Acidi e basi

Tutti i diversi tipi di reazioni chimiche possono essere classificati in due sole categorie fondamentali: le reazioni che avvengono con trasferimento di protoni da una specie chimica ad un’altra, e quelle che avvengono con trasferimento di elettroni da un atomo ad un altro. Le prime sono le reazioni acido-base, mentre le seconde si chiamano reazioni di ossido-riduzione. In questa sede vogliamo esaminare da vicino le reazioni acido-base ma prima di definire ed interpretare le caratteristiche di queste specifiche trasformazioni della materia dobbiamo accennare brevemente alle tappe che hanno portato alla scoperta delle proprietà più tipiche di acidi e basi.

 

BREVE STORIA DI ACIDI E BASI

La parola “acido” trae origine dal verbo latino “acere” che vuol dire “essere aspro”; il termine, a sua volta, deriva dall’antica radice “ak” che significa “puntuto, appuntito”.

L’uomo deve aver imparato a riconoscere le sostanze acide fin dai tempi più antichi anche perché il sapore acido è uno dei quattro sapori fondamentali (gli altri sono il dolce, il salato e l’amaro) che egli è in grado di distinguere attraverso il senso del gusto. Gli acidi infatti erano noti già agli antichi Egizi e Greci i quali avevano osservato che alcuni alimenti come l’aceto, il succo di limone e la frutta acerba avevano un sapore aspro che doveva dipendere da una particolare sostanza presente in essi. Inoltre agli antichi era anche ben nota l’azione solvente e corrosiva di queste sostanze. Gli alchimisti medioevali riuscirono poi a preparare tre importanti acidi che non derivavano da sostanze organiche: essi erano il cloridrico, il solforico e il nitrico.

Il primo studioso ad occuparsi in modo sistematico degli acidi fu lo scienziato irlandese Robert Boyle (1627-1691) il quale applicò allo studio di queste sostanze il metodo sperimentale suggerito da Galilei. Egli definì “acidi” le sostanze che possedevano particolari proprietà come ad esempio quella di avere sapore agro, di corrodere il marmo con formazione di anidride carbonica o di intaccare alcuni metalli non nobili (es. zinco e ferro), con sviluppo di idrogeno; inoltre egli aveva notato che gli acidi producevano un cambiamento di colore di alcune sostanze vegetali che oggi chiamiamo indicatori chimici.

Boyle si occupò anche dei cosiddetti alcali (dall’arabo “al-qalyi” = potassa), sostanze presenti nelle ceneri delle piante che sciolte in acqua formano soluzioni scivolose al tatto e di sapore amaro che mescolate in adatte proporzioni agli acidi annullano le loro proprietà. L’osservazione che l’attività delle basi neutralizzava quella degli acidi con formazione di sostanze cui fu dato il nome di sali suggerì di chiamare queste sostanze basi perché considerate appunto le basi di partenza per la preparazione dei sali.

Verso la fine del 1700 lo scienziato francese Antoine Lavoisier (1743-1794) avendo osservato che molti ossidi reagendo con l’acqua generavano soluzioni acide, si convinse che dovesse essere l’ossigeno ad impartire le tipiche proprietà agli acidi tanto che il nome che poi fu assegnato a questo elemento significa proprio “generatore di acidi”. Solo successivamente fu chiaro che l’elemento caratterizzante degli acidi non era l’ossigeno ma l’idrogeno. Il chimico tedesco Justus von Liebig (1803-1873) facendo tesoro dell’osservazione del chimico inglese Humphry Davy il quale dimostrò per primo, nel 1810, che l’acido cloridrico pur essendo un acido forte non includeva l’ossigeno, definì gli acidi dei composti che contengono atomi di idrogeno che possono essere sostituiti da atomi di metalli.

 

LA TEORIA DI ARRHENIUS

Il primo tentativo di dare una definizione completa e funzionale di acido e di base, in grado anche di interpretare il loro comportamento in soluzione acquosa, fu compiuto da Svante Arrhenius (1859-1927) il quale partì dalla sua teoria sulla dissociazione elettrolitica, e da alcune osservazioni sulla composizione chimica di questi composti.

Tutti sanno, ma soprattutto lo sanno bene le massaie, che il sale nell’acqua per cucinare gli spaghetti va messo dopo che questa ha iniziato a bollire e non prima perché in quel caso il tempo di attesa (e il consumo di gas) sarebbe maggiore: una soluzione bolle infatti a temperatura superiore a quella del solvente puro. D’altra parte tutti avranno anche osservato che durante l’inverno, quando nevica, sulle strade viene sparso del sale allo scopo di prevenire la formazione di ghiaccio in quanto la soluzione che si forma ha un punto di congelamento più basso di quello dell’acqua pura.

Studiando le soluzioni acquose di varie sostanze Arrhenius aveva osservato che la temperatura di solidificazione di una soluzione non dipendeva dalla natura del soluto, ma dal numero di molecole che venivano messe in soluzione. Egli aveva infatti osservato che sciogliendo in un litro di acqua una mole (quindi un numero ben determinato di particelle) di sostanze diverse la temperatura di congelamento delle soluzioni di alcune di esse era di 1,86 gradi sotto lo zero mentre per altre l’abbassamento di temperatura (detto anche abbassamento crioscopico) era maggiore; in alcuni casi questo abbassamento era anche due o tre volte maggiore del minimo osservato. Per interpretare questi risultati il chimico svedese ritenne utile esaminare il comportamento delle stesse soluzioni anche in funzione della conducibilità elettrica.

Nel 1832 l’inglese Michael Faraday (1791-1867) aveva enunciato le famose leggi relative all’elettrolisi ossia al fenomeno che provocava la scissione delle molecole per mezzo della corrente elettrica. Egli erroneamente riteneva infatti che fosse la corrente elettrica a causare la dissociazione del soluto in particelle mobili cariche di elettricità positiva o negativa che chiamò ioni (da un termine greco che significa “viandante”). Inoltre lo scienziato inglese aveva chiamato elettroliti i composti o le soluzioni capaci di far passare la corrente elettrica

Facendo passare la corrente elettrica attraverso le sue soluzioni Arrhenius poté osservare che quelle che avevano un punto di gelo uguale a -1,86 °C non conducevano la corrente elettrica mentre quelle che avevano una temperatura di congelamento inferiore a quel valore erano conduttrici della corrente elettrica. Questi esperimenti convinsero Arrhenius che quando alcune sostanze si sciolgono nell’acqua si dissociano immediatamente in particelle cariche di elettricità, cioè in ioni i quali devono quindi essere presenti nella soluzione indipendentemente dal passaggio della corrente. Anzi, il passaggio della corrente nella soluzione, avveniva proprio grazie alla presenza degli ioni. Le sostanze che messe in acqua formano soluzioni che non conducono la corrente elettrica evidentemente non si dissociano in ioni.

Sulla base di questa serie di osservazioni egli definì pertanto elettrolita un qualsiasi soluto che sciogliendosi in acqua forma una soluzione che contiene ioni; al contrario un soluto che in soluzione rimane indissociato fu chiamato non elettrolita. Osservò anche che la maggior parte delle sostanze inorganiche erano degli elettroliti mentre la stragrande maggioranza dei composti organici erano dei non elettroliti.

Arrhenius espose le sue idee nel 1887 in occasione della tesi per la libera docenza presso l’Università di Uppsala (Svezia) dove incontrarono forte resistenza da parte del corpo docente ancora legato alla concezione daltoniana dell’atomo come entità indivisibile e immutabile. A causa di questa incomprensione mancò poco che la sua tesi venisse respinta. A questo proposito è opportuno far notare il fatto che ai tempi in cui Arrhenius esponeva le sue idee nulla si sapeva della struttura dell’atomo e della natura delle particelle responsabili dei fenomeni elettrici. I chimici dell’epoca accolsero con molta perplessità le affermazioni del giovane collega svedese perché immaginavano che un composto, per esempio il cloruro di sodio, di cui si conosceva la formula chimica (NaCl) messo in acqua dovesse scindersi in sodio e cloro cioè in due sostanze molto reattive che avrebbero dovuto provocare un’esplosione a causa della presenza del sodio solido e sviluppo di gas soffocante per la presenza del cloro. Arrhenius però cercava di convincere i colleghi che in acqua non si formavano atomi ma ioni cioè particelle con carica elettrica le cui proprietà erano del tutto diverse da quelle dagli atomi neutri.

Le idee di Arrhenius vennero accettate solo dopo che il fisico inglese Joseph John Thomson nel 1897 riuscì a dimostrare che l’elettrone era una particella con carica elettrica e nel 1903 gli fu conferito il Premio Nobel per la chimica.

Il chimico svedese aveva osservato, fra l’altro, che alcuni acidi allo stato puro non conducevano la corrente elettrica, mentre quando venivano posti in acqua la soluzione diventa conduttrice: ne dedusse che gli acidi allo stato puro sono formati di molecole, mentre in soluzione le molecole si dissociano in ioni. Inoltre aveva notato che tutti gli acidi possiedono nella molecola almeno un atomo di idrogeno mentre le basi contengono sempre almeno un raggruppamento ossidrilico OH.

Ora, poiché un acido a struttura molecolare molto semplice come ad esempio il cloruro di idrogeno la cui formula chimica è HCl, non poteva dissociarsi che in He Cl, Arrhenius ritenne che fosse prerogativa di tutti gli acidi quella di liberare ioni H+ in soluzione acquosa e che fossero questi ioni H+ a caratterizzare le sostanze acide, così come gli ioni OH dovevano caratterizzare le basi. Dette allora una prima definizione di acido e di base in questi termini:

Acido è una sostanza che in soluzione acquosa libera ioni idrogeno H+.

Base è una sostanza che in soluzione acquosa libera ioni ossidrilici OH.

Se indicassimo con HA un acido generico e con BOH una base generica, la dissociazione dell’acido e della base avverrebbe attraverso i due seguenti schemi:

HA(aq) ⇄  H+(aq) + A(aq)            BOH(aq) ⇄  B+(aq) + OH(aq)

Con il simbolo (aq) si vuole indicare che gli ioni e le molecole in soluzione sono avvolti da molecole di acqua o, come suol dirsi, sono idratati.

Secondo questa teoria, poi, la neutralizzazione di un acido con una base non sarebbe altro che una reazione di combinazione degli ioni H+ dell’uno con gli ioni OH dell’altra, con formazione di molecole d’acqua. In soluzione rimarrebbero gli ioni negativi dell’acido e quelli positivi della base i quali, essendo fortemente idratati, non avrebbero alcuna tendenza a legarsi fra loro. Facendo però evaporare l’acqua si otterrebbe la formazione di un sale solido. Per esempio, ponendo in soluzione l’acido cloridrico e l’idrossido di sodio, avremmo:

H+(aq) + Cl(aq)  +  Na+(aq) + OH(aq)   ⇄    Na+(aq) + Cl(aq) + H2O

acido                        base                             sale

Un sale potrebbe quindi essere considerato anche il prodotto della neutralizzazione di un acido con una base. Si noti però che togliendo il sale dalla reazione, rimane solo l’acqua, la quale rappresenta pertanto il vero prodotto della neutralizzazione.

La definizione di acido e di base data da Arrhenius ha il pregio di essere molto semplice tanto che ancora oggi viene usata con profitto, ma presenta dei limiti che non possono essere ignorati anche perché essi non consentono la generalizzazione della teoria stessa.

La teoria di Arrhenius infatti è valida solo per le soluzioni acquose e quindi gli acidi e le basi non vengono definiti in quanto tali, cioè in base a caratteristiche connesse con la loro particolare struttura chimica, ma solo per il loro comportamento in acqua: la stessa sostanza, in un solvente diverso, potrebbe avere comportamento diverso, e magari opposto. Inoltre, la teoria di Arrhenius non è in grado di giustificare in modo coerente il motivo per il quale alcuni composti che non possiedono nella formula atomi di idrogeno né gruppi OH, producono tuttavia soluzioni acide e basiche. Il carbonato di sodio, Na2CO3, e l’ammoniaca, NH3, ad esempio, danno in acqua soluzioni basiche, ma da dove provengono gli ioni OH, che pur devono essere presenti in soluzione, se non erano contenuti, in precedenza, nelle molecole di queste sostanze?

 

LA TEORIA DI BRØNSTED E LOWRY

Nel 1923 due chimici, il danese Johannes Nicolaus Brønsted (1879-1947) e l’inglese Thomas Martin Lowry (1874-1936), separatamente, proposero una teoria degli acidi e delle basi più generale e non più vincolata al tipo di solvente. Benché il merito della nuova teoria spetti ad entrambi gli scienziati, essa è più nota con il nome di “teoria di Brønsted”.

I due scienziati partirono dalla constatazione che lo ione H+, che dovrebbe essere presente in tutte le soluzioni acide, è in realtà un protone, cioè una particella estremamente più piccola di qualsiasi altro ione. Lo ione H+ è infatti privo di elettroni, quindi ha le dimensioni di un nucleo atomico, mentre tutti gli altri ioni conservano una parte degli elettroni e rimangono pertanto più o meno delle dimensioni degli atomi, che sono mediamente 10.000 volte più grandi dei nuclei. Ora, poiché il protone si trova ad avere la carica elettrica positiva concentrata su di una superficie piccolissima, possiede un forte campo elettrico che lo rende estremamente reattivo.

Per ottenere un protone libero è necessaria una notevole quantità di energia (per esempio si ottengono protoni liberi con le scariche elettriche ad alto potenziale fatte scoccare nei gas rarefatti), per cui non è pensabile che il protone possa esistere isolato in condizioni normali ma, o lo si deve immaginare legato alla molecola dell’acido su cui si trova naturalmente sistemato, o lo si deve immaginare spostarsi su qualche altra specie chimica che lo attragga più energicamente.

Per Brønsted e Lowry una sostanza isolata non può essere definita in sé né acido né base: affinché una specie chimica diventi un acido è necessaria la presenza simultanea di un’altra specie chimica che gli strappi i protoni di dosso. Questa seconda specie chimica è la base e quindi non può esserci un acido se non esiste anche una base disponibile ad accettarne i protoni. È il protone, ora, ad assumere il ruolo di protagonista nelle reazioni acido-base e la definizione di queste sostanze diventa la seguente:

Acido è una sostanza capace di donare protoni.

Base è una sostanza capace di accettare protoni.

Acidi e basi sono quindi due specie chimiche strettamente collegate e il protone, spostandosi dall’una all’altra, trasforma “ritmicamente” un acido in base e una base in acido.

Dalla nuova teoria discende che l’acido stesso, dopo essersi liberato del protone, si trasforma in una specie chimica in grado a sua volta di accettarne uno, cioè in una base: l’acido pertanto contiene in sé una base, la quale può essere definita anche come un “acido deprotonato”. Esistono quindi tante coppie acido-base coniugata e viceversa base-acido coniugato, in cui la differenza è data semplicemente dalla presenza o meno del protone.

Se con A si indica un acido generico e con b la sua base coniugata, e con B si indica una base generica e con a il suo acido coniugato, la reazione acido-base, prevista dalla teoria di Brønsted, si può esprimere con il seguente equilibrio:

A     +    B      ⇄      b           +            a

acido       base           base                    acido

coniugata di A      coniugato di B

Gli acidi e le basi, individuati dalla teoria di Arrhenius, rimangono tali ovviamente anche con la definizione di Brønsted e Lowry, cambia solo l’interpretazione formale delle loro proprietà; tuttavia, con la nuova teoria, si aggiungono all’elenco altre sostanze che in precedenza non potevano essere considerate né acidi né basi.

Se prima della formulazione della nuova teoria un acido era considerato come una sostanza capace di cedere in acqua gli ioni H+, ora un acido viene definito come una sostanza capace di cedere all’acqua (intendendo alla molecola di acqua) gli ioni H+. Ad esempio, per l’acido cloridrico abbiamo:

HCl   +   H2O  ⟶   Cl   +    H3O
acido       base          base       acido

Come si può vedere, l’acqua, che nella definizione di Arrhenius non veniva considerata né acido né base (ma la sostanza inattiva che faceva da supporto alle reazioni), ora si comporta da base.

Allo stesso modo le basi erano definite composti capaci di cedere in acqua ioni OH, mentre ora vengono definite sostanze capaci di acquistare dall’acqua (intendendo dalla molecola d’acqua) protoni. Nel caso dell’idrossido di sodio, NaOH, si ha infatti:

OH  +  H2O    ⟶    H2O   +   OH
base      acido            acido      base

Come si può vedere, nella teoria di Brønsted, la vera base non è NaOH, ma il solo ione OH, il quale, staccando dall’acqua il protone, riduce quest’ultima allo stato di ione OH, cioè ad una base. In pratica con la nuova teoria non cambia niente rispetto alle proprietà di queste sostanze, si tratta solo di interpretare il fenomeno in modo diverso. Il cambiamento di una teoria con un’altra consiste, a ben vedere, sostanzialmente in questo: la nuova teoria rappresenta un modo originale di interpretare i fatti in maniera tale però da includerne anche di nuovi che in precedenza non si sapeva come giustificare.

Si sarà notato, ad esempio, che nell’ultima reazione che abbiamo scritto, l’acqua si comporta da acido. Le sostanze come l’acqua, che possono agire sia da acido che da base in dipendenza del composto con cui vengono a contatto si dicono anfotere (da una parola greca che significa “l’uno e l’altro di due”), o  anfiprotiche, cioè in grado di acquistare o di cedere protoni (“anfi”, in greco, significa “da due parti, doppio”).

L’acqua non è l’unica sostanza con comportamento anfotero, ve ne sono molte altre. Per esempio lo ione idrogenocarbonato, HCO3, si comporta da base quando è in presenza di un acido forte, come HCl, accettando i suoi protoni e trasformandosi nell’acido coniugato H2CO3, e si comporta invece da acido quando cede protoni trasformandosi nella base coniugata CO3. Ecco perché un cucchiaino di bicarbonato di sodio  (NaHCO3) sciolto in acqua risolve sia i problemi di acidità di stomaco dovuta ad un eccesso di HCl, sia di pesantezza dovuta ad una carenza di HCl.

 

LA TEORIA DI LEWIS

Nello stesso anno in cui Brønsted e Lowry formulavano la loro teoria, il chimico americano Gilbert Newton Lewis (1875-1946) (lo stesso che postulò la regola dell’ottetto cioè quella legge per cui un atomo tende ad acquistare o a perdere elettroni fino a che il suo livello più esterno non ne presenti otto) propose una definizione di acido e di base più generale di quella dei due colleghi, in quanto poteva essere applicata anche a quelle reazioni che non avvenivano in soluzione e che non prevedevano trasferimento di protoni.

La teoria di Lewis individua il carattere acido o basico di una specie chimica direttamente nella struttura elettronica della molecola o dello ione  che la contraddistingue. Per Lewis infatti, il carattere basico di una sostanza è conferito dalla presenza di almeno un doppietto elettronico (in inglese “lone pair” = coppia solitaria) disponibile per formare un legame dativo(*) con un’altra specie chimica che funziona da acido.

Lewis definisce quindi gli acidi e le basi nel modo seguente:

è un acido qualsiasi composto in grado di accettare un doppietto di elettroni per formare un legame dativo;

è una base qualsiasi composto in grado di cedere un doppietto elettronico per formare un legame dativo.

Naturalmente tutti i composti che venivano considerati acidi e basi secondo le teorie di Arrhenius e di Brønsted rimanevano tali anche per Lewis, in più si aggiungevano specie chimiche che non trovavano posto nelle altre teorie.

L’ammoniaca e l’acqua, ad esempio, sono basi di Lewis. Osservando la loro configurazione elettronica si nota infatti la presenza di doppietti elettronici liberi da legami:

H                         H
|                         |
H – N:                     : O – H
|
H

I doppietti elettronici messi a disposizione dalle due molecole potrebbero essere ceduti ad esempio al protone H+, il quale, essendo privo di elettroni presenta le lacune elettroniche necessarie per formare, attraverso legami dativi, rispettivamente gli ioni NH4+ e H3O+.

Si osservi che l’acqua, essendo una base, secondo Lewis non può essere contemporaneamente anche un acido, come era invece per Brønsted. D’altra parte lo ione H+ per Lewis è un acido mentre non lo era per Brønsted e tanto meno per Arrhenius.

La definizione di Lewis si applica anche, come si è accennato, a reazioni che non comportano la presenza di un solvente. Un esempio è dato dalla reazione fra HCl e NH3, gassosi entrambi, che formano il cloruro di ammonio, NH4Cl, una sostanza a struttura ionica cristallina. La rea­zione si interpreta nel modo seguente:

H                             H
|                              |
H – N:  +  H:Cl   ⇄   H – N:H:Cl
|                              |
H                             H

Rientrano infine nella definizione di acido e base di Lewis alcune sostanze che reagiscono senza scambiarsi protoni e che pertanto non potrebbero essere accolte nella classificazione di Brønsted e di Arrhenius. Ad esempio, il cloruro di alluminio che è un sale, potrebbe legarsi allo ione Cl:

Cl                              Cl
|                               |
Cl – Al  +  : Cl   ⇄   Cl – Al : Cl
|                               |
Cl                              Cl

Riassumendo possiamo dire che sono acidi di Lewis specie chimiche del tipo BF3, AlCl3, Al(OH)3, H+, Na+, SO4, tutte strutture che presentano la possibilità di ospitare doppietti elettronici; sono basi di Lewis specie chimiche del tipo NH3, OH, H2O, Cl, tutte strutture che possiedono un “lone pair”, disponibile per costituire un legame dativo.

(*)  Il legame dativo è un tipo di legame covalente in cui il doppietto elettronico, che unisce i due atomi, è fornito da uno solo di essi.

 

PRODOTTO IONICO DELL’ACQUA

Fra tutti i solventi l’acqua è quello più diffuso in natura ed è anche quello che maggiormente favorisce la dissociazione degli elettroliti. L’acqua inoltre è essa stessa un elettrolita, sia pure debolissimo. Infatti, misure condotte con strumenti molto sensibili hanno dimostrato, come d’altra parte lo stesso Arrhenius aveva ipotizzato, che l’acqua conduce la corrente elettrica seppur in misura minima. L’acqua deve essere quindi, almeno in parte, dissociata in ioni nel modo seguente:

H2O  ⇄   H+ + OH

La doppia feccia indica che si tratta di una reazione di equilibrio dinamico perché mentre alcune molecole si dissociano in ioni alcuni ioni di associano per ripristinare le molecole intere.

L’equazione suggerisce anche che l’acqua è un acido perché produce ioni H+, però è pure una base perché produce ioni OH. L’acqua tuttavia non possiede né le proprietà degli acidi né quelle delle basi. Inoltre la scrittura riportata sopra non è del tutto corretta in quanto, come sappiamo, lo ione H+ (cioè il protone), non può sussistere isolato: esso in realtà si unisce alla molecola d’acqua formando lo ione ossonio H3O+. Sarebbe più corretto quindi rappresentare l’equilibrio dell’acqua, nel modo seguente:

2 H2O   ⇄   H3O+ + OH

A rigore dovremmo inoltre fare ancora presente che gli ioni H3O+ e OH sono circondati da un certo numero di molecole d’acqua, e quindi scrivere nel modo seguente: H3O+(aq) e OH(aq). Tuttavia, come cercheremo subito di spiegare, per esprimere l’aspetto quantitativo di una reazione, non ha alcuna importanza un formalismo tanto preciso in quanto quello che conta è conoscere il numero degli ioni in soluzione e non come questi si presentano.

Misure molto precise hanno dimostrato che su un miliardo di molecole d’acqua si dissociano in ioni solo due di esse: ogni miliardo di molecole d’acqua avremo quindi due ioni H+ e due ioni OH, mentre le molecole indissociate si riducono a un miliardo meno due. Ora, il fatto che questi quattro ioni totali siano legati e circondati da alcune molecole d’acqua non fa alcuna differenza in relazione al loro numero che rimane di due ioni positivi e di due negativi. Quindi per indicare la dissociazione dell’acqua si usa comunemente una notazione semplificata, ma altrettanto efficace, del tipo di quella scritta all’inizio:

H2O  ⇄   H+ + OH

Per esprimere la dissociazione dell’acqua si usa il termine di “dissociazione elettrolitica” o anche di “equilibrio di auto-ionizzazione”. Questo equilibrio è regolato dalla legge di azione di massa(*) la cui costante Kc è data da:

[H+]·[OH]
—————— = Kc
[H2O]

Kc, alla temperatura di 25 °C, vale 1,8·10-16 (moli/litro).

Poiché, come abbiamo visto, il numero delle molecole d’acqua dissociate è molto piccolo rispetto al numero di quelle complessive esso può essere trascurato e il numero delle molecole di acqua indissociate viene considerato praticamente uguale al numero totale delle molecole presenti.

Per ricavare il valore della concentrazione molare dell’acqua a 25 °C, basta quindi dividere il peso di 1 litro d’acqua (cioè in pratica un kilogrammo) per il peso di una mole d’acqua (18 grammi): arrotondando il risultato dell’operazione si ottiene 55,5 moli. Ora, la concentrazione di 55,5 moli per litro rimane costante se non cambia la temperatura, per cui possiamo inglobare questo valore in quello della costante di equilibrio scritta sopra, e si ottiene:

[H+]·[OH] = Kc · [H2O] = 1,8·10-16 ·55,5 = 1,008·10-14 mol/L

Il valore trovato (che può essere arrotondato a 1,0·10-14) è una costante che si chiama prodotto ionico dell’acqua e si indica con Kw.

Nell’acqua pura il numero degli ioni H+ deve essere uguale a quello degli ioni OH e cioè deve essere uguale a 10-7 mol/L la concentrazione di entrambi. Infatti, dall’equazione scritta sopra si ricava:

___      ____
[H+] = [OH] = √ Kw = √10-14  = 10-7 mol/L

Però, se è vero che il prodotto delle concentrazioni degli ioni H+ e OH non può variare, questo non significa che non può variare il numero dei singoli ioni. Infatti, se all’acqua viene aggiunto un acido, fonte di ioni H+, questi vanno a sommarsi a quelli già presenti facendone aumentare il numero ma, automaticamente, dovrà diminuire il numero degli ioni OH affinché il valore del prodotto indicato dalla legge possa rimanere costante.

Pertanto possiamo dire che una soluzione risulterà acida se la concentrazione degli ioni H+ sarà superiore a 10-7 mol/L (ma allora la concentrazione degli OH dovrà risultare inferiore a 10-7 mol/L); una soluzione sarà basica se la concentrazione degli H+ risulterà inferiore a 10-7 mol/L (ma allora la concentrazione di OH dovrà risultare superiore a 10-7 mol/L). Una soluzione acquosa è neutra qualsiasi sostanza contenga disciolta, purché la concentrazione degli ioni H+ sia uguale a quella degli ioni OH, e precisamente sia 10-7 mol/L per entrambi.

(*) Esiste una legge nota come “legge di azione di massa” che precisa che in un sistema chimico in stato di equilibrio il rapporto fra il prodotto delle concentrazioni molari delle sostanze poste nel membro di destra e il prodotto delle concentrazioni scritte nel membro di sinistra (ciascuna concentrazione elevata ad un esponente pari al suo coefficiente stechiometrico, che nel caso specifico è 1) è una costante a temperatura costante.

 

LA FORZA DEGLI ACIDI E DELLE BASI

Secondo la teoria di Brønsted non è possibile definire in assoluto la forza di un acido o di una base. La forza di un acido dipende infatti dalla tendenza che esso ha a cedere protoni ad un’altra sostanza e la forza di una base dipende dalla tendenza che questa ha ad acquistare protoni da un’altra sostanza. La forza di un acido e di una base dipendono quindi anche dalla sostanza con cui questi composti vengono messi a contatto.

Per compilare una scala della forza relativa degli acidi e delle basi, potrebbero essere scelti, come termini di confronto, una base e un acido qualsiasi; poiché però, la maggior parte dei processi chimici si svolgono in soluzione acquosa, è logico (e anche conveniente) scegliere come termine di paragone l’acido e la base presenti nell’acqua, cioè l’acqua stessa.

La forza di un generico acido HA in soluzione acquosa dipende dalla posizione del seguente equilibrio:

HA + H2O  ⇄   A + H3O+

la cui costante Kc è la seguente:

[A] · [H3O+]
———————— = Kc
[HA] ∙ [H2O]

Se consideriamo costante la concentrazione dell’acqua in quanto, come abbiamo già fatto presente, il numero di molecole di acqua che si dissociano è trascurabile rispetto alle molecole complessive presenti in un litro (55,5 moli), possiamo inglobare questo valore espresso in moli in quello della costante di equilibrio. Si può allora scrivere:

[A] · [H3O+]
———————— = Ka
[HA]

Ka si chiama costante di dissociazione acida e si osserva che quanto maggiore è il suo valore tanto più forte è l’acido. Un valore elevato della costante, corrisponde infatti ad un equilibrio di reazione fortemente spostato a destra.

Un discorso analogo vale per le basi. Una generica base B reagisce con l’acqua determinando il seguente equilibrio:

B + H2O  ⇄   HB+ + OH

Per questo equilibrio la costante di dissociazione basica  Kb è:

[HB+] · [OH]
———————— = Kb
                                                                                             [B]

La teoria di Brønsted illustra con chiarezza quello che si deve intendere per forza di un acido o di una base. Essa afferma che un acido è forte (rispetto all’acqua) quando l’equilibrio che le sue molecole instaurano con le molecole di acqua è molto spostato a destra, verso la formazione degli ioni ossonio. Per un acido quindi, essere forte vuol dire essere in grado di liberarsi facilmente dei propri protoni, ma per far ciò è necessario che anche la base con la quale viene messo a contatto sia forte perché essa deve essere in grado di trattenere su di sé tutti i protoni di cui si è liberato l’acido. D’altra parte, la base coniugata del nostro acido forte deve essere una base debole, in quanto essa non deve più avere la forza di riprendersi i protoni altrimenti si ricostituirebbero le molecole di acido e questo non sarebbe più definibile “acido forte”. Pertanto, un acido forte deve avere una base coniugata debole e allo stesso modo, una base forte deve avere l’acido coniugato debole.

In generale si può dire che le reazioni di trasferimento di protoni (reazioni acido-base) tendono ad avvenire nel senso che porta alla formazione dell’acido e della base più deboli.

Prendiamo il caso dell’acido cloridrico che in soluzione acquosa crea il seguente equilibrio:

HCl + H2O  ⇄   Cl + H3O+   

La Ka di HCl è così alta che l’equilibrio della reazione è tutto spostato a destra. Ciò vuol dire che l’acqua ha una forte affinità per i protoni che sottrae all’acido formando ioni ossonio. In realtà in soluzione sono presenti due basi in competizione per i protoni: H2O e Cl. In questo caso H2O è una base più forte di Cl e pertanto è l’acqua ad appropriarsi dei protoni dell’acido che in questo modo si comporta da acido forte.

Prendiamo ora il caso di HF, un acido con una Ka piuttosto bassa (Ka = 6,7 ·10-4 mol/L): l’equilibrio di dissociazione, questa volta, è spostato a sinistra:

HF + H2O   ⇄   F + H3O+

In questo esempio l’anione F è una base più forte di H2O e pertanto i protoni saranno attratti più intensamente da F che dalle molecole di acqua; la maggior parte dell’acido rimarrà quindi in soluzione sotto forma di molecole indissociate motivo per il quale diremo che HF è un acido debole.

Quando un acido è debole, vuol dire che la sua base coniugata è abbastanza forte. E’ facile calcolare il valore della costante di basicità della base coniugata di un acido debole quando si conosce la costante di acidità di quest’ultimo.

Prendiamo ad esempio, l’acido cianidrico, un acido molto debole (ma attenzione prima di provarne il sapore perché è anche molto velenoso) il quale, in acqua, crea il seguente equilibrio:

HCN + H2O  ⇄  CN + H3O+

La Ka dell’acido cianidrico è 4,9·10-10 mol/L, quale sarà la Kb della sua base coniugata CN ?

La costante di acidità dell’acido cianidrico è la seguente:

[CN] · [H3O+]
————————— =  Ka
[HCN]

Se moltiplichiamo numeratore e denominatore per la concentrazione degli ioni idrossido (OH) e poi isoliamo il prodotto [H3O+] ∙ [OH], otteniamo:

[CN]
(—————————) · ( [H3O+] · [OH] ) = Ka
[HCN] · [OH]

 

La prima delle due espressioni in parentesi tonda è il reciproco della costante di equilibrio della base CN; la seconda è il prodotto ionico dell’acqua (Kw). Se ribaltiamo tutta l’equazione abbiamo:

[HCN] · [OH]        Kw
———————— = ———
[CN]              Ka

Ora, poiché in acqua la base CN forma il seguente equilibrio:

CN + H2O   ⇄   HCN + OH ,

l’equazione scritta sopra è la costante di equilibrio della base CN, quindi:

Kw           10-14
Kb = —— = —————— = 2,0∙10-5 mol/L
Ka        4,9∙10-10

Possiamo infine affermare che per le coppie acido-base coniugata vale la seguente relazione:

Ka ∙ Kb = Kw

In generale è difficile stabilire a priori, senza conoscere le costanti di acidità, se un acido è più o meno forte di un altro. Nel caso di acidi ossigenati, esiste tuttavia un metodo empirico per decidere, dalla semplice lettura della formula, la forza di un acido. La regola vale, lo ripetiamo, solo per gli acidi ossigenati di formula generale HnXOm.

Se m-n vale zero, come in acidi del tipo HClO (acido ipocloroso) o H3BO3 (acido borico, quello che si utilizza per disinfettare gli occhi)  si tratta di acidi debolissimi; se m-n=1, come per gli acidi H2CO(acido carbonico, quello che sta nell’acqua gasata che molti bevono) o H3PO4, si tratta di acidi deboli o medio-deboli; se m-n=2, come in HNO3 o in  H2SO4, si tratta di acidi forti; infine, se m-n=3, come in HClO4, si tratta di acidi fortissimi. Non esistono acidi con m-n maggiore di 3.

Per concludere è necessario spiegare il motivo per il quale gli acidi forti risultino tutti ugualmente forti, mentre le loro basi coniugate, non tutte ugualmente deboli, dovrebbero interagire in modo diverso nella competizione per il protone. E in effetti una piccola diversità fra gli acidi ritenuti tutti ugualmente forti in realtà esiste, ma l’acqua esercita una forza così elevata nei confronti dei protoni da cancellare le piccole differenze presenti fra le varie basi coniugate degli acidi forti. Si dice che l’acqua ha effetto livellante sugli acidi forti (e ovviamente anche sulle basi forti, per le quali vale lo stesso discorso). Per mettere in evidenza la diversa forza degli acidi forti, si dovrebbe cambiare solvente, cioè metterli a confronto con un’altra base. Nell’alcool metilico, ad esempio, si noterebbe che l’acido perclorico HClO4 è il più forte di tutto l’insieme degli acidi che genericamente vengono definiti forti, poi segue H2SO4 e HCl.

Prof. Antonio Vecchia

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