Il sapere

Mia madre voleva fare di me uno scienziato. Poi le cose sono andate diversamente, mol­to diversamente. Voglia di studiare ne avevo pochissima e più passava il tempo più dimi­nuiva in me l’interesse per lo studio, mi piaceva molto di più l’attività sportiva. Da giovane ho praticato molti sport senza però mai emergere in alcuna specialità.

L’interesse per lo studio comparve prepotente quando mi iscrissi all’Università. Il modo con cui i docenti presentavano gli argomenti di studio mi piaceva molto e così mi imbattei in un mondo che non conoscevo.

L’UNIVERSITÀ

Sono bastati pochi giorni di frequenza per scoprire che le lezioni all’Università non asso­migliavano per nulla a ciò che avevo ascoltato a scuola per tanti anni. Esse erano molto interessanti e gli argomenti venivano trattati con competenza e rigore. In quell’am­biente ho conosciuto gli scienziati ed ho capito chi doveva essere considerato tale.

Uno scienziato che mi è capitato di incontrare appena messo piede nell’Università è sta­to il matematico Renato Caccioppoli un personaggio che veniva descritto come stra­vagante e originale. In effetti l’uomo mi era apparso un tipo bizzarro: vestiva in modo mol­to sciatto e quelle poche vol­te che l’ho incontrato nei corridoi dell’Università mi sembrava ubriaco e forse anche lo era, morì infatti suicida alcolizzato. Egli, poi ho saputo, era figlio di Giusep­pe, noto chirurgo na­poletano, e della sua se­conda moglie, Sofia Bakunina, figlia del rivolu­zionario russo Mi­chail Bakunin. Sua zia era Maria Bakunin (Marussia per gli amici), una scienziata che contribuì ai progressi della chimica moderna. Divenne ti­tolare della cattedra di Chimica Organica ed Applicata dell’Ateneo partenopeo nel 1909, re­stando attiva oltre l’età del pensio­namento e meritando il titolo di “professo­re emerito”. Svolse le sue ri­cerche prevalentemente nei campi della stereochi­mica e della fo­tochimica. Essa viveva in un piccolo apparta­mento ricavato nella sede universita­ria di Napoli dove morì nel 1960 molto vecchia, mentre io ero studente di scienze geologi­che nello stes­so Ateneo.

Un altro scienziato che ebbi modo di conoscere è stato Felice Ippolito, titolare della cat­tedra di Geologia Applicata: una docenza che ha conser­vato anche dopo essere giunto al vertice del CNEN (Comitato Nazionale per l’E­nergia Nucleare) incarico che gli permise di attuare diversi progetti di svilup­po del settore nucleare. Ippolito, attraverso il Comitato da lui amministra­to, mirava a rendere la nazione indipendente dal punto di vista energetico. Il 3 marzo 1964 (io mi ero già laureato) venne arre­stato per presunte irregolarità ammini­strative. In particolare gli vennero conte­stati l’uso personale di un auto di servizio e alcuni gadget che regalò ai presenti ad una conferenza stampa. Ne seguì un processo molto se­guito dall’opinione pubblica e dalla stampa, che culminò con la sua con­danna a 11 anni di carcere facendo mo­rire sul nascere ogni velleità dell’I­talia di rendersi autonoma da un pun­to di vista energetico sostituendo al petrolio il nucleare. Ippolito scontò solo due degli anni a cui venne con­dannato per effetto della grazia che gli fu concessa dal presidente Saragat. Usci­to di carcere, nel 1968, fondò e diresse la rivista Le scienze, versione ita­liana di Scientific Americanche io acquisto e conservo fin dal pri­mo numero. Fatto curioso è che poco prima dell’arresto di Ippolito, nell’otto­bre del 1962, rimase ucciso in uno strano inci­dente aereo Enrico Mattei (1906-1962)pro­motore anch’egli di un’indipen­denza energetica italiana. Con la sua politica aveva indirizzato molti giovani fra cui il sottoscritto allo studio del­la geologia.

Oltre ad ascoltare le lezioni facevo osservazioni ed esperimenti. Imparai a leggere le carte topografiche e quelle geologiche, imparai a riconoscere minerali e rocce, osservavo anche le sezioni sottili di queste sostanze naturali con luce polarizzata attraverso speciali microscopi, parte­cipavo ad espe­rimenti di fisica e chimica. Lo studio della natura, le osser­vazioni e le ricerche mi sono servite per capire in che modo pensa e lavora uno scienziato. Non sono diventato tale nonostante tutti i miei sforzi anche per­ché frattanto avevo scoper­to che i posti di ricercatore disponibili non bastavano per tutti coloro che stu­diavano mate­rie scientifiche e pertanto era inutile insistere. Dovetti allora ripiegare sull’in­segnamento e così divenni inse­gnante di scienze naturali.

L’attività di ricerca scientifica mi è servita pure per capire quante cose siano cambiate dai tempi di Galileo ad oggi. Quattrocento anni fa al fisico pisano erano sufficienti semplici oggetti per spiegare le leggi fondamentali di natura. Egli costruiva da solo i cannocchiali necessari per ispezionare il cielo, gli è stato sufficiente l’oscillare di un lampadario in chiesa per scoprire l’isocronismo del pendolo. Per studiare la caduta dei gravi costruì lui stesso un piano inclinato sul quale far rotolate alcune sfere metalliche. Oggi, per fare ricerca servono strumenti molto sofisticati e molto costosi.

Ai tempi di Galileo poche erano le Università e pochissimi gli studenti a cui veniva data la possibilità di studiare in esse. Ai tempi in cui io mi sono iscritto all’Università le cose in­dubbiamente erano migliorate ma non di molto. All’Ateneo di Napoli erano iscritti 32.000 stu­denti mentre oggi sono tre volte tanti, ma poche erano le Università soprattutto nel sud d’I­talia. In Ca­labria, ad esempio, non ve ne era nemmeno una. Oggi, in tutto il mondo esistono migliaia di Uni­versità e milioni sono gli studenti che le frequentano: in Ita­lia le Università sono centinaia e gli studenti universitari sono quasi un milione. I paesi ric­chi investono enormi somme di denaro in ricerca scientifi­ca e istruzione perché la scienza è diventata ormai d’importanza fondamentale per l’indu­stria, il settore sanitario, l’agro-ali­mentare e la società in generale. La ricerca di base, quel­la che non porta ad alcuna appli­cazione pratica diretta ed è puro inte­resse culturale, crea an­ch’essa pro­gresso e crescita. Anche i paesi poveri infatti cercano di investire il più possibile nelle Università perché vedo­no che i paesi che investono molto in ricerca di solito ne ricevono dei vantaggi e accresco­no la loro ricchezza.

LE ORGANIZZAZIONI UNIVERSITARIE

Nelle Università moderne ognuna delle scienze principali ha in generale una facoltà o un dipartimento a sé. Gli scienziati che si occupano della stessa disciplina in genere sono riu­niti nello stesso luogo, per esempio nello stesso edificio della città universitaria. Un set­tore di questo tipo nelle Università si chiama anche Istituto. Dato che io studiavo scienze geolo­giche trascorrevo la gran parte del mio tempo nell’Istituto di geologia che si trovava, e si trova tuttora, in Largo San Marcellino. All’interno di ogni Istituto c’è un’ulteriore suddivisio­ne in materie. Ormai la si­tuazione è tale che uno scienziato non può sapere tutto sulla disciplina di sua competenza. Nel corso dei secoli abbiamo accumulato una quantità di conoscenze tale che gli scienziati riescono a padroneggiare completamente solo una piccola parte della materia di cui si occupano. É necessario che si specializzino in un settore specifico, e oggi esistono nuove branche che coprono questi settori specifici. Tra i geologi, ad esempio, ci sono i geofisici che studiano l’origine e l’evoluzione del pianeta, i petrografi che analizzano rocce e minerali che com­pongono la litosfera, i paleontologi che esaminano i fossili, ossia animali e piante vissuti in tempi lontani ed ora racchiusi nelle rocce e i vulcanologi che studiano le lave che provengono dai bacini mag­matici, e ciò tanto per citarne alcuni. Lo stesso vale anche per tutte le altre scienze.

Oggi, per fare ricerca servono attrezzature molto costose che solo cento anni fa nessu­no poteva nemmeno immaginare. Si pensi ad esempio alle sonde che vengono inviate su pianeti e su comete lontane al fine di studiarne la composizione e ai telescopi spaziali che orbitano a milioni di kilometri dalla Terra. Tutti gli scienziati oggi usano il computer per eseguire calcoli che una volta necessitavano di ore e giorni di lavoro e che in alcuni casi non erano nemmeno realizzabili. Oggi i compu­ter sono tutti collegati fra di loro attraverso Internet tanto che gli scienziati di tutto il mon­do possono inviare in tempo reale i risultati della loro ricerca, immagini e altre informazioni scientifiche. Questo aspetto è molto impor­tante perché oggi gli scienziati lavorano per lo più in gruppo. Il Progetto del Genoma uma­no ad esempio si è potuto realizzare grazie al contributo di centinaia di biologi sparsi in tutto il mondo coordinati dal premio Nobel Rena­to Dulbecco, scomparso di recente. Il Pro­getto genoma, consisteva nella collocazione e nella sequenza dei geni umani e di conse­guenza nell’utilizzo delle informazioni contenute in essi. Ora che tutti i geni sono stati de­codificati, si tratta di capire esattamente quale sia la loro funzione, cioè quali proteine pro­ducano e questo lavoro, che richiederà ancora molto tempo per essere completato, ha già for­nito i primi risultati.

Per quanti raffinati strumenti e macchinari si possano usare il cervello è ancora lo strumento più importante a disposizione degli scienziati, i quali al tempo dei greci antichi si chiamavano filosofi e filosofia, cioè letteralmente amore per il sapere (dal greco philos che significa amante di e sophia il sapere) era la materia di studio. La loro era una filosofia morale attraverso la quale cercavano di rispondere a domane quali: “Che cosa è la virtù?” o “Che cosa è la giustizia?”. L’amore per la conoscenza portava però anche verso altre ricerche per esempio verso il mondo naturale. La filosofia che si occupava della natura e non dell’animo umano era detta filosofia naturale.

Alla fine del Seicento filosofia e scienza si separarono definitivamente: i filosofi finirono per concentrarsi sulla politica, sulla morale e sulla religione, mentre gli scienziati si spe­cializzarono su discipline quali la matematica, la biologia, la fisica, l’astronomia e così via.

FILOSOFIA DELLA SCIENZA

I filosofi che studiano il funzionamento delle diverse discipline scientifiche si chiamano filosofi della scienza mentre lo studio delle discipline viene chiamato filosofia della scienza o, con un termine che deriva dal greco, epistemolo­gia (da episteme = conoscenza e logos = discorso, argomentazione). Un filosofo della scienza studia in che modo ragiona­no gli scienziati quando sviluppano una teoria. Si occupa cioè della maniera in cui han­no origine le teorie e in che misura queste possano spiegare ciò che osserviamo in na­tura.

Gli scienziati sanno bene che non si può fare affidamento sui sensi perché gli stessi non funziona­no come macchine. L’occhio capta la luce come una macchina fotografica e l’orec­chio può es­sere paragonato ad un microfono ma in realtà occhi e orecchie non sono ri­spettivamente macchine foto­grafiche e microfoni. Quando questi recettori del corpo uma­no intercettano luce e suoni gli stessi vengono inviati al cervello il quale li rielabora e li in­terpreta a modo suo. Chi vede e chi sente non sono quindi gli occhi e le orecchie ma il cer­vello il quale, oltre a deci­frare segnali luminosi e sonori, crea anche pensieri ed emozioni. Esso è in grado pertanto di generare immagini fantastiche che sembrano reali. A que­sto proposito basti pensare agli UFO che molti immaginano navette spaziali con alieni a bordo. C’è anche di peggio perché qualcuno racconta di essere stato portato a bordo di questi mezzi di trasporto extraterre­stri, sottoposto a visita me­dica, portato in giro per lo spazio e quindi ricondotto nello stes­so luogo in cui era stato prelevato. É evidente che tutti questi sono sogni che appaiono come fatti reali.

Spesso si parla di obiettività in relazione alla ricerca scientifica. Essere obiettivi significa rimanere imperturbabili e freddi senza lasciarsi influenzare dai sentimenti, ma ciò è impos­sibile dal momento che siamo uomini e in quanto tali avvertiamo sempre qualcosa che agi­ta la nostra psiche. Anche la ricerca scaturisce da un sentimento che fondamentalmente è curiosità e tutti gli scienziati provano qualcosa nei confronti delle loro teorie. Se uno scien­ziato ha impiegato diversi anni, a volte tutta la vita, per mettere a punto una teoria, è na­turale che poi la difenda anche di fronte a fatti che sembrano smentirla. Molti sono gli esempi di scienziati che hanno difeso la loro teoria negando l’evidenza. Un caso emblema­tico a questo proposito è quello del chimico svedese Jacob Berzelius il quale, per mantene­re in vita la teoria che prevedeva che il legame fra gli atomi dovesse essere sem­pre e in ogni caso di natura elettrica, ostacolò per cinquant’anni il progresso della chimica. Egli in­fatti sosteneva che non potevano esistere molecole formate da atomi uguali, come ad esempio la molecola di ossi­geno (O₂), proposte dal chimico italiano Ame­deo Avogadro.

A volte anche la fortuna ha favorito il successo di idee sbagliate di qualche scienziato. Questo è ad esempio il caso di Guglielmo Marconi il quale era convinto che le onde radio, che sono onde elettromagnetiche, procedessero a salti, come fossero sassi lanciati sul pelo dell’ac­qua e quindi i messaggi radio potessero at­traversare l’oceano e andare dall’Europa all’A­merica, mentre i fisici sapevano che le onde elettromagnetiche procedono in linea retta e di conseguenza non avrebbero potuto seguire la cur­vatura terrestre che collegava due località si­stemate sulle sponde opposte dell’oceano. In effetti il segnale radio spedito dalla Corno­vaglia arrivò puntuale nell’isola canadese di Terranova perché riflesso dall’alta atmo­sfera e non perché era saltato sull’acqua.

Un altro caso di una scoperta dovuta più alla fortuna che all’abilità del ricercatore è quella che ha avuto per protagonista Cristoforo Colombo il quale si era convinto che fosse più facile giungere per via mare in Giappone dove era arrivato Marco Polo viaggiando via terra. Colombo non fu il primo a pensare di raggiungere l’Oriente navigando ad Occidente, men­tre fu l’unico che trovò i finanziamenti necessari per realizzare l’impresa. La vera ragione per cui Colombo divenne famoso è legata ad uno strepitoso errore di calcolo derivato dalla confusione che fece fra le diverse unità di misura lineare esistenti a quel tempo che portarono al valore della cir­conferenza terrestre molto inferiore al reale. Colombo fece altre volte lo stesso viaggio senza mai rendersi conto di avere scoperto un nuovo continente che infatti si chiama Ameri­ca dal nome di colui che capì che si trattava di una nuova terra: Amerigo Vespucci.

Merita di essere ricordato ancora un famoso esempio nel campo dell’astronomia. Nei primi anni del 1900 l’astronomo dilettante americano Percival Lowell osservava il pianeta Marte con il telescopio nella convinzione che su quel pianeta vi fosse la vita. Lowell era un uomo ricchissimo che si era costruito un osservatorio privato fornito dei telescopi più potenti del tempo. Egli non era l’unico a pensare che su Marte vi fosse la vita, ma era l’unico ad avere a disposizione i mezzi per controllarlo. In realtà un altro astronomo, il direttore dell’Osservatorio milanese di Brera, Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910), il quale disponeva del più grande telescopio in funzione nella Penisola, aveva osservato il pianeta rosso su cui individuò delle strane striature quasi rettilinee che attraversavano migliaia di kilometri di deserto congiungendo fra loro aree scure ed aree chiare. Questi segni lineari chiamò “canali”, un termine che fu tradotto in inglese con canals che vuol dire sì canali, ma canali artificiali, mentre per Schiaparelli si trattava di canali naturali: quindi il termine avrebbe dovuto essere tradotto con channels che sono formazioni geografiche di origine naturale.

Anche a causa di questo errore di traduzione Lowell era convinto che su Marte vi fosse vita intelligente. Non tutti gli astronomi vedevano sul pianeta rosso i canali di Lowell e a mano a mano che venivano fabbricati telescopi sempre più potenti aumentavano gli astronomi che su Marte non vedevano altro che crateri e monti che creavano ombre mentre diminuivano gli osservatori che vi vedevano i canali. Negli anni ’70 con il lancio prima di una sonda spaziale che giunse all’altezza di Marte e scattò migliaia di foto in cui non si vedeva nemmeno un cana­le artificiale. Pochi anni più tardi avvenne l’atterraggio di due sonde che non solo scattarono foto, ma analizzarono anche il suolo per vedere se c’era mai stata vita e anche in questo caso la risposta fu negativa.

Come è possibile che Lowell vedesse cose che non esistono? Il punto è che se si crede fortemente in qualche cosa poi la fantasia gioca un ruolo determinante. Lowell era certo che su Marte ci fossero esseri intelligenti e desiderava essere lui lo scopritore. In fondo si era comportato come capita con i testimoni di un crimine: spesso costoro racconta­no, sempre in buona fede, versioni completamente diverse di ciò che hanno visto. Il mondo della ricerca scientifi­ca si rende conto di questa stessa eventualità e ha cercato di porvi rimedio.

LA RICERCA DELLA VERITA’

Come nel caso dei testimoni di un crimine che raccontano ognuno una verità diversa, così nella comunità scientifica ognuno percepisce la natura in modo diverso. La verità però è unica e quindi unica dovrebbe essere la teoria che spiega un determinato fenomeno naturale. I filosofi della scienza sostengono invece che sia impossibile arrivare alla verità sulla natura perché ciò porrebbe fine alla ricerca. Gli scienziati sono convinti che esistano realmente delle verità riguardo alla natura ma che le teorie spieghino solo una parte di queste. Se una teoria spiegasse completamente la verità non avrebbe alcun senso formularne di nuove.

Quindi nessuna teoria è “vera” in assoluto. Una teoria tutt’al più può avvicinarsi alla realtà ma per ottenere questo risultato è necessario che la teoria stessa venga diffusa in modo che il maggior numero di scienziati ne venga a conoscenza e possa controllare la sua validità. Ciò si ottiene pubblicando i risultati degli studi degli scienziati su riviste scientifiche specializzate che rappresentano uno degli strumenti più importanti della ricer­ca. Questi documenti vengono poi inviati alle Università e ai centri di ricerca di tutto il mondo. Se sono stati fatti degli esperimenti altri scienziati potranno ripeterli e vedere se ottengono gli stessi risultati. Ancor meglio se la teoria contiene un’ipotesi su qualche cosa che si verificherà facendo una determinata osservazione o un determinato esperimento.

Fu ciò che accadde per la teoria della relatività di Einstein in cui lo stesso fisico tedesco suggerì tutta una serie di ipotesi fra cui quella che prevedeva che un raggio di luce sfioran­do un corpo massiccio avrebbe dovuto deviare dalla sua traiettoria rettilinea, ovvero per­correre l’avvallamento generato dal corpo stesso come prevedeva la teoria. Il 29 maggio del 1919 l’astronomo inglese Arthur Stanley Eddington (1882-1944) approfittando di una eclissi totale di Sole osservò che un raggio di luce proveniente da una stella lontana, sfio­rando la superficie della nostra stella, effettivamente aveva deviato dal suo percorso rettili­neo.

Quando i risultati di un esperimento o di una osservazione coincidono con quanto affermato dalla teoria vuol dire che i fatti la confermano. La ricerca però non ha mai fine. Anche quando una teoria è confermata dai fatti i controlli continuano fino a quando non si dimostri l’inesattezza della teoria stessa. La scienza è impietosa nei confronti delle teorie ed è proprio per tale motivo che essa ha la prerogativa di essere progressiva e cumulativa in quanto superiore a quella degli antichi greci e in genere a quella del passato. Un aspetto che non vale ad esempio per l’arte o per la moralità in cui non è dimostrabile che la realtà attuale sia migliore di quella del passato.

Può succedere che una teoria sia stata confermata centinaia di volte come nel caso dell’evoluzionismo di Darwin, la teoria più aggredita in assoluto, ma se saltasse fuori anche un solo esperimento che la contraddice sarebbe necessario modificarla profondamente o addirittura abbandonarla. A sfidare le vecchie teorie ne arrivano continuamente di nuove ma nella maggior parte dei casi sono queste ultime ad essere scartate. A volte salta fuori una teoria in grado di spiegare dei particolari che quella precedente non era riuscita a giustificare. Se questa nuova teoria venisse confermata da molte osservazioni e molti esperimenti con il tempo sostituirebbe quella precedente.

Il fatto che le vecchie teorie vengano continuamente sostituite da nuove è una caratteri­stica essenziale della scienza, ma a qualcuno ciò potrebbe apparire sconcertante. Può in­fatti sembrare che gli scienziati cambino continuamente idea: un giorno uno scienziato dice una cosa e il giorno dopo un altro dice il contrario di quella cosa. Quando una sco­perta ha a che fare con la salute della popolazione l’accusa alla scienza si fa ancora più dura. Prima che si scoprisse per esempio che il DDT era nocivo, fra gli scienziati si svolse una discussione serrata. In realtà il potente insetticida che tutti conoscono sterminò molti insetti portatori di malattie. Il nuovo prodotto in un primo momento venne accolto con generale entusiasmo per­ché sembrava innocuo e capace di risolvere tutti i mali della Terra. Il DDT in realtà è un veleno non solo per gli insetti, ma per tutti gli organismi viventi, uomo compreso, e il suo accumulo nei tessuti viventi di animali e piante raggiunse ben presto limiti pericolosi tanto da convincere molti governi a toglierlo dal commercio. Ancora oggi le opinioni in proposito sono molto contrastanti tanto che in alcune parti del mondo il DDT non è stato eliminato del tutto.

Sebbene gran parte degli scienziati pensino che le verità più recenti siano migliori di quelle più antiche sono in pochi a ritenere che siamo ormai giunti alle verità più giuste in assoluto. Per l’eminente fisico britannico Stephen Hawking (1942 – ) il fine ultimo della scienza è quello di fornire una singola teoria in grado di descrivere l’intero universo. Con lui molti scienziati ritengono che ormai dovremmo essere molto vicini alla formulazione di una teoria definitiva, che porrebbe fine alla ricerca. Ma la maggior parte di loro dubita che questo esperimento riuscirà e trovano che assomigli in modo sospetto alle convinzioni degli scienziati dell’Ottocento sicuri di sapere ormai tutto ciò che c’era da sapere.

É difficile predire il futuro, come diceva il fisico danese Niels Bohr, ma di una cosa sono certissimo: molte delle attuali teorie appariranno un giorno altrettanto strane e antiquate di quanto appare oggi la concezione aristotelica del mondo. Chi ha studiato le scienze naturali sa benissimo che non esiste una verità definitiva, e quindi non diremo mai: “Adesso abbiamo la risposta definitiva e possiamo smettere di fare ricerca.” Avremo teorie sempre nuove che spiegheranno sempre più aspetti dell’Universo in cui viviamo, ma ogni volta che troveremo la risposta a una domanda, ne salteranno fuori molte altre. Il nostro Universo è pieno di misteri, e ce ne sono alcuni a cui non verrà mai trovata una risposta, la ricerca della verità non avrà mai fine.

Prof. Antonio Vecchia

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