L’eutanasia

Eutanasia è una parola composta da due termini greci: êu che significa “bene” e thánatos che significa “morte”, pertanto potremmo definirla “buona morte”. Una morte dolce e dignitosa era accettata, nel pensiero filosofico antico, con spirito sereno, e veniva intesa come perfetto compimento della vita. Invece, nel presente contesto, eutanasia equivarrà a “diritto di morire”, quindi ad un atto volontario che riguarda unicamente la persona che liberamente e responsabilmente prende questa decisione.

La vicenda triste e per alcuni versi drammatica di Piergiorgio Welby ha avuto sui media una vasta risonanza che è servita a fare uscire il problema dell’eutanasia dalla cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Welby è morto il 20 dicembre del 2006 per il distacco, come lui stesso in più occasioni aveva chiesto, delle macchine che lo tenevano in vita. Dopo pochi giorni avrebbe compiuto 61 anni e da quaranta era malato di distrofia muscolare che nel tempo si era andata sempre più aggravando. Di padre scozzese, il quale era venuto in Italia per giocare al calcio nella Roma in serie A, Welby nell’ultima fase della malattia era costretto a letto inibito a qualsiasi movimento del corpo ad eccezione degli occhi e la sua sopravvivenza era assicurata unicamente da un respiratore automatico, al quale era collegato da dieci anni, e da una forma di nutrizione artificiale.

Peraltro l’argomento presuppone che si parli prima della morte, un evento che da che mondo è mondo colpisce senza distinzione tutti gli esseri viventi, in questa sede tuttavia parlerò non tanto della morte degli altri, quanto piuttosto della mia.

 

VITA E MORTE

Prima di ogni altra cosa è quindi necessario chiarire che cosa sia la morte. La definizione può sembrare banale: essa è la naturale conclusione biologica della vita. Pertanto se c’è la vita ci deve essere anche la morte: l’immortalità sarebbe un disastro biologico. Darwin ci ha insegnato che la vita continua ed evolve attraverso il susseguirsi di due eventi fondamentali: l’atto sessuale che senza tregua genera nuovi individui e la morte che li elimina. La sessualità e la morte sono pertanto due fattori vitali strettamente correlati, al punto che se venisse a mancare anche uno solo dei due il processo evolutivo si fermerebbe.

L’uomo tuttavia all’enigma della morte ha sempre risposto ipotizzando un aldilà cioè una vita futura. Alcuni credono nella reincarnazione, altri in una resurrezione di anima e corpo che li introduca in un mondo nuovo e migliore, altri ancora in una specie di immortalità. Tutto ciò è dimostrato dai riti che accompagnano la sepoltura in tutte le parti del mondo e in tutte le epoche. Perfino l’uomo di Neanderthal seppelliva i morti con cura dimostrando di credere in una vita futura del defunto.

Vi sono naturalmente anche quelli, come me, che non credono in una vita dopo la morte. Costoro credono che dopo morto l’uomo ritorni ciò che era stato prima del concepimento cioè materia inanimata, terra. “Perché da essa sei stato tratto; perché sei polvere e in polvere tornerai” questo è l’ammonimento contenuto nel passo della Genesi 3,19, per ricordare all’uomo l’origine e il destino del suo corpo ed io aggiungo che la decomposizione avviene o molto lentamente attraverso un lungo processo biochimico oppure attraverso l’immediata trasformazione fisica prodotta dalla cremazione. Ed io personalmente sono favorevole a quest’ultima soluzione.

Cosa rimarrà di noi dopo la morte? Dipende molto da come si è vissuti. Molti lasciano dei figli, altri delle opere d’arte, altri ancora dei ricordi più o meno belli nelle persone che li hanno amati oppure brutti nelle persone che hanno concepito per essi tutt’altro sentimento, per alcuni c’è la completa indifferenza della gente. Con il passar del tempo nella maggior parte dei casi il ricordo del defunto si attenua fino a cessare del tutto.

L’argomento della morte, come di tante altre cose che riguardano l’esistenza umana, negli ultimi anni è cambiato. Basta andare indietro di due o tre secoli per rendersi conto di quanto profondo sia stato questo cambiamento. Verso la metà del 1700 nel nostro Paese circa un quarto dei morti era costituito da neonati e il 50 per cento aveva un’età compresa fra 0 e 20 anni mentre solo una percentuale minima superava quella che oggi è l’età media della vita dell’uomo.

I bambini che oggi muoiono entro il primo anno di vita non sono più il 23% come era 200 anni fa, ma meno dell’uno per cento e le persone che muoiono prima dei vent’anni sono solo l’1,6 per cento, nonostante il numero elevato degli incidenti d’auto che coinvolgono soprattutto i giovani. Di contro le persone che muoiono oltre l’età di vita media sono quasi il 50 per cento del numero complessivo dei decessi e, per convincersi, basta leggere i necrologi sulla pagina speciale di molti quotidiani. Per noi oggi vivere oltre gli ottanta anni è quasi un evento normale e la morte non è più provocata, come avveniva in passato, da catastrofi naturali, epidemie, carestie e guerre che colpivano prevalentemente i giovani ma sopraggiunge al termine di una vita molto lunga. Naturalmente questo succede solo nei Paesi altamente industrializzati mentre nei Paesi poveri la vita mediamente è molto più breve, tanto che possiamo dire che qui da noi si vivono due vite: una prima da 0 a 40 anni, come mediamente avviene per gli abitanti del terzo mondo, ed una seconda da 40 a 80 anni.

La durata della vita è quindi notevolmente aumentata nell’ultimo secolo e con essa si è realizzato anche quello che potremmo chiamare il “prolungamento della morte”. Vediamo di cosa si tratta.

Com’è ovvio, il protrarsi dell’esistenza umana è innanzitutto giustificato da quelle malattie che, con il miglioramento delle condizioni di vita, il rispetto scrupoloso delle norme igieniche e i progressi della medicina in gran parte sono scomparse e le restanti sono curabili e quasi sempre guaribili. Tuttavia questi progressi hanno anche allungato il periodo di tempo compreso fra l’inizio e la fine di alcune malattie importanti o quello conseguente ad incidenti molto gravi che hanno compromesso le normali attività vitali. Questo periodo di tempo molto lungo se da un lato è ben accetto perché concede la speranza di un completo recupero, d’altro lato prevede fasi di trattamento difficili da sopportare.

Passiamo ora alla vecchiaia la quale, come abbiamo visto, si è notevolmente prolungata. L’invecchiamento di per sé non è una malattia, tuttavia mentre i giovani normalmente soffrono di una malattia per volta, gli anziani spesso sono colpiti da più malattie contemporaneamente. Potendo evitare o tenere sotto controllo molti acciacchi tipici dell’età avanzata oggi è normale aspettarsi che l’uomo invecchi e di conseguenza che muoia non di malattia ma al termine di un periodo più o meno lungo di declino e di progressivo deperimento.

Attualmente la morte viene quindi considerata una fase naturale e normale della vita come è l’infanzia, la giovinezza e la maturità: essa cioè non è causata da interventi esterni ma è interna alla vita stessa. Ed è proprio di questa morte che intendo parlare.

 

IL TESTAMENTO BIOLOGICO

Fra pochi mesi compirò 70 anni e se si vuole dar credito alle statistiche mi rimangono ancora una decina d’anni di vita. Due dei miei quattro nonni erano già morti prima che nascessi ed un terzo morì mentre ero all’asilo. Indubbiamente nell’ultimo secolo la vita dell’uomo si è allungata ma soprattutto è migliorata la sua qualità. Quando ero giovane, c’erano poche possibilità di scelta e quindi le attività più frequentate erano quelle sportive. Personalmente ho praticato molti sport: il ciclismo (ero uno dei pochi ragazzi che potevano disporre di una bicicletta da corsa), la pallacanestro, la pallavolo e naturalmente il calcio. Inoltre ho praticato il pattinaggio a rotelle, il tennis (utilizzando la racchetta di mio padre), lo sci (attività a cui mi dedico tuttora) e il nuoto, oltre all’atletica leggera, dove ottenevo buoni risultati nelle gare di fondo e saltavo quasi un metro e novanta in alto (quando il record italiano era di pochi centimetri sopra i due metri!).

Non mi sono affermato in alcuno degli sport praticati ma nel complesso tutta questa attività fisica è servita per allontanarmi dallo studio nel quale ho cominciato ad impegnarmi solo dopo i vent’anni: da quel momento non ho più smesso di studiare, di leggere e di approfondire soprattutto argomenti scientifici. Ancora oggi leggo molto e con i miei scritti penso di poter essere di qualche utilità, soprattutto ai giovani.

Quando avevo 20 o 30 anni, credevo di essere immortale e l’idea della morte mia o dei miei cari non mi sfiorava nemmeno; da alcuni anni invece penso alla morte anche perché non vorrei finire nel modo in cui hanno concluso la loro esistenza i miei genitori. Mio padre è morto relativamente giovane, aveva 75 anni, ed aveva vissuto gli ultimi anni passando da un ospedale all’altro colpito da una serie di traumi fisici (aveva avuto un infarto e si era rotto un femore in seguito ad una caduta) che hanno finito per logorarlo oltre che nel fisico anche nella psiche. Alla fine l’Alzheimer ebbe il sopravvento sulle sue qualità intellettive che erano notevoli e dopo un alternarsi di incoscienza, di smarrimento e di demenza, finì in una situazione irrecuperabile. Ricoverato in un ospedale convenzionato gestito da religiosi, dove occupava un letto in una stanzetta tutta sua, era diventato un ingombro di cui era necessario liberarsi anche per fare posto a nuovi malati che avevano maggiore possibilità di guarigione. Gli vennero così sospese le terapie e l’alimentazione endovena che lo manteneva in vita e nello spazio di un paio di giorni morì. Fu una forma di eutanasia cosiddetta “passiva” (ma per alcuni, il recedere dalle cure non deve essere considerata eutanasia) che i famigliari accettarono con rassegnazione nella consapevolezza che ormai la persona non si sarebbe più ripresa e d’altra parte in quelle condizione non poteva nemmeno essere riportata a casa. Raccontava mio nonno (il padre di mio padre) che soffrire per guarire si poteva ritenere un sacrificio ancora accettabile, ma soffrire per morire era completamente assurdo e ingiusto.

Nei periodi passati in casa, mia madre accudiva il marito con grande slancio e generosità ma la fatica fisica che comportava lo spostamento di un uomo non più autosufficiente per una donnina piuttosto minuta finirono per indebolire il fisico e fare ammalare lei stessa che terminò i suoi giorni all’età di novanta anni intellettivamente lucida ma impossibilitata a qualsiasi attività perché quasi cieca, muta e costretta a passare dal letto alla poltrona accudita dalla figlia e da una badante. Una sera le sue condizioni si aggravarono, venne ricoverata in ospedale e la mattina seguente morì.

A causa di queste esperienze negative non vorrei finire nelle condizioni in cui hanno concluso la loro esistenza i miei genitori ed è per tale motivo che sono favorevole all’eutanasia. Mi ha fortemente colpito la vicenda di Indro Montanelli giornalista molto considerato anche da chi non condivideva le sue idee, ma apprezzato soprattutto come persona coerente e di sani principi. Dall’ospedale in cui era ricoverato, quattro giorni prima di morire, egli inviò una lettera di commiato ai suoi lettori in cui esprimeva anche le sue ultime volontà. In quella lettera il grande giornalista manifestava il desiderio di venire cremato e che le sue ceneri fossero raccolte in un’urna da riporre sopra la tomba di sua madre. Chiedeva inoltre a tutti gli amici di esimersi dalle cerimonie religiose e dalle commemorazioni civili. Le sue volontà furono rispettate.

In precedenza, ad un lettore della rubrica che teneva sul Corriere della Sera che lo criticava per un presunto suo giudizio negativo nei confronti della Chiesa, egli rispose di non aver mai contestato alla Chiesa il suo diritto di rimanere coerente alle direttive contenute nei Testi Sacri ma piuttosto biasimava la pretesa di imporre gli stessi comandamenti anche alle persone che non sono credenti di quella religione. In Italia, oltre ai cattolici, vivono gli agnostici come è il sottoscritto, gli atei e molte altre persone che seguono diverse religioni. Tutti questi cittadini hanno diritto di pensare ed agire in modo difforme dagli insegnamenti della Chiesa cattolica e di vedere rispettato il loro credo come peraltro è previsto anche dalla Carta costituzione. Ad esempio, i testimoni di Geova non vogliono che venga loro trasfuso il sangue e i medici rispettano questa richiesta anche se ciò dovesse comportare un rischio grave per la vita di questi loro pazienti.

In più occasioni mi è stato chiesto per quale motivo non credo. Rispondo che non credo perché non posso. Credevo quando ero piccolo e non solo a quanto era scritto nei Libri Sacri ma a qualsiasi fiaba o storiella mi venisse raccontata: credevo anche alla Befana, ma in quel caso forse lo facevo per interesse. Non ero in possesso degli strumenti culturali sufficienti per contestare ciò che mi veniva narrato come fatto realmente accaduto. In verità qualche dubbio su ciò che apprendevo lo avevo anche a quel tempo. Ricordo la storia del piccolo scrivano fiorentino di cui avevo letto nel libro “Cuore”. Ebbene in quel libro si raccontava la storia assurda di questo bambino che si svegliava la notte ed andava ad integrare il lavoro del padre copiando nel librone a lume di candela alcune pagine con una grafia che assomigliava perfettamente a quella del genitore; questi, benché non anziano e verosimilmente non digiuno di una certa erudizione, non si accorgeva di nulla, mostrando, a mio avviso, di essere del tutto rimbambito. In seguito alle mie rimostranze qualcuno ha risposto spiegandomi che la storiella non doveva essere presa alla lettera ma interpretata come un esempio da seguire da parte dei bambini che devono essere riconoscenti per i sacrifici dei genitori. Su questo siamo d’accordo, ma intanto la storia non era vera.

Montanelli era favorevole all’eutanasia e riteneva che lo Stato avrebbe dovuto promulgare una legge che non punisse il medico o una qualsiasi altra persona che avesse aiutato a morire un malato terminale se ciò fosse stato chiesto espressamente dalla persona condannata a sofferenze inaudite e umiliazioni intollerabili. Il vecchio giornalista negli ultimi anni di vita si era battuto quasi da solo a favore dell’eutanasia che considerava uno dei diritti fondamentali dell’individuo come sono il diritto allo studio, al lavoro, alla procreazione responsabile, ad esprimere i propri convincimenti politici e soprattutto alla libertà.

Io condivido molto le idee del giornalista toscano e in particolare rivendico il diritto di andarmene appena viene il buio, decidendolo però in anticipo, quando la luce è ancora accesa, attraverso quello strumento che si chiama “testamento biologico”, perché una tale scelta nel crepuscolo diventa difficile se non impossibile da prendere. So bene che il testamento biologico in Italia non ha alcun valore giuridico ma mi conforta la proposta contenuta nella Convenzione di Oviedo, ratificata da molti Paesi europei e anche dall’Italia nel 2001. In essa si afferma in modo esplicito che i desideri precedentemente espressi, a riguardo di un eventuale intervento medico, da parte di una persona che al momento dell’evento non sia in grado di manifestare la sua volontà, devono essere rispettati.

La morte non mi fa paura, temo di più il dolore e la sofferenza, ma non è nemmeno questo il problema maggiore: io non vorrei che una persona d’animo buono si sacrificasse per accudire un vecchio incapace di un pensiero logico e coerente, con regressioni infantili, bavoso e incontinente.

 

LA LEGGEGIACE IN PARLAMENTO 

Quando si è trattato di legiferare nel campo dei diritti civili l’Italia è sempre arrivata in forte ritardo rispetto agli altri Paesi occidentali. Tutti coloro che non sono più giovani ricordano quanto lungo e faticoso sia stato l’iter parlamentare e referendario che ha portato all’approvazione definitiva delle leggi sul divorzio e sull’interruzione volontaria della gravidanza. La mancanza di una legge che depenalizzasse l’aborto costringeva le donne più povere a mettersi nelle mani delle mammane e quelle con maggiori disponibilità economiche a prendere l’aereo per recarsi in Inghilterra dove esisteva già una legge che consentiva di abortire in ospedale. La difficoltà che il nostro Paese ha sempre incontrato per l’affermazione dei diritti civili è dovuta in parte ad un certo disimpegno civile e culturale della sua gente ma soprattutto alla grande influenza della Chiesa cattolica. La stessa Chiesa oggi si oppone con risolutezza persino all’avvio di un serio dibattito sul diritto di decidere liberamente quando porre termine in modo dignitoso alla propria esistenza.

Una decina d’anni fa si è costituita a Torino una associazione chiamata Exit il cui scopo principale era quello di promuovere un dibattito sull’eutanasia al fine di un suo riconoscimento legale. L’anno seguente alla sua nascita, l’associazione è stata riconosciuta dalla Federazione mondiale delle Right-to-Die Societies (le società sul diritto di morire) cioè da quell’organizzazione la quale raduna in sé una quarantina di associazioni di tutto il mondo che si battono per una legge che garantisca il diritto alla morte dignitosa. Nel 1997 in occasione della prima assemblea degli iscritti all’Exit venne presentato e discusso il testamento biologico, e gli organi di informazione dettero risalto a questa iniziativa.

Nel testamento biologico vengono espressi chiaramente tre obiettivi essenziali: il diritto alla cura del dolore, il diritto di rifiutare l’accanimento terapeutico e il diritto all’eutanasia volontaria. Naturalmente vi è anche la possibilità di richiedere solo uno o l’altro di questi diritti, nonché quello di revocare o modificare in qualsiasi momento, anche oralmente, la dichiarazione di volontà. Naturalmente l’invito è rivolto esclusivamente ai malati gravi, agli invalidi gravi e alle persone in età molto avanzata. Ne sono escluse pertanto le persone, soprattutto giovani, in cui spesso il desiderio di morire si basa su motivazioni irrazionali oppure è causato da depressione o da altri fattori a cui è possibile porre rimedio.

Nel 1999 venne costituita ufficialmente Exit-Italia la quale in quella circostanza adottò la denominazione e lo statuto tuttora in vigore. Negli anni successivi l’associazione si consolidò ulteriormente, diffuse le proprie idee in tutto il territorio nazionale e vi aderirono molti intellettuali fra cui Indro Montanelli, che morirà nel 2001. Frattanto venne anche formulata la prima proposta di legge a favore del testamento biologico che proprio in questi giorni dovrebbe essere discussa in Parlamento.

È importante che questa legge venga approvata al più presto sia per evitare di essere ancora una volta il fanalino di coda degli altri Paesi europei, alcuni dei quali, come Olanda e Belgio, sono già in possesso di leggi e di direttive che affrontano il problema, ma soprattutto perché – coloro che ne hanno i mezzi – non siano costretti ad andare all’estero per trovare una morte dignitosa.

All’Olanda, in cui la legge sull’eutanasia fu approvata nel 2001 ed entrò in vigore l’anno seguente, seguì il Belgio che fu il secondo Paese europeo a legalizzare l’eutanasia seppure con qualche limitazione. In nessun altro Paese europeo l’eutanasia è legale, tuttavia in alcuni di essi sono previste pene attenuate per il suicidio assistito o per l’omicidio del consenziente. La Spagna ad esempio da un paio di anni a questa parte non considera più omicidio l’eutanasia e non applica alcuna pena detentiva a colui il quale aiuta a morire la persona malata e sofferente che ne abbia fatto esplicita e reiterata richiesta. In Danimarca è accettato il testamento biologico così come in Svizzera, dove però il medico deve limitarsi a fornire al paziente i farmaci letali e i consigli per la loro assunzione. Negli Stati Uniti per questo come per altri diritti civili le leggi variano da Stato a Stato; la stessa cosa vale per l’Australia e il Canada.

Il Italia l’eutanasia è vietata e viene equiparata all’omicidio del malato anche se consenziente, come è stato nel caso di Piergiorgio Welby. È invece tollerata, come abbiamo detto, l’eutanasia “passiva”, nel senso della rinuncia alle cure inutili.

Il momento sembra favorevole ad aprire sull’argomento un confronto serio ed ampio, ma, come spesso è avvenuto in passato, una discussione nata e condotta sull’onda dell’emotività tende a spegnersi molto presto e difficilmente porta ad una valutazione serena e obiettiva dei problemi.

 

LA POSIZIONE DELLACHIESA CATTOLICA

Da un punto di vista prettamente laico ogni uomo ha diritto di scegliere in assoluta libertà e autonomia il modo e il tempo di morire, da un punto di vista religioso le cose cambiano radicalmente in quanto, per la religione cattolica (ma anche per molte altre religioni) l’uomo non è proprietario della propria vita la quale invece appartiene a Dio. La posizione della gerarchia cattolica romana in materia di eutanasia volontaria è molto netta e non ammette repliche, tuttavia tale posizione non è affatto condivisa da tutti i sacerdoti e da tutti i teologi.

Di recente il cardinale Carlo Maria Martini, vecchio e malato (ha 80 anni e soffre del morbo di Parkinson) citando due passi del Catechismo della Chiesa cattolica, forse a causa proprio del suo stato di salute, ha preso una posizione possibilista su questo argomento affermando che è di grandissima importanza distinguere fra eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico. L’intervento del Cardinale Martini è stato immediatamente stroncato dal presidente della Cei cardinale Camillo Ruini, il quale si è affrettato a ribadire che è eutanasia anche l’omissione di una terapia efficace e dovuta la cui privazione causi la morte. Il cardinale Ruini in quell’occasione ha anche giustificato quella che lui ha chiamato la “sofferta decisione” di non concedere il funerale religioso a Welby con il fatto che il defunto, fino alla fine, ha perseverato lucidamente e consapevolmente nella volontà di porre termine alla propria vita.

È noto che in Olanda certi sacerdoti cattolici accettano, in ospedale e a domicilio, di prendere parte a delle eutanasie volontarie e alcuni medici – come io stesso ho sospettato nel caso di mio padre al quale sono state sospese le terapie senza che fosse chiesto il consenso dei familiari e tanto meno del malato – praticano l’eutanasia anche in Italia in ospedali ufficialmente gestiti da religiosi.

Nel lontano 1957 papa Pio XII ad un gruppo di medici, che gli avevano chiesto se fosse permessa dalla religione e dalla morale cattolica la soppressione del dolore per mezzo di narcotici, anche se ciò dovesse abbreviare la vita del paziente malato terminale, rispondeva che, qualora non fossero esistiti altri mezzi per alleviare le sofferenze del malato e se ciò non avesse impedito l’adempimento di altri doveri religiosi e morali, l’intervento sarebbe stato da ritenersi lecito. Secondo alcuni esponenti del mondo cattolico, la risposta che dette papa Pacelli rappresentava una via d’uscita al divieto di eutanasia ma in anni successivi il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, che in seguito diverrà papa con il nome di Benedetto XVI, smentì in modo categorico l’apertura al dialogo di Pio XII condannando senza possibilità di replica l’eutanasia. L’autorevole teologo affermò pertanto che niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino, adulto, vecchio o malato incurabile e nessuno può chiedere questo gesto per sé stesso o per altro affidato alla sua responsabilità. Nelle parole del cardinale vi era anche un forte richiamo al valore del dolore come mezzo salvifico di Dio.

A proposito del dolore come mezzo per espiare i propri peccati si sono accumulati nel tempo molti pregiudizi di natura morale derivanti da contorte interpretazioni della dottrina cristiana. In realtà è molto improbabile che le sofferenze causate da un dente cariato abbiano mai elevato moralmente nessuno: il dolore fisico rende anzi l’uomo cattivo, intollerante, incapace di ragionare e solo per queste conseguenze andrebbe combattuto con tutti i mezzi. Il dolore ha indubbiamente una funzione di campanello d’allarme, di “spia” che si accende per indicare che qualche cosa nell’organismo non va ma quando raggiunge vertici paurosi come in alcuni tipi di tumori perde la sua funzione di utilità concreta.

È talmente pesante la pressione della Chiesa sulla coscienza dei credenti che, nel caso di Piergiorgio Welby, come abbiamo accennato, essa è arrivata al punto di negargli il funerale religioso chiesto dalla vecchia madre e dalla sorella, credenti ed entrambe praticanti, quando invece lo stesso viene concesso alle persone morte suicide e perfino a mafiosi e assassini. Non ha fatto scandalo la concessione degli onori funebri e della sepoltura nella cripta di Sant’Apollinare ad uno dei capi della banda della Magliana mentre era ritenuto giusto non fare entrare in chiesa Welby che non aveva fatto del male a nessuno. La moglie di Welby, all’indomani del rifiuto del cardinale Ruini di far celebrare il rito funebre religioso al marito gli ricordò che papa Giovanni Paolo II, quando stava per morire, rifiutò l’applicazione di un respiratore artificiale preferendo ritornare alla “casa del Padre”. Essa fece notare che la scelta del papa non era molto diversa da quella del suo Piergiorgio ma per la gerarchia cattolica evidentemente non era così: rifiutare in partenza un trattamento non è lo stesso che interromperlo. Per tutti i comitati etici del mondo invece, il non intraprendere e il sospendere il trattamento sono due azioni moralmente equivalenti anche se è molto più facile per un medico decidere di non intraprendere che sospendere una terapia.

Concordo con il commento di Vittorio Feltri, direttore del quotidiano “Libero”, in risposta ad un articolo, legato alla vicenda di Welby, scritto da un avvocato evidentemente malato di protagonismo. Questi, nell’articolo che trovò ospitalità nel giornale di Feltri, faceva gratuito sfoggio di erudizione e nello stesso tempo esprimeva banalità del tipo “l’eutanasia è un omicidio ed io non mi presterei mai a praticarla nemmeno se me lo ordinassero dieci Parlamenti messi insieme”. Ma nessuno glielo chiederà mai!

All’avvocato Feltri ribatteva dicendo che è “facile filosofeggiare sulla pelle sofferente degli altri. Facile amare la vita quando si sta bene”. E concludeva affermando che se un giorno si venisse a trovare nelle condizioni in cui si era ridotto il povero Welby anch’egli avrebbe desiderato la morte. Naturalmente la sua morte mentre gli altri erano liberi di tenersi la loro vita e di farsene quello che volevano.

Per concludere, vorrei tranquillizzare gli amici e le persone che mi conoscono sulle mie condizioni fisiche e psichiche al fine di eliminare ambiguità e malintesi. Affermo con forza e in modo inequivocabile che amo la vita, che godo di ottima salute, che non soffro di depressione e che la testa funziona bene, certamente meglio di come funzionava quando avevo vent’anni. Tutto ciò che ho affermato sul modo in cui vorrei concludere i miei giorni non riguarda il presente ma eventualmente un futuro lontano, il più lontano possibile.

Prof. Antonio Vecchia

Reply