Albert Einstein

Albert Einstein nacque a Ulm, nella Germania meridionale, il 14 marzo del 1879 da Hermann e Pauline Koch, entrambi di religione ebraica, non praticanti. Albert fu il primo di due figli: il 18 novembre del 1881, poco dopo che la famiglia si era trasferita a Monaco di Baviera, venne alla luce Maria (chiamata in famiglia Maja) una bambina molto amata dal fratello e del quale, in età adulta, scriverà una biografia che sarà la fonte principale di ricordi familiari relativi ai primi anni di vita di Albert. Fra l’altro essa ci informa della preoccupazione della madre per la forma del cranio del neonato, una circostanza che, associata al fatto che il bambino imparò a parlare molto tardi, induceva il timore di un suo ritardo mentale. Queste preoccupazioni erano infondate, in realtà il figliolo era molto tranquillo e preferiva giocare da solo: un’avversione per i giochi con i compagni e in genere per lo sport che Albert conservò anche in età adulta.

La scelta di nomi non ebraici per entrambi i figli testimonia della volontà dei genitori di integrarsi all’interno della comunità entro cui vivevano. È importante ricordare infatti che in quegli anni si realizzava l’unificazione tedesca sotto l’egida della Prussia dopo che per secoli quella terra era stata soltanto una regione geografica, un campo di battaglia in cui si affrontavano le potenze europee. L’infanzia di Albert si svolse dunque nella particolare atmosfera della Germania di Bismarck, miscuglio di esaltazione della forza e della glorificazione della tradizione culturale, che si fondava sui nomi prestigiosi di Kant, Goethe, Schiller e Beethoven, oltre che su quelli di tanti altri personaggi che si erano affermati nel campo della filosofia, della letteratura e della musica.

Poco dopo la nascita di Albert fallì la ditta di materassi di piume che Hermann dirigeva insieme con altri due soci. In quell’occasione il fratello minore Jacob, un ingegnere intraprendente ed energico, gli propose di costituire una piccola azienda di impianti idraulici e per il gas. Hermann accettò l’offerta e, come abbiamo anticipato, si trasferì a Monaco con la moglie e il figlio.

La piccola azienda dei fratelli Einstein ebbe un inizio promettente ma Jacob, che aveva inventato una dinamo e desiderava metterla in commercio, aveva progetti molto ambiziosi che si concretizzarono nella realizzazione di uno stabilimento per la produzione di dinamo, lampade ad incandescenza, apparecchiature di misura per centrali elettriche e reti di illuminazione stradale. In quegli anni venne anche acquistata, con l’aiuto finanziario del padre di Pauline, una casa alla periferia di Monaco in cui andarono ad abitare entrambi i fratelli con le rispettive famiglie.

 

GLI ANNI DELLA SCUOLA

L’incontro di Albert con la scuola fin dall’inizio non fu facile, nonostante ciò il bambino risultò spesso il primo della classe, e pertanto la diffusa credenza che fosse uno scolaro mediocre è infondata. In realtà egli mostrò scarsissimo interesse per le tradizionali materie di studio mentre nel privato della sua casa trovava gli stimoli per la sua crescita intellettiva e culturale. Dalla madre, ottima pianista, acquisì il gusto precoce per la musica classica e all’età di sei anni iniziò a prendere lezioni di violino mentre la sorella minore imparò presto a suonare il pianoforte.

Il ricordo scientifico più vivido che Einstein conservava dal tempo dell’infanzia fu la scoperta del funzionamento della bussola che il padre gli aveva regalato quando non aveva ancora compiuto cinque anni. Il fatto che l’ago calamitato finiva per puntare sempre in una data direzione a causa di qualche forza misteriosa lo aveva molto incuriosito.

Alcuni anni più tardi lo zio ingegnere cominciò ad impartire ad Albert alcune lezioni di algebra e di geometria che rappresentarono un secondo elemento dell’esperienza scientifica del bambino. Fra le altre cose gli insegnò il teorema di Pitagora che dopo notevoli sforzi riuscì a dimostrare servendosi della similitudine dei triangoli.

Pur non essendo religiosa la sua famiglia conservava l’antica consuetudine di invitare a pranzo il sabato un ebreo povero. Nel caso degli Einstein ciò avveniva il giovedì a mezzogiorno, quando la famiglia divideva il pranzo con uno studente di medicina privo di mezzi che proveniva dalla Russia. Anche questo studente ebbe un ruolo importante per la formazione culturale di Albert perché gli fece leggere alcuni libri di divulgazione scientifica il cui contenuto veniva poi commentato insieme.

In Baviera l’insegnamento della religione cattolica era obbligatorio per tutti gli studenti che frequentavano le scuole elementari pubbliche e quindi anche il piccolo Albert dovette assoggettarsi a questo dovere. Tuttavia, contemporaneamente, a domicilio, un lontano parente incaricato dai genitori, si occuperà dell’insegnamento dei precetti ebraici. Quando, successivamente, terminati gli studi inferiori, passò al liceo, Luitpold Gymnasium, Albert, approfondendo lo studio della religione ebraica, per un certo periodo sviluppò idee quasi di stampo fondamentalista sul Vecchio Testamento, le quali ben presto entrarono però in conflitto con i suoi studi scientifici. Attraverso la lettura di libri di scienza popolare si era convinto – come lui stesso racconterà – che molti racconti biblici non potevano essere veri.

Al liceo il giovane Einstein si scontra con la rigida mentalità degli insegnanti che rendevano la scuola simile ad una caserma. L’avversione ai metodi di insegnamento autoritari e nozionistici non sfugge agli occhi degli insegnanti che non risparmiano rimproveri spesso immotivati nei confronti dell’alunno che siede nell’ultimo banco con un sorriso ironico perennemente stampato sul volto. “Con la sua sola presenza lei distrugge il rispetto della classe nei miei confronti” gli dirà un professore.

La conseguenza di tutte queste esperienze e scoperte contraddittorie fu che in giovane età Albert divenne un acerrimo sostenitore del libero pensiero e mantenne per tutta la vita un atteggiamento di sospetto verso ogni genere di autorità.

Frattanto, dopo alcuni anni di prosperità, la fabbrica di Monaco si trovò in difficoltà e il signor Garrone, rappresentante italiano della ditta, consigliò di trasferire l’attività in Italia che riteneva un mercato in espansione mentre in Germania l’elettrificazione era già molto avanzata. Liquidata l’azienda e venduta la casa, la famiglia si trasferì quindi a Milano e l’anno seguente aprì una fabbrica a Pavia. Albert venne però lasciato a Monaco presso una famiglia di conoscenti affinché potesse terminare gli studi liceali. Rimasto solo il ragazzo cadde in una profonda depressione causata in parte dalla mancanza degli affetti famigliari e soprattutto da una scuola che gli piaceva sempre meno. Escogitò quindi un sistema par raggiungere i genitori a Milano, convincendo il medico di famiglia a rilasciargli un certificato nel quale si dichiarava che, a causa di un esaurimento nervoso, era necessario che il ragazzo lasciasse la scuola. Vedendolo giungere a Milano senza preavviso questi se da un lato furono orgogliosi della sua audacia, dall’altro si mostrarono preoccupati per il suo futuro in quanto, avendo perso la possibilità di acquisire un titolo di studio di scuola superiore, non avrebbe potuto iscriversi all’Università e quindi accedere alle professioni che garantivano sicurezza finanziaria e soddisfazioni intellettuali.

Giunto in Italia, una delle prime cose che fece il giovane Einstein fu quella di rinunciare alla cittadinanza tedesca per evitare il servizio militare, per il quale fin da bambino nutriva un’avversione viscerale, e nel contempo al fine di non essere considerato disertore. Poiché non era possibile ottenere celermente la cittadinanza di un altro Paese, egli rimase apolide per i sei anni successivi. Durante il soggiorno italiano fu deciso in famiglia che Albert dovesse iscriversi al Politecnico di Zurigo, il più famoso centro per lo studio delle scienze di tutta Europa esclusa la Germania, ma per accedere a quella scuola avrebbe dovuto continuare gli studi privatamente e poi sostenere un esame. E così fece.

Il giovane tuttavia non riuscì a superare la prova di ammissione nonostante avesse dimostrato un’ottima preparazione in matematica e fisica in quanto gli vennero riscontrate gravi carenze nelle materie letterarie. Lo stesso direttore del Politecnico, favorevolmente impressionato dalla sua preparazione nelle materie scientifiche, lo consigliò di frequentare una scuola svizzera al fine di conseguire il diploma di abilitazione con il quale avrebbe potuto accedere al Politecnico.

Il ragazzo, a sedici anni, entrò quindi nella scuola cantonale di Aarau dove rimase un anno e dove respirò un’aria molto diversa da quella che aveva lasciato in Germania. Era la prima volta che ad Albert piaceva la scuola. L’atmosfera liberale e la disponibilità degli insegnanti nei confronti degli alunni lasciò nel ragazzo un’impronta indelebile per il resto della vita.

 

L’INGRESSO AL POLITECNICO

L’esame di maturità fu superato a pieni voti e quindi, venuto in possesso del diploma di scuola media superiore, Einstein poté iscriversi al Politecnico senza ulteriori esami. Subito prese una prima decisione: non sarebbe stato un ingegnere, contraddicendo la volontà paterna, bensì un insegnante. In quegli anni in cui avrebbe potuto acquisire una preparazione matematica veramente solida potendo contare su insegnanti eccellenti, come ad esempio il tedesco di origine lituana Hermann Minkowski (il quale in seguito darà una formulazione sistematica alla teoria della relatività ristretta introducendo in essa il concetto di spazio-tempo) impiegò la maggior parte del suo tempo nel laboratorio di fisica, affascinato dal contatto diretto con la pratica sperimentale. Maturò quindi la sua seconda scelta definitiva: avrebbe fatto il fisico e non il matematico.

Durante gli anni dell’Università Albert visse grazie ad un assegno di cento franchi svizzeri che ogni mese gli arrivava da casa e che non gli consentiva certamente una vita agiata anche perché ne doveva risparmiare una parte per procurarsi la cittadinanza svizzera.

Nel corso dei suoi studi a Zurigo Albert fece alcune conoscenze che risulteranno determinanti per la sua attività futura. Innanzitutto conobbe Michele Angelo Besso, un ingegnere italiano residente in Svizzera con il quale strinse un’amicizia profonda che durò fino alla morte avvenuta nel 1955, qualche mese prima della sua. Oltre a Besso fu importante l’amicizia che strinse con Marcel Grossmann suo compagno di studi, che sarebbe diventato un ottimo matematico e che successivamente avrebbe collaborato con lui nella formulazione rigorosa delle sue teorie.

Altrettanto determinante e non solo da un punto di vista professionale fu la conoscenza di Mileva Maric, una studentessa di matematica di origini serbe che aveva lasciato il suo Paese, allora sotto il governo austro-ungarico, perché insofferente di quel regime. A quel tempo era veramente un fatto eccezionale e forse unico che una ragazza potesse studiare in una scuola di ingegneria celebre come il Politecnico di Zurigo. Albert e Mileva si innamorarono e decisero di sposarsi. Il padre di lui si dichiarò subito contrario al matrimonio perché la ragazza – diceva – frequentava studi che non si addicevano ad una donna, era più grande del figlio, claudicante, straniera e soprattutto non era ebrea.

L’insistenza di Albert nel voler sposare Mileva creò un forte attrito fra lui e la madre che accusava il figlio di volere la morte dei genitori già duramente provati dalle difficoltà finanziarie. Frattanto, nella primavera del 1901 Mileva si accorse di essere incinta e decide di rientrare in famiglia per mettere al mondo una bambina della quale ben presto si persero le tracce; forse la piccola era di salute cagionevole e morì nei primi anni di vita. Tornata a Zurigo Mileva non riuscì a superare gli esami finali al Politecnico nemmeno al secondo tentativo e si ritrovò così senza diploma e senza lavoro.

Ad Einstein, pur ottenendo il diploma, non andò molto meglio. Egli si laureò nel luglio del 1900 ma ebbe subito una cocente delusione: forse a causa di alcune divergenze con il professore Friedrich Weber che lo riteneva un ragazzo capace ma molto testardo (“non vuole lasciarsi insegnare una sola cosa” si lamenterà l’insegnante) non ottenne il posto di assistente che gli era stato prospettato. Per due anni si adattò quindi a fare alcuni lavoretti temporanei e precari fra cui quello di precettore, che gli risultò particolarmente odioso.

Finalmente, nel giugno del 1902, grazie alla raccomandazione del padre del suo compagno di studi Grossmann, venne assunto presso l’Ufficio Brevetti di Berna come tecnico di terza classe con il compito di esaminare nuovi apparecchi per lo più elettrici. Era un lavoro in cui Einstein si sentiva competente e che gli piaceva anche perché lo impegnava poco lasciandogli il tempo di dedicarsi allo studio della fisica che tanto lo appassionava.

Frattanto, l’anno precedente aveva ottenuto la cittadinanza svizzera (che manterrà per tutta la vita, anche dopo essere divenuto cittadino americano) mentre in quello stesso anno moriva il padre e quindi poté finalmente sposare Mileva. Almeno all’inizio il matrimonio sembrò essere felice e fu anche allietato dalla nascita di due figli: Hans Albert prima e, alcuni anni più tardi, Eduard, un ragazzo con carenze intellettive a causa delle quali verrà ricoverato in un ospedale psichiatrico dove morirà nel 1965, all’età di cinquantacinque anni.

Il matrimonio ben presto andò in crisi e si concluse con la separazione avvenuta nel 1914 e poi con il divorzio nel 1919. Einstein non mostrò mai spiccate attitudini paterne e i suoi rapporti con i figli furono sempre piuttosto freddi: sarà la moglie infatti ad occuparsi della cura e del mantenimento degli stessi potendo contare sul denaro del Premio Nobel che il marito le consegnò a parziale risarcimento della separazione. L’altro figlio si laureerà in ingegneria, si sposerà ed avrà un figlio il quale a sua volta diventerà padre di un bambino che nascerà proprio nell’anno della morte del bisnonno. La discendenza di Einstein continua quindi ancora ai giorni nostri.

Nel 1919, all’età di 40 anni, Einstein passò a seconde nozze con la cugina Elsa, sua compagna d’infanzia, che era rimasta vedova con due figlie. Questo matrimonio durò fino alla morte di lei avvenuta nel 1936.

 

GLI INIZI DELLA CARRIERA SCIENTIFICA

Il 1905 è considerato l’«annus mirabilis» di Einstein. Nella primavera di quell’anno egli spedisce alla rivista scientifica “Annalen der Physik” tre lavori, ognuno dei quali sarebbe stato sufficiente per rendere immortale nella storia della fisica l’oscuro impiegato dell’Ufficio Federale dei Brevetti di Berna. Nel primo manoscritto egli spiega l’effetto fotoelettrico; nel secondo tratta la teoria del moto browniano; il terzo contiene la teoria della relatività ristretta al quale quattro mesi più tardi aggiunse un post scriptum in cui presentava la celebre formula E=m×c².

L’effetto fotoelettrico consiste nella emissione di elettroni da parte di alcune sostanze (generalmente metalli) colpite da una radiazione luminosa. Questo fenomeno fu scoperto nel 1887 dal fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz (1857-1894) il quale aveva notato che l’emissione di elettroni non avveniva se la frequenza della radiazione incidente era al di sotto di un valore minimo (detto frequenza di soglia) e ciò indipendentemente dalla intensità della radiazione stessa. Gli esperimenti mettevano inoltre in luce che, al di sopra della frequenza di soglia, il numero di elettroni emessi dalla sostanza era proporzionale alla intensità della radiazione. I risultati di tali esperimenti non potevano essere spiegati alla luce della teoria di Maxwell sull’elettromagnetismo. Einstein interpretò l’effetto fotoelettrico per mezzo di una visione corpuscolare della radiazione elettromagnetica, cioè supponendo che lo scambio di energia avvenga attraverso entità discrete che egli chiamò “fotoni” (la cui esistenza era stata in precedenza supposta dal fisico Max Planck il quale ipotizzò che l’energia venisse emessa in modo discontinuo, cioè per quanti). Soltanto se l’energia portata dal fotone fosse uguale o maggiore dell’energia che lega l’elettrone al nucleo dell’atomo l’elettrone stesso verrebbe scalzato dalla sua sede naturale. Il numero degli elettroni emessi dipende quindi da quanti fotoni incidono sulla superficie cioè in pratica dalla intensità della radiazione. L’effetto fotoelettrico trova numerose applicazioni pratiche: esso viene sfruttato per esempio nelle cosiddette “cellule fotoelettriche”.

Il moto browniano fu osservato per la prima volta dal botanico scozzese Robert Brown (1773-1858) il quale rilevò al microscopio che le traiettorie di particelle di polline in sospensione nell’acqua procedevano a zigzag. Einstein dimostrò che nel moto browniano l’allontanamento medio di una particella dalla posizione iniziale è proporzionale alla radice quadrata del numero di urti che essa subisce da parte delle molecole del liquido entro il quale la particella stessa è immersa. Il moto browniano fornisce fra l’altro un mezzo per la determinazione del numero di Avogadro ed è alla base di numerosi fenomeni fisici, come ad esempio il calcolo del tempo che impiega un fotone prodotto nel centro del Sole per raggiungere la sua superficie ed irraggiarsi all’eterno.

Nel terzo articolo Einstein poneva le basi della relatività speciale (o ristretta) che riguarda gli oggetti che si muovono a velocità costante l’uno rispetto all’altro o che non si muovono affatto. La teoria necessita di una spiegazione più articolata che verrà esposta in seguito.

Einstein lavorò per l’Ufficio Federale Svizzero dei Brevetti fino al 1909 quindi ebbe incarichi universitari d’importanza crescente. Nello stesso anno in cui cessò il suo lavoro presso l’Ufficio Brevetti ebbe il primo incarico accademico all’Università di Berna, quindi l’anno seguente ottenne una cattedra all’Università di Praga, che allora faceva parte dell’impero austriaco. Nel 1912 ritornò al Politecnico di Zurigo in qualità di professore di fisica teorica.

Nel 1913 l’Accademia Prussiana delle Scienze gli offrì di diventare suo membro permanente: un incarico che gli avrebbe permesso di non dover tenere un corso regolare di lezioni e quindi di disporre di tutto il tempo che desiderava per dedicarsi al lavoro di ricerca che lui preferiva. Questa posizione richiedeva però il soggiorno a Berlino e l’acquisizione della cittadinanza tedesca.

La moglie, che desiderava rimanere a Zurigo, lo spingeva fortemente a declinare l’invito ma era forte in Einstein l’attrazione dell’ambiente culturale entro il quale si sarebbe venuto a trovare. Alla fine accettò di divenire membro dell’Accademia Prussiana ma alla condizione di poter conservare la cittadinanza svizzera. Einstein giunse a Berlino da solo essendo il suo matrimonio ormai finito e vi rimase per vent’anni cioè fino all’avvento del regime nazista in Germania, che lo costrinse a lasciare l’Europa.

Si trasferì quindi in America dove divenne professore all’Istitute for Advanced Study di Princeton, nel New Jersey; in quella Università rimase dal 1933 fino alla fine dei suoi giorni. Nel 1922 ritirò il premio Nobel per la fisica che gli era stato assegnato l’anno precedente.

 

LA FISICA AI TEMPI DI EINSTEIN

Per comprendere il genio di Einstein è indispensabile analizzare la situazione della fisica come si presentava alla fine dell’Ottocento. In breve, quando Einstein iniziò la carriera scientifica, coesistevano due teorie in chiara contraddizione fra loro: la meccanica, ossia la scienza del movimento degli oggetti materiali e l’elettromagnetismo, ossia la scienza della luce.

La meccanica, fondata in termini moderni da Galileo, a cui successivamente Newton dette carattere quantitativo e generale, era la teoria che si proponeva di descrivere il movimento dei corpi (dai più piccoli come i granelli di polvere che fluttuano in una nuvola di fumo ai più grandi come i pianeti che girano intorno al Sole). Questa scienza si basava sul principio di relatività enunciato per la prima volta da Galileo (e non da Einstein come in molti pensano) secondo il quale in un luogo chiuso, ad esempio nella cabina di una nave che si muove in mezzo al mare alla velocità di crociera, tutto si svolge come se avvenisse sulla Terra in stato di quiete. Osservando ciò che avviene all’interno della nave (senza poter guardare all’esterno) è infatti impossibile sapere se essa è in movimento o ferma. In una nave in movimento rettilineo e costante si è fermi rispetto alle pareti dell’abitacolo entro il quale si staziona, ma in movimento rispetto alla Terra, la quale a sua volta è in movimento rispetto al Sole, che peraltro è in moto rispetto alla nostra galassia, anch’essa in movimento. In parole povere l’Universo è permeato di movimento: in esso non vi è nulla di assolutamente immobile.

Questo è ciò che stabilisce la meccanica. Veniamo ora alla teoria della luce ovvero più in generale alla teoria dell’elettromagnetismo (che comprende altre forme di radiazione come gli ultravioletti, i raggi X, i raggi gamma, ecc.). Elaborata intorno al 1850 dal fisico britannico James Clerk Maxwell (2831-1879), il quale utilizzò un linguaggio matematico, la teoria descrive la luce come un’onda, ossia come qualcosa che si propaga da un punto ad un altro in modo simile a quello delle increspature di uno stagno entro il quale è stato lanciato un sasso. Vi è però un problema: mentre un qualsiasi fenomeno ondulatorio ha sempre bisogno di un mezzo entro il quale propagarsi (l’acqua nel caso delle onde del lago, l’aria nel caso delle onde acustiche) ci si chiedeva entro quale elemento si propagassero le onde di luce. Secondo Maxwell era necessaria anche in questo caso la presenza di un mezzo entro il quale fare ondeggiare le onde elettromagnetiche. Questo mezzo venne individuato nell’etere: una sostanza che avrebbe dovuto permeare di sé tutto lo spazio. Ma che cosa è l’etere, di che cosa è fatto? A mano a mano che si tentava di definirne le proprietà queste apparivano sempre più strane e improbabili tanto che alla fine vennero tutte escluse tranne una: l’immobilità assoluta. E ciò in flagrante contraddizione con il principio di relatività.

Quindi, mentre Newton aveva escluso che esistesse qualche cosa di assolutamente immobile Maxwell ne creava una: l’etere. Le due teorie non potevano coesistere: o esiste un etere immobile ed allora viene violato il principio di relatività oppure rimane valido il principio di relatività ed allora non esiste l’etere. Ma se non esiste il substrato entro il quale possono viaggiare le onde di luce com’è possibile che esse si propaghino?

Vi era un’altra contraddizione all’interno delle due teorie fondamentali che caratterizzavano la fisica di fine Ottocento: continuità e discontinuità. Anche se nessuno li aveva ancora visti i fisici di quel tempo erano convinti che la materia fosse fatta di atomi, che essa fosse discontinua. Gli atomi erano considerati delle piccole particelle che assemblandosi formavano i corpi materiali e che almeno in linea di principio potevano essere separati e contati come fossero granellini di sabbia, la quale (come la materia) appare continua se vista da lontano ma discontinua se osservata da vicino.

La luce è continua o discontinua? Verrebbe da pensare che essa sia continua in quanto non può essere sbriciolata come si può fare con la materia. D’altra parte la luce nasce dalla materia (basta pensare al filo di una lampadina che emette luce quando la corrente elettrica lo rende incandescente) la quale è discontinua. Ora, come è possibile che una cosa discontinua possa produrne una continua? Ancora una volta la teoria corpuscolare della materia non si conciliava con quella ondulatoria della luce.

Frattanto due fisici americani, Albert Abraham Michelson (1852-1931) ebreo di origine polacca (premio Nobel per la fisica nel 1907) ed Edward Williams Morley (1838-1923), avevano dimostrato, attraverso un esperimento che non ammetteva repliche, come non fosse possibile rilevare la presenza dell’etere. Utilizzando un gioco di specchi i due scienziati avevano diviso un raggio di luce in due parti, indirizzate l’una parallela e l’altra perpendicolare all’ipotetico moto della Terra attraverso l’etere. Ci si sarebbe aspettati che il raggio di luce parallelo al moto della Terra, essendo ostacolato dalla corrente dell’etere, avrebbe impiegato più tempo a compiere il suo tragitto rispetto a quello perpendicolare a tale moto, ma i due raggi giungevano a destinazione nel medesimo istante. L’esperimento invalidava quindi l’ipotesi di un etere assolutamente immobile. Furono proposte alcune spiegazioni della mancanza di rilevazione dell’etere la prima delle quali era che l’etere non ci fosse, ma la convinzione che esso esistesse veramente era troppo radicata per essere scartata. D’altra parte tutte le altre ipotesi enunciate per spiegare il fallimento dell’esperimento di Michelson e di Morley erano incerte e contraddittorie.

 

LE TEORIE RELATIVISTICHE

Dal fallimento dell’esperimento della rilevazione dell’etere Einstein trasse due conclusioni importantissime che rappresentano i postulati fondamentali della teoria della relatività ristretta. Il primo postulato rispondeva al dilemma relativo all’esistenza dell’etere asserendo semplicemente che l’etere non può essere rilevato. Einstein quindi non afferma che l’etere non esiste, ma che non è possibile rilevarlo. Il secondo postulato stabiliva che la velocità della luce è sempre costane rispetto a qualsiasi osservatore: essa procede sempre alla velocità di circa 300.000 kilometri al secondo, sia che la si misuri andando incontro alla sorgente luminosa sia che ci si allontani da essa.

Utilizzando i due postulati come punto di partenza Einstein ricavò una serie di equazioni che non solo spiegavano alcuni fenomeni particolari ma che permettevano anche alcune previsioni le quali avrebbero potuto essere verificate per mezzo di esperimenti specifici. Il primo di questi fenomeni riguardava la contrazione delle lunghezze, ossia il fatto che i corpi lanciati a velocità prossime a quelle della luce diventano più corti. Il secondo riguardava l’aumento delle masse, cioè il fatto che più velocemente viaggiano i corpi più pesanti essi diventano. Il terzo era relativo alla dilatazione dei tempi, ossia al fatto che il tempo scorre più lentamente se si procede a velocità molto elevate. Questo fenomeno conduce al famoso paradosso dei due gemelli i quali, posti in moto relativo l’uno rispetto all’altro invecchiano secondo il tempo proprio, così che quando dopo il viaggio si ritrovano nello stesso posto presentano età diverse. Ma la conclusione più sconcertante della teoria della relatività ristretta era rappresentata dalla dimostrazione che esiste una certa velocità che non può essere superata. Essa è la velocità della luce: una velocità alla quale la lunghezza dei corpi si ridurrebbe a zero, la massa diventerebbe infinita e il tempo non passerebbe affatto. Da tutti questi risultati Einstein dedusse l’equivalenza fra massa ed energia espressa dalla famosissima formula E=m×c².

Dopo la pubblicazione della teoria della relatività ristretta Einstein tentò di generalizzare la sua tesi prendendo in considerazione i fenomeni che si sarebbero verificati quando il movimento relativo degli osservatori fosse avvenuto a velocità variabile e non solo a velocità costante. Il risultato dei suoi studi portò alla formulazione della teoria della relatività generale che venne pubblicata nel 1916. In essa, come vedremo subito, gioca un ruolo importante l’attrazione gravitazionale, tanto che viene anche chiamata “teoria della gravitazione di Einstein”.

Einstein aveva osservato che la sensazione che prova un passeggero all’interno di un razzo il quale accelera il suo moto è la stessa che proverebbe se si venisse a trovare su di un pianeta molto massiccio. In altre parole, gli effetti della gravitazione e del moto accelerato sono equivalenti e non è possibile distinguere uno dall’altro.

La stessa sensazione di variazione di peso l’ha provata ciascuno di noi quando si è trovato su di un aereo che accelera in fase di decollo o decelera in fase di atterraggio. Nel primo caso viene spinto verso lo schienale del sedile ed ha la sensazione di essere più pesante e nel secondo viene sospinto in avanti e ha la sensazione di essere più leggero. Ora, se l’aereo sul quale viaggia, a sua insaputa, si posasse su un pianeta molto massiccio, per esempio su Giove (dove un uomo di 100 kili ne peserebbe 250) si sentirebbe più pesante e attribuirebbe l’aumento di peso ad una accelerazione dell’aereo. D’altra parte se l’aereo si posasse su Mercurio, un pianeta che è molto più leggero della Terra (dove una persona di 100 kili ne peserebbe solo 33) attribuirebbe la riduzione di peso ad una decelerazione. Ancora una volta gli effetti di un moto accelerato o decelerato e di un campo gravitazionale sono gli stessi.

Einstein osservò che non esiste alcun modo per determinare se la sensazione di aumento o di diminuzione di peso è dovuto ad accelerazione o decelerazione, oppure alla variazione di attrazione gravitazionale; egli chiamò questa coincidenza “principio di equivalenza” e lo pose come postulato fondamentale della teoria della relatività generale, la quale porta ad alcune importanti conclusioni che qui di seguito analizzeremo.

La prima conseguenza della nuova teoria di Einstein riguarda il confronto con la teoria gravitazionale di Newton. Per comprendere la differenza fra le due teorie, relativamente alla interpretazione di un fenomeno naturale, dobbiamo fare un passo all’indietro e ricordare le osservazioni di Giovanni Keplero il quale nei primi anni del 1600 aveva notato che i pianeti girano intorno al Sole percorrendo orbite ellittiche. Egli non riuscì a spiegare il motivo per il quale le orbite erano di quel tipo ma nel 1687 una spiegazione soddisfacente la dette Newton il quale, per mezzo della sua legge di gravitazione universale, non solo spiegò il motivo per il quale le orbite dovevano essere di quella forma ma affermò anche che la posizione delle ellissi percorse dai pianeti dovevano rimanere fisse nello spazio.

Secondo Newton i pianeti avrebbero quindi dovuto muoversi sempre lungo la medesima orbita ellittica. Anche per Einstein i pianeti avrebbero dovuto muoversi lungo orbite ellittiche ma queste non dovevano rimanere fisse nello spazio bensì ruotare lentamente. Questa rotazione avrebbe dovuto essere estremamente lenta e quindi praticamente impossibile da misurare per la maggior parte dei pianeti. Per esempio l’orbita della Terra dovrebbe ruotare alla velocità di soli 3,8 secondi d’arco ogni cento anni. A questa velocità ci vorrebbero trentaquattro milioni di anni per fare compiere all’orbita terrestre un’intera rivoluzione.

Per poter verificare la validità della legge gravitazionale di Einstein ci sarebbe voluto un pianeta dotato di grande velocità orbitale in moto su un’orbita ellittica molto schiacciata. Questo pianeta effettivamente esiste ed è Mercurio. Verso la metà del 1800 l’astronomo francese Urbain Jean Joseph Le Verrier (1811-1877) aveva osservato che l’orbita di Mercurio non si chiudeva. Ogni volta che il pianeta completava un giro intorno al Sole esso ritornava a un punto diverso dello spazio così che l’orbita, se osservata a lungo, non era costituita da una semplice ellisse ma da molte ellissi aperte accostate le une alle altre. Il modo in cui di solito si dimostra questo effetto consiste nell’individuare il perielio (ossia il punto più vicino al Sole) e nell’osservare come esso cambi con il trascorrere degli anni. Ne risulta che la posizione del perielio si sposta di circa 43 secondi d’arco per secolo ben più di quanto potrebbe spiegare la gravità newtoniana, tenuto conto della forza attrattiva esercitata su di esso dagli altri pianeti. Per un certo tempo gli astronomi pensarono che a causare questo effetto potesse essere un pianeta nascosto posto fra Mercurio e il Sole (che Le Verrier chiamò Vulcano) il quale con la sua presenza avrebbe potuto disturbare l’orbita di Mercurio (così come l’orbita di Urano risultò essere disturbata dalla presenza di Nettuno), ma fino all’inizio del Novecento nessuno aveva individuato questo misterioso pianeta e gli astronomi stavano cominciando a dubitare della validità della legge della gravitazione di Newton. La causa della rotazione dell’orbita di Mercurio restò un mistero fino a quando non vennero applicate a quel pianeta le equazioni relative alla teoria della gravitazione di Einstein che prediceva in misura esatta l’avanzamento del perielio di quel pianeta. Questa legge prevedeva un effetto simile anche per l’orbita degli altri pianeti ma dal momento che questi sono più lontani dal Sole e l’ellisse che percorrono è molto meno schiacciata di quella di Mercurio l’effetto, come abbiamo detto, è di entità molto minore.

La seconda prova della validità della teoria della relatività generale venne fornita dalla osservazione di un astronomo inglese. Per capire il significato di questa osservazione è necessario spiegare in cosa consista la gravità secondo Einstein e in cosa differisca da quella formulata da Newton. Secondo Newton due corpi si attraggono perché esiste una forza, appunto la forza gravitazionale, che richiama uno rispetto all’altro. Secondo Einstein invece non esiste alcuna forza: i corpi massicci deformano lo spazio intorno a loro creando degli avvallamenti entro i quali rotolano quelli più leggeri. Più pesante è un corpo maggiore è l’avvallamento che esso crea intorno a sé. La Terra è un corpo relativamente leggero e quindi modifica di poco lo spazio intorno a sé mentre il Sole, 330.000 volte più pesante della Terra, incurva in modo sensibile lo spazio circostante.

Einstein aveva previsto che un raggio di luce proveniente da una stella lontana sfiorando la superficie della nostra stella avrebbe dovuto deviare ovvero percorrere l’avvallamento generato dalla massa del Sole. Naturalmente il fenomeno non poteva essere osservato in pieno giorno perché la luce proveniente da lontano sarebbe stata offuscata dal chiarore abbagliante del Sole. L’osservazione poteva essere effettuata solamente durante una eclissi totale di Sole: di tutte, la più favorevole si ebbe il 29 maggio del 1919. In quella occasione l’astronomo inglese Arthur Stanley Eddington (1882-1944) si recò nell’isola del Principe (nel golfo di Guinea a ovest dell’Africa) con tutta l’attrezzatura necessaria per eseguire le misure. Quando le lastre fotografiche vennero sviluppate e confrontate con quelle realizzate nel momento in cui il Sole non era in coincidenza delle stelle prese in considerazione si notò lo spostamento apparente del raggio di luce proprio del valore pronosticato da Einstein.

Anche la luce viene quindi deviata da corpi massicci i quali, se fossero molto pesanti, modificherebbero lo spazio intorno a loro fino al punto di far ripiegare su di sé i raggi luminosi da loro stessi emessi ed apparire neri. Questi corpi, di cui non si immaginava l’esistenza ai tempi di Einstein, sono i famosissimi buchi neri.

Altra conseguenza della teoria è rappresentata dall’effetto delle masse gravitazionali sul tempo. La teoria afferma infatti che tutti i processi temporali siano più lenti in vicinanza di una grande massa. Ad esempio un orologio posto in un campo gravitazionale più intenso rallenta rispetto ad uno identico posto in un campo gravitazionale meno intenso. Non è difficile capirne il motivo. Nella relatività ristretta abbiamo visto che un orologio in stato di moto uniforme appare più lento se rilevato da un osservatore in stato di quiete. Non è quindi assurdo ritenere che un orologio sottoposto ad accelerazione riveli una proprietà analoga. Ora però, abbiamo anche visto che una accelerazione è equivalente ad un campo gravitazionale; di conseguenza è plausibile ammettere che un orologio posto in un campo gravitazionale intenso rallenti. Uno stesso orologio che marcia ad una certa velocità sulla Terra sarebbe più lento se posizionato su Giove e rallenterebbe ancora più sul Sole.

Come fare per verificare il fenomeno? Naturalmente non possiamo pensare di portare un orologio sul Sole e confrontarlo periodicamente con quello lasciato a Terra. Ciò però non è necessario perché esistono orologi naturali sul Sole come sulla Terra: essi sono gli “orologi atomici”. Si tratta di “orologi” costituiti da atomi che permettono di misurare il tempo conteggiando la frequenza delle vibrazioni stesse. Einstein sapeva che quando in un atomo gli elettroni saltano da un’orbita all’altra emettono luce di frequenza tipica (ossia di colore diverso). La luce rossa è meno energetica, ad esempio, della luce blu, perché ha una frequenza più bassa. Quindi Einstein pensava che la luce emessa dagli atomi presenti sul Sole avrebbe dovuto essere spostata verso il rosso (red shiftgravitazionale) rispetto agli stessi atomi presenti sulla Terra. Ai tempi di Einstein era molto difficile separare questo effetto dagli altri dello stesso tipo che modificano le caratteristiche spettroscopiche della luce stellare, ma oggi gli astronomi posseggono i mezzi che consentono di osservare lo spostamento verso il rosso previsto da Einstein.

Si è così potuto verificare che la frequenza di vibrazione degli atomi sul Sole è minore che sulla Terra: ciò vuol dire che il tempo passa più lentamente sul Sole che sulla Terra. In realtà la differenza è minima perché il Sole è più pesante della Terra ma non quanto lo è ad esempio una stella di neutroni o un buco nero, dove il tempo addirittura si fermerebbe. Abitando su di un buco nero non si invecchierebbe affatto: si dovrebbero tuttavia affrontare altri problemi non meno “pressanti”.

 

LA RELATIVITÀ GENERALE E LA FORMA DELL’ UNIVERSO

La teoria della relatività generale modificò in modo sostanziale la percezione della struttura dell’Universo. Inizialmente esso veniva immaginato come una quantità finita di materia uniformemente distribuita in uno spazio finito. Newton rigettò questo modello perché la sua legge di gravitazione universale prevedeva l’attrazione reciproca delle masse e quindi in un Universo siffatto la materia sarebbe finita completamente raggruppata in un’unica grande sfera immobile al centro di uno spazio finito. Cosa c’era oltre quel limite?

Newton, per non contraddire la sua legge di gravitazione, fu costretto ad immaginare l’Universo di dimensioni infinite con all’interno un numero infinito di masse gravitazionali che si attraggono vicendevolmente in modo che la struttura complessiva rimanga immobile e immutabile. Non è difficile dimostrare che un Universo siffatto, se non altro per ragioni matematiche, sarebbe impossibile da realizzare: il valore medio della densità di materia al suo interno avrebbe infatti un valore indeterminato.

Ora, come abbiamo visto, la teoria della relatività generale prevede che i raggi luminosi vengano deflessi nel loro cammino dalle masse gravitazionali: da questa osservazione Einstein dedusse che l’Universo dovrebbe essere finito ma illimitato. Per farsi un’idea di cosa ciò voglia dire si immagini di percorrere la superficie terrestre a piedi (o in barca, su tratti di mare): in qualsiasi direzione si procedesse si finirebbe per ritornare al punto di partenza senza avere mai incontrato ostacoli. Non esistono infatti limiti o barriere al movimento di un oggetto sulla superficie terrestre la quale tuttavia è misurabile, e quindi di dimensioni finite.

Allo stesso modo anche l’Universo dovrebbe essere finito, perché misurabile, ma illimitato, perché mai potrebbe esistere un qualsiasi impedimento all’interno di esso. Come la superficie della Terra è curva nel senso che se si viaggia in una qualsiasi direzione si è convinti di procedere in linea retta ma in realtà si segue un percorso curvo, allo stesso modo anche viaggiando all’interno dell’Universo si è convinti di procedere in linea retta ma in realtà si segue un percorso curvo. Vi è però una differenza fra i due tipi di curvatura perché la Terra è geometricamente curva mentre lo spazio è curvo in quanto contiene masse gravitazionali che causano la deflessione più o meno accentuata dei raggi luminosi (ma anche di oggetti materiali). Ora, se un raggio luminoso (o un oggetto qualsiasi) dovesse risentire di un gran numero di deflessioni successive potrebbe avvenire anche una sua completa inversione del senso di marcia e quindi esso potrebbe ritrovarsi al punto di partenza. La stessa cosa accadrebbe ad un viaggiatore che, pur avendo continuato a viaggiare nello spazio lungo una linea retta (secondo lui), finirebbe per ritrovarsi nuovamente sulla Terra.

Per Einstein l’Universo conosciuto era quindi un vasto oceano di spazio riempito di stelle ritenute a quel tempo i suoi elementi costitutivi. Solo intorno al 1924 si scoprì infatti che quelle strutture che venivano chiamate “nebulose a spirale” erano in realtà oggetti extragalattici pieni di stelle e da quel momento gli elementi costitutivi dell’Universo non furono più i singoli astri ma le galassie, la cui distribuzione era più o meno uniforme. La teoria relativistica prevedeva tuttavia un Universo instabile ossia in contrazione o in espansione mentre Einstein era convinto che esso fosse statico. Introdusse pertanto all’interno della sua teoria una seconda costante detta “costante cosmologica” al fine di rendere l’Universo fisso e immutabile. Einstein riuscì anche a dedurre un’equazione per il calcolo del suo raggio: esso avrebbe dovuto misurare approssimativamente 350.000 miliardi di miliardi di kilometri: senza rendersene conto lo scienziato tedesco aveva proposto un modello di Universo simile a quello di Newton.

Il modello cosmologico di Einstein, sebbene fosse basato su solide basi matematiche era infatti sbagliato, perché immaginato statico come statico era sempre stato ritenuto in passato. Nel 1929, l’astronomo americano Edwin Hubble notò il famoso red shift cioè lo spostamento verso il rosso delle righe spettrali delle galassie lontane: un fenomeno che interpretato come effetto Doppler per la luce stava a significare che le galassie si allontanavano da noi e lo facevano in misura tanto più accentuata quanto più erano lontane. L’Universo si stava quindi espandendo e pertanto non era statico. Il red shift notato da Hubble non ha nulla a che vedere con quello gravitazionale di cui si è detto in precedenza.

Ora però, siccome tutte le galassie si allontanano da noi e quindi contemporaneamente si allontanano fra loro se ne deduce che in epoca lontana queste dovessero essere tutte raggruppate insieme in un punto. I calcoli basati sulle velocità di espansione portano a valutare a circa quindici miliardi di anni fa il momento in cui l’espansione ebbe inizio. Siamo quindi portati a fissare a questa data il momento della creazione di quello che oggi chiamiamo Universo.

 

UNA CELEBRITÀ FOLGORANTE

Nel 1914, poco dopo il trasferimento di Einstein da Zurigo a Berlino, scoppiò la prima guerra mondiale. Gli anni della guerra per il fisico tedesco furono molto difficili ma anche felici. Furono anni difficili perché, appena arrivato a Berlino, Einstein che era separato dalla moglie rimasta a Zurigo con i figli, forse anche a causa della cattiva alimentazione cui era costretto nei ristoranti berlinesi che offrivano cibi di qualità scadente, era spesso malato. La situazione migliorò e arrivò anche la felicità quando fu ospitato nella casa dello zio dove non solo si nutriva bene ma poteva anche godere della compagnia della cugina Elsa rimasta vedova di recente con due figlie. Questa era una donna dal temperamento gioviale e amante della conversazione brillante ed erudita. Einstein si innamorerà e finirà per sposarla nel 1919.

Il fisico tedesco fin dalla prima infanzia nutrì odio e disprezzo per tutto ciò che aveva a che fare con la guerra e con i soldati i quali – diceva – “solo per un errore hanno ricevuto un cervello: una spina dorsale è tutto ciò di cui avrebbero avuto bisogno”. Per questi motivi rifiutò di firmare il famoso Manifesto al mondo civilizzato in cui si affermava che la cultura e il militarismo tedeschi dovevano essere considerati inscindibili. Il documento fu firmato invece da un centinaio di intellettuali fra cui il premio Nobel Max Planck (1858-1947) il quale, però, dovrà amaramente pentirsi di questo gesto quando la guerra gli porterà via due figli.

Mentre il conflitto mondiale era in corso Einstein realizzò la sua opera scientifica più importante la cui verifica fu possibile solo al termine della guerra. In verità, fin dal 1911 ben prima di completare l’opera Einstein previde una conseguenza della teoria che stava elaborando riguardante la propagazione della luce. Egli ipotizzò che i raggi luminosi, invece che attraversare lo spazio in linea retta come accade nell’esperienza comune, debbano risentire della sua curvatura e di conseguenza siano costretti a seguire una traiettoria curvilinea. Nel 1914 un suo amico astronomo organizzò una spedizione scientifica in Siberia con lo scopo di verificare la deflessione della luce per opera del Sole, ma pochi giorni prima dell’eclissi che avrebbe consentito la verifica del fenomeno scoppiò la guerra: gli astronomi tedeschi vennero fatti prigionieri dai Russi e la previsione di Einstein rimase senza conferma.

L’osservazione fu solo rimandata perché nel 1917 la “Royal Society of Sciences” e la “Royal Astronomical Society” costituirono un comitato, con a capo il fisico inglese Arthur Eddington, con il compito di organizzare una spedizione nei punti più adatti all’osservazione dell’eclissi totale di Sole che sarebbe avvenuta il 29 marzo del 1919. La firma dell’armistizio, avvenuta alla fine del 1918, permise al comitato di attuare i propri piani che si realizzarono in due spedizioni effettuate la prima in Brasile e la seconda all’isola Principe, nel golfo di Guinea.

Il 6 novembre del 1919 furono resi noti i risultati delle spedizioni inglesi. I valori rilevati dagli strumenti ottici erano in ragionevole accordo con la previsione einsteiniana anche se lo scarto delle misure era piuttosto consistente. Le stesse misure in seguito vennero ripetute più volte, sempre con errori piuttosto elevati a testimonianza delle difficoltà che incontra l’astronomia sperimentale nell’eseguire misure precise. Quando Einstein venne a conoscenza dei risultati delle misurazioni rimase del tutto impassibile e dichiarò: “Lo sapevo che la teoria era corretta”. E quando gli chiesero come avrebbe reagito qualora le misure non avessero confermato le sue previsioni aggiunse: “Mi sarebbe dispiaciuto per il buon Dio”.

La conferma sperimentale inglese di una teoria nata nella Berlino del tempo di guerra colpì profondamente l’opinione pubblica e contribuì in poco tempo a rendere Einstein famoso in tutto il mondo. Egli divenne un personaggio, un simbolo ma la gloria coincise anche con i primi gravi scoppi di antisemitismo in Germania, alcuni dei quali erano diretti proprio contro di lui e contro la “fisica giudaica”.

Accese polemiche si svilupparono in ambito scientifico allargandosi in quello filosofico e politico da parte di personaggi digiuni di conoscenze scientifiche ma molto ben orientati ideologicamente in un mondo, quello tedesco, volto alla ricerca di nuovi ideali da sostituire a quelli che la guerra aveva spazzato via. In larghe fasce della popolazione tedesca si era formata l’opinione che la disfatta militare fosse dovuta alla pugnalata alle spalle degli ebrei piuttosto che alla incapacità delle classi dirigenti e militari. Questa politica nazionalista e razzista giunse fino a coinvolgere le teorie di Einstein provocando nei confronti dello scienziato una feroce campagna denigratoria. Nel 1920 fu addirittura creata in Germania una Lega anti-Einstein che offriva cospicue somme di denaro a chiunque avesse confutato per iscritto le tesi dello scienziato.

In realtà il governo della Repubblica tedesca succeduta all’Impero dopo la sconfitta del 1918 tentò di cattivarsi le grazie di Einstein invitandolo a non dare eccessivo peso agli attacchi che gli venivano rivolti dagli ultranazionalisti e chiedendogli nel contempo di rimanere in Germania e di avvalersi in futuro degli osservatori tedeschi per verificare le sue teorie. Einstein si lasciò convincere dalle promesse del ministro dell’educazione affermando che “Berlino è il luogo a cui sono più strettamente legato da vincoli umani e scientifici”. Di questa disponibilità egli dovette in seguito pentirsi.

 

GLI ANNI AMERICANI

Nel 1922 venne consegnato ad Einstein il Nobel per la fisica che gli era stato assegnato per l’anno 1921 quando il premio non era stato conferito ad alcuno. In quell’anno il Nobel per la fisica venne invece assegnato a Niels Bohr. Il fisico tedesco non poté comunque ritirare il premio perché in quel momento era in viaggio verso il Giappone con la moglie e sarebbe stato di ritorno a Berlino solo nel marzo del 1923.

Si era giunti all’assegnazione del premio non senza qualche difficoltà pur essendo diffusa la consapevolezza che Einstein era uno dei maggiori fisici del tempo e che quindi meritava l’alto riconoscimento. Le difficoltà derivavano dal fatto che Nobel aveva stabilito che il premio dovesse essere consegnato a chi avesse fatto delle scoperte che fossero di grande utilità per il genere umano. Le teorie relativistiche erano utili all’uomo? Non sono considerazioni di poco conto: oggi esiste uno scienziato, forse il più grande fisico teorico vivente, Stephen Hawking, noto anche al grande pubblico per avere scritto libri scientifici di divulgazione e per essere in condizioni fisiche tali da costringerlo in carrozzella, il quale non ha mai ricevuto il premio Nobel né è stato mai proposto per questo riconoscimento.

Ai dubbi di cui si è detto si aggiungevano anche considerazioni di carattere politico che rendevano ancora più cauta la commissione nella sua scelta. Alla fine il premio fu consegnato ad Einstein ma non per le teorie relativistiche bensì per l’interpretazione che dette dell’effetto fotoelettrico: un lavoro teorico confrontabile con dati sperimentali e soprattutto di utilità per il genere umano.

Frattanto, il desiderio di rivincita del popolo tedesco dopo la sconfitta della prima guerra mondiale cominciava a creare quella atmosfera di odio e di cieco fanatismo che ben presto avrebbe affossato la giovane Repubblica tedesca. Nel 1932, Paul von Hindenburg, già capo di stato maggiore dell’esercito, eletto per la seconda volta presidente della Repubblica, favorì l’ascesa al potere del nazismo nominando Adolf Hitler (capo dei nazionalsocialisti) Cancelliere del Terzo Reich. Con la salita al potere dei nazisti cominciarono le prime epurazioni proprio nell’ambito universitario dove si sviluppò contro Einstein una violentissima campagna denigratoria.

Nello stesso anno Einstein lasciò la Germania per recarsi negli Stati Uniti. Farà ritorno in Europa poco dopo ma non si recherà a Berlino bensì in Belgio in quanto venne a sapere che la sua casa di villeggiatura ubicata vicino alla capitale era stata saccheggiata dalla Gestapo con la scusa di cercare armi che sarebbero servite ai comunisti: fu trovato solo un coltello da cucina. Il fisico tedesco stabilì allora la sua residenza presso la località balneare di Le Coq-sur-Mer dove gli vennero assegnate due guardie del corpo con lo scopo di proteggerlo: infatti si erano fatte insistenti le voci di possibili attentati alla sua vita.

La scelta del Belgio come dimora provvisoria fu favorita dall’amicizia con i regnanti di quella nazione, amicizia iniziata nel 1927 e durata poi per tutta la vita. Essa fu resa possibile dai Congressi Solvay che si tenevano a Bruxelles. Ernest Solvay (1838-1922) era un chimico industriale belga che aveva fatto fortuna inventando un nuovo procedimento per la preparazione del bicarbonato di sodio (oggi chiamato “soda Solvay”). Appassionato di fisica ebbe l’idea di riunire a proprie spese i maggiori fisici europei per sottoporre loro le sue idee: in realtà gli scienziati approfittavano della riunione per mettere a confronto i propri lavori di ricerca. Il primo Congresso Solvay si tenne nel 1911; vi presero parte personaggi famosi come Hendrik Antoon Lorenz, Max Planck, Madame Curie, Ernest Rutherford e lo stesso Einstein: l’iniziativa ebbe un tale successo da divenire un’istituzione destinata a durare negli anni.

Appena giunto in Europa Einstein inviò subito una lettera di dimissioni molto dura all’Accademia Prussiana specificando di non voler più dipendere da un governo che “per legge nega l’uguaglianza dei diritti e la libertà di parola e di insegnamento”. Quasi contemporaneamente venne anche espulso dall’Accademia bavarese delle scienze. I suoi lavori vennero bruciati nella pubblica piazza insieme con tutti quelli che il regime aveva considerato sovversivi e antitedeschi. Non mancarono adesioni di scienziati di fama a questa brutale e assurda violenza morale; fra i più attivi e intransigenti vi era il suo collega e premio Nobel Philipp Lenard (1862-1947); questi si mise a capo di un movimento che prese il nome di “scienza tedesca”, il quale si prefiggeva il compito di purificare la scienza da ogni traccia non ariana: le teorie della relatività e la meccanica quantistica furono i suoi bersagli preferiti.

Con l’aggravarsi della situazione politica Einstein accettò l’offerta che gli era stata fatta dall’Istitute for Advanced Study di Princeton, un istituto di recente formazione che offriva rifugio a molti scienziati costretti all’esilio. Nel 1933 Einstein emigrò quindi definitivamente negli Stati Uniti e nel 1940 assunse la cittadinanza americana senza però rinunciare a quella svizzera.

 

LA NASCITA DELL’ ERA ATOMICA

Nell’estate del 1939 due fisici statunitensi di origine ungherese Leo Szilard (1898-1964) e Eugene Wigner (1902-1995) si recarono a far visita ad Einstein nella casa estiva che il fisico prendeva in affitto tutti gli anni nei pressi di Peconic, per informarlo di ciò che stava succedendo nei laboratori di fisica in Germania.

I due fisici erano venuti a conoscenza che i chimici tedeschi Otto Hahn (1879-1968) e Fritz Strassmann (1902-1980) in collaborazione con la fisica austriaca Lise Meitner (1878-1968) dell’Istituto “Kaiser Wilhelm” di Berlino avevano realizzato il processo di fissione nucleare, cioè la divisione in due parti uguali del nucleo dell’atomo di uranio. In realtà lo stesso processo era già stato ottenuto per la prima volta a Roma dal gruppo di Fermi e successivamente in Francia da Irene e Frederic Juliot Curie, ma i risultati non erano stati interpretati in modo corretto. La giusta interpretazione del fenomeno avvenne solo nel 1938 quando la Meitner e suo nipote Otto Frisch furono informati degli esperimenti che erano stati realizzati nei laboratori di fisica di Berlino.

I risultati di questi esperimenti e la loro interpretazione vennero trasmessi al famoso fisico danese Niels Bohr (1885-1962) premio Nobel per le sue ricerche sulla struttura dell’atomo, a Copenaghen, dove lavorava Frisch, mentre la Meitner, ebrea anch’essa come il nipote, si era rifugiata in Svezia per sfuggire alle leggi razziali. Attraverso Bohr questa notizia giunse negli Stati Uniti nel 1939 in occasione di un congresso scientifico che si teneva a Washington.

Einstein fino a quel momento si era mostrato alquanto scettico sulla possibilità che l’energia nucleare potesse avere un uso pratico. I due fisici ungheresi lo informarono però che i tedeschi pensavano di utilizzare questa forma di energia per la costruzione di un’arma molto potente. A suffragare tale convincimento circolava la voce che fra i primi atti dell’amministrazione tedesca all’indomani dell’invasione della Cecoslovacchia vi era stato proprio il blocco delle esportazioni di uranio di cui quel Paese era forte produttore. Questo intervento, secondo i due fisici americani, era una chiara indicazione del valore strategico che i tedeschi assegnavano a quell’elemento.

Szilard era a conoscenza della calda amicizia che legava Einstein alla famiglia reale belga e quindi cercò di convincere il fisico tedesco affinché scrivesse alla regina Elisabetta per metterla al corrente dell’importanza di non fare cadere in mano tedesca i grandi depositi di materiale radioattivo del Congo belga, che avrebbero invece fatto comodo agli Stati Uniti.

Frattanto il processo di fissione nucleare veniva studiato nei laboratori di fisica americani sotto la guida di Fermi ma le risorse finanziarie di cui poteva disporre il dipartimento di fisica della Columbia University non erano sufficienti: ragione per cui Szilard pensò di mettersi in contatto con Alexander Sachs, economista, banchiere e consigliere personale del Presidente Franklin Delano Roosevelt, al fine di ottenere un finanziamento aggiuntivo necessario per questa specifica ricerca. Sachs si rese immediatamente conto della serietà del problema e lo portò all’attenzione dello stesso Presidente degli Stati Uniti.

A questo punto Szilard insieme con Edward Teller, un professore che lavorava presso la Columbia University, tornarono da Einstein per preparare una lettera da consegnare a Sachs il quale a sua volta l’avrebbe trasmessa a Roosevelt. Einstein venne a trovarsi profondamente combattuto fra le sue convinzioni pacifiste decisamente avverse al mondo politico e soprattutto a quello militare e la terribile convinzione che se i nazisti avessero realizzato un’arma tanto potente avrebbero potuto ridurre in schiavitù il mondo intero. Si lasciò quindi convincere a firmare una lettera che venne consegnata a Sachs affinché la recapitasse al Presidente degli Stati Uniti.

Nella lettera Einstein spiegava che alcuni recenti lavori di Fermi e Szilard lo avevano convinto del fatto che l’elemento uranio poteva essere usato nel prossimo futuro per la costruzione di bombe di nuovo tipo e di estrema potenza. Roosevelt rispose informando Einstein di aver trovato la sua lettera estremamente interessante tanto da indurlo a costituire una commissione con lo scopo di studiare la possibilità di utilizzare l’uranio per la costruzione di una bomba di nuova concezione.

Nell’estate del 1942, prima ancora che entrasse in funzione la pila che Fermi stava assemblando sotto le gradinate dello stadio che si trovava nel campus dell’Università di Chicago il Presidente Roosevelt decise di lanciare un programma su vasta scala per procedere alla costruzione di una bomba a fissione nucleare. La direzione di quello che verrà chiamato “Progetto Manhattan” fu affidata al generale di brigata Leslie Groves il quale fece costruire in breve tempo uno speciale laboratorio segreto perfettamente attrezzato a Los Alamos, una località desertica del New Mexico. La direzione del laboratorio venne affidata a Robert Oppenheimer (1904-1967), un brillantissimo fisico teorico che aveva introdotto la meccanica quantistica negli Stati Uniti e fondato un’importante scuola di fisica teorica.

Alla fine della guerra Oppenheimer venne accusato di essere una spia al servizio dei Russi e processato. In realtà egli si era opposto alla costruzione della bomba a idrogeno, un ordigno ancora più potente di quello a uranio. Al processo testimoniarono contro soprattutto i fisici favorevoli alla costruzione della nuova bomba mentre la maggioranza delle persone che vennero ascoltate in aula testimoniarono a suo favore: fra questi vi erano il generale Groves ed Enrico Fermi. Alla fine delle udienze pur riconoscendo che Oppenheimer era stato leale verso il Paese, la commissione giudicante espresse tuttavia inquietudine per il suo atteggiamento verso il progetto di costruzione della bomba H. Il fisico americano venne quindi considerato, anche per le sue idee di sinistra, di cui non faceva mistero, un “pericolo per la sicurezza” e gli fu tolta l’autorizzazione a lavorare sull’energia nucleare.

Tutto questo e in particolare l’atmosfera degli anni Cinquanta angustiò profondamente Einstein. In una lettera inviata alla regina madre Elisabetta del Belgio, scritta nel 1951, troviamo le seguenti parole amare: “Anche se alla fine è stato loro possibile, seppure ad un prezzo elevatissimo, sconfiggere i tedeschi, i cari americani hanno dato loro alacremente il cambio. Chi potrà ricondurli alla ragione?” Quest’ultima affermazione per fortuna era sbagliata. Il senatore Joseph Raymond Mc-Carthy (1909-1957) con il suo anticomunismo ottuso e intransigente cadde ben presto in disgrazia e la democrazia riprese a prosperare negli Stati Uniti, anche se in verità alcuni ritengono che il maccartismo regni tuttora in quel Paese.

 

EINSTEIN PACIFISTA

La notizia delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki lasciò Einstein incredulo e rattristato. L’unico suo commento fu un semplice “Ach weh!” (ahimé!). Da quel momento e fino alla sua morte si adoperò con ogni mezzo: lettere, messaggi, articoli e interviste a convincere le autorità politiche e l’opinione pubblica affinché fossero messe al bando le armi di distruzione di massa.

Per quell’uomo il pacifismo era un sentimento istintivo piuttosto che una scelta calcolata. Fin dagli anni giovanili si era dedicato con impegno e ostinazione a diffondere i suoi convincimenti antimilitaristi. In età adulta girò mezzo mondo per far conoscere le sue teorie scientifiche ma soprattutto le sue idee politiche. Fu in Svezia, in Sud America, in Belgio, negli Stati Uniti e in Giappone. Firmò manifesti pacifisti con Gandhi contro il servizio militare obbligatorio e per il disarmo universale e totale.

L’ambizione, da molti ritenuta ingenua e velleitaria, del giovane Einstein era rappresentata dalla istituzione degli Stati Uniti d’Europa. Per sostenere una causa tanto ambiziosa si adoperò perché venisse istituita la “Lega della Terra dei padri” che successivamente divenne “Lega tedesca per i diritti umani” di cui nel 1928 entrò a far parte come membro del comitato direttivo.

Agli inizi degli anni Trenta il pacifismo di Einstein si fece più radicale giacché lo scienziato si prodigò a sostegno degli obiettori di coscienza. Nel 1931 scriverà: “Mi sono convinto che il mondo potrà essere progressivamente liberato dal flagello della guerra solo dagli uomini che hanno avuto il coraggio di sacrificarsi rifiutando il servizio militare”.  Fra i tanti manifesti che firmò ve ne fu uno che chiedeva al popolo di impegnarsi per sottrarre la questione del disarmo dalle mani dei politici e dei burocrati. Nel 1932 firmò un appello ai partiti socialista e comunista tedeschi affinché facessero fronte comune per allontanare dalla Germania il pericolo fascista che si stava profilando all’orizzonte.

L’interessamento attivo di Einstein per la sorte degli ebrei fu un altro degli impegni politici a cui non si sottrasse. Nato in una famiglia di ebrei non rigorosamente osservante, che sognava l’integrazione, Einstein cominciò a comprendere cosa volesse dire essere ebreo fra il 1911 e il 1912 durante il suo soggiorno a Praga. “Quando mi sento definire tedesco di religione ebraica – diceva – mi ribello perché ciò che caratterizza un ebreo non è la religione ma l’appartenenza al popolo ebraico”.

Nello stesso anno in cui i nazisti presero il potere fu pubblicato il suo epistolario con Sigmund Freud, l’altro grande personaggio che aveva rivoluzionato il mondo con la teoria psicanalitica. Frattanto, alla fine del 1933 Einstein con la moglie Elsa giunsero per la terza volta negli Stati Uniti, con un visto turistico. Da allora lo scienziato non avrebbe più lasciato quel Paese. Dopo tre anni morì la moglie e a prendersi cura di Albert fu la sorella Maja, la quale era giunta in America provenendo dall’Italia.

Nel 1952 dopo la morte del Presidente Weizmann il capo del governo israeliano Ben Gurion invitò Einstein ad assumere la carica di Presidente della Repubblica di Israele ma il fisico declinò l’offerta. La rinuncia fu quanto mai opportuna perché servì a togliere dall’imbarazzo lo stesso Ben Gurion il quale in privato sembra si sia rivolto al suo segretario con tono preoccupato: ”Cosa facciamo se accetta?”

La tragedia delle bombe atomiche sulle due città giapponesi non sconvolse solo Einstein. Molti scienziati che lavorarono al progetto Manhattan furono sopraffatti da un terribile senso di colpa e si rifiutarono in seguito di collaborare a ricerche di carattere militare. Franco Rasetti (uno dei ragazzi di via Panisperna morto di recente all’età di cento anni compiuti) scelse una via ancora più radicale: abbandonò la fisica e si dedicò alla geologia e alla botanica.

Negli ultimi anni di vita Einstein si impegnò nella soluzione di un problema scientifico che in nessun caso avrebbe potuto portare a termine perché a quel tempo erano troppo scarse le conoscenze di base. Si tratta della teoria della unificazione di tutte le forze della natura in una sola legge, un argomento che ancora oggi non ha trovato soluzione nonostante lo sforzo dei maggiori fisici teorici viventi.

La moglie Elsa era morta nel 1936 mentre la prima moglie, che non volle mai lasciare la Svizzera, morì nel 1948. Il primo figlio, laureatosi in ingegneria al Politecnico di Zurigo, nel 1947 ottenne la cattedra di ingegneria idraulica all’Università di California, a Berkeley. Delle due figliastre, frutto del primo matrimonio di Elsa una morirà in giovane età mentre la seconda, artista di ingegno, dopo essersi separata dal marito, andrà a vivere nella casa di Einstein. La sorella Maja, a causa delle leggi razziali, fu costretta a lasciare la piccola proprietà nei dintorni di Firenze che il fratello aveva comprato per lei e suo marito Paul e venne anch’essa a vivere a Princeton mentre il marito si trasferì a Ginevra presso l’abitazione dei Besso. Nella casa di Einstein viveva anche Helen Dukas, sua segretaria fin dal lontano 1928 e forse anche una delle numerose amanti, che si occuperà della conduzione domestica da quando Maja, in seguito ad una emorragia celebrale, fu costretta a letto dove rimase fino al giorno della morte avvenuta nel 1951.

Il 18 aprile del 1955 Einstein morì in ospedale, dove era stato ricoverato un paio di giorni prima per un aneurisma addominale. Lo scienziato non volle sottoporsi ad intervento chirurgico, peraltro molto rischioso, “perché – disse ai medici – voglio andarmene quando decido io in quanto è di cattivo gusto prolungare artificialmente la vita”. Accanto al suo letto rimasero gli appunti incompleti relativi ad un calcolo che stava sviluppando nell’ambito della teoria del campo unificato.

Recentemente è stato reso pubblico il contenuto di oltre mille e quattrocento lettere scritte da Einstein che Margot, la seconda delle figlie di Elsa, aveva consegnato all’Università di Gerusalemme con la raccomandazione di non pubblicarle prima che fossero trascorsi vent’anni dalla sua morte, che avvenne nel luglio del 1986. Nella lunga corrispondenza con la figliastra verso la quale mostrava affetto e stima, Einstein parla delle sue relazioni con una decina di amanti della cui esistenza mai si era saputo in precedenza. Einstein era quindi un donnaiolo a cui piacevano soprattutto le donne più giovani di lui ma era anche una persona di temperamento individualista.

Nelle lettere viene infatti anche svelato il modo in cui il fisico tedesco utilizzò i soldi del premio Nobel. Aveva sempre affermato di averli consegnati alla prima moglie perché potesse provvedere al mantenimento dei figli ma ora si viene a conoscenza che quel denaro venne investito per la maggior parte negli Stati Uniti in titoli che persero quasi completamente il loro valore nella crisi finanziaria del 1929.

Queste lettere hanno un po’ sminuito la figura della persona Einstein ma conoscendo il suo impegno pacifista, antimilitarista e per la messa al bando delle armi nucleari, ci piace pensare che abbia sostenuto finanziariamente la sua prima moglie anche senza il denaro del Premio Nobel.

Prof. Antonio Vecchia

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