Il buco dell’ozono

Nel 1985 un gruppo di scienziati britannici pubblicò i risultati di una serie di misurazioni, da loro stessi effettuate, sull’atmosfera sovrastante l’Antartide. Le misure si erano protratte per otto anni, dal 1977 al 1984, e si riferivano alla quantità di ozono (forma allotropica dell’ossigeno) interno alla massa d’aria, detta stratosfera, che si estende fra i 15 e i 40 km di altezza. In essa vi è una zona chiamata appunto ozonosfera in cui è massima la concentrazione di questo gas e funziona come uno schermo protettivo che assorbe la nociva radiazione ultravioletta che proviene dal Sole, eliminandola da quella complessiva che arriva a terra. Anche se elevata rispetto al resto, la quantità di ozono presente nell’ozonosfera è in realtà poca cosa e, se portata al livello del suolo (dove la pressione atmosferica è maggiore che alle alte quote), formerebbe solo uno straterello che non riuscirebbe a superare l’altezza delle suole delle scarpe. Nonostante la sua bassa concentrazione l’ozono influisce però profondamente sulla vita della Terra perché assorbe una radiazione che in piccole dosi ci abbronza e ci fornisce l’energia necessaria per la sintesi della vitamina D, ma in dosi più elevate provoca tumori della pelle e gravi danni agli occhi.

Ebbene, i dati raccolti dal gruppo di scienziati inglesi mostravano che all’inizio della primavera antartica (cioè alla fine di settembre, primi di ottobre del nostro emisfero), quando il Sole riappariva all’orizzonte dopo la lunga notte australe, la quantità di ozono nell’alta atmosfera si riduceva drasticamente per poi tornare ai livelli normali nel giro di un mese. La scoperta venne in seguito confermata dall’analisi dei dati registrati dai satelliti negli anni precedenti a queste ultime rilevazioni, che delineavano una situazione ancora più preoccupante di quella che si poteva ricavare dalle misure effettuate a terra. Seguendo il fenomeno nel corso del tempo, si era infatti notato che il difetto si era andato aggravando di anno in anno. Non solo, ma mentre nei primi rilevamenti era necessario un mese per il recupero dei livelli ordinari, successivamente si doveva attendere l’estate per il ripristino totale dello strato di ozono.

Con il ritorno del Sole sopra il polo Sud si assisteva quindi ad un forte assottigliamento di questo prezioso strato gassoso che in alcuni anni raggiungeva il 50% del totale. Si parlò allora di “buco dell’ozono” anche se in realtà non si trattava di un vero e proprio buco, però la riduzione dello schermo protettivo era troppo importante per non richiedere uno studio approfondito.

 

OZONO: OSSIGENO TRIATOMICO

Prima di analizzare il fenomeno del buco dell’ozono ed esaminare le conseguenze che la carenza di questo gas nell’alta atmosfera comporterebbe sugli esseri viventi, occorre capire meglio cosa sia l’ozono e come si formi.

L’ozono (da un verbo greco che significa “odorare”) è, come abbiamo accennato, una forma particolare di ossigeno: è ossigeno triatomico, ossia un gas le cui molecole, invece che essere formate da due soli atomi uniti insieme com’è in quello che respiriamo, è formato da tre. La formula chimica dell’ozono è quindi O3 mentre quella dell’ossigeno ordinario è O2. Questo gas è conosciuto fin dall’antichità; ne parla infatti Omero nell’Iliade quando racconta che il temporale lascia dietro di sé un caratteristico odore pungente. Nel 1786 la presenza di un odore agliaceo in vicinanza di macchine elettrostatiche (lo si nota anche in occasione delle fiere paesane dove il funzionamento di alcune giostre produce scariche elettriche) fu confermata e riconosciuta come dovuta a un nuovo gas a cui fu dato il nome di ozono. La vera natura di questa sostanza e la sua formula chimica fu tuttavia accertata solo in tempi relativamente recenti.

La particolare struttura della molecola di ozono rende questo gas adatto a catturare la maggior parte delle radiazioni ultraviolette che giungono dal Sole. La radiazione solare, come sappiamo, è ricca di raggi ultravioletti di bassa lunghezza d’onda e quindi di alta energia e l’ozono, assorbendoli, impedisce che una radiazione tanto pericolosa per noi, ma anche per tutti gli altri esseri viventi, raggiunga la superficie della Terra. Nella stratosfera avvengono reazioni chimiche molto complesse che provocano una continua costruzione e demolizione di molecole di ozono. Il risultato netto di questi due processi contrapposti è che la quantità di ozono si stabilizza in uno stato di equilibrio dinamico nel quale la velocità di formazione delle molecole corrisponde esattamente alla velocità di distruzione delle stesse. Sono quindi sempre le radiazioni ultraviolette che prima creano l’ozono e poi vengono da esso assorbite, e questo assorbimento determina la sottrazione dalla molecola di quel gas dell’atomo che in precedenza era stato aggiunto all’ossigeno ordinario.

Semplificando i numerosi processi chimici che avvengono nell’alta atmosfera, possiamo fare iniziare le reazioni che conducono alla formazione dell’ozono da una molecola di ossigeno ordinario che, colpita dai raggi ultravioletti, si spezza, liberando i due atomi che la costituiscono. Questi due atomi di ossigeno libero sono altamente reattivi e immediatamente si legano ad altrettante molecole di O2formando due molecole di O3. Le molecole di ozono così ottenute assorbono radiazioni ultraviolette di lunghezza d’onda un po’ maggiore (quindi di energia un po’ minore) di quelle che hanno determinato inizialmente la rottura delle molecole di ossigeno e vengono nuovamente dissociate nei loro componenti (O2 e O). L’atomo di ossigeno, così liberato, si unisce ad un’altra molecola di ossigeno intatta formando di nuovo ozono. Con una serie di reazioni successive l’ozono viene quindi generato, distrutto e rigenerato, sempre ad opera di radiazioni ultraviolette, in una dinamica continua di associazione e dissociazione fino a quando un atomo di ossigeno non incontra un altro atomo di ossigeno libero col quale formare una molecola di O2 stabile.

L’energia contenuta nei raggi ultravioletti viene quindi utilizzata per spezzare sia le molecole di ossigeno sia quelle di ozono con reazioni che producono calore che si disperde nell’ambiente circostante: l’ozonosfera infatti è una fascia eccezionalmente calda immersa nella fredda stratosfera. Grazie all’ozono, come abbiamo detto, solo una piccolissima frazione delle radiazioni ultraviolette è in grado di raggiungere la superficie terrestre. Esse tuttavia possono risultare pericolose anche in proporzioni ridotte soprattutto sulle persone di carnagione chiara, le quali sanno bene che devono esporsi ai raggi del Sole con molta cautela. Naturalmente i guai diventerebbero molto più seri per queste persone, ma anche per tutte le altre, qualora lo strato di ozono dovesse ridursi oltre che al polo Sud anche alle medie latitudini densamente abitate. Si è calcolato che una diminuzione di un sol punto percentuale del contenuto di ozono nell’atmosfera comporterebbe un aumento medio del due per cento dell’intensità della radiazione ultravioletta che raggiunge il suolo. Senza l’effetto filtrante dello strato di ozono la Terra sarebbe probabilmente inabitabile: le piante si seccherebbero, gli animali, uomo compreso, sarebbero colpiti da bruciature, cancro della pelle e cecità e gli oceani si riscalderebbero al punto da rendere impossibile ogni forma di vita.

 

LE CAUSE DEL BUCO

E’ normale la variazione della concentrazione dell’ozono stratosferico riscontrata nelle misurazioni effettuate in Antartide? Secondo alcuni sì, secondo altri no.

Alcuni scienziati ritengono che il buco dell’ozono sia un fenomeno del tutto naturale legato alle particolari condizioni meteorologiche delle zone polari. Questo convincimento deriva dall’osservazione che la diminuzione della quantità di questo gas nella stratosfera non è stata costante nel tempo, ma ha subito mutamenti negli anni senza che fosse preso alcun provvedimento sugli elementi che potrebbero essere la causa del suo assottigliamento. Nel 1987, ad esempio, la diminuzione dell’ozono fu quasi del 50 per cento, mentre un anno più tardi calò inspiegabilmente al 15 per cento. Come mai? Erano sbagliate le misure?

In realtà si è scoperto che sopra l’Antartide la circolazione atmosferica è organizzata come un gigantesco vortice: vi è cioè una massa d’aria isolata dal resto dell’atmosfera che circola, per gran parte dell’anno, intorno al polo australe. Nella tarda primavera, però, il vortice si rompe permettendo un rapido afflusso di aria ricca di ozono proveniente dalle zone tropicali. Quest’aria che viene da nord è più ricca di ozono perché nelle zone calde la formazione di questo gas è favorita dalla radiazione solare più intensa. Lo spostamento si verifica quindi in conseguenza del fatto che l’aria stratosferica tende a migrare spontaneamente dalle grandi altezze sovrastanti i tropici, dove si forma abbondante ozono, verso altezze minori delle regioni polari dove si va accumulando il gas di recente formazione.

Prima di questo salutare arricchimento di ozono nella zona mediana della stratosfera antartica la sua quantità era diminuita per l’arrivo di aria proveniente dal basso. Con il ritorno del Sole al Polo Sud, il suolo si riscalda e con esso si riscalda anche l’aria sovrastante. Questa aria è povera di ozono e, divenuta meno densa in seguito al riscaldamento, comincia a salire fino a raggiungere la stratosfera dove non solo va a diluire lo strato ricco di ozono presente in quel luogo, ma lo sposta anche lateralmente. Fenomeni simili in cui correnti d’aria, provocate da variazioni termiche, salgono e scendono all’interno dell’atmosfera sono normali e avvengono a tutte le latitudini.

I processi dinamici che spostano masse d’aria da una zona all’altra del globo non distruggono l’ozono, ma semplicemente lo ridistribuiscono e quindi è naturale che questa teoria sia più rassicurante di quella che concerne alcune sostanze prodotte dall’uomo. La teoria dello spostamento delle masse d’aria tuttavia ha un difetto: non riesce a spiegare la causa del progressivo aggravamento del fenomeno e il sempre più faticoso recupero dei livelli normali dell’ozono stratosferico.

Vi è, di contro, un numero molto consistente di scienziati che ritiene il fenomeno del buco dell’ozono di origine umana, ossia causato da sostanze inquinanti immesse nell’atmosfera dall’uomo, prime fra tutte i tanto discussi clorofluorocarburi (CFC).

I primi allarmi sul pericolo potenziale di un depauperamento dell’ozono stratosferico vennero lanciati negli anni ’70 del secolo passato, quando si cominciarono a costruire i primi aerei supersonici. Gli scienziati avvertirono che i motori di questi aerei tanto potenti avrebbero scaricato grosse quantità di ossidi di azoto direttamente nella stratosfera dove avrebbero dovuto volare e le conseguenze sarebbero state molto gravi. Quando un motore brucia benzina, il grandissimo calore che si sviluppa all’interno dei cilindri, fa sì che una parte dell’azoto, immesso con l’aria per garantire la combustione, si combini con l’ossigeno che non ha preso parte alla reazione, formando monossido di azoto (NO). Si tratta di un gas incolore e leggermente tossico, il quale tuttavia, se rimanesse nell’aria così com’è, non arrecherebbe molto danno alla salute.

Questo gas, invece, all’aria aperta, reagisce con l’ossigeno e si trasforma in diossido di azoto (NO2), un composto di colore bruno rossastro e molto tossico. Il diossido di azoto ha la proprietà di assorbire i raggi ultravioletti di origine solare che gli “rubano” un atomo di ossigeno ripristinando l’ossido di azoto. A questo punto l’atomo di ossigeno libero, altamente reattivo, si unisce ad una comune molecola biatomica di ossigeno ordinario dando origine alla molecola triatomica di ozono.

L’ozono si forma quindi anche al livello del suolo, per il notevole traffico automobilistico, ma in questo caso non si tratta di un fatto positivo. L’ozono presente al suolo è un pericolo per la salute, soprattutto perché dannoso per l’apparato respiratorio, ma anche perché produce emicrania, nausea e altri disturbi del sistema nervoso. Come si vede, facciamo le cose al contrario, immettiamo ozono nella bassa atmosfera dove è dannoso alla salute e lo distruggiamo là dove invece è indispensabile. Né c’è da illudersi che l’incremento di ozono prodotto al livello del suolo dalle autovetture possa raggiungere l’alta atmosfera per reintegrare le perdite: la molecola di ozono infatti è estremamente instabile e a contatto con i corpi solidi si spezza.

Tornando agli aerei di linea supersonici (tipo Concorde per intenderci) si era calcolato che una flotta di 500 di questi aerei, volando ad un’altezza di 20.000 metri (il doppio dell’altezza a cui viaggiano i normali aerei di linea), in cinque anni avrebbe distrutto il 15% dell’ozono della stratosfera. Nonostante l’allarme lanciato dagli scienziati alcune nazioni come Francia, Inghilterra ed Unione Sovietica portarono avanti i loro programmi immettendo i nuovi aerei in circolazione. Fortunatamente studi successivi appurarono che gli aerei più piccoli producono ozono, proprio come fanno le automobili al livello della superficie terrestre e che questa parte di ozono raggiunge la stratosfera reintegrando così le perdite causate dai grossi aerei. In tempi recenti, la produzione degli aerei supersonici è stata interrotta, ma non per le motivazioni segnalate dagli scienziati.

 

IL PROBLEMA DEI CFC

Scampato il pericolo degli aerei supersonici, la minaccia allo strato di ozono veniva ora individuata nei clorofluorocarburi e si trattava in questo caso di una minaccia molto seria. I clorofluorocarburi sono dei composti sintetizzati per la prima volta nel 1930 dall’americano Thomas Midgley e rappresentarono, a quel tempo, un vero successo industriale per le loro particolari caratteristiche. Questi composti infatti sono stabili e inerti, non sono tossici, non sono infiammabili, ed è facile liquefarli per poi farli tornare alla stato gassoso: il che li rende utilizzabili per raffreddare gli ambienti. Dopo la seconda guerra mondiale, il capostipite della famiglia, il CFC-12, venne utilizzato in modo massiccio nella costruzione dei frigoriferi e per tale motivo assunse il nome commerciale di Freon.

Il Freon viene compresso da un congegno posto all’esterno del frigorifero fino a renderlo liquido; questa operazione genera calore che si disperde nell’ambiente esterno. Il liquido viene quindi introdotto nella cella frigorifera dove trova un apposito ampio contenitore entro il quale ha spazio sufficiente per espandersi e ritornare allo stato gassoso. Il gas, espandendosi, si raffredda e con esso si raffredda l’interno del frigorifero. Quindi il Freon gassoso viene rinviato al compressore esterno e il ciclo ricomincia. La sicurezza nell’uso di questo gas sta proprio nella stabilità della molecola che nessun reagente chimico è in grado di scomporre. Il suo utilizzo nei frigoriferi derivava dal fatto che anche eventuali piccole perdite non avrebbero avvelenato i cibi. In precedenza il liquido refrigerante più usato in questi elettrodomestici era l’ammoniaca la quale è un composto molto tossico e di odore sgradevole. Il Freon viene anche usato nei condizionatori d’aria, compresi quelli montati sulle automobili, dove svolge lo stesso ruolo che nei frigoriferi.

Quando l’inventore di questo eccezionale prodotto lo presentò al pubblico, per dimostrare la non pericolosità della sostanza, ne aspirò i vapori che poi espirò lentamente, attraverso il naso, su una candela accesa spegnendola. Non è la prima volta che un prodotto inventato dall’uomo si dimostra all’inizio del tutto innocuo e ricco di pregi e solo in un secondo tempo evidenzia i suoi difetti. Capitò la stessa cosa con il DDT un insetticida che all’inizio fu accolto con entusiasmo per la sua azione decisa e infallibile sui parassiti, ma che successivamente dovette essere ritirato dal mercato perché si rivelò pericoloso per la salute dell’uomo.

Nel corso degli anni la famiglia dei CFC si arricchì sempre di più e con essa si allargarono gli usi di questi prodotti. Il CFC-11 si rivelò adatto alla costruzione di isolanti termici molto usati nelle abitazioni e, insieme al capostipite CFC-12, fu inpiegato come propellente nelle bombolette spray. Il CFC-13 è un solvente impiegato nell’industria elettronica per rimuovere minuscole impurità dalle piastrine di silicio.

Paradossalmente proprio la mancanza di reattività rende i clorofluorocarburi potenzialmente pericolosi per l’ozono della stratosfera. A causa della loro stabilità questi composti hanno infatti vita lunghissima che si stima fra i 75 e i 100 anni, e quindi hanno tutto il tempo, una volta usciti dai vecchi frigoriferi o dalle bombolette spray, di disperdersi nell’ambiente e salire, grazie alla loro bassa densità, fino a raggiungere le quote più alte dell’atmosfera. Qui i raggi ultravioletti ne spezzano le molecole liberando l’atomo di cloro il quale dà inizio ad una serie di reazioni che terminano con la scomposizione delle molecole di ozono.

L’atomo di cloro sottrae un atomo di ossigeno dalla molecola di ozono riducendola ad ossigeno molecolare O2 che non è più in grado di bloccare le radiazioni ultraviolette. Il cloro, dopo aver catturato un atomo di ossigeno, lo cede ad un altro atomo di ossigeno ritornando quindi libero di aggredire un’altra molecola di ozono. La reazione può ripetersi molte volte fino a distruggere con un solo atomo di cloro fino a 30 o 40 mila molecole di ozono. Anche in piccole dosi i clorofluorocarburi sono quindi pericolosi. Ma questi prodotti, presenti nell’atmosfera, attualmente non sono più in piccole dosi: ormai se ne sono accumulate milioni di tonnellate. E anche se si decidesse di interrompere istantaneamente la produzione e l’uso dei CFC, cosa fra l’altro prevista da accordi internazionali per l’inizio del nuovo secolo, l’ozono continuerebbe a diminuire perché, come abbiamo detto, i clorofluorocarburi hanno vita lunghissima tanto che per ripristinare le condizione di partenza ci vorrebbe più di un secolo di pulizia.

 

LA SOLUZIONE DEL PROBLEMA

Molti dei danni causati da sostanze prodotte dall’uomo sono, almeno in linea teorica, eliminabili con opportuni accorgimenti di natura tecnologica e quindi in pratica riducibili a livelli piuttosto bassi, grazie a modifiche dei processi produttivi e di utilizzo. La cosa deve valere, ovviamente, anche per i CFC. Ora, però, prima di accennare a eventuali interventi sulle cause che lo distruggono cerchiamo di capire bene come si accumula l’ozono sopra l’Antartide, dopo che la quantità di questo gas si è ridotta per l’azione inquinante dell’uomo.

Abbiamo visto che la radiazione solare è indispensabile per mettere in moto le reazioni che conducono alla formazione dell’ozono. Ebbene, la radiazione solare più intensa si trova sopra i Tropici e a notevole altezza, ma le concentrazioni maggiori di questo gas si registrano sopra i Poli e nella zona mediana della stratosfera. Come mai?

Sembra che il trasferimento di ozono dai Tropici dove viene prodotto ai Poli dove si accumula avvenga, come abbiamo accennato in precedenza, in seguito a particolari tempeste stratosferiche che rimescolano l’aria delle zone polari con quella delle zone equatoriali. Si è notato però che la distruzione dell’ozono, causata molto probabilmente dai CFC, si verifica sopra il Polo Sud e non da altre parti. Come mai, ad esempio, non avviene la stessa cosa sopra il polo Nord dove esisterebbero delle condizioni meteorologiche molto simili a quelle che si possono osservare sopra l’Antartide? Nell’emisfero Nord del pianeta, oltretutto, vengono prodotti e liberati nell’atmosfera molti più prodotti inquinanti che nell’emisfero Sud meno abitato e meno industrializzato e allora come è possibile che i danni maggiori allo strato di ozono si riscontrino a Sud e non a Nord?

Gli scienziati hanno cercato di dare una spiegazione del fatto. Essi ritengono che le reazioni che liberano il cloro dai CFC avvengano sulla superficie di corpi solidi i quali potrebbero essere costituiti da aghi di ghiaccio che si formano nelle sottilissime nubi che si osservano nella stratosfera sovrastante il Polo Sud e che mancano invece dalle altre parti del globo e anche al Polo Nord. Le basse temperature, intorno agli 80 – 90 gradi sotto lo zero che si riscontrano nella stratosfera antartica favorirebbero ulteriormente le reazioni che coinvolgono il cloro. Se non ci fossero le nubi stratosferiche e se le temperature fossero un po’ più alte, gli ossidi dell’azoto presenti a quelle quote bloccherebbero il cloro impedendogli di aggredire le molecole di ozono.

Alle medie latitudini – asseriscono gli esperti – il monossido di cloro reagisce con il monossido di azoto liberando un atomo di ossigeno disponibile per rigenerare l’ozono. Oltre a questa, vi sarebbe un’altra reazione in grado di impedire la distruzione dell’ozono da parte del cloro. In questo secondo caso il cloro si combinerebbe con il biossido di azoto o con il metano sempre presenti soprattutto nell’atmosfera delle medie latitudini formando dei composti che, di fatto, tratterrebbero l’atomo di cloro all’interno di una particolare molecola neutralizzandone l’azione distruttiva. In parole povere sarebbe proprio l’inquinamento delle zone del pianeta più abitate e più industrializzate ad ostacolare l’attività del cloro impedendogli di distruggere lo strato di ozono. Questo inquinamento purtroppo (?) sopra l’Antartide non esiste e le conseguenze sono la distruzione dell’ozono.

I CFC forse non sono gli unici responsabili del buco nella fascia dell’ozono stratosferico, ma sicuramente sono i più importanti. Aerei attrezzati con speciali apparecchiature sono stati fatti volare sopra il continente antartico nel momento in cui si verificava l’abbassamento del livello di ozono. Le apparecchiature installate a bordo hanno registrato la presenza di una notevole quantità di cloro e contemporaneamente una rapida diminuzione dell’ozono. Questi rilevamenti hanno fugato gli ultimi dubbi: il principale responsabile del buco dell’ozono è certamente il cloro.

Cosa possiamo fare per limitare i danni prodotti dal cloro? Innanzitutto eliminare dal mercato i clorofluorocarburi che sono i principali fornitori del micidiale elemento. Certo, non è possibile dall’oggi al domani rinunciare ad un prodotto tanto indispensabile per l’industria senza prima avere provveduto alla sua sostituzione con qualche cosa di simile e meno pericoloso. In realtà sono già stati realizzati dei prodotti sostitutivi dei CFC con meno cloro nella molecola ed altrettanto efficaci, ma questi nuovi prodotti, molto costosi, contengono ugualmente una parte seppur minima di cloro. La sfida tuttavia non è solo quella di sostituire i CFC ma anche di trasferire nuove tecnologie nei paesi del terzo mondo. Se ad esempio indiani e cinesi portassero a termine i loro piani di costruzione di milioni di frigoriferi utilizzando i CFC, l’immissione di questi prodotti nell’atmosfera si moltiplicherebbe in breve tempo. Naturalmente non si può nemmeno impedire a miliardi di persone di nutrirsi meglio e di raggiungere un maggiore benessere.

Dopo che fu chiaro che i maggiori responsabili del disastro che si stava consumando erano i CFC, i rappresentanti dei Paesi maggiormente industrializzati si riunirono a Vienna nel 1985 e l’anno successivo a Ginevra per discutere il problema e trovare le soluzioni più opportune. Il risultato delle relazioni riguardanti il problema della protezione della fascia di ozono portò al cosiddetto Protocollo internazionale di Montreal, ratificato anche dall’Italia nell’agosto del 1988. In quell’occasione gli USA erano propensi ad un taglio netto della produzione di clorofluorocarburi mentre gli Europei tergiversavano. I Paesi del terzo mondo, ovviamente, erano contrari a qualsiasi limitazione della produzione e della utilizzazione di un prodotto indispensabile per soddisfare alcune esigenze di sviluppo dei loro Paesi. Alla fine 34 Nazioni di tutto il mondo si accordarono per una riduzione del 50% dei consumi mondiali di CFC entro il 1998 e l’eliminazione completa di questo prodotto entro il 2000. Trentaquattro Nazioni, anche se le più industrializzate, non rappresentano tuttavia il mondo intero.

Gli americani propendevano per l’eliminazione completa di questo prodotto perché alcune società di quel Paese erano già in grado, dieci anni fa, di immettere sul mercato prodotti sostitutivi dei CFC apparentemente meno dannosi. La stessa cosa non erano in grado di fare i Paesi europei e tanto meno i Paesi terzi. Oltre a quelli economici esistono anche problemi sociali, non equamente distribuiti, legati al posto di lavoro di centinaia di migliaia di persone. Gli USA, ad esempio, che hanno pronti i prodotti alternativi, dalla messa al bando dei CFC trarrebbero vantaggio perché una soluzione del genere rafforzerebbe il settore chimico e quello elettronico-informatico di quel Paese.

Alcuni Paesi, approfittando del fatto che le certezze in campo scientifico non esistono e che la sicurezza matematica sugli effetti a lungo termine dei CFC non può essere dimostrata, invitano ad attendere per saperne di più. Questo atteggiamento, apparentemente ragionevole, potrebbe però rivelarsi pericoloso perché rimandando la soluzione del problema si rischierebbe di arrivare troppo tardi al rimedio. Questa vicenda mette in evidenza una volta di più come la solidarietà, al di là delle frontiere nazionali e sociali, sia una condizione tutt’altro che acquisita.

Prof. Antonio Vecchia

Reply