbe in grado anche di rallentare o magari di arrestare il processo di deperimento organico che determina la senescenza. Per ora dobbiamo accontentarci di alcuni utili suggerimenti, riguardanti l’alimentazione, il riposo e l’attività fisica e intellettiva che dovrebbero servire a mantenere il fisico efficiente a lungo. Sembra che fare il lavoro che piace ed esserne ripagati, faccia vivere sani, con mente lucida ed entusiasmo intatto, fino a tarda età.

Esiste, infine, una questione molto seria e fondamentale, determinata dalla riduzione del tasso di natalità e dall’invecchiamento della popolazione, che investe il futuro della specie nel suo complesso. Come tutti sanno, la storia evolutiva degli esseri viventi è la storia delle lente modificazioni delle specie o della sostituzione di una forma vivente con un’altra. La capacità degli animali e delle piante di adattarsi attraverso la creazione di nuovi organismi alle mutate condizioni ambientali, prende il nome di «successo biologico». Ebbene, una delle condizioni per raggiungere il successo biologico è quella di avere vita breve e numerosa prole al fine di accelerare le mutazioni casuali e, contemporaneamente, dar modo alla natura, attraverso la selezione, di scegliere le forme più adatte.

Attualmente, nella specie Homo sapiens, sta avvenendo tutto il contrario e cioè si assiste ad una vita molto lunga e a un ricambio generazionale molto lento, cosa che potrebbe mettere a rischio il suo futuro evolutivo. Ma l’uomo, come abbiamo già detto, non è come tutti gli altri animali che devono seguire i dettami della natura, l’uomo è intelligente e quindi potrebbe fare a meno delle mutazioni e della selezione naturale per migliorare la specie. Egli attraverso l’ingegneria genetica sarà in grado, in un futuro non molto lontano, di guidare la propria evoluzione e di progettare cambiamenti mirati all’ottenimento di organismi più forti e resistenti anche a quelle malattie che la medicina non è ancora riuscita a sconfiggere.

Il futuro dell’umanità potrebbe essere radioso e ricco di soddisfazioni soprattutto per i vecchi, che avranno su di loro la responsabilità di organizzare la società. Peccato che quelli di oggi, spesso avviliti, non possano vedere il tempo del loro riscatto.

Prof. Antonio Vecchia

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