Il futuro ai centenari

Quando nascevo, alla fine degli anni Trenta, l’Italia contava poco più di 42 milioni di abitanti e la speranza di vita era di 55 anni (un po’ più per le donne un po’ meno per gli uomini). Attualmente in Italia vivono quasi 60 milioni di persone e la speranza di vita è mediamente di 80 anni (un po’ più per le donne, un po’ meno per gli uomini). Chi nasce oggi ha buone probabilità di tagliare il traguardo dei cento anni in buono stato fisico e psichico.

Come si è arrivati a questi risultati?

 

L’ELISIR DI LUNGA VITA

Per secoli l’umanità ha trangugiato infusi e pozioni preparati da alchimisti e ciarlatani nella illusione dell’eterna giovinezza mentre i rischi che si correvano erano enormi e solo i più fortunati ne uscivano incolumi. Oggi l’elisir di lunga vita si cerca nella cellula, ovvero nei suoi costituenti fondamentali che sono il DNA e le proteine, ma soprattutto nello stile di vita e nell’ambiente in cui si opera.

Sembra che il limite potenziale della specie umana sia intorno ai 120 anni: il record certificato è di una donna francese morta il 4 agosto del 1997 all’età di poco meno di 122 anni e mezzo. Attualmente nei laboratori di tutto il mondo i biologi cercano farmaci e terapie per allungare la vita ma soprattutto per mantenerci giovani il più a lungo possibile. Ci sono coloro che puntano sugli ormoni, altri sui fattori di crescita; c’è chi studia gli estratti vegetali e chi sperimenta le vitamine; ci sono infine alcuni biologi che stanno creando molecole sintetiche.

Esperimenti condotti sui ratti verso la metà del secolo scorso avevano dimostrato che riducendo l’apporto calorico attraverso una dieta molto frugale ma ben equilibrata la vita di questi piccoli roditori si allungava di quasi il 50 per cento e si riducevano in modo significativo i malanni tipici della vecchiaia: cancro, problemi cardiovascolari, osteoporosi, ecc.

Gli studi seguenti hanno portato alla individuazione di alcune molecole che simulano la restrizione calorica, la più potente delle quali è una proteina dal nome difficile: “resveratrolo”. Si tratta di una molecola molto instabile che facilmente si degrada in presenza di ossigeno perdendo la sua efficacia. La sostanza è contenuta anche nel vino rosso ma nessuno si illuda di allungare la vita bevendo litri di vino perché esso contiene anche alcol che, assunto in grandi quantità, accorcia la vita e ne peggiora la qualità. Si sta ora cercando di sintetizzare molecole simili al resveratrolo ma più stabili.

Gli esperimenti vengono condotti su esseri viventi molto semplici come il moscerino della frutta e un piccolo verme piatto che vive nel terreno, ma soprattutto sul Saccharomyces cerevisiae:l’organismo unicellulare che costituisce il lievito di birra.

Le ricerche sul lievito hanno dimostrato che il resveratrolo allunga la vita di questo microrganismo al pari della restrizione calorica, in quanto esso attiva a sua volta una intera famiglia di proteine che entrano in azione quando il deteriorarsi delle condizioni ambientali minaccia la sua sopravvivenza. Queste proteine aumentano le difese immunitarie nel lievito e agiscono quindi al pari degli antiossidanti che sono sostanze attive sull’uomo mentre non lo sono sul lievito. Questo non vuol dire che il resveratrolo non debba essere efficace negli organismi superiori e quindi anche nell’uomo, ma per ora di ciò non vi è certezza.

Da una quindicina d’anni a questa parte le strategie puntano a restaurare farmacologicamente il livello giovanile di quegli ormoni che nell’uomo tendono a ridursi con gli anni. Fra questi vi è il GH (growth hormone) o “ormone della crescita” prodotto dall’ipofisi, una ghiandola endocrina che si trova alla base del cervello. Un tempo si pensava che questo ormone fosse implicato unicamente nei processi di crescita mentre in seguito si è scoperto che esso svolge anche un’importante funzione trofica e metabolica sui muscoli con aumento della forza e della capacità di lavoro. Un altro ormone che svolge un’azione anabolizzante (cioè che produce materia vivente) su muscoli e sistema nervoso è il DHEA (deidroepiandrosterone) prodotto dalle ghiandole surrenali. Questa sostanza, che in Francia è disponibile da alcuni anni su ricetta medica, consente all’organismo di produrre in quantità più abbondante la mielina (il rivestimento delle fibre nervose che amplifica la velocità di trasmissione dei segnali), di ridurre il numero delle cellule adipose a vantaggio di quelle muscolari e di aumentare la libido.

Ma il futuro guarda soprattutto alla genetica e in particolare ai telomeri, cioè alla parte terminale dei cromosomi (le strutture formate da DNA presenti nel nucleo della cellula). Si è osservato che ad ogni divisione cellulare si riduce la lunghezza dell’estremità dei cromosomi tanto che, dopo una cinquantina di duplicazioni, essi hanno perduto una quantità talmente notevole di DNA che non sono più in grado di riprodursi e la cellula muore. Naturalmente non tutte le cellule del corpo umano si comportano allo stesso modo, perché ci sono tessuti ad altissima velocità di replicazione come il midollo osseo o la mucosa intestinale ed altri, come ad esempio i neuroni, in cui la divisione è pressoché nulla.

In questi ultimi tempi, le osservazioni di molti ricercatori si sono concentrate sulle cellule tumorali che, come è noto, sono cellule immortali grazie probabilmente ad un enzima, la telomerasi, che consente loro di non sottostare al processo di invecchiamento. Le cellule tumorali si riproducono infatti pressoché all’infinito proprio perché possiedono questo enzima che protegge la parte terminale dei cromosomi. Evidentemente il cancro attiva il gene (piccolo frammento di DNA), che controlla la produzione della telomerasi, il quale nelle cellule normali non funziona.

Molti laboratori specializzati nella ricerca biomedica stanno cercando di individuare la posizione (lungo la doppia elica del DNA) nella quale dovrebbe trovarsi questo specifico gene, nella speranza di poterlo attivare anche nelle cellule che stanno invecchiando. Se si riuscisse a controllare la formazione della telomerasi in tutto l’organismo si potrebbe ostacolare la crescita dei tessuti cancerosi oppure prolungare la vita di quelli normali. Si tratta tuttavia di un meccanismo delicato e c’è il rischio di provocare tumori anziché lunga vita.

In verità per la genetica c’è ancora molto da aspettare prima che si giunga a risultati pratici, mentre già oggi sappiamo molte cose sui meccanismi della mancata riparazione del danno provocato in larga misura dai radicali liberi. Si tratta di atomi, molecole o frammenti di molecole dotati di grande reattività chimica a causa della presenza su di essi di almeno un elettrone libero (cioè non impegnato in legami). Queste sostanze, legandosi al DNA o alle proteine, ne alterano struttura e funzione. I radicali liberi vengono bloccati con efficacia quando si è giovani, tanto che in quella fase della vita si può rispondere ad essi con successo anche quando vengono prodotti in abbondanza durante l’attività fisica intensa. Con l’avanzare degli anni l’azione di pulizia dell’organismo si fa sempre meno efficace e ad esempio le proteine non riescono più a liberarsi delle sostanze che vi aderiscono e pertanto costringono la cellula a produrre quelle che non sono più disponibili. Questo processo implica un lavoro che viene sopportato bene dall’organismo giovane ma non da quello vecchio fino al punto di fare morire la cellula.

 

UN’ITALIA DI VECCHI

Negli ultimi anni in tutti i Paesi industrializzati si è assistito ad un progressivo invecchiamento della popolazione dovuto sia al prolungamento della vita media sia alla diminuzione delle nascite. L’Italia è uno dei Paesi più longevi del mondo: in essa gli ultra sessantacinquenni rappresentano circa il 20% dell’intera popolazione.

Negli ultimi cento anni la vita media in Italia è quasi raddoppiata e contemporaneamente il numero medio di figli per donna è sceso a 1,3, un valore ben al di sotto della soglia del ricambio generazionale che è di 2,1. Il rapporto fra i soggetti che hanno superato i 65 anni (questa età rappresenta la soglia che attualmente definisce l’anziano) e quelli che sono al di sotto dei 15 anni rappresenta un significativo parametro di invecchiamento di una popolazione. A questo è strettamente connesso il cosiddetto “Indice di Dipendenza Sociale” che è il rapporto tra la popolazione in età economicamente non attiva (giovani al di sotto dei 20 anni e vecchi al di sopra dei 65) e quella in età lavorativa. Esso fornisce la misura del carico economico che grava sugli individui economicamente attivi per il mantenimento di coloro che non sono attivi.

Il tema dell’invecchiamento della popolazione è una questione di grande rilevanza individuale e collettiva. L’allungamento della vita è accompagnato infatti dall’emergere di malattie cronico-degenerative e dei tumori che hanno sostituito le malattie infettive di inizio Novecento. Questo fenomeno ha trovato un po’ tutti impreparati, ad iniziare dai ricercatori, che non hanno ancora individuato con esattezza le cause genetiche, biologiche e ambientali del processo di invecchiamento e dai politici, che non hanno previsto il cambiamento demografico quando progettavano le strutture necessarie per garantire l’istruzione dei giovani o quando pensavano ai limiti dell’età delle pensioni di anzianità. Per avere la conferma di quanto detto, basta entrare nella sala di attesa del medico di famiglia per constatare che più della metà delle persone che aspettano di essere visitate supera i 65 anni di età, oppure osservare che la fila degli anziani, i quali alla fine del mese attendono di ritirare la pensione alle poste, si allunga sempre più anno dopo anno. Frattanto gli edifici scolastici si stanno svuotando.

Se per ora, come abbiamo visto, la possibilità di allungare la vita agendo sui fattori genetici è limitata, esiste invece un ampio margine di manovra sui quelli esterni. Si ritiene infatti che i processi di invecchiamento siano determinati per un terzo dai fattori genetici, per un terzo dallo stile di vita e per un terzo dall’ambiente. È chiaro che sugli ultimi due fattori il margine di intervento è notevole anche se non sempre è possibile realizzare ciò che si desidera.

Si sa ad esempio che il fumo, l’alimentazione eccessiva e scorretta, l’assunzione di bevande alcoliche, l’essere in soprappeso o addirittura obesi, non praticare una regolare attività fisica, esporsi in modo inconsulto alle radiazioni solari determinano irrimediabilmente un invecchiamento precoce e tagliano una buona fetta della nostra vita. Ripeteva spesso una mia vecchia zia che gli uomini (intendendo i maschi) nei primi 40 anni di vita fanno di tutto per rovinarsi i secondi quaranta.

Il motto “usalo o lo perderai” vale soprattutto per il cervello in quanto, per conservarlo giovane, non c’è nulla di meglio che tenerlo occupato. È dimostrato infatti che, se persistono stimoli intellettivi, viene mantenuta e a volte migliorata la capacità di pensare e progettare: lo testimoniano i numerosi artisti che hanno creato le loro migliori opere proprio negli ultimi anni di vita.

Quanto ai fattori ambientali, non sempre è possibile intervenire su di essi in modo decisivo. È evidente che operare in un ambiente inquinato, come è costretto a fare il vigile urbano che regola il traffico in una grande città, è molto più rischioso da un punto di vista salutare di quanto non sia l’attività di un maestro in un piccolo paese di montagna dove l’aria è pulita e l’ambiente più tranquillo e sereno di quello cittadino. Anche la povertà e il disagio sociale ovviamente lasciano un segno profondo nel fisico e nella psiche.

Al tempo della prima grande rivoluzione industriale inglese, nell’Ottocento, quando grandi masse di contadini si trasferirono dalle campagne alle città, venivano create nuove condizioni di rischio sanitario dovute al sovraffollamento, all’inquinamento ambientale, alla contaminazione dell’acqua e a tanti altri fattori negativi che fecero progredire gli indici di mortalità adulta, materna e infantile. Con la rimozione di alcuni di questi fattori di rischio, grazie a salari più alti, ad ambienti di lavoro più sicuri, fognature e miglioramento della rete idrica, le malattie e i traumi regredirono sensibilmente.

Ognuno di noi ha quindi due età: una anagrafica documentata dalla carta d’identità ed una biologica, determinata dalle modificazioni strutturali e funzionali che il nostro organismo subisce nel corso degli anni. Forse il concetto di età dovrebbe essere ridefinito sulla base del nostro stato di salute, piuttosto che su quello determinato dalla data di nascita. Differenze relative alle condizioni di salute vi sono anche fra i giovani, ma esse si vanno accentuando con l’età nella quale si presenta un ventaglio di situazioni molto ampio, che va dalle persone inabili e quasi dementi con malattie croniche invalidanti ad altre sane, vigorose, piene di interessi che vivono da protagonisti gli ultimi anni della loro vita.

Se arriveremo ad una popolazione con un numero consistente di ultracentenari, la società dovrà riorganizzarsi proprio come sta tentando di fare attualmente, in cui l’aspettativa di vita nei paesi industrializzati non è più quella che ha determinato l’attuale organizzazione previdenziale. Oggi l’invecchiamento è ancora considerato come un insieme di malattie che ha bisogno di cure e di assistenza. Diceva il poeta latino Publio Terenzio: senectus ipsa morbus (la vecchiaia è di per sé una malattia) mentre questo concetto dovrebbe essere abbandonato e sostituito con quello di processo evolutivo con le sue specificità e le sue opportunità.

 

PERCHÉ VIVERE DI PIÙ ?

Forse in un futuro non molto lontano si arriverà a vivere 130 o 150 anni, forse addirittura diventeremo immortali, il problema vero però non è tanto quello di allungare la vita quanto di migliorarne la qualità. Oggi il mondo appare diviso in un “ polo pediatrico”, al sud, con molti bambini e un “polo geriatrico”, al nord, con molti anziani. Prima di pensare di allungare la vita dei vecchi, sarebbe moralmente più giusto impiegare le risorse finanziarie e umane per evitare la morte per fame e malattie di tanti bambini che nascono nei Paesi poveri.

Poche sono le persone soddisfatte della propria esistenza, del proprio lavoro e delle proprie relazioni sociali ma molte sono quelle che, alla notizia della scoperta di un gene o di un farmaco in grado di allungare la vita, si dimostrano entusiaste del traguardo raggiunto dalla ricerca scientifica.

È strano che più si è scontenti della vita che si conduce più la si vorrebbe allungare: ciò dipende forse dal fatto che ognuno di noi coltiva la celata speranza che ciò che non è riuscito a fare in settant’anni di vita lo possa realizzare in cento. Ma pensare che gli impedimenti si possano risolvere con il tempo, è un’illusione; la felicità non è qualche cosa che si raggiunge con il tempo ma, al contrario, essa è nel passato. Vivere più a lungo non serve quindi a nulla, servirebbe invece inventare una pillola che ci ringiovanisca, che ci faccia ritornare a quel passato che anche nelle sue tinte più fosche ci sembra migliore del presente.

Alcuni ritengono che se vivessimo molto a lungo e in salute, o se addirittura diventassimo immortali, questo rappresenterebbe una grande conquista della scienza e della società. Ma ne siamo sicuri? In realtà le conseguenze di una vita eterna sarebbero indubbiamente sorprendenti, ma non sempre positive. Ci sarebbe ad esempio il rischio di dover lavorare per sempre perché in quelle condizioni ovviamente ci verrebbe negata ogni forma di assistenza pensionistica.

Cambierebbero le nostre abitudini e il modo di pensare. Aumenterebbero ad esempio i divorzi e i matrimoni perché perdurando l’aspetto giovanile e un auspicabile benessere si ridurrebbe il numero degli amori eterni. In America, ed anche qui da noi, dove la vita media e il benessere sono fortemente aumentati negli ultimi anni, il numero dei divorzi e di nuovi matrimoni è di gran lunga superiore a quello che si registra nei Paesi del “terzo mondo” in cui la speranza di vita è scarsa mentre è grande la povertà.

Ci sarebbe anche da risolvere il problema delle cariche a vita come quelle di un re tiranno, di un papa illuminato o di un senatore politicamente schierato, mentre di contro l’immortalità verrebbe utile per le esplorazioni spaziali che oggi, a causa dei tempi che richiedono i viaggi verso mondi lontani, sono praticamente impossibili.

Un altro aspetto negativo legato all’immortalità riguarderebbe il ricambio generazionale. La natura non prevede l’immortalità: ciascuna specie ha una longevità predefinita, mentre ciò che continua è l’informazione contenuta nei geni che passano da una generazione all’altra. La morte facilita nuove combinazioni cromosomiche tanto più frequenti quanto più brevi sono i tempi vitali. I virus ad esempio, che si riproducono con estrema rapidità, cambiano l’organizzazione interna di anno in anno (migliorandola dal loro punto di vista) costringendoci per esempio a rinnovare a scadenze fisse i vaccini contro l’influenza.

Infine accenniamo ad una notizia recente che farà felici coloro i quali aspirano ad una vita eterna. Cinquanta anni fa venne scoperto un batterio che resisteva a condizioni estreme senza subire danni. A questo superbatterio venne dato il nome molto significativo di Deinococcus Radiodurans (“batterio tondeggiante resistente alle radiazioni”) perché fra l’altro resisteva alle conseguenze letali dell’essiccazione e di un prolungato irraggiamento radioattivo.

La scoperta delle eccezionali qualità di questo batterio venne fatta da un biologo americano, il quale aveva irraggiato una scatoletta di carne con l’intenzione di eliminare ogni forma di vita dal suo interno ma dopo un po’ di tempo aveva trovato il contenuto della scatoletta avariato, segno evidente di attività microbica.

Quello che non si riusciva a capire era come facesse questo strano batterio a resistere a condizioni tanto estreme. Dopo la presentazione di una serie di ipotesi poco convincenti la soluzione più probabile venne indicata da uno scienziato croato che dirigeva un team di biologi presso l’Università di Parigi: egli avanzò l’ipotesi che a tenere in vita il batterio fosse la presenza di più copie di cromosomi identici (forse sei o otto e non solo due come è normalmente).

Quando la radiazione fa a pezzi il DNA, si formerebbero migliaia di frammenti che poi si ricomporrebbero scegliendo fra quelli con le estremità complementari in modo da garantire l’aggancio nel punto giusto. In altri termini l’irraggiamento radioattivo, come pure il prolungato essiccamento, danneggerebbe il Deinococcus il quale morirebbe come un qualsiasi batterio ma poi risusciterebbe grazie alla ricomposizione del proprio DNA. A dirigere il meccanismo di assemblaggio vi sarebbe una proteina che è stata individuata all’interno del batterio e a cui è stato dato il nome di RecA. Rimane tuttavia da capire come questa molecola non venga danneggiata anch’essa dalle radiazioni che fanno a pezzi il DNA.

Questa scoperta potrebbe portare nuova luce sui fenomeni di invecchiamento, il quale non è altro che una perdita di cellule dovuta alla loro morte: le rughe ad esempio sono causate dalla riduzione di cellule epiteliali, le sindromi degenerative del sistema nervoso come l’Alzheimer o il Parkinson sono dovute alla morte di un gran numero di neuroni e gli stessi problemi cardiovascolari sono determinati dal danneggiamento delle cellule del muscolo cardiaco.

Se si riuscisse a comprendere fino nei dettagli i meccanismi che stanno alla base della immortalità del Deinococcus, si riuscirebbe a riparare le cellule umane a rischio di morte e forse addirittura a renderle immortali. Qualcuno pensa che il batterio possa servire per portare la vita su pianeti inospitali dopo che il WWF (l’organizzazione mondiale per la difesa della natura) è uscito con la notizia clamorosa della fine del mondo entro il 2050, una catastrofe per evitare la quale servirebbe un’altra Terra.

Le condizioni in cui si trova il nostro pianeta sono obiettivamente gravi: inquinamento dell’aria e delle acque, depauperamento forestale, sovrappopolazione e uso sconsiderato delle risorse naturali, ma da qui a dire che la soluzione possa essere la colonizzazione di un altro pianeta ce ne corre. Chi ragiona in questi termini non conosce lo stato fisico dei pianeti del sistema solare e non comprende nemmeno le dimensioni dell’Universo. Venere e Marte, i due pianeti a noi più vicini, possiedono ambienti impossibili e micidiali per l’uomo e per qualsiasi altro organismo: l’atmosfera di Venere è densa, calda e ricca di gas velenosi mentre quella di Marte è estremamente rarefatta e priva di ossigeno. Gli altri pianeti stanno ancora peggio e in quegli ambienti il costo per stabilire colonie umane sarebbe enorme oltre che inutile. Per quanto poi riguarda i viaggi verso pianeti orbitanti intorno ad altre stelle, questi esistono solo nei libri di fantascienza o nella testa delle persone ignoranti.

Prof. Antonio Vecchia

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