I buchi neri

Sebbene gli scienziati non siano riusciti ad individuarne con certezza nemmeno uno i buchi neri dovrebbero essere molto numerosi già all’interno della nostra galassia e ve ne dovrebbero essere anche di vario tipo (semplici buchi neri, superbuchi neri, minibuchi neri e perfino buchi bianchi).

Nell’inverno 1915-16 un paio di mesi dopo la pubblicazione della teoria della relatività generale da parte di Einstein (una teoria che tratta la forza di gravità in modo nuovo e più preciso rispetto a quella esposta in precedenza da Newton) l’astrofisico tedesco Karl Schwarzschild, nel suo letto di morte, dove giaceva a causa di una malattia contratta sul fronte russo della prima guerra mondiale, calcolò quale avrebbe dovuto essere la massa di un corpo celeste nell’ipotesi di un intenso campo gravitazionale tale da trattenere su di sé qualsiasi cosa, compresa la luce. La descrizione matematica che fece lo scienziato tedesco di questo ipotetico corpo celeste venne considerata, a quel tempo, un semplice esercizio accademico di ciò che in seguito prese il nome di “buco nero”. Esso fu anche l’ultimo suo lavoro: morì poco dopo a soli 43 anni di età.

Schwarzschild, utilizzando le equazioni previste dalla teoria della relatività, individuò il raggio (R) che avrebbe dovuto avere un corpo celeste dotato di massa tale da non lasciare uscire nulla dal suo interno e dimostrò che questa dimensione limite era determinata da una formula la quale moltiplica la massa (M) dell’oggetto per il doppio della costante di gravitazione (G) diviso per la velocità della luce (c) al quadrato: R = 2·G·M/c². Ora, poiché il doppio della costante di gravitazione universale diviso per il quadrato della velocità della luce è un numero molto, ma molto piccolo, è chiaro che affinché si ottenesse un valore apprezzabile del raggio di Schwarzschild (come è stato in seguito chiamata questa dimensione), doveva essere molto, ma molto grande la massa dell’oggetto preso in considerazione. Il raggio di un buco nero delimita a sua volta una superficie che separa due regioni non comunicanti fra loro ed è chiamata “orizzonte degli eventi” perché nessun segnale può allontanarsi da quella stella per comunicare un evento qualsiasi al mondo esterno.

In verità l’idea che potessero esistere corpi celesti dotati di una massa così grande da catturare la luce era già venuta in precedenza verso la metà del 1700 all’astronomo e provetto navigatore inglese Thomas Wright di Durham, il quale aveva immaginato la Via Lattea (ovvero la nostra galassia) come un grande disco di stelle in rotazione intorno ad una massa centrale molto pesante e invisibile. Alcuni decenni più tardi il prete inglese John Mitchell e il matematico francese Pierre Simon de Laplace, indipendentemente l’uno dall’altro, avevano calcolato che stelle 500 volte più grandi del Sole avrebbero dovuto esercitare una forza di gravità tale da attrarre su di esse gli oggetti vicini e nello stesso tempo impedire alla luce, che allora era considerata un insieme di palline colorate, di uscire.

Il modello di Mitchell e Laplace cadde in discredito quando la teoria ondulatoria della luce soppiantò quella corpuscolare proposta da Newton. Con l’introduzione della nuova teoria pareva infatti illogico pensare che se la luce era qualcosa di immateriale potesse essere attratta da un corpo pesante. Si ritornò invece all’idea originale dopo che Einstein formulò la teoria della relatività generale all’interno della quale la gravità veniva ridotta a geometria e quindi non era più una forza. La teoria di Einstein prevede che corpi molto pesanti distorcano lo spazio nelle loro vicinanze: la prova di un affossamento dello spazio in vicinanza del Sole si ebbe in seguito ad una misura eseguita dall’astronomo britannico Arthur Eddington durante un’eclissi totale di Sole nel 1919. Egli osservò che il raggio di luce che proveniva da una stella lontana quando passava in vicinanza del Sole deviava dalla sua traiettoria rettilinea e percorreva l’avvallamento che l’astro aveva creato nello spazio circostante dando l’impressione di essere attratto da esso. Se il corpo in esame fosse molto pesante come quello di un buco nero la deformazione dello spazio nelle sue vicinanze sarebbe tale per cui un raggio di luce che tentasse di uscire da quell’astro si ritorcerebbe su sé stesso e tornerebbe indietro.

La gravità non deforma solo lo spazio ma anche il tempo che si modifica con lo stato di moto dell’osservatore e con la sua posizione nel punto dell’Universo in cui si trova. Le teorie relativistiche di Einstein suggeriscono infatti che il tempo scorre più lentamente se si viaggia a velocità molto elevate e se si sosta su di un corpo molto pesante: su un buco nero il tempo dovrebbe fermarsi del tutto. Sul nostro pianeta, per fare un esempio, il tempo scorre più lentamente a fondo valle che in alta montagna: la differenza ovviamente è minima ma può essere verificata con l’utilizzo degli orologi nucleari, estremamente precisi e sensibili. Gli effetti di un tempo che si deforma a seconda di come ci stiamo muovendo e di dove ci troviamo non vengono mai sperimentati nella vita di tutti i giorni perché non capita mai di viaggiare ad una velocità prossima a quella della luce (un aereo viaggia solo ad un milionesimo di quella velocità) e sul nostro pianeta la gravità è mille miliardi di volte minore di quella che si registra su una stella di neutroni, che è un oggetto celeste sensibilmente meno pesante di un buco nero. Resta il fatto che in pianura, seppure di poco, la gente invecchia più lentamente che in montagna.

Negli stessi anni in cui fu compiuta l’osservazione che confermava la validità di una delle caratteristiche della teoria della relatività generale, Eddington aveva calcolato che stelle con una massa maggiore di 60 volte quella del Sole (quindi di gran lunga inferiore rispetto a come le avevano immaginate Mitchell e Laplace) non potevano esistere perché sarebbero collassate producendo al loro interno temperature tali da farle esplodere. Eddington era considerato un fisico molto competente, ed uno dei pochi esperti della teoria relativistica di Einstein, ma per nulla modesto: si racconta che quando un giornalista gli si rivolse affermando di avere sentito dire che esistevano solo tre persone in grado di capire la relatività generale egli rimase per un attimo soprappensiero poi sbottò: “Sto pensando chi possa essere la terza!”.

 

LE CARATTERISTICHE DEI BUCHI NERI

Per comprendere meglio il buco nero dobbiamo chiarire il concetto di velocità di fuga. Immaginiamo allora di scagliare un sasso verso l’alto: mentre questo sale la forza di gravitazione lo attrae verso il basso facendogli diminuire la velocità fino a fermarlo e quindi costringerlo ad invertire la corsa. Se il sasso venisse scagliato con maggior forza salirebbe più in alto ma poi ancora una volta invertirebbe il cammino e cadrebbe a terra. Il campo gravitazionale della Terra, come abbiamo accennato, non ha lo stesso valore in ogni luogo e diminuisce vistosamente con l’altezza: esso infatti è proporzionale al quadrato della sua distanza dal centro del pianeta. Un oggetto in superficie si trova a circa 6.370 kilometri dal centro della Terra e se venisse posto a 6.370 kilometri di altezza (cioè a distanza doppia dal centro) il valore del campo si ridurrebbe ad un quarto. Analogamente, se l’oggetto si portasse ad una distanza tripla l’attrazione si ridurrebbe ad un nono; se si quadruplicasse la distanza dal centro della Terra, l’attrazione sarebbe un sedicesimo di quella in superficie e così via. Da un punto di vista aritmetico la regola è molto semplice, basta calcolare il quadrato della distanza e poi l’inverso del numero ottenuto: se la distanza aumentasse di cinque volte la forza diventerebbe un venticinquesimo (che è l’inverso di venticinque). Se si salisse molto in alto il campo gravitazionale finirebbe per ridursi a zero.

Dai dati esposti sopra si deduce che se un oggetto venisse scagliato verso l’alto con una forza notevole acquisterebbe una velocità tale da sfuggire definitivamente al campo gravitazionale terrestre e non tornerebbe più indietro. La velocità minima perché un oggetto lanciato dalla superficie della Terra verso l’alto possa sfuggire al suo campo gravitazionale si chiama velocità di fuga. Questa velocità è di 11,2 km/s ma sugli altri corpi celesti è diversa e dipende dalla loro massa: sulla Luna, ad esempio, la velocità di fuga è di 2,4 km/s e sul Sole è di 618,2 km/s; in definitiva essa dipende quindi sia dalla massa del corpo sia dalla distanza dal suo centro.

Quando un corpo celeste si contrae il campo gravitazionale sulla sua superficie diventa più intenso a mano a mano che diminuisce il volume mentre la massa rimane immutata. Consideriamo per esempio la Terra e immaginiamo di comprimerla fino a ridurla ad un quarto delle sue dimensioni originali: la sua superficie si troverebbe ora quattro volte più vicina al centro e quindi si dovrebbe quadruplicare l’energia cinetica necessaria per fare allontanare da essa un oggetto. La velocità di fuga pertanto non sarebbe più di 11,2 km/s ma il doppio, ossia 22,4 km/s. Se ora, lasciando immutata la massa il pianeta venisse ulteriormente compresso fino a ridurre il raggio a un kilometro e mezzo, la velocità di fuga sarebbe di 730 km/s. Se infine il raggio venisse ridotto a meno di un centimetro la velocità di fuga supererebbe quella della luce e la nostra Terra scomparirebbe definitivamente lasciando dietro di sé un piccolo forellino nello spazio. Se quindi potessimo concentrare tutta la materia del nostro pianeta nel volume occupato da un chicco d’uva esso diventerebbe un buco nero.

Nel 1939 J. Robert Oppenheimer (1904-1967), il fisico americano che diresse l’équipe che realizzò la prima bomba atomica, mentre studiava le caratteristiche fisiche delle stelle di neutroni, considerò le possibili conseguenze dell’aumento di massa di questo particolare tipo di corpi celesti. I calcoli lo portarono a concludere che quando la massa di una stella supera tre volte quella del Sole il campo gravitazionale si fa talmente intenso che anche i neutroni a contatto fra loro non riescono più a sopportare la compressione e letteralmente si sbriciolano. La stella allora continua a contrarsi e non esiste più alcuna forza in grado di arrestarne il collasso. In seguito si scoprì che esistono effettivamente stelle delle dimensioni previste da Oppenheimer e quindi si prese in seria considerazione il fatto che nell’Universo potesse avvenire la scomparsa catastrofica di un astro.

Il termine “buco nero” fu proposto dal fisico americano John Archibald Wheeler (1911- ) ed ebbe subito grande successo soprattutto presso il grosso pubblico. Il nome traeva origine dall’osservazione che ogni cosa che cadeva nell’oggetto contratto era come se cadesse in un buco infinitamente profondo; nemmeno la luce poteva uscire da quel “buco” e quindi esso doveva apparire “nero”. In verità non tutti accettarono la definizione che di questi straordinari oggetti celesti diede Wheeler, così ad esempio i Francesi avvertivano nel termine trou noir una connotazione oscena e ritennero di sostituirla con astre occlus (stella occlusa): una definizione questa che per fortuna non ebbe seguito.

 

LA FORMAZIONEDEI BUCHI NERI

In teoria dovrebbero poter esistere buchi neri di qualsiasi grandezza: pesanti meno di un grammo, un miliardo di tonnellate o un miliardo di masse solari; basta che la massa sia concentrata in un volume sufficientemente piccolo. Ad esempio, un buco nero della massa di una montagna sarebbe grande quanto il nucleo di un atomo (10-13 cm) mentre un buco nero grande quanto una montagna avrebbe la massa del Sole.

Si potrebbe anche immaginare di trasformare in buco nero la massa più piccola che si conosca, quella dell’elettrone (10-27g), ma lo impediscono motivi teorici legati alle cosiddette unità naturali (o standard) di Planck che fissano le grandezze minime compatibili con le leggi fisiche. Esse sono le seguenti: massa=2,9·10-5 grammi; distanza=1,61·10-33 centimetri; tempo=5,36·10-44 secondi. Quindi la massa minima capace di trasformarsi in buco nero non potrebbe essere inferiore a circa 10-5 g e dovrebbe trovare sistemazione in una sferetta del diametro di circa 10-33 cm. La densità di un simile mini-minibuco nero sarebbe pertanto di 1094 g/cm3 (equivalente all’intero Universo ridotto alle dimensioni di un atomo). I fisici ritengono che simili configurazioni ultramicroscopiche si sarebbero potute formare alcuni istanti prima del big bang ma si sarebbero dissolte immediatamente dopo e lo avrebbero fatto entro il tempo di Planck.

La densità incredibile del mini-minibuco nero riportata sopra non deve trarci in inganno. In verità non tutti i buchi neri sono ugualmente densi: più pesante è un oggetto e meno deve contrarsi per diventare un buco nero. Per fornire un dato opposto a quello del mini-minibuco nero si può portare ad esempio quello dell’intera nostra galassia che ha una massa pari ad oltre cento miliardi di stelle la quale se venisse contratta fino a formare un buco nero sarebbe di dimensioni enormi e avrebbe una densità pari a solo un millesimo dell’atmosfera che avvolge il nostro pianeta. Lo stesso Universo potrebbe essere ritenuto un immenso buco nero: fatti i conti la massa dei mille miliardi di galassie in esso contenute darebbe un raggio di Schwarzschild di 10 miliardi di anni luce, esattamente lo stesso valore che viene attribuito alle dimensioni attuali dell’Universo.

Esistono veramente i buchi neri? Quale meccanismo potrebbe generare concentrazioni di materia tanto grandi? Abbiamo visto che per trasformare la Terra in un buco nero sarebbe indispensabile comprimerla applicando su di essa forze esterne; perché una stella diventi un buco nero le forze necessarie sono fornite dalla stella stessa. Quando stelle molto grandi, diciamo dieci volte la massa solare, hanno bruciato tutto il combustibile che avevano a disposizione, attraverso le reazioni nucleari, esse non sono più in grado di bilanciare la spinta verso l’interno della propria gravità e quindi vanno incontro ad uno degli eventi più violenti che si possano verificare nel mondo fisico: le stelle scoppiano lanciando nello spazio il materiale esterno mentre il nucleo centrale potrebbe dare origine ad un buco nero.

Le stelle che terminano la loro esistenza con una grande esplosione sono dette supernove e se la massa residua dell’esplosione è almeno 3,2 masse solari questa si contrae per divenire un buco nero. Le stelle molto grandi che terminano la loro esistenza come supernove sono molto più numerose di quanto si potrebbe pensare. È vero infatti che nella nostra galassia l’ultima esplosione di una supernova si è verificata nel 1604 ma gli astrofisici calcolano che questo fenomeno dovrebbe realizzarsi all’interno di una galassia mediamente tre volte per secolo. Se ora si considera che la nostra esiste da dieci miliardi di anni e che le stelle di grande massa sono molto numerose e hanno vita breve perché consumano in fretta il loro combustibile nucleare, sembra ragionevole supporre che nella Via Lattea si siano formati, in questo lungo lasso di tempo, milioni e forse miliardi di buchi neri.

Gli astrofisici ritengono che buchi neri di grandi proporzioni si potrebbero formare dal collasso non di una singola stella ma di un intero ammasso stellare. Le regioni caratterizzate da notevole concentrazione di stelle sono il centro delle galassie e gli ammassi globulari e in quei luoghi si dovrebbero trovare dei superbuchi neri. Un ammasso globulare può contenere, raggruppate in una sorta di sfera di densità relativamente elevata, fino a qualche milione di stelle tutte in moto più o meno casuale. In seguito alla reciproca attrazione gravitazionale le stelle non possono sfuggire, tuttavia capita ogni tanto che qualcuna di esse acquisti una velocità tale da consentirle di abbandonare l’ammasso. Succede allora quello che avviene quando le molecole più veloci abbandonano un liquido caldo: le rimanenti sono mediamente più lente e il liquido più freddo. Allo stesso modo le stelle che rimangono nell’ammasso dopo che sono sfuggite le più veloci sono più lente e quindi tendono a concentrarsi fino a produrre un collasso generale e di conseguenza un buco nero supermassiccio. Questi superbuchi neri naturalmente non sono visibili ma si conoscono molti ammassi globulari all’interno della nostra galassia, alcuni dei quali presentano un grande affollamento di stelle verso il centro determinato forse dall’attrazione generata da un buco nero in formazione.

Un altro luogo in cui le stelle stanno molto vicine fra loro è il centro delle galassie e anche qui potrebbe essere presente un superbuco nero. Ogni galassia, compresa la nostra, dovrebbe quindi avere al centro un enorme buco nero il quale con la sua presenza condizionerebbe il movimento delle stelle che stanno intorno, così come il Sole condiziona il movimento dei pianeti. Un eventuale buco nero di grandi dimensioni al centro della Via Lattea non è visibile non solo per le sue caratteristiche intrinseche, ma anche per la presenza in quella zona di polveri e di gas che rendono impossibile individuare con i mezzi di cui attualmente si dispone qualche particolare effetto dovuto alla presenza del massiccio corpo celeste.

Più facile sarebbe scoprire un buco nero di grande massa al centro di un’altra galassia; sembra infatti che alcuni astronomi americani e inglesi siano riusciti ad individuare qualche cosa di notevolmente pesante al centro di una galassia ellittica confrontando il moto molto perturbato delle stelle vicine al centro con quello di una galassia simile in cui il movimento delle stelle appare molto più regolare.

Forse anche i quasar, oggetti che sembrano stelle (la parola “quasar” è l’acronimo di quas(i) (stell)ar (radio source) = radiosorgente quasi stellare) ma che sprigionano un flusso di energia superiore a quello di un’intera galassia, potrebbero contenere nel loro centro dei colossali buchi neri. Proprio la scoperta di questi misteriosi oggetti celesti, avvenuta agli inizi degli anni Sessanta dell’altro secolo, convinse gli astronomi di prendere sul serio la possibilità dell’esistenza dei buchi neri.

 

L’OSSERVAZIONE DEI BUCHI NERI

Abbiamo visto che i buchi neri sono oggetti celesti che divorano ogni cosa senza mai emettere nulla. Non deve essere quindi molto piacevole trovarsi nelle vicinanze di uno di questi mostri famelici anche perché a mano a mano che essi assimilano dall’esterno nuova materia si ingrandiscono e di conseguenza ampliano il loro raggio d’azione. Corriamo realmente dei rischi?

Vediamo. Il buco nero che eventualmente si trovasse al centro della nostra galassia disterebbe da noi 30.000 anni luce, una distanza che dovrebbe lasciarci tranquilli. L’ammasso globulare più vicino a noi si trova nell’agglomerato di stelle noto come Omega Centauri a 22.000 anni luce ed anche questa è una distanza di tutta sicurezza. I buchi neri che si trovano al centro delle altre galassie o nelle lontane quasar ci lasciano del tutto indifferenti.

Quelli che abbiamo analizzato finora sono tutti superbuchi neri, ma poi vi sono i buchi neri di dimensioni stellari i quali sono molto più numerosi dei primi ed anche presumibilmente più vicini a noi. Per definizione un buco nero è invisibile. Come possiamo fare per rintracciare questi corpi celesti? Essi non solo non emettono luce ma nemmeno altre radiazioni simili, è pertanto impossibile localizzarli attraverso le onde elettromagnetiche. Vi sono tuttavia le onde gravitazionali che sono emesse da masse accelerate così come quelle elettromagnetiche sono prodotte da cariche elettriche in moto. Le onde gravitazionali nel loro aspetto corpuscolare si chiamano gravitoni così come gli aspetti corpuscolari delle onde elettromagnetiche si chiamano fotoni. I gravitoni però, anche se emessi da corpi molto massicci sono alcuni milioni di miliardi di volte meno energetici dei fotoni e quindi non è facile intercettarli: si calcola che fra tutti i corpi celesti solo alcune pulsar o i buchi neri più massicci potrebbero esprimere una potenza gravitazionale rilevabile. I buchi neri, però, oltre che massicci sono anche molto lontani e quindi l’energia liberata dovrebbe arrivare agli apparecchi di rilevazione attenuata così come attenuata arriva la luce di galassie molto lontane.

Un tentativo di intercettare i gravitoni fu compiuto verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso dal fisico americano Joseph Weber (1919- ) il quale sistemò alcuni grandi cilindri di alluminio a centinaia di kilometri di distanza l’uno dall’altro. Questi oggetti avrebbero dovuto subire leggere compressioni ed espansioni causate dall’arrivo di onde gravitazionali le quali sono anch’esse fonti di gravità. Al termine dell’esperimento il fisico americano dichiarò di essere riuscito ad intercettare onde gravitazionali provenienti dal centro della Galassia dove si starebbero verificando eventi di straordinaria violenza. L’esperienza di Weber venne ritentata più volte da altri fisici ma sempre con risultati negativi e quindi il metodo fu abbandonato.

Nemmeno la ricerca di effetti causati da lente gravitazionale ha dato i frutti sperati. Il metodo è il seguente: se sulla linea che congiunge una galassia lontana alla Terra si trovasse un buco nero che con la sua presenza incurvasse intorno a sé lo spazio, la luce proveniente dalla galassia lontana verrebbe deviata dal buco nero invisibile e fatta convergere in un fuoco con un effetto simile a quello creato da una lente. Se quindi si osservasse una galassia eccezionalmente grande, in rapporto alla sua distanza si potrebbe pensare che fra noi e la galassia lontana potesse esserci un buco nero. Fino ad ora non è stato osservato alcun fenomeno del genere.

Vi è infine un’altra osservazione che potrebbe metterci sulla strada giusta per individuare la presenza di un buco nero: essa sarebbe generata dall’effetto che la materia la quale sta intorno al buco nero produrrebbe cadendo in esso. Se nelle vicinanze del buco nero vi fosse della materia questa finirebbe per precipitare nel buco nero e, seguendo una traiettoria a spirale, si riscalderebbe enormemente con conseguente emissione di raggi X. In verità se nel buco nero cadesse un po’ di polvere interstellare non si vedrebbe nulla ma se vicino al buco nero vi fosse una stella di grandi dimensioni in esso precipiterebbe molta materia e la produzione dei raggi X sarebbe tale da poter essere rilevata anche a notevole distanza.

L’astronomia dei raggi X è uno fra i grandi progressi tecnologici compiuti in anni recenti. Poiché i raggi X non penetrano nell’atmosfera terrestre, queste osservazioni devono essere fatte dallo spazio per mezzo di speciali telescopi trasportati da satelliti artificiali. Nel dicembre del 1970 fu lanciato da una piattaforma dell’Oceano Indiano uno dei tanti satelliti della serie Explorer battezzato Uhuru(che nella lingua parlata dal gruppo bantu che abita le aree costiere del Kenia significa “libertà”). Il satellite Uhuru con a bordo un telescopio a raggi X era il risultato dell’impegno dell’italiano Riccardo Giacconi (1931-  ) premio Nobel per la fisica nel 2002 e del suo team della Harvard University. Le osservazioni, protrattesi per un tempo molto più lungo di quello realizzato in precedenza con l’utilizzo di razzi e palloni sonda, permisero di costruire una mappa del cielo molto dettagliata e precisa.

Raggi X vengono emessi anche dalle pulsar ma in tal caso gli impulsi sono regolari mentre quelli provenienti da un buco nero presenterebbero variazioni irregolari. Nel 1965 venne localizzata nella costellazione del Cigno una sorgente di raggi X che fu battezzata Cygnus X-1. Successivamente venne individuata nei pressi di Cygnus X-1 una stella molto grande e molto calda che sembra essere il rifornitore di materia al buco nero. Da allora sono stati osservati altri sistemi binari nei quali una stella della coppia potrebbe essere un buco nero, ma non tutti gli astronomi sono di questa opinione.

A che distanza dal nostro pianeta potrebbe trovarsi un buco nero di dimensioni stellari? Se questi oggetti all’interno della nostra galassia fossero distribuiti come lo sono le stelle essi sarebbero più numerosi nella zona centrale, dove vi è un maggiore addensamento di stelle, e più rari nelle braccia a spirale, dove le stelle sono più rarefatte e dove è anche ubicato il nostro sistema solare. In questa zona il buco nero più vicino a noi potrebbe trovarsi a qualche centinaio di anni luce, una distanza anche questa che dovrebbe lasciarci dormire sonni tranquilli.

 

I MINIBUCHI NERI

Abbiamo visto che la teoria della relatività generale prevede che possano esistere buchi neri praticamente di qualsiasi grandezza purché la massa non sia inferiore a 10– 5  g (un granellino di polvere). Ma che cosa potrebbe comprimere oggetti molto leggeri fino a ridurli a minibuchi neri? Non certo il loro campo gravitazionale.

L’idea che nella primissima fase di vita dell’Universo le enormi pressioni e temperature esistenti avrebbero potuto produrre qua e là buchi neri di tutte le dimensioni anche pesanti pochi grammi fu avanzata dal fisico inglese Stephen Hawking nel 1971. Non vi sono prove a favore della presenza di minibuchi neri primordiali ma se questi esistessero è molto probabile che oggi il loro numero possa essere assai maggiore di quello dei buchi neri di dimensioni stellari (è noto infatti che fra ogni classe di corpi celesti le varietà minori sono più numerose di quelle maggiori). È bene dire subito che non tutti gli astronomi sono d’accordo con l’ipotesi di Hawking ma coloro che ritengono verosimile l’idea del fisico inglese vedono minibuchi neri disseminati in ogni dove.

Alcuni astrofisici pensano che buchi neri grandi quanto un protone potrebbero stare all’interno dei pianeti e quindi anche della Terra. Un minibuco nero al centro del nostro pianeta giustificherebbe con la sua presenza l’alta densità ivi esistente e non sarebbe necessario formulare l’ipotesi della materia solare indifferenziata o del nocciolo massiccio di ferro e nichel. I buchi neri, come abbiamo visto, catturano materia da ciò che sta loro intorno, ma in questo caso è possibile che l’oggettino invisibile possa essersi scavato una nicchia nel cuore della Terra e quindi accrescersi ad un ritmo molto lento corrodendo in modo impercettibile il pianeta, come fa un parassita con il suo ospite.

Alcuni geofisici si spingono oltre e immaginano la presenza di mini buchi neri anche sotto la crosta terrestre, il che giustificherebbe l’esistenza dei cosiddetti pennacchi (plume in inglese) cioè quelle colonne relativamente stazionarie di materiale incandescente che generano in superficie del pianeta vulcani detti di “punto caldo”. I punti caldi sono luoghi della superficie terrestre che rimangono fissi mentre le placche scivolano lentamente su di essi. Di tanto in tanto nei suddetti punti si formano dei vulcani che rimangono attivi fino a quando, superato il punto caldo, non si estinguono. L’arcipelago delle Hawaii si sarebbe formato in corrispondenza di un punto caldo e il vulcano posto sull’isola maggiore, proprio perché di formazione recente, è ancora attivo. Minibuchi neri effettivamente potrebbero produrre calore sufficiente a giustificare la formazione di punti caldi, ma la loro presenza è poco credibile perché un buco nero seppure di minime dimensioni posizionato vicino alla superficie sprofonderebbe immediatamente al centro del pianeta.

Secondo gli scienziati esperti di fisica terrestre esisterebbe anche un metodo per convalidare la presenza di minibuchi neri all’interno del nostro pianeta: essi dovrebbero emettere neutrini. In verità di recente (luglio 2005) un gruppo di scienziati, di cui fa parte anche il fisico italiano Giorgio Gatta, ha progettato uno strumento in grado di identificare i neutrini provenienti dal nucleo terrestre. L’esperimento ha segnalato effettivamente un flusso di neutrini (più precisamente antineutrini) che potrebbe avere avuto origine al centro della Terra. I fisici ritengono tuttavia che la fonte di tali particelle sarebbe il decadimento radioattivo di uranio e torio: un fenomeno che non ha attinenza alcuna con i minibuchi neri.

Alcuni fisici, anziché ritenere che si adagino all’interno del pianeta, pensano che i piccoli buchi neri possano entrare in collisione con esso: il loro passaggio attraverso l’atmosfera e la Terra stessa produrrebbe effetti spettacolari che non potrebbero passare inosservati. Qualcuno però ritiene che, invece che sotto i nostri occhi, l’evento devastante di un tale urto possa essersi verificato in passato.

Nell’estate del 1908 nella regione di Tunguska, in Siberia, ebbe luogo un fenomeno che è stato sempre considerato conseguenza dell’impatto di un grande meteorite; nella zona, su di una superficie di molti kilometri quadrati, tutti gli alberi risultarono abbattuti e il bestiame ucciso, ma in quel luogo non furono trovati crateri o resti di meteoriti. Fra le tante ipotesi avanzate (compresa la caduta di un’astronave pilotata da extraterrestri!) vi è anche quella recente di un minibuco nero entrato in collisione con la Terra. Dopo l’impatto nella zona della Siberia centrale il minibuco nero avrebbe attraversato il pianeta e quindi sarebbe uscito dalla parte opposta notevolmente ingrandito per proseguire il suo viaggio nello spazio. Abbiamo prove di tutto ciò? Nemmeno una: si tratta, come per tutte le altre ipotesi che sono state avanzate, di pura speculazione.

 

LE ULTIME FRONTIERE DEL PENSIERO

Ma i buchi neri non hanno mai smesso di creare sorprese. Come molti sanno, la meccanica newtoniana (e anche quella quantistica) non ha una preferenza per la direzione del tempo. Se ad esempio si girasse un film dei pianeti che orbitano intorno al Sole e poi lo si proiettasse alla rovescia il movimento contrario obbedirebbe alla teoria gravitazionale di Newton tanto quanto quello originale ed esso potrebbe anche essere il movimento effettivo di pianeti di qualche lontano sistema solare.

Il fatto che alcune leggi della fisica siano simmetriche rispetto al tempo ha indotto alcuni scienziati a pensare che se esistono i buchi neri dovrebbero esistere anche i buchi bianchi, cioè oggetti celesti da cui possono uscire materia ed energia, mentre né questa né quella potrebbero entrarvi. Se, analogamente a ciò che abbiamo visto per i pianeti che girano intorno al Sole, filmassimo un buco nero e poi proiettassimo la pellicola all’indietro, quello che vedremmo sarebbe un buco bianco, cioè qualcosa che all’implosione sostituisce l’esplosione. Se le cose stanno in questi termini la materia che entra in un buco nero potrebbe uscire da un buco bianco sistemato in un luogo lontano del nostro o anche di un altro Universo. Questo sarebbe un metodo ideale per fare lunghi viaggi nello spazio qualora, almeno teoricamente, si potesse specificare che cosa diventi la materia inghiottita da un buco nero. Si tratta comunque di argomenti adatti più a scrittori di fantascienza che a fisici.

Esaminando le implicazioni fisiche di un fenomeno come quello dei buchi bianchi alla luce della teoria della meccanica quantistica che include il principio di indeterminazione, il fisico inglese Stephen Hawking giunse alla conclusione che questi astri inconsueti non dovrebbero essere così neri come si era sempre pensato ma dovrebbero emettere particelle e radiazioni ad un ritmo costante: dovrebbero, in altri termini, lentamente evaporare.

Il principio di indeterminazione stabilisce che è impossibile misurare con esattezza assoluta la posizione e la velocità di una particella elementare: con quanta maggiore precisione si tenta di misurare la posizione di una particella, tanto meno esattamente se ne potrà misurare la velocità, e viceversa. E questa mancanza di precisione assoluta varrebbe anche per altre grandezze fisiche complementari, come ad esempio energia e tempo. Ciò implica che nei processi subatomici potrebbe essere violata qualsiasi legge fisica.

Vediamo allora in che modo da un buco nero potrebbero evadere particelle elementari e radiazione. Il principio di indeterminazione di cui si è detto consentirebbe ad esempio alle particelle di viaggiare per brevi tratti ad una velocità superiore a quella della luce: se la direzione fosse quella giusta qualche cosa di materiale potrebbe uscire da un buco nero alleggerendolo. Lo stesso principio prevede che si potrebbero materializzare coppie di particelle di materia ed antimateria in un luogo qualsiasi dell’Universo (quindi anche in luoghi dove si ritiene non vi sia alcunché) ma queste particelle subito dopo essere apparse dovrebbero sparire per non violare la legge di conservazione di massa ed energia. La meccanica quantistica prevede quindi che anche nello spazio vuoto vi sia una continua creazione e distruzione di particelle virtuali (così chiamate perché non possono essere osservate direttamente come avviene invece per quelle reali).

Hawking verso la fine del 1973 scoprì che se le particelle virtuali si formassero nei pressi dell’orizzonte degli eventi una delle due potrebbe essere catturata dal buco nero e finire al suo interno, mentre l’altra sarebbe libera di volare via. L’energia necessaria per questa operazione verrebbe fornita dallo stesso buco nero che la sottrarrebbe a quella gravitazionale. Se un buco nero perde energia (e quindi massa per E=mc2) pian piano evapora. Questa lenta evaporazione conseguente alla fuga di particelle subatomiche fa sì che il buco nero si comporti come un corpo ad alta temperatura che si innalza ulteriormente a mano a mano che l’oggetto celeste perde materia. Tuttavia i calcoli mostrano che i buchi neri di grandi dimensioni presentano una temperatura piuttosto bassa e perdono materia con lentezza esasperante tanto che perché essi evaporino completamente ci vorrebbero miliardi di miliardi di miliardi… di anni (1066 anni per un buco nero della massa del Sole); nel frattempo però essi reintegrerebbero la massa perduta assorbendo altre particelle e divenendo in definitiva sempre più grandi e non più piccoli.

Le conseguenze dell’evaporazione sarebbero invece diverse per i minibuchi neri da cui le particelle sfuggirebbero in abbondanza. In quest’ultimo caso si è calcolato infatti che il rimpicciolimento e il conseguente riscaldamento faciliterebbero l’evasione di un sempre maggior numero di particelle, tanto che la fase finale dell’evaporazione procederebbe così in fretta da concludersi con una tremenda esplosione. Questa esplosione finale produrrebbe una grandissima quantità di raggi gamma ad alta energia che potrebbe facilmente essere registrata perché genererebbe nell’atmosfera una pioggia di coppie elettroni-positoni che provocherebbero a loro volta un lampo di luce rilevabile da terra. Si calcola che molti minibuchi neri primordiali abbiano avuto il tempo nei 15 miliardi di anni di vita dell’Universo di evaporare completamente ma ne rimarrebbero in vita ancora molti alcuni dei quali sarebbero molto vicini alla Terra: ve ne potrebbe essere uno alla distanza a cui si trova Plutone, l’ultimo pianeta del sistema solare.

Per concludere dobbiamo accennare ad una questione di non secondaria importanza. Come abbiamo visto, attualmente i buchi neri inghiottono tutto ciò che ad essi si avvicina, ma forse non è sempre stato così. All’inizio dei tempi nell’Universo la materia era disposta in modo uniforme e regolare ma poi, secondo meccanismi ancora inspiegabili, si produssero numerosi addensamenti locali. Questi accumuli di materia potrebbero essere stati favoriti proprio da minibuchi neri formatisi in grande quantità durante il big bang: essi, fungendo da nucleo, avrebbero aggregato i gas dispersi in stelle. Successivamente i buchi neri di dimensioni maggiori avrebbero attratto le stelle raggruppandole in galassie. Per avere la prova di questa ipotesi si dovrebbe poter osservare i minibuchi neri e quelli supermassicci che stanno al centro della nostra e di altre galassie. La cosa, come abbiamo visto, non è per nulla facile.

Prof. Antonio Vecchia

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